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Autore: Akilendra    15/10/2015    1 recensioni
"Come si può fermare un cuore innamorato? Come gli si può dire che deve smetterla? Smetterla di amare, perché un cuore innamorato è un cuore malato e l'amore è la sua unica malattia, l'amore è la sua unica cura. Come si può fermare un cuore innamorato?
Non si può.
Continuerà ad amare sempre, si farà male, si farà bene. Togligli l'amore e appassirà. Diventerà arido e ghiacciato, duro come il marmo. Togligli l'amore e guarirà, ma sarà morto.
Loro erano vivi. Malati di amore, ma vivi."
Questa è la storia di due parabatai: iniziata a scrivere quando avrei tanto voluto leggerla, interrotta quando ho saputo che c'era e che sarebbe uscita, completata nell'attesa dell'unica ed originale scritta dalle ben più degne mani di Cassandra Clare.
Questa è la storia di Ben e Lena.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dopo un'attesa che neanche la Claire, eccomi finalmente qui! Ce l'ho fatta, più o meno...
È un piacere e un dovere ringraziare ogni singola persona che ha seguito, ricordato, preferito e recensito questa storia, un piccolo grande risultato considerando che le mie aspettative erano pari a zero. Devo averlo già detto, ma lo ripeterò, abbiate pazienza: questa storia è nata dal nulla, dai miei stupidi filmini mentali da lettrice in astinenza; perciò in fin dei conti, da come è partita, devo dire che è andata fin troppo bene. Mi lusinga e mi scalda il cuore sapere che qualcuno l'abbia apprezzata e che qualcuno, oltre me, abbia in parte acquietato il suo bisogno di leggere grazie alle "mie" parole.
Ci ho messo un'infinità di tempo a portare a termine quest'epilogo perché mi sentivo in dovere di tirar fuori una roba più o meno decente... Credo che Ben e Lena siano i due personaggi più "strutturati" che ho creato finora, so che sono quelli di cui ho più amato scrivere.
Inutile dire che non sono sicura di aver centrato l'obiettivo, ma ci ho provato e questo francamente mi basta per raggiungere una certa pace interiore ahahah
C'è da dire che io la storia l'avevo praticamente scritta tutta quando ho iniziato a postarla qui su efp, solo che poi i capitoli hanno cominciato a mutare in corso d'opera (molto da me, in effetti) e sull'epilogo, così come me lo ero immaginato (e l'avevo immaginato nei minimi dettagli, credetemi) ci ho messo una bella pietra sopra. L'unica cosa che è rimasta intatta di quello vecchio è la scena finale, la sua atmosfera. È un po' il senso di tutta la storia, è così e lo era fin da quando ho iniziato a scriverla. E mi scuso fin da ora se qualcuno avrebbe voluto qualcosa di diverso, se non è come se lo aspettava... Potevo cambiarlo in effetti, scrivere tutt'altro, ma non ho voluto. 
Sento che ci sarebbero altre mille cose da dire, ma non vorrei davvero che queste note finissero con l'essere lunghe quanto l'epilogo stesso, epilogo per cui vi ho fatto aspettare giorni e giorni, sarebbe a dir poco ironico!

Grazie per il sostegno, per le belle parole che qualcuno mi ha scritto, per averci creduto... Grazie.

Grazie.










Epilogo

{Parabatai}





Due mesi dopo, nel fottuto Tibet



Il vento tibetano le sferzava la pioggia in faccia come un padre scorbutico che distribuisce schiaffi alla figlia ribelle. Lena non aveva mai provato sulla propria pelle una pioggia del genere, con quel caldo poi: c'era un sole che spaccava le pietre e l'Angelo la mandava giù a secchiate.
Incoerente, ecco come avrebbe descritto il clima del Tibet, volendo essere fine.
Di merda, ecco come avrebbe descritto il clima del Tibet, volendo essere realistica.
Anche sforzandosi non riusciva proprio a capire cosa ci avesse trovato Ben in un posto del genere.
Ben. Ben. Ben.
Erano due mesi che era là e di Ben neanche l'ombra. Avrebbe dovuto aspettarselo, insomma, era piombata lì in fretta e furia trascurando ogni cosa: il fatto che non conosceva assolutamente quel posto, per esempio; o magari il fatto che non avesse la più pallida idea di dove potesse essere.
Magari non è più neanche qui. Magari se n'è andato tempo fa. Magari ti sei sbagliata. Magari non ci è mai venuto in Tibet.
Le prime settimane aveva girato alla cieca inseguendo un'utopia.
Speravi forse di andare a sbattere contro di lui per strada?
Il primo mese era passato tra vesciche ai piedi per aver camminato troppo e decine di rune delle lingue che le erano servite per chiedere in giro se qualcuno...
Sì, ecco, un ragazzo, è americano: capelli scuri, occhi tra il verde e il marrone, molto più alto di me. Ha la mascella un po' squadrata, un neo vicino all'orecchio, una cicatrice dietro la schiena, il sopracciglio destro è leggermente più alto di quello sinistro. Ha... Una bruciatura sul petto... È bellissimo, una persona merdosa... Cioè no, volevo dire meravigliosa! Per l'Angelo, credo stia finendo il potere della runa... Cos'è una runa? Ehm, lasci stare... Ecco, dicevo, è un tipo un po' arrogante in realtà, non so... Forse lo ha visto, probabilmente è stato scortese con lei, ma la prego mi aiuti, le prometto che lo costringerò a scusarsi, ma deve aiutarmi a trovarlo. Lui è il mio migliore amico, mio fratello, è la persona a cui tengo di più al mondo, io lo amo e gli ho fatto così male... No, non l'ho ucciso, ma che dice? No, aspetti! Perché se ne sta andando? L'ha visto? La prego... No! Non chiami la polizia! Aspetti, aspetti, aspetti, venga qui...
Inutile dire che le sue ricerche non avevano prodotto granché: se non qualche chiacchierata con la polizia locale ed un paio di spiacevoli equivoci. Era capitato in effetti che qualcuno rispondesse affermativamente alla sua domanda, due volte, ma erano stati solo gli ennesimi fallimenti. Nel primo caso il ragazzo in questione avrà avuto cinquant'anni e l'indirizzo che le era stato dato era quello di un bar perché, a detta dell'uomo che aveva fermato per strada, stava più lì che a casa sua; era fondamentalmente un ex-marine alcolizzato che l'aveva tenuta qualcosa come tre ore incollata ad un sudicio sgabello in un sudicio locale a parlare della sua vita e successivamente ci aveva spudoratamente provato con lei. Il giorno dopo si era svegliato con un micidiale dolore alla testa ed era stata colpa di una bottiglia in effetti, ma no: non dell'alcol che c'era dentro, proprio della bottiglia, quella che Lena gli aveva rotto in testa.
Il secondo in cui si era imbattuta e che, da come aveva riferito quella simpatica signora del negozio di spezie, era proprio identico al ragazzo che lei le aveva descritto... Beh, in realtà non era americano e neanche inglese se era per quello, forse veniva dalla Macedonia o comunque da quelle parti. Era stato molto gentile a dire la verità, Lena ci aveva scambiato qualche parola, aveva chiesto di Ben anche a lui dato che c'era e, quando quello aveva risposto che nessun americano sano di mente si sarebbe trasferito in Tibet, Lena lo aveva ringraziato accennando un sorriso e se n'era andata dopo averlo salutato con una stretta di mano. 
Non è difficile immaginare come il suo iniziale entusiasmo si fosse progressivamente trasformato in una sempre più profonda sfiducia alternata talvolta a picchi pericolosamente alti di disperazione.
Il secondo mese era passato tra i momenti di sconforto e le lettere che scambiava con Magnus ma che inevitabilmente — lo sapeva — leggeva anche Lilian, così finiva sempre con lo scrivere ad entrambi. Per questo quella specie di stazione di posta da dove partivano ed arrivavano lettere e pacchi era diventata una sua meta fissa. Era parecchio distante in effetti dal posto in cui si era sistemata, ma dicevano che fosse la più efficiente e la più sicura di tutto il Tibet e poi spediva — e consegnava — davvero sempre e ovunque. Dicevano.

- Come sarebbe a dire che non potete svolgere la consegna? - chiese stridula. L'unica cosa che la teneva ancora appigliata a quel poco di sanità mentale che si ritrovava erano quelle lettere. In tutta risposta il tipo dietro il vecchio bancone ribadì monocorde quello che aveva già detto.
- Gliel'ho detto, signorina: non possiamo far partire nessun carico con questa pioggia. Quest'anno è decisamente peggio del solito ed i nostri operatori si rifiutano di intraprendere qualsiasi tipo di viaggio. Dovrà aspettare che smetta di piovere - Questo non la fece sentire affatto meglio.
- E quando smette di piovere qui? - Era quello che si domandava un po' chiunque non fosse di quelle parti, in effetti. 
- Penso che alla fine di questo mese potremo cominciare a far ripartire tutti i carichi - Lena strabuzzò gli occhi. Lo fissò minacciosa, come fosse stata tutta colpa sua.
- Ma agosto è appena iniziato! - Lo sguardo di sufficienza che le restituì la diceva lunga su quanta voglia avesse di ribadire un concetto fin troppo chiaro: non le avrebbe spedite le sue dannate lettere. Lena sbuffò esasperata, in un gesto automatico si passò una mano tra i capelli — erano leggermente cresciuti, le toccavano le spalle ora — e quando quella rimase incastrata tra i nodi che non si sognava neanche di districare ebbe l'unico effetto di indispettirla ancora di più. Adocchiò una sedia abbandonata in un angolo che aveva tutta l'aria di essere più fragile dell'aria e ci si sedette sopra sperando si rompesse, tutto pur di gustarsi l'espressione infastidita dell'omino dietro il bancone. Il fatto che quella reggesse inaspettatamente il suo peso confermò il suo presentimento e cioè che tutto in quella specie di pidocchioso ufficio postale fosse parte di un gigantesco complotto contro di lei.
Riflettendo sul fatto che la verità per la quale non se n'era ancora andata da quel posto era che non aveva niente da fare — a parte farsi prendere per una pazza dai passanti — e che pioveva come se non ci fosse un domani, ovviamente; si alzò per avvicinarsi al bancone, con l'unico intento di dar fastidio. Per un po' si limitò a fissare in modo molesto l'uomo;  poi finalmente, quando questo si abbassò su un grosso pacco con una scritta rossa su un lato e lo aprì, trovò a sua volta il pretesto per aprire qualcosa: la bocca.
- Non pensa che dovrebbe rispettare il significato della parola privacy? I suoi clienti lo sanno che apre i pacchi che le affidano? - domandò impertinente, la frustrazione per la mancata spedizione di quelle lettere che ristagnava velenosa in ogni parola. Lui rispose distratto, non le diede neanche la soddisfazione di voltarsi dalla sua parte.
- Questo è un cliente abituale, gli consegnamo un pacco come questo ogni mese... Che lei ci creda o no, il signore si fida molto di me: è stato lui a chiedermi di aprire il suo pacco  - Lena ne rimase leggermente interdetta.
- E perché mai avrebbe dovuto... - Si ritrovò ancora più interdetta quando la interruppe e le parlò sopra con lo stesso tono accondiscendente che avrebbe usato con una bambina.
- Esattamente come le sue lettere non può arrivare al destinatario che lo aspetta, ma a differenza delle sue preziosissime lettere il contenuto di questo pacco potrebbe rovinarsi col tempo se non lo si maneggia con cura - Questo non fece altro che farla sentire davvero una bambina. Il che probabilmente giustifica in parte il perché, da perfetta ficcanaso quale in effetti non era, le uscì dalla bocca la seguente domanda.
- E cosa contiene? - L'uomo estrasse entrambe le mani dal grande scatolone e si voltò finalmente verso di lei dedicandole un poco di attenzione. Sorrise vagamente soddisfatto, estremamente divertito.
- Non pensa che dovrei rispettare il significato della parola privacy? -  controbatté quello usando le sue stesse parole.
Maledetti Tibetani! 
Represse un verso lamentoso e si ributtò inferocita sulla vecchia sedia, in risposta quella produsse uno scricchiolio preoccupante ed un paio di nuvolette di polvere. Per qualche minuto se ne stette lì, tra sbuffi e sospiri, ad aspettare chissà cosa; poi, forse intuendo l'improduttività di quella sua attesa, si alzò dalla sedia malconcia e si diresse, con un'andatura offesa, verso l'uscita.
- Che fa se ne va? - La voce dell'omino dietro al bancone la raggiunse pungente, appena un attimo prima che aprisse la porta.
- È un vero peccato... - Lena lo fulminò con lo sguardo prima di rispondergli impudente con quella che suonava tanto come una minaccia.
- Tanto torno - E non perse occasione di sbattere la porta.

In effetti tornò davvero. Ogni giorno. Per ventitré giorni. 
Era ormai diventata un'abitudine ritagliarsi un francobollo di tempo da dedicare a quello strampalato ufficio postale — o qualunque cosa fosse. Solitamente ci passava la sera, quando stava per chiudere e l'omino dietro al bancone non faceva altro che cercare di cacciarla via e tornarsene a casa. Una volta le aveva tirato dietro una scopa.
Si era instaurato tra loro un bizzarro rapporto di simpatico odio reciproco — con educazione infondo dato che continuavano a darsi del lei — che prevedeva che lui continuasse a fare quelle sue battute dal caustico umorismo tibetano e lei continuasse ad essere dispettosa come una scimmia; il che non le risultava neanche troppo difficile dopo un'intera giornata passata a cercare Ben senza — puntualmente — alcun risultato.
Nonostante gli ormai innumerevoli fallimenti, Lena non mollava: si alzava la mattina con l'unico pensiero di trovarlo, andava a dormire la sera col medesimo pensiero. Non c'era nient'altro all'infuori di Ben che avesse posto nella sua mente, non c'era nient'altro per cui valesse la pena di respirare ancora.
Dopo dodici ore di ricerche, continuate almeno tanto quanto improduttive, chiunque si sarebbe sentito a pezzi. Chissà perché alcuni dei pezzi di Lena sembravano poter tornare a posto solo dentro quel pidocchioso ufficio postale.
Il ventitreesimo giorno quando vi arrivò era una sera come le altre, forse la pioggia era un po' più insistente del solito, in effetti. Profetica.
Spalancò l'uscio e la porta che si apriva azionò il solito fastidioso campanello che avrebbe dovuto segnalare la presenza di un cliente, ma dato che con quel tempo maledetto a nessuno veniva in mente di andare in quel posto — Lena si chiedeva a che pro fosse aperto — l'unica presenza che avrebbe mai potuto segnalare era la sua. Si scrollò l'acqua di dosso e sbatacchiò l'ombrello inzuppando tutto nel raggio di due metri.
- Ehiiii, le ho trovato qualcosa da fare! Venga ad asciugare qui per terra che ho combinato un macello, guardi! - Il fatto che non le arrivasse alle orecchie nessun tipo di colorato insulto le risultò piuttosto sospetto, a dire la verità. Buttò in un angolo l'ombrello e mosse qualche passo in avanti svoltando l'angolo che portava al vero e proprio ufficio; si guardò intorno leggermente spaesata prima di bloccarsi, interdetta. Non solo l'omino dietro al bancone non era dietro al bancone, non era proprio da nessuna parte. 
Dire che fosse strano era quantomeno riduttivo: la porta era aperta e lui non c'era.
Per un po' la mente di Lena fu un via vai di catastrofiche ipotesi che contemplavano l'uomo ucciso da un demone e ridotto in tanti piccoli pezzi; i quali pezzi successivamente sarebbero stati ficcati in uno qualunque di quei numerosi scatoloni che aveva davanti. E questo se si voleva essere ottimisti, ovvio.
Tra una macabra previsione e l'altra sentì il naturale impulso di sporgersi un po' di più verso il bancone, quantomeno per controllare che qualche pacco non fosse imbrattato di sangue. Gli occhi saettavano tra i vari imballaggi e puntualmente rimbalzavano tornando indietro. Sempre su uno, sempre lo stesso.
Il grosso pacco dalla scritta rossa che aveva adocchiato ventidue giorni prima spiccava inspiegabilmente tra gli altri, con tanto di immaginario cartello luminoso al di sopra su cui nella mente di Lena si potevano notare le sobrissime lettere lampeggianti che formavano le parole: "Guarda qui".
Si avvicinò di soppiatto; non era mai stata dall'altra parte del bancone e a dire la verità ora le faceva un certo effetto. Aggirò con facilità i vari pacchetti che avrebbero dovuto attendere la fine del mese per essere spediti e si inginocchiò davanti a quello che i suoi occhi non avevano smesso un secondo di guardare. Per la centesima volta, almeno, si chiese cosa contenesse di così delicato da valere le attenzioni dell'irritante omino e a chi fosse destinato. Non che le importassero più di tanto le ricchezze, ma doveva essere davvero molto prezioso quel pacco.
Chissà cosa c'è dentro...
L'assalì una curiosità morbosa ed inquietante, il cervello per un momento smise di ragionare. Si sporse ancora un po', più vicina, ancora più vicina; fin quando non sollevò i lembi che tenevano chiuso l'imballaggio e guardò dentro...
Si immobilizzò.
Ora che aveva finalmente sciolto il mistero si accorse che il contenuto di quel benedetto pacco non era nulla di prezioso, in realtà. Non nell'accezione comune del termine, almeno. Eppure non riusciva a smettere di fissarlo, non riusciva a smettere di pensare alla possibilità che...
Le si mozzò il respiro in gola.
- Ma che cosa sta facendo? Non può... - L'omino era spuntato all'improvviso da una porticina al lato del bancone ed ora sbraitava frasi sconnesse agitando le mani nella sua direzione.
Lena non sentiva nemmeno una parola.



* * *


C'erano giorni nei quali la vita in Tibet conservava intatta quell'idea di pace ed armonia che lo aveva spinto fin lì un paio d'anni prima; giorni nei quali il lavoro nei campi e la falce in mano non gli pesavano e le rune, il sangue, i demoni, gli incantesimi... Non gli mancavano. Giorni nei quali desiderava dimenticare ogni cenno della sua precedente vita, giorni nei quali desiderava dimenticarsi anche chi era. C'erano giorni buoni e giorni un po' meno buoni e poi c'erano giorni, tutti, in cui pensava a lei.

Costruirsi quel piccolo angolo di mondo non contaminato dalle faccende degli shadowhunters non era stato affatto semplice, estraniarsi a poco a poco da quella realtà lo era stato ancora meno.
Era nato cacciatore, addestrato fin da bambino al combattimento, allevato secondo le leggi del Conclave, le sue favole della buonanotte erano tutte ambientate ad Idris; la sua prima spada angelica l'aveva ricevuta a sei anni, la sua prima ferita ad otto. Ecco perché ritrovarsi a fare la vita del piccolo contadino gli era parso leggermente estraniante all'inizio; la massima violenza che commetteva ora era falciare lo stelo di una spiga di grano, lui che a quattordici anni si andava a cercare le risse per strada. Eppure c'era una sorta di poesia in una vita tanto semplice; così ordinaria e rassicurante da fargli sembrare che laggiù, nel culo del mondo, nessun male potesse raggiungerlo. Una vita silenziosa, che era praticamente quel che ci voleva per provare a zittire, o imparare a convivere, con tutte le voci nella sua testa. Voci di un passato rumoroso, voci che parlavano di un destino — il suo — già scritto — da qualcun altro —  di sangue angelico e di un istinto naturale per il quale avrebbe dovuto sentire lo spasmodico bisogno di andare in giro per il mondo a difendere i mondani.
Beh... Non lo sentiva. Non più. L'unico bisogno che davvero gli apparteneva ormai era difendere se stesso, un del tutto nuovo istinto di auto conservazione: primordiale, ma dannatamente efficace.
Lame, rune e demoni avevano preso il sapore del passato. L'aveva amata così tanto quella vita, l'aveva amata fino ad odiarla.
Gli aveva negato un'infanzia, tolto la spensieratezza, strappato l'orgoglio. Gli aveva portato via la sua parabatai.
Questa vita di cicatrici e morte.
Quella vita che aveva rinnegato.
Senza più pudore, nessun altro inganno; il suo senso del dovere era sempre stato poco saldo, l'onore l'aveva seppellito chissà dove.
Erano due anni che non tracciava una runa, che non maneggiava un'arma, che non adempiva al suo dovere di cacciatore. Erano due anni da quando se n'era andato, che il Conclave lo considerava un traditore, e persino un codardo, forse.
Aveva passato due anni a ricordarsi di dimenticare.
C'erano troppe cose da dimenticare: le posizioni di attacco, l'odore dell'icore, le linee che compongono un'iratze, tutte quelle meravigliose lingue morte che ti avevano costretto a parlare fluentemente, come fare un buon nodo, il momento giusto per scoccare una freccia, le paranoie, le citazioni del codice, gli occhi senza pupille di un Raum, l'attimo in cui il tuo sensore si accende e vibra, tutte quelle leggi che accetti di rispettare, i nomi di ogni angelo rigorosamente imparati in ordine alfabetico, le parole del giuramento...
La sensazione di non essere più parte di qualcosa di tanto grande, di essere solo, a volte era orribilmente opprimente. In momenti come quelli il silenzio del Tibet non era esattamente il genere di conforto che avrebbe voluto. E allora serviva tutto quel poco autocontrollo che aveva per non lasciarsi sopraffare, serviva ripetersi decine di volte che era stata una sua scelta — una vera scelta, una di quelle su cui il Conclave non può riversare le sue disgustose pressioni — e che l'aveva intrapresa perché non c'era più verso di continuare a vivere una vita non più viva.
Benjamin Fairway, il cacciatore, era morto. Un pezzo alla volta: nella Guardia durante il processo contro di lui, quando aveva sentito spezzarsi il legame parabatai, mentre ascoltava il Conclave proporgli una ricompensa per "le loro imprese".
Quando lei se n'era andata...

E cosa rimaneva di un cacciatore che non vuole più essere un cacciatore?
Niente. Ecco cosa.
Aveva passato due anni a ricordarsi di dimenticare. Se solo si fosse accorto che continuava ad impugnare la falce come una spada angelica...


La pioggia continuava a picchiare il suolo con la stessa violenza che ormai portava avanti da giorni. Rancorosa, incollerita: con chiunque ce l'avesse, c'era da averne paura. Eppure Ben, segregato a causa di quella in quel buco di casa che si ritrovava — e che per giunta si era pure costruito da solo — guardandola attraverso i vetri appannati della piccola finestra, non riusciva a non provare una sorta di meravigliata ed ammirata eccitazione. Quella sensazione tanto particolare l'avrebbe chiamata in greco, δεινός, l'unico modo per renderle davvero giustizia; se solo un concetto del genere non avesse fatto parte di quel bagaglio di ricordi che, semplicemente, stava cercando di non ricordare.
Meravigliosa e terribile.
Le ricordava lei.
Più o meno tutto gliela ricordava. L'unica cosa che dimenticava di dimenticare. Un tocco familiare.
Si allontanò bruscamente dalla finestra con addosso un calore bruciante, anche se c'era da morire dal freddo con quelle temperature e si voltò di spalle, come se le orecchie avessero potuto percepire quella pioggia meno degli occhi...
Gli capitava talvolta — ogni giorno praticamente — di ritrovarsi letteralmente investito da sensazioni del genere. Mentre lavorava, mentre mangiava una di quelle deliziose scodelle di thukpa che la vecchia Shiwa gli preparava sempre, durante quel pezzo di strada che faceva da casa sua ai campi, quando la sera davanti al camino leggeva poesie tibetane (sì, ci sono poeti anche in Tibet) fingendo di capirci qualcosa, più spesso ancora la notte mentre dormiva. Si svegliava di soprassalto, ansante e completamente sudato, cucita addosso una sensazione di smarrimento sempre contornata da una specie di isterica insoddisfazione. Per cosa non sapeva mai dirlo e forse era proprio quello il particolare più frustrante di tutta la vicenda. Faceva male più o meno come un rimpianto e durava qualcosa come un paio di secondi: troppo poco per capire da dove provenisse, ma abbastanza per rimanerne folgorato.
E questa volta... Questa volta quell'emozione era stata sottile ed affilata con non mai, bruciante, nonostante facesse troppo freddo anche solo per pronunciarla una parola del genere. Bruciante. Un tocco familiare.
Si accorse di star tremando e se ne sarebbe in effetti sorpreso se solo non stesse andando a fuoco. Sì, a fuoco.
I piedi si muovevano da soli, aveva perso il conto di quanti giri avesse fatto intorno a quel tavolo di legno grezzo e aveva perso il conto di quante volte si era tirato i capelli. Erano molto più lunghi di quanto non li avesse mai portati, ma continuando in quel modo lì avrebbe sicuramente strappati tutti; anche la barba era lunga, non abbastanza per tirarla, ma un modo di certo lo avrebbe trovato per strappare anche quella.
Si fermò di botto artigliandosi al tavolo, qualche scheggia gli entrò nella pelle, ma figurati se le sentiva. Tutto quello che sentiva era fuoco. Bruciante.
Cercare di regolarizzare il respiro, buttare fuori l'aria dalla bocca... Tutte merdate. No, che non funzionava, non funzionava, perché non funzionava? Probabilmente aveva appena raggiunto il livello di isteria di una donna incinta in pieno travaglio.
Un guaito sommesso lo distolse per un attimo da se stesso, una specie di benedizione, facendogli voltare la testa verso la fonte del rumore. La piccola palla di pelo trotterellò con la coda fra le gambe fino al tavolo e, intuendo forse il malessere del padrone, cominciò a strusciarsi sui suoi piedi con le migliori intenzioni del mondo.
- Diki - la chiamò piano e quella in risposta abbaiò rumorosamente. Due mesi prima l'aveva trovata accasciata sulla strada di casa sua, l'aveva portata dentro e aveva curato la sua zampa ferita. Quando poi quella si era finalmente ripresa e aveva riaperto gli occhi Ben si era ritrovato davanti due fari di un blu mai visto. Beh... In effetti un blu del genere lo aveva già visto...
Gli era sembrato che il caso si stesse prendendo gioco di lui, ma l'aveva tenuta comunque e l'aveva chiamata Diki, in tibetano. Felicità.
La cognolina doveva aver intuito il suo disagio perché se ne stette per qualche minuto accoccolata sulle sue scarpe, poi l'indole da cucciola prevalse e cominciò a raspare per terra con l'intento di convincerlo a giocare con lei, la lingua penzoloni e gli occhi luccicanti. Ben l'avrebbe certamente assecondata in un'altra circostanza, ma in quel momento era già tanto avere puntati addosso quei suoi occhi blu.
Così simili ai suoi...
Un fitta al petto, forte da mozzare il respiro e far salire le lacrime agli occhi. Per un attimo di quel delirio giurò di intravedere, attraverso i vetri appannati della finestra, la neve. Ed anche se sapeva che era un miraggio — una parte di lui lo sapeva —  questo non lo fermò affatto dal raggiungere la porta e precipitarsi di fuori.
Diki cominciò ad abbaiare come un'ossessa: curioso come quel cane avesse più giudizio di lui.
Subì ad occhi chiusi una prima sferzata di vento gelido, che tuttavia non diede affatto conforto al fuoco che lentamente lo stava bruciando dall'interno, prima di accorgersene: non solo stava davvero nevicando, ma lui era davvero uscito fuori nel pieno di quella tempesta che andava avanti da giorni mezzo svestito e tutto questo non lo stava davvero facendo sentire meglio.
Cadeva la neve dal cielo e lui andava a fuoco.
Probabilmente sarebbe potuto morire di lì a pochi minuti se non fosse subito rientrato in casa, probabilmente sarebbe morto dato che, l'aveva deciso in quel momento, non sarebbe rientrato in casa.

Non avrebbe saputo spiegare di preciso con quale ritmo il tempo stava passando, né da quanto fosse là fuori a congelare e bruciare, né cosa stesse aspettando, né se stesse davvero aspettando qualcosa. Tuttavia, e di questo era certo, non sarebbe rientrato in casa. Solo, in un momento imprecisato, si sentì scivolare a terra; l'urto alle ginocchia attutito un poco dalla neve, la stoffa dei pantaloni ormai fradicia, il gelo ed il fuoco. Non sentiva neanche più Diki abbaiare da dentro casa. Forse sarebbe davvero potuto morire lì fuori, forse stava morendo proprio in quel momento e tuttavia la cosa non lo toccava tanto quanto avrebbe dovuto.
Le dita iniziarono a formicolare, mentre dentro bruciava fuori i denti sbattevano tra di loro minacciano di rompersi, le palpebre si facevano più pesanti ogni secondo che passava, l'istinto gli urlava da qualche minuto ormai di chiudere gli occhi. Non lo ascoltava.
Cominciò a percepire cose strane... Suoni, luci, colori, odori... Ad un certo punto gli parve persino di vedere una figura camminare nella tempesta...
Non era reale, lo sapeva. Stava impazzando, stava diventando matto. Sicuro. Ma quella sensazione? Quel buco nel petto? Quella lava che gli divorava la carne? Quel senso di dolorosa nostalgia... Come poteva non essere reale quello? Come poteva qualcosa di così totalizzante non essere vero? Assomigliava...
No che non è vero, niente di tutto questo lo è. Non è vero. Non c'è nessun fuoco, il fuoco non ti ucciderà. Lo farà il freddo, però. Il freddo. Non è vero.
Un gemito strozzato. Il suono della catena di una bicicletta che si inceppa. Un... buon odore
Conta i fiocchi di neve... Ha iniziato a nevicare? Una bicicletta? Ha iniziato a nevicare. Conta i fiocchi di...
Respiri concitati. Piedi che affondano nella fanghiglia. Odore di...
Una bicicletta? La neve. La pioggia. Il vento. Una bicicletta? Non è vero.
Una figura sta correndo, verso di lui. 
Non.
Quell'odore...
È.
Una figura stava correndo, verso di lui. Ora ha smesso, ma è ancora molto lontana. Un grosso pacco le è appena caduto sulla neve rovesciando a terra quello che conteneva, il cartone è tutto rovinato, la scritta rossa sul lato si legge appena.
Fiori di lavanda in mezzo alla neve sporca.
Vero.
Non erano i fiori però, quell'odore...


Lena.


Per un istante si fermò tutto: il cuore, il respiro, il fuoco, la neve, il vento, il tempo, il mondo.
Tutto era fermo, tutto taceva. Immobile, morto. Poi in quel silenzio una parola si sparse per l'aria, gli arrivò addosso, lo trapassò da parte a parte. Lo ferì a morte e lo riportò alla vita.
Eppure lei non l'aveva neanche pronunciata.
Il cuore ricominciò a battere seguendo uno spartito tutto suo. Le gambe cominciarono a correre animate da vita propria. Il respiro gli riempì i polmoni dopo quella che era parsa un'apnea. Il fuoco sciolse la neve. Il vento spense il fuoco. Il tempo iniziò ad essere scandito secondo una legge del tutto nuova, in quel preciso momento, come se prima di allora non fosse stato tutto nient'altro che un grande conto alla rovescia. Il mondo tornò a girare nell'unico senso possibile.
Meravigliosa e terribile.

La verità è che, dopo essere stati bendati per anni, ora vedevano.

Ben glielo leggeva negli occhi con commovente chiarezza: semplicemente quello che li aveva divisi non solo non aveva importanza in quel momento, ma non ne aveva avuta mai. Niente avrebbe mai avuto importanza, ora lo sapeva. Niente era paragonabile all'emozione di rivederla, di averla lì, davanti au suoi occhi e di poterla toccare solo per sentire che tra loro non era cambiato assolutamente niente, che mai sarebbe cambiato.
Una runa sulla pelle, un giuramento nell'anima. 

Allora è questo essere parabatai? 

Quante cose capivano ora e quanto insignificante gli appariva tutto ciò che era accaduto da due anni a quella parte... Avrebbero subìto dieci volte tanto, per arrivare a questo, niente sarebbe mai stato così giusto. Avrebbero barattato un'intera vita per un istante, quello.
Ora lo capivano: che non avrebbero mai potuto stare davvero lontani, che qualcosa li avrebbe sempre uniti a discapito di tutto e tutti, che amarsi nel modo più profondo che conoscessero era l'unico modo che avevano di esistere.

Parabatai.

Anche senza una runa, anche se non fossero stati Shadowhunters, anche in un altro universo, anche se fossero stati demoni. Questo era qualcosa che non poteva cambiare, in nessuna vita.
Dopotutto due anni per capire questa verità sembrava un tempo piuttosto ragionevole... L'ultima volta — vita — ci avevano impiegato decisamente di più.










Quella parola rimase sospesa nell'aria mentre correvano l'una nelle braccia dell'altro.
Sussurrata, come una risposta.
Eppure lei non l'aveva ancora pronunciata.






«Ovunque».










Fine... Inizio.





 
  
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