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Autore: TimesNewMozzi    18/10/2015    0 recensioni
La neve annulla tutto quando si posa, e a volta si porta via anche ciò che non riesce a raggiungere.
Genere: Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sally si lanciava tra la neve zampe in fronte al muso, come se non avesse ancora capito per bene cosa fosse il freddo, non che ne avesse mai avuto realmente esperienza, era grande ma era con noi da così poco. Il ghiaccio che si accumulava sul suo pelo non sembrava scatenarle neanche un brivido, l’unica cosa che la animava era la voglia di rivoltare ogni singola zolla di neve con il grosso tartufo nero e umido.
Io, d’altra canto, facevo più la parte della neve sbattuta qua e là da quelle quattro zampe scaldate da un fuoco invisibile, e Sally non aveva nessuna pietà per le mie stanche membra, il freddo non la colpiva e così neppure io avevo il diritto di farmi frenare da esso.
Era egocentrica.
O forse semplicemente una cagna.
Mi rivolse un «woff » irritato quando, avventuratasi in mezzo ad un campo coperto di pittura candida spessa svariati centimetri, mi vide bloccarmi al bordo della strada senza seguire le sue profonde orme che, nonostante la sua mole non esile, non raggiungevano il terreno e l’erba soffocata.
Io sentivo il freddo accumularsi in strati sulla mia pelle, non penetrava nei miei muscoli, ma si spalmava sulla mia superficie come una glassa che rendeva immobile il mio interno costringendo il mio esterno, una camicia di forza spessa tanto da far forza sui miei polmoni, abbastanza sottile da non essere nemmeno fisica.
Incolpo anche la natura per avermi, e averci come uomini, resi pelati e indifesi di fronte a sé stessa, incolpo i miei antenati per essersi stanziati in un luogo di questa grande pseudo-sfera che sei mesi all’anno decide di essere totalmente inospitale alla vita.
Siano benedetti i pennuti, martiri del nostro comfort…
Il muso nero che aveva continuato a fissarmi per qualche decina di secondi si stancò di aspettarmi, io colsi l’occasione per squadrare meglio i dintorni di quella zona di campagna che conoscevo così poco. Non c’era molto, si potrebbe dire che non ci fosse nulla se non neve, neve in tutte le direzioni, neve fino agli orizzonti e poi, ancor più in là, neve su nel cielo, neve che faceva il giro della terra e tornava ai miei talloni.
Tra la neve, guardando bene, si scorgevano ogni tanto delle righe scure, gli scheletri ancora non riempiti dei fossi, gli unici punti in cui ancora l’erba non si era lasciata assorbire dal bianco e continuava a combattere per la propria esistenza, la propria fetta d’aria e per una finestra sul Sole.
«Rrrrgh-aa-woff! »
Esclamò Sally, che si era completamente dimenticata del fatto che l’avessi abbandonata a giocare a nascondino col fango, non era uno sbuffo di disappunto, era un ruggito impaurito e difensivo da membro del branco che avvisa i compagni e minaccia un estraneo.
Inseguì con gli occhi lo sguardo della mia compagna fino ad arrivare alla fonte: Una ragazza esile dai lunghissimi capelli neri si agitava tra la neve. Si agitava come un pesce che cambi improvvisamente direzione nel suo nuoto, erano movimenti impacciati, come se qualcosa non funzionasse nel suo corpo, qualche ingranaggio si fosse incastrato e la macchina si fosse abituata e stesse andando avanti senza di esso, sbuffando e combattendo contro sé stessa. O forse ad essersi rotto era il suo marionettista, qualcosa nei fili invisibili che la animavano doveva essersi consumato, la vidi e lo pensai perché le uniche cose reali che sembravano assomigliarle erano le bambole di porcellana, le bambine con una grande cappello di paglia e la pelle bianchissima e gli occhi impossibilmente vivi.
Ma lei non stava su uno scaffale a prender polvere, e non c’erano fili attaccati alle sue gambe; saltava e sembrava danzare alzando i piedi a ritmo di una canzone, o forse più di una, forse solo allo scricchiolare dei suoi stessi stivali che compattavano la neve scivolandoci. Lei era lì, viva.
Sally abbaiava, credo, non la sentivo, ma penso di ricordare una macchia nera agitarsi e avvinarsi alle mie gambe, ricordo anche uno strano dolore alla gamba, deve avermi morso, voleva che la seguissi e me ne andassi.
Credo di averle dato un calcio.
Dopo, l’unico nero nei miei occhi furono i lunghi fili che mettevano le loro radici nella pelle della ragazza, che continuava a danzare agitando le braccia e da quelle braccia mi sembrava di vedere nascere sete lunghe come papiri egizi, e intere leggende mute dipingersi su esse con pennellate e intrecci argentati illuminati dal riflesso della neve. Ogni piroetta era una nuova fiaba che si svolgeva di fronte ai miei occhi: un branco di lupi che vengono resi uomini da un saggio orientale, un dragone invisibile che nasce dalla lacrima di una sorella e guida un torrente contro un esercito nemico, un tiranno reincarnato in un grande albero e un oppresso in una piccola fiamma affamata.
C’era in quelle fiabe l’inutile bellezza di tutte le storie raccontate attorno al focolare quando la notte fa paura o il tempo decide di fermarsi e gli uomini decidono di unirsi ed ascoltare; le sentivo parlare e rivolgersi a qualcosa in fondo al mio petto, risuonare con parti del mio corpo così nascoste che non avrei pensato potessero comunicare col mondo
Sentii il cuore sussurrarmi stanco, vidi tante e tante storie in quelle inesistenti tele svolazzanti, tante che la mia piccola storia corse il rischio di confondersi con esse e scivolare via, portata dal vento in tutte le direzioni, squartata dal più gentile dei carnefici. Per un attimo mi vidi alla deriva in un fiume più lungo di quanto mille dei miei futuri sarebbero mai potuti essere.
Poi mi scossi quando vidi due occhi guardarmi.
So che erano solo azzurri, due occhi azzurri,  ne sono certo, ma ci ripenso e vedo nella mente un’infinità di microscopiche lucciole vibrare all’interno di quelle iridi, non c’erano, ma popolano il mio ricordo.
Sotto il naso, due labbra boccheggianti in cerca d’aria puntavano verso le mie, non nella mia direzione, ma in quella delle mie labbra.
Lei si avvicinò, due volte quasi cadde, mai mi preoccupai. La vedevo perdere l’equilibrio e abbandonarsi alla forza dei suoi passi falsi e lanciarsi in piroette e capriole in aria, sembrava così leggera da potersi semplicemente lasciar trasportare dal suo respiro, ma, come mi accorsi quando il suo naso sfiorò il mio, il respiro le mancava.
Non era il freddo o la stanchezza, era che l’alito della vita le era estraneo, non le apparteneva e in qualche modo, lo capii dal suo petto che si contraeva in lunghi spasmi senza riuscire a far nulla se non ferirsi, ciò la intristiva.
«Respira » mi disse, direi, ricordo di averlo sentito, non sono sicuro che dalle sue labbra fosse uscito alcun suono, non sono sicuro che l’aria l’avesse accompagnata quando mi arrivò di fronte.
Respirai.
Lei mi baciò.
Allora lo sentii, non il respiro, la sua mancanza, il suo desiderio.
Arpioni affilati scesero per la mia gola come armi d’assedio di un castello medievale, mi si conficcarono nei polmoni spingendosi contro le mie coste, l’aria attraversò la sua testa e mi riempì superando ogni limite che potessi immaginare, poi gli artigli si ritrassero.
Finalmente vidi il suo, il mio, respiro, un lungo filamento che legava le nostre bocche rilucendo di una luce che non sembrava nemmeno essere lì, come le lucciole negli occhi della ballerina, eppure la ricordo, e ricordo l’aria che mi aveva riempito in ogni angolo lasciarmi tutta in una volta, ricordo il vento scomparire dal mio mondo e riflettersi in quello della ragazza.
Mi sorrise mentre il suo petto si gonfiava per la prima volta, le coste rinsecchite scricchiolarono sotto la pressione di quel fluido sconosciuto, e di quei muscoli, mai utilizzati, e le sue mani andarono d’istinto al petto a toccare la distruzione della sua mancanza, il suo desiderio esaudito.
Si voltò senza concedermi nient’altro, senza ringraziarmi per quel respiro donato.
Non ricordo come caddi, ricordo di averlo fatto, ricordo l’annaspare controllato e la mancanza di paura, ricordo tante e tante lucciole tutt’intorno, le ricordo volarmi in bocca e andare ad abitare la caverna che ho nel petto.
È confuso, ma ora le vedo, e so che ci sono, brillano sotto la mia pelle.
Ora, una macchia nera balla all’orizzonte, si alza e vola via, cavalcando un respiro.

 
  
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