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Autore: rossella0806    13/10/2015    3 recensioni
Philippe Soave è uno psicologo infantile che lavora presso il "Centre Arcenciel" di Versailles, una sorta di scuola che ospita bambini e ragazzi disagiati, a causa di dinamiche famigliari non proprio semplici.
Attraverso il suo sguardo appassionato, scopriremo la realtà personale dei piccoli e grandi ospiti, ognuno dei quali troverà un modo per riscattarsi dalle ingiustizie della vita.
Ci sarà anche spazio per sorridere, pensare e amare!
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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LA SPERANZA SI TRASFORMA IN REALTA'

Philippe stava guardando fuori dalla finestra: si stava terribilmente annoiando, come ogni volta che prendeva la parola Madame Betancourt, la direttrice del Centre in cui lavorava da tre anni.
La giornata di metà maggio era stupenda e poterla viverla solo attraverso dei pannelli di vetro lo rendeva irrequieto e indispettito.
Si trovava nel bel mezzo di una riunione per approvare il bilancio di fine anno, dal momento che la struttura avrebbe chiuso ufficialmente per la pausa estiva nel giro di due settimane, sebbene lui e gli altri psicologi avrebbero fatto dei turni per stare con i bambini e i ragazzi che sarebbero rimasti nella struttura anche in quei tre mesi.
Il ragazzo aveva trovato posto nell’ultima fila, sulla sedia più esterna proprio vicino alla finestra, in modo da lanciarvi attraverso occhiate intense -ma all’apparenza distratte- ogni qualvolta ne avrebbe sentito la necessità vitale.
Si era seduto vicino a Liliane, con cui nelle ultime settimane stava intrattenendo una sorta di relazione fisica, di cui però non era troppo convinto: la ammirava e la desiderava come donna, non poteva negarlo, tuttavia, quando lei usciva da casa sua o lui usciva da quella di lei, non ne sentiva la mancanza impellente, il desiderio straziante di riaverla accanto a sé, semplicemente prendeva a fare altre cose: leggere, guardare la TV, passeggiare nel parco di Montigny, districarsi con successo tra gli scaffali del supermercato, chiacchierare con Vivianne … insomma, riusciva sempre a trovare un valido sostituto alla collega ed ora anche amante.
Philippe diede una rapida occhiata alle sedie davanti, distraendosi da quei pensieri: c’erano Louise, Nicole, Mireille, Gabrielle e Juliette, oltre alla direttrice, in piedi a parlare o, per meglio dire, a emettere gridolini pietosi in direzione della platea.
Lo psicologo notò che tutte le colleghe sembravano essersi messe d’accordo nel modo di vestire  e nell’acconciatura: indossavano infatti un elegante tailleur – Louise color prugna, Nicole color pervinca, Mireille color cenere, Gabrielle blu cobalto, Juliette rosso amaranto e Madame Betancourt uno blu notte molto simile al nero-
Le loro teste agghindate in carré più o meno lunghi erano curate e tagliate alla perfezione.
L’unica che differiva da quello strano spettacolo era Liliane che, come sempre, riusciva a stupire piacevolmente Philippe: era semplicemente bella nella sua blusa verde limone e un paio di jeans attillati, i capelli biondi lasciati sciolti.
Il ragazzo lanciò un’occhiata anche verso di lei, ritrovando i suoi occhi azzurri scrutare nei propri; poi, percepì la mano della donna accarezzargli una gamba, in un gesto di impellenza mal celata.
“Allora, signor Soave! Vuole, per cortesia, dirci cosa ne pensa riguardo ciò che abbiamo detto poco fa?”
La direttrice lo aveva colto in fallo, doveva ammetterlo: non la stava più seguendo da un buon quarto d’ora, ormai, da quando si era addentrata ad elencare cifre e nomi di rifornitori a lui completamente sconosciuti.
La cosa che più gli premeva, che gli era sempre importata davvero da quando aveva cominciato a lavorare al Centre, era il benessere degli ospiti della struttura, che non avessero problemi di salute, che riuscissero a frequentare la scuola, a fare i compiti e che, alle sedute psicologiche che si svolgevano una volta alla settimana, risultassero il più spensierati possibile.
Il resto non era affar suo, doveva sbrigarsela la direttrice, quella donna che non sopportava, che pensava solo al proprio interesse e alla necessità – se così si poteva definire alla sua età- di trovare l’anima gemella.
“Philippe … hai sentito? Cosa ti è preso? Stai male?”
Liliane prese ad interrogare l’uomo a bassa voce, facendo finta che le fosse caduto qualcosa.
Lui tossì lievemente e, cercando la mano della donna, la strinse, come a voler dire che era tutto a posto, che non doveva preoccuparsi di nulla.
“Mi scusi, madame Betancourt, non mi sento molto bene. Potrei uscire un momento?”
“Oh ma certo, certo!” cominciò a blaterare l’interrogata, arrossendo sulle gote mezze rinsecchite, già cariche di fondotinta.
Lo psicologo guardò con un sorriso la collega sedutagli accanto, rassicurandola con un occhiolino.
Quindi, finalmente, riuscì ad uscire da quell’aula che stava diventando una prigione.
Una volta in corridoio, tirò un profondo sospiro di sollievo, sentendosi persino un po’ in colpa per la scarsa opinione che continuava ad avere per il suo superiore: si passò una mano fra i capelli arruffati e tastò nelle tasche alla ricerca delle chiavi di casa, dopo che il terrore di averle dimenticate chissà dove lo aveva assalito pochi minuti prima, quando la direttrice aveva pronunciato la parola casa.
Gli strani scherzi della mente, tagliò corto Philippe.
Poi, scese velocemente le scale: una volta nell’androne del palazzo, controllò che non ci fosse nessuno in giro, così, solamente per puro scrupolo senza alcun fondamento, ben sapendo che i cento bambini e ragazzi si trovavano in gita a Parigi, assieme alle quattro insegnanti che la struttura assumeva per il periodo estivo, alternandosi appunto con gli psicologi del Centre.
Ogni anno, infatti, durante il giorno dedicato alla fatidica e noiosissima riunione di approvazione del bilancio, madame Betancourt spediva gli ospiti a vedere l’acquario della capitale, approfittando dell’entrata pressoché gratuita, dovuta alla presenza di una cugina che soprintendeva al museo acquatico.
Una volta uscito nel giardino, si guardò intorno: le solite tre panchine di acciaio, qualche cespuglio mal potato, una manciata di abeti, la bellissima quercia già visibile dalla strada, uno spruzzo di margherite selvatiche sull’erba non troppo curata e, infine, l’area giochi composta da due scivoli e sei altalene.
Pensare che era
impiegato un altro anno a lavorare con passione per quei meravigliosi ragazzi, inorgogliva immensamente Philippe, ma lo rendeva anche piuttosto triste, in quanto nessuno di essi si era riunito alle proprie famiglie di origine, non definitivamente perlomeno: alcuni dei genitori o dei parenti più prossimi aveva ottenuto il permesso dal tribunale e, di conseguenza, dagli assistenti sociali di poter vedere regolarmente i bambini e i ragazzi, ma le loro situazioni economiche o, più spesso, giudiziarie, impedivano di potersi ricongiungere per sempre, almeno nell’immediato futuro.
C’era un sole piacevolmente caldo, talmente caldo che l’uomo dovette mettersi all’ombra per non cominciare a sudare, che quasi lo indusse ad abbandonare quei pensieri così tristi.
Si accomodò perciò sotto la quercia, un albero maestoso, di una magnificenza senza uguali, che sapeva infondergli tranquillità e stupore al contempo.
Si sedette ai suoi piedi, facendo attenzione a non calpestare le sue radici e, la schiena addossata al tronco possente, sollevò le ginocchia, fino a farle appoggiare al petto, i piedi ben saldi al terreno, le mani congiunte, abbandonate mollemente sulle gambe rannicchiate.
In quel momento, avrebbe voluto trovarsi lontano, non avrebbe saputo spiegarne il motivo: voleva fare un viaggio, magari in un posto esotico, da solo, lontano da tutto e da tutti.
Durante l’estate, si sarebbe recato in Italia, a fare visita agli zii, Arianna e Paolo, e ai cugini, Alessia e Marco.
Ovviamente avrebbe trascorso un paio di settimane anche dai suoi, approfittando per ritrovare gli amici, le sorelle e i nipoti.
Infine, sarebbe andato qualche giorno al mare, sulla famosa Cote d’Azur, per rilassarsi davvero, in solitudine e in assoluta libertà.
Philippe alzò la testa, assorto in quei pensieri e progetti che ripeteva ogni anno, ormai da molto tempo.
Con Liliane aveva parlato di visitare la Normandia, dal momento che entrambi erano appassionati di Storia.
Avevano controllato i loro turni al Centre e, fortunatamente, avrebbero potuto organizzare quella vacanza, magari verso fine agosto, la settimana prima di riprendere ufficialmente l’attività nella struttura.
E poi, voleva tanto prendere un cane o un gatto, forse entrambi, perché aveva nostalgia di qualcuno che lo attendesse al suo arrivo a casa, proprio come quando era un ragazzino, che lo amasse in maniera incondizionata, che lo facesse divertire con la propria innocenza, magari anche arrabbiare perché a volte si rivelava disobbediente, ma si trattava pur sempre di un compagno instancabile di giochi e di avventure.
Anche di quello aveva parlato alla sua … beh, quasi fidanzata, e anche lei si era trovata d’accordo nello scegliere un animale domestico.
Sì, ormai ne sentiva la necessità …
“Mi scusi, vorrei entrare, come faccio?”
Una voce di donna interruppe il flusso di pensieri di Philippe: l’uomo si alzò in piedi, come punto da un insetto fastidioso.
Rimase per qualche secondo fermo, senza sapere e vedere chi gli aveva rivolto la parola.
Allontanandosi titubante dalla quercia, riuscì a scorgere la persona che si trovava a pochi metri da lui: una signora sui quarant’anni, i capelli ricci tagliati corti e un vestito color mostarda, stava agitando timidamente una mano verso di lui.
“Arrivo …” mormorò lo psicologo, affascinato da quella presenza.
La donna, infatti, era indubbiamente molto bella, se ne stava accorgendo mentre si avvicinava: gli occhi erano scuri, ambrati, la voce aveva un vago accento straniero.
“Mi scusi, ho bisogno di parlare con la direttrice”
“In questo momento non la può ricevere, signora. E’ in riunione” precisò da perfetta segretaria Philippe, ormai ad un passo dalla nuova arrivata, solo il cancello in ferro a dividerli.
“Ho suonato, ma non risponde nessuno. Non c’è una sua, come si dice, sostitutta, giusto?”
“Sostituta, sì, con una sola t. Mi dispiace, ma la direttrice è impegnata: dovrà attendere la fine della riunione. Non credo ci vorrà molto …”
Lo psicologo si diede dello stupido per aver precisato come si pronunciasse un’altrettanto stupida parola, sentendosi assolutamente fuori luogo in quel momento.
“Non parlo bene il vostro francese. Io vengo dal Senegal e lì parliamo un mix di dialetto e francese”
La donna gli sorrise, mostrando una dentatura curata e bianchissima.
“Non si preoccupi, non è un problema. Ha bisogno di qualcosa in particolare?” proseguì Philippe, credendo che la signora avesse sbagliato posto, scambiando il Centre per una struttura di accoglienza riservata agli adulti.
“Sì, sono qui per mia figlia. Il giudice mi ha dato il permesso per portarla via, a casa. Io ho comprato un piccolo appartamento per noi due, non comprare, come si dice? Affittare?”
Philippe annuì sorridendo: forse le sue speranze di poco prima si stavano avverando, forse quella donna era la madre di una delle bambine o ragazze di cui si occupavano e che, finalmente, avrebbe di nuovo riscoperto il significato della parola famiglia.
“Ha ricevuto il permesso dal giudice?"
"Sì, dal giudice!" precisò felice, annuendo.
"Io sono uno degli psicologi della struttura, nonché loro insegnante. Mi chiamo Philippe Soave, molto piacere”
“Io sono Aimée Zoukra, la madre di Sophie, lei conosce? Ha otto anni e so che è qui da voi. Monsieur Batignole viene dopo per confermare mie parole”
L’uomo sbiancò per un attimo in volto: il sogno dell’ex bambina pugile, come l’aveva scherzosamente soprannominata dopo il loro primo burrascoso incontro, ormai quasi tre anni prima, si stava finalmente avverando.
Sebbene la donna avesse sempre più diradato le telefonate e le lettere nel corso di quei due anni abbondanti, la figlia non aveva mai perso la fiducia che la madre sarebbe tornata a riprenderla.
E così, infatti, stava avvenendo.
Philippe si sentì confuso ma felice, non sapeva nemmeno più come comportarsi, cosa dire, se aprire il cancello e fare accomodare la donna nell’ufficio della direttrice, in attesa che quella noiosissima riunione finisse, oppure se attendere l'arrivo dell'assistente sociale.
“Venga con me, signora” decise, sancendo le sue parole con un gesto di sollecitudine della mano destra.
Il clic dell’inferriata mise fine alla distanza tra i due: sì, è decisamente bellissima, concluse mentalmente lo psicologo. Come aveva osato il suo compagno a picchiarla, a farla soffrire, a rovinare quel bel viso, quelle braccia lasciate coraggiosamente nude e abbruttite da una vistosa cicatrice in prossimità del polso sinistro?
L’uomo deglutì, disgustato da ciò che la donna aveva dovuto passato e, facendole strada, la condusse oltre il giardino, nell’androne, fin su per le scale, nell’ufficio di Madame Betancourt.

   
 
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