VIII
Le
vent se lève...
(II
faut tenter de vivre!)*
*”Si
alza il vento...
Bisogna
osare vivere!”,
Paul
Valery,
da
Il cimitero marino
Nella vita di un uomo ci sono cose, le
quali, per quanto se ne sia già lungamente parlato, meritano un
capitolo a parte.
Blanca fu esattamente il crocevia di
un'esistenza: all'indomani della sua morte, solo un burrone – tutte
le strade dovevano cambiare o sprofondare.
Ero rimasto solo, non avevo nulla da
perdere e quindi tutto mi era possibile.
Se è aperta ogni possibilità,
significa che nulla in questa vita ha poi un grande peso, e, se anche
lo avesse, non ci si può fare nulla.
La vita è un atteggiamento, non un
evento.
Accettai di diventare Saint perché, se
i fatti non contano, percorrere la strada più incompatibile con il
mio modo di immaginarmi, sarebbe stato un ottimo modo di prendere la
vita.
Devo dire anche questo, dacché ormai
siamo in vena di confessioni: speravo in una qualche oscura forma di
Resurrezione, una muta spirituale che mi concedesse di dimenticare
tutto nel nome di quell'ideale asettico che è il nome di un dio.
Chiaramente non avvenne nulla del
genere: era sempre vero il motto latino Nomen omen*, e io
continuo a chiamarmi Manigoldo.
*Proverbio latino: il nome è destino
*
Vidi sfiorire Blanca lentamente, e
inesorabilmente allontanarsi da me.
Avevo pensato, durante la nostra epoca
d'oro, di essere lo slancio di libertà a cui tendeva e tutto ciò di
cui avrebbe sempre avuto bisogno. Credevo che, al mio fianco, non le
sarebbe mai importato nulla del luogo in cui fossimo, che tutte le
altre assenze sarebbero divenute insignificanti.
Ero solo un presuntuoso, ma,
all'inizio, non avevo nemmeno così tanto torto a pensarlo.
Poi, un giorno l'avevo portata in una
terra troppo lontana dall'uomo che tanto la affascinava e dall'unico
posto in cui la sua anima avrebbe potuto trovare riposo.
Imperdonabile, questo sibilavano
i suoi occhi quando mi aveva davanti.
I nostri contatti piano, piano
diminuirono.
Non c'è nulla di più doloroso e
umiliante del vedere un amore o un'amicizia che ti muore fra le dita,
quando è impossibile scappare, di dire basta davanti a tutto ciò.
Ero sempre io a iniziare o rubare un
bacio; lei si distaccava in fretta, e, se mi restava aggrappata alle
labbra, lo faceva in un certo modo insofferente e addolorato.
Sembrava una persona che cerca di nascondere una zoppia troppo
evidente.
Non dimenticherò mai quando mi
trattenne in un bacio lunghissimo solo per impedirmi di vederla
piangere. Ricordo bene le sue lacrime sulle mie dita, cercavo di
scostarle via, ma continuavano a cadere.
Come puoi asciugare un pianto di cui
sei tu il responsabile? Non c'è risarcimento per il dolore.
Tu mi hai ridotta così.*, ecco
la sua irrimediabile sentenza. Se anche l'avessi riportata
indietro, nulla ci avrebbe salvato.
Non ero la sua salvezza, ma la pietra
che l'aveva trascinata sul fondo.
Poi, un giorno, smisi anche di baciarla
- non mi sembrava giusto.
Lei, da parte sua, non mi cercò più.
*U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis
Un giorno, davanti alle sue lacrime,
giurai per l'ennesima volta che l'avrei riportata indietro.
Mi arrabbiai, le urlai addosso di
imparare a vivere, di smettere di piangere e di farsene una malattia
– le urlavo? Bugiardo: la supplicavo con tutta la disperazione che
avevo in corpo.
Eravamo in ginocchio l'uno davanti
all'altra, stringevo le sue mani fra le mie per farle male.
Sentivo i suoi polsi tremare, si liberò
dalla mia presa e mi tirò uno schiaffo che mi costrinse a voltare il
capo.
Un ceffone così non l'ho mai ricevuto
da nessuno – un simile affronto, d'altra parte, nessun altro
avrebbe potuto infliggermelo.
Il tempo di non avere il coraggio di lasciarti qui.
Fu
allora che la guardai di nuovo negli occhi dopo tanto tempo –
fu un secondo schiaffo, più forte.
Dal giorno in cui l'avevo trascinata
con me su quella nave, ero stato divorato dal tarlo del senso di
colpa nei suoi confronti.
Tuttavia rimanevo comunque un essere
umano, e, per quanto fossero sinceri i miei sentimenti, non mi sarei
fatto una malattia per aver stravolto completamente l'esistenza
altrui.
Il dolore altrui non si può pagare con
il proprio, ed è per questo che la legge del taglione è così
profondamente errata alle fondamenta. Ora lo so.
È questa la verità: a me quella vita
così casuale, quella prospettiva di un futuro indecifrabile,
piacevano.
Mi dispiaceva che lei soffrisse, ma non
di essere in quella terra, di aver lasciato tutto alle spalle.
Io ero, se non felice, soddisfatto.
D'altra parte, un futuro mi atteva.
Lei, no, il suo rancore lo aveva
nutrito giorno per giorno, ed era diventato la bestia ferocissima che
le ululava dagli occhi.
“Tu mi odi”, sussurrai senza fiato,
lasciai cadere anche l'altra sua mano che avevo continuato a
trattenere. Fu come sciogliere un patto di sangue.
“E ci mancherebbe altro.”
Non era riuscita a tradirmi, ma non ero
abbastanza per tutto quello che la stavo costringendo a vivere.
Da parte sua, il rapporto con me subì
il tracollo definitivo.
Smise progressivamente di parlarmi, ma
non per presa di posizione: non avevamo più nulla da dirci.
“Tu mi odi”, ecco la nostra verità
ultima.
Restammo assieme per sopravvivere e ci
ritrovammo in tre: lei, io e il mio senso di colpa.
Sai, Blanca, da quando te ne sei
andata, quell'amico che mi hai lasciato è ancora con me.
Ti odio anche io,
sempre tuo
Manigoldo.
*
Il primo temporale di fine estate ne
portò con sé molti altri.
Fino ad allora ce l'eravamo cavati bene
dormendo all'aperto; anzi, mi piaceva parecchio non avere delle mura
attorno.
Le notti divennero progressivamente più
fredde, gli scrosci d'acqua più frequenti e prolungati: quando ci
pioveva addosso erano dolori ad asciugarsi.
Il primo preoccupante colpo di tosse
che Blanca batté, squassò l'aria in una bellissima giornata di
sole.
Lo ricordo bene, perché, se già da
qualche giorno era stata presa da una febbre strisciante e da una
tossetta particolarmente fastidiosa, se da altro tempo perdeva
costantemente peso e impallidiva, quel giorno le uscì un rantolo che
sembrò provenire dall'inferno. Lo ricordo perché anche a me mancò
il fiato.
Non sembrava nemmeno possibile che
fosse quel suo torace minuto a produrre un suono tanto cavernoso.
Da quel giorno non smise più di
tossire.
Bruciava e sudava di febbre.
“Che diamine ti sta succedendo?”
Una domanda banale, la pronunciai con
un ringhio, come se fosse colpa sua.
Io ricordo il suo sguardo. Lo ricordo
anche meglio del suo odio.
Il totale smarrimento di un essere
umano, il volto stravolto di chi cova in sé la sua fine.
“Non lo so. Non lo so.”
Spaventato da quei fatti, mi impegnai a
cercare un rifugio.
La lasciai febbricitante in un angolo
di una piazzetta dimenticata, con la promessa di non muoversi.
“Non mi muovo, ma torna presto.”
Torna presto, l'unica e ultima
supplica che mi rivolse in vita sua. Ricordo una greve felicità.
*
Mi dovetti portare poco fuori da Atene,
in un paesetto nei suoi immediati dintorni. Si chiamava Rodorio, ed
era ai piedi della scarpata su cui dominava il Santuario.
Erano tempi duri anche lì: si parlava
di continue sparizioni ed uccisioni, di cadaveri ritrovati dilaniati
buttati nei fossati, di incursioni.
Ma io questo di certo non lo potevo
sapere, perché non capivo il greco. Se anche lo avessi capito,
immagino che non sarebbe cambiato granché, comunque.
Piuttosto lontano dal centro, sul
limitare di un bosco, c'era una casa che era stata abbandonata.
Aggiungerei depredata: la porta era stata forzata, alcune finestre
erano rotte e la facciata presentava alcune tracce annerite –
bruciature.
Decisi comunque di entrare, ormai tutto
ciò era passato.
Tutti i cassetti erano stati aperti e
in terra vi erano stoviglie e ceramiche rotte; tuttavia, lo strato di
polvere era sottile: si trattava di avvenimenti recenti, non più di
due settimane.
Che la casa fosse stata assaltata o
abbandonata, comunque, mi importava poco, era ciò che faceva al caso
mio.
Vivevo nella beata convinzione secondo
la quale un posto in cui è appena successo qualcosa di terribile ha
già detto e dato tutto – per cui non può succedere più nulla di
brutto per un lungo periodo di tempo.
Mi convinsi che non
vi era neppure
nulla di strano nei visi tirati e da larva degli abitanti, nulla di
losco nascosto dietro alle loro occhiate gravi e tormentate rivolte a
qualunque angolo buio.
Erano i tempi duri di sempre, mi
dissi.
No, cari miei: era
la guerra che già incombeva. E sarebbe stata anche la mia.
Entravo
già nel mio futuro: una casa disastrata, una nuvola di fumo, la
sensazione di un'inevitabile caduta. Il Santuario là in alto,
proprio sopra alla mia testa.
Benvenuto.
*
Io avevo un unico
nemico: si chiamava polmonite ed era annidato nel corpo di Blanca.
Non mi importava
nulla né delle crisi fra gli Stati, né degli assalti dei pirati
musulmani; non mi turbavano la Riforma, la Controriforma, i francesi
che decidevano che era ora che basta. Non che in Lombardia
arrivassero gli Austriaci, né che il Sud facesse la muffa per i
secoli di malgoverno.
Al massimo mi
seccava che il Mediterraneo venisse trascurato dai traffici
economici, ma a quello avrebbe potuto avviare un pescatore un poco
più intraprendente – invece niente di niente.
Non conoscevo, né
credevo, né mi sarei fatto turbare da storie di dissidi tra divinità
greche litigiose.
E, tra tutte le
cose assurde che accaddero in quegli anni, proprio quella mi fregò.
Le divinità
greche.
*
Con fatica, portai
Blanca in spalla fino a Rodorio. La febbre continuava a divorarla
durante la notte, sulle mie spalle era così debole da sembrare un
tappeto.
Non pesava più
nulla, l'ultimo ricordo che ho del suo corpo sono le sue costole
contro la mia schiena.
Durò una
settimana.
Di
giorno scorrazzavo per la città a cercare di ottenere qualunque cosa
potesse esserle utile – e anche il superfluo, perché esso è
una gran cura per ogni male.
Ero riuscito a
prendere anche un bel cappotto lungo, beige. Dal giorno in cui avevo
rubato a Messina per la prima volta erano cambiate tante cose.
Lo portai via
senza fatica.
Quel vecchio
giorno in Sicilia, alle porte dell'inverno, chi stava per morire a
causa dei polmoni ero io, e preparavamo un nuovo inizio.
Adesso mi
preparavo ad osservare il finale di quella storia – un finale così
amaro che nessuno avrebbe mai potuto immaginarlo.
Tutto ciò che
riuscivo a trovare da mangiare lo lasciai a lei, sebbene a malapena
lo assaggiasse. Toccavo cibo solo quando i crampi allo stomaco erano
eccessivi e rischiavo di non reggermi in piedi per continuare il mio
lavoro.
Passavo le notte
insonni a cercare di tenerle caldo, ma lei era rovente di febbre ed
io mi riducevo ad un bagno di sudore, con la schiena gelata dall'aria
circostante.
Era la mia
espiazione, pensavo che un giorno sarebbe bastato.
Ricordo la nenia
del vento là fuori e il suo trascinarsi indifferente tra le fronde.
Furore fuori
dalle finestre, la corsa furente dell'aria che preparava la Storia.
Accanto a me, la
tosse angosciante di Blanca squarciava l'ombra.
I muri sembravano
schiacciarmisi addosso, il buio diveniva una massa che mi avviluppava
e toglieva l'aria.
Talvolta
vedevo
l'anima di qualche animaletto che ci crepava attorno. Tornai ai
pensieri crepuscolari degli anni in cui correvo per i cimiteri – mi
scoprii a rimpiangerli.
L'ultima di
quelle notti mi chiesi come sarebbe stato guardare la mia lapide.
Come guardare
quella di Blanca: un dolore inaccettabile, mi
sfuggì proprio quel pensiero trattenuto con disperazione in un
angolo della mia testa.
Sarebbe
tutto finito entro la sera successiva.