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Autore: SagaFrirry    15/10/2015    0 recensioni
Seguito de "La città degli Dei", scritto nell'ormai lontano 2009. Il tempo è trascorso, i bambini sono cresciuti e molte cose sono cambiate. Una lettera misteriosa viene consegnata alle divinità. Momoia, Madre Divina, convoca a sé gli Dei. Per quale scopo? Un nuovo nemico, un nuovo Mondo e l'intreccio continua..
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'La città degli Dei'
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XXXII

 

LASCIAMI ANDARE

 

Momoia era dissolta, assorbita completamente da Kasday. L’Alto era riuscito a liberarsi dalla presa del Principe ed ora se ne stava accoccolato accanto ad un albero, avvolto nelle ali blu.

Nosmagiés lo vide e gli andò vicino, chiamandolo. Luciherus, caduto in malo modo, si scosse per riprendersi e si allarmò sentendo le parole dell’angelo Messaggero, che chiamava a gran voce il suo padrone.

“Signore! Signore! Rispondetemi!”.

“Kasday!” chiamò anche il demone, correndo presso l’Alto “Kasday, sei ferito? Fammi vedere…”.

Il Principe allungò una mano verso la divinità seduta,  ma lei lo respinse, digrignando i denti con fare minaccioso.

“Non fare i capricci…”.

“Nosmagiés…” mormorò Kasday, fissando il cielo.

“Sì, Signore. Sono qui”.

“Avrai molto da fare d’ora in poi. Krì ed il fratello avranno bisogno di consiglio, i miei figli ed Erezehimsay, per non parlare di Berkana, avranno bisogno di te”.

“Voi avete bisogno di me!”.

“Non più”.

L’Alto spalancò le braccia, mostrando il suo oblò trafitto e infranto da una freccia.

“Lascia che te la tolga” affermò Luciherus.

“Lascia che io muoia, Lucy. È il mio desiderio”.

“Ma che dici?! Fatti aiutare! Fa male…”.

“No, non fa male. Non la sento questa freccia. Sento solo freddo…”.

Il demone lo abbraccio, sapendo di emettere un gran calore. Rabbrividì al contatto con la pelle gelida dell’Alto: “Non morire, Kasday. Presto arriverà chi potrà aiutarti”.

“Nessuno può aiutarmi. Dentro di me scorre il veleno di Momoia” affermò, mostrando il braccio di vetro contaminato “Morirei comunque, freccia o non freccia. Voglio che mio figlio lo sappia”.

“Kavahel?”.

“Sì. Voglio che sappia che sono orgoglioso di lui. È stato molto coraggioso. Ha fatto la cosa giusta, colpendomi, ma non voglio che si senta in colpa. Glielo dirai?”.

“Dirgli cosa?”.

“Che non è colpa sua se io…”.

“Se tu cosa?! Se tu niente! Gli dirai tutto questo in faccia, perché arriverà a momenti e tu starai presto bene”.

Il demone espanse la sua luce il più possibile: in questo modo gli Dèi, i Demoni e gli Angeli lo videro.

“Sono laggiù!” esclamò la Dea del Kaos, indicando un punto lontano.

Tutti si mossero per raggiungerli. Berkana, la piccola Celeste, era fra le braccia della mamma, triste perché sapeva di doverla perdere essendo divenuta mortale. Ma Krì la rassicurò: “Ci penserò io a te quando sarai sola. Sta tranquilla, ad ogni modo, perché la tua mamma vivrà ancora a lungo e poi rinascerà. Te lo prometto”.

“Non la perderò mai?” mormorò la bambina.

“No. Ed io non ti lascerò mai”.

Deyan si sentì molto rincuorata da quelle parole e sorrise. Vedendo la mamma felice, anche la bambina si rallegrò.

Luciherus guardava con rabbia Kasday: “Tu tornerai!” gli diceva, irritato per la sua voglia di lasciarsi morire “Tu tornerai, perché sei sempre tornato. Sei morto e sei tornato. Da Dio, Angelo, Demone, creatura senza magia…sei sempre rinato! Sei cambiato, ma sei sempre tornato!”.

L’Alto scosse il capo: “Non questa volta, Principe. Non posso rinascere. La Madre, che permette a quelli della mia specie di tornare, è morta. Non rinascerò. Non tornerò”.

“Non ci rivedremo più? Non tornerai mai più da me?” disse afflitto il demone, abbassando lievemente le orecchie a punta.

“Non l’ho detto. Non ho idea di che cosa ci sia dopo…”.

“Se non lo sai neppure tu…” commentò Luciherus, sforzandosi di sorridere.

Tutti gli occhi di Kasday cominciarono a chiudersi, gradatamente, uno dopo l’altro.

“No!” urlò Nosmagiés, scuotendolo “No, non  morire! Resta con me! Non morire!”.

L’Alto gli sorrise, per la prima volta sinceramente, dopo tanto tempo.

“Sei felice?” domandò qualcuno, fra il gruppo delle divinità che erano giunte sul posto nel frattempo.

“Sì, lo sono” ammise Kasday.

“Non dovresti. Dentro di te hai tutti gli Alti ed i Celesti! Li hai uccisi e gli hai tolto la possibilità di rinascere. A loro non hai pensato?”.

“Giusto” commentò un altro “Era giusto che tu dovessi morire. Sei egoista e senza cuore. Li hai uccisi per assecondare un tuo desiderio e…”.

“Ma che dite?!” tuonò Luciherus, ringhiano “Siete tutti impazziti?! Vi sembra il modo di parlare ad una persona che muore?! E vi sembra il modo di parlare a colui che ha creato la maggior parte di voi ed il pianeta su cui poggiate i piedi?”.

“Non importa” lo placò l’Alto, mettendogli una mano fra i capelli.

“Non importa. Hanno ragione. Però, hai visto…come  ti avevo promesso, gli Universi non sono finiti!”.

Nosmagiés guardava con odio i presenti, sibilando degli “Ingrati” e dei “Vigliacchi”.

“Sai cosa mi dispiace?” sussurrò ancora Kasday.

“No, non so…” mormorò Luciherus, non sentendolo continuare.

“Mi dispiace il fatto che, una volta morto, non  potrò più far tornare Shekinah da te”.

“Shekinah non esiste! Shekinah sei tu!”.

“Fa lo stesso…”.

Chiuse gli occhi che aveva sul viso, le antenne si piegarono e si afflosciarono.

“Kasday? Svegliati! Sono qui! Non andartene!” lo chiamò il Principe, ma ormai era tardi.

L’Alto emise un potente sospiro.

Tutti i suoi occhi si chiusero. Il suo corpo mutò lentamente. Gli arti si rilassarono e le stelle fra i capelli si spensero. Iniziò a disgregarsi, dalla punta dei piedi. Scomparve, gradatamente, in una polvere di luce azzurra e oro che si sparse per l’aria. L’albero a cui stava appoggiato fiorì di colpo, così come tutto il prato sottostante. Un buonissimo profumo fu percepito da tutti e migliaia di farfalle multicolore riempirono il cielo e scintillarono alla luce del Sole.

Nosmagiés era senza parole. Meravigliato e stupefatto, riconosceva in ogni farfalla una parte dell’essenza del suo Signore. Piangeva, in silenzio.

Vereheveil non parlò, chiuse gli occhi e chinò il capo. Luciherus si alzò, avvolto dai petali che, delicatamente, cadevano dall’albero sopra di lui. Si appoggiò al tronco, girandosi in modo da non far vedere ai presenti che le lacrime rigavano il suo viso.

“Fratello…” lo chiamò Mihael.

“Papà…” parlò Luciheday, toccando la spalla del padre con apprensione.

La Dea della Parole abbracciava il marito, Dio delle Letterature, ed i figli. Kavahel avvertì una scossa di magia che lo attraversava: ora era lui il nuovo creatore. Quasi fu sollevato da terra dalla nuova energia che ora aveva in corpo. Oltre a questo, sentì subito che avrebbe dovuto anche affrontare il peso delle responsabilità. Ora era il padrone degli Universi, secondo soltanto ai pochi Alti e Celesti rimasti.

Luciherus iniziò a cantare. Non sapeva da dove quelle parole venissero, ma poi si accorse che il vento, le piante e gli animali intonavano la stessa melodia.

 

 

“Mio figlio,

 mio amore,

 mio dolore,

tieni questo momento nel cuore

 perché forse non tornerò più.

 

La mia vita,

le mie gocce di sangue,

 le mie lacrime,

 le mie grida,

sono tutte state sprecate”.

 

Anche Vereheveil iniziò a cantare. A lui si unirono tutte le divinità, gli Angeli ed i Demoni.

 

“Addio, mie creature,

il mio tempo è giunto.

Non stringete le vostre mani sulla mia essenza,

che già non mi appartiene più.

 

Addio, mio amore, non costringermi qui.

Lasciami andare”.

 

Ora tutte le creature degli Universi recitavano quella nenia.

 

“Tutte le mie speranze

si sono perse da tempo,

nel giardino arido del mio animo.

Addio, mio fiore.

Io me ne vado”.

 

Kavahel guardava l’albero fiorito, emanando scintille magiche da ogni punto.

Vereheveil gli toccò la spalla: “Ora sei il più forte di tutti noi” gli disse “Ora, quando gli Universi giungeranno al loro termine, sarai in grado di svolgere il tuo ruolo. Sono tanto felice di avere un figlio come te”.

Kavahel vide le lacrime del padre: “Papà io…mi dispiace per…”.

“Ragazzo” lo interruppe Luciherus “Vieni con me, ragazzo. Ti devo parlare…”.

   
 
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