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Autore: Aliseia    18/10/2015    1 recensioni
Su ogni cosa, in alto, al di sopra persino della cupola floreale che sovrastava la Foresta incantata, una luce chiara enorme e rotonda osservava i mobili, ingovernabili intrecci di rami e di cuori.
Un’illusione dello sguardo, un gioco delle ombre e dei chiaroscuri gettati dalle nuvole e dagli alberi, sembrava donarle fattezze umane.
O elfiche.
Ella infatti pareva avere lunghi occhi del colore grigio del temporale, labbra delicate e sottili, lisce guance infantili.
Ancora intatte, nonostante la venerabile età.
Guardava ogni cosa, e comprendeva meglio di coloro che erano impegnati in quel gioco infinito di desideri e speranze.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Galion, Thorin Scudodiquercia, Thranduil
Note: AU, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Eryn Galen'
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Fandom: Lo Hobbit – AU
Genere: Slash - Introspettivo - Romantico
Rating: VM14
Personaggi: Thranduil; Caleloth (OC – “Musical Elf” - Movieverse); Cabranel (OC-Nestadion-Thingalad : Movieverse); Feren (Movieverse); Elros – Elrhoss La Guardia (Movieverse); Galion; Orelion, personaggio gentilmente “prestato” da candiedrobot, della Mirkwood Trash Squad di Tumblr. Un nota particolare per il piccolo fabbro, a cui si accenna di sfuggita, e che è un personaggio originale creato dall’Elfetta di Primavera.

Disclaimer: I personaggi e i luoghi presenti in questa storia in gran parte non appartengono a me ma a J.R.R. Tolkien, a Peter Jackson e a chi ne detiene i diritti.
Note: La festa di Mereth Nuin Giliath è un’invenzione di Peter Jackson, dalla trilogia de Lo Hobbit. Il nome significa “festa sotto le stelle”.
Dedica: Questa storia è dedicata a Ghevurah e all’Elfetta di Primavera. Senza il loro aiuto, le loro idee e la loro ispirazione, questo plot sarebbe diverso, o non esisterebbe affatto.
 
 
Mereth Nuin Giliath
(Satellite of Love)
 
 
La foresta s’accendeva, palpitava, ribolliva di foglie, di gemme, di fiori.
E così erano le tavole imbandite per Mereth Nuin Giliath.
Inflorescenze perfette e mirabilmente orchestrate, armoniosamente composte in una miriade di frammenti che nondimeno erano senza disciplina, poiché dotati di vita propria e di proprie intenzioni.
E ogni particella, ogni minuscola vita, riverberava il colore e il cuore di uno degli Elfi.
C’erano smeraldi traslucidi, d’uno splendido verde.
Essi erano duri e taglienti, eppure in trasparenza rivelavano un cuore mobile, una linfa pulsante di abbagliante vitalità.
Verdi e liquidi e avidi di vita come gli occhi di Caleloth, musico del Re.
C’erano frutti chiari e vellutati, teneri, di cui l’incauto viaggiatore avrebbe voluto sciogliere la polpa sotto la lingua, come con certe delizie dolci e delicate che le servette del Re preparavano nelle cucine.
E, come con quelle, l’esploratore audace non conosceva il rischio, poiché tanta soave grazia era impossibile da dimenticare.
Come l’acuta dolcezza dei baci di Orelion. Ballerino, servitore, guerriero. Maestro di cerimonie.
Il compagno che avesse assaggiato le sue labbra fini, avrebbero pensato forse dapprima di poterle scordare, per la loro delicatezza, che le rendeva discrete e quasi timide.
Si sarebbe illuso, il goloso, di poter volgere altrove lo sguardo, dopo aver goduto con lui. Per la luce buona dei suoi comprensivi occhi verdazzurri, non abbaglianti fino allo stordimento, come quelli di Caleloth, ma lattiginosi e morbidi, come le foglie di ninfee sotto il velo dell’acqua.
Quello però, viaggiatore, compagno, amante, non si sarebbe più liberato dalla tela lieve ma densa di quelle sensazioni.
Finendo fatalmente per lasciarci un po’ di cuore.
C’erano poi fiori dai petali di smalto bianco e azzurro, opere mirabili, come certi intarsi in elegantissime coppe. Fragili e algidi, come gli occhi di Elrhoss.
Oggetti preziosi, di metallo e vetro, tanto precari quanto indistruttibili, solidi nella struttura ma sempre sul punto di perdere la grazia di un chiaro ornamento di smalto lattiginoso.
Alcuni calici di etereo mithril, lunghi esili ed eleganti come i miracoli floreali che li avevano ispirati. Certi piatti attraversati da circolari arcobaleni di gemme, da onde sinuose di perle iridescenti.
Ogni cosa era viva e ogni immagine ne richiamava un’altra.
E se tali immagini balenavano come capricciosi bagliori davanti allo sguardo attento di Galion, le sensazioni ad esse collegate non sfioravano la sua coscienza, mentre con mano esperta sistemava fiori sui tavoli, distribuiva bicchieri lucenti e raffinati calici.
Non un’ombra d’inquietudine, almeno in apparenza, velava il suo bel viso serio, e la leggera ruga che ne attraversava la fronte sembrava solo un segno della sua concentrazione.
Solo uno sguardo più attento avrebbe rilevato il rapido tremolio nei suoi occhi castani, un movimento malinconico, un mobile riflesso di luce su acque scure e profonde.

*

Su ogni cosa, in alto, al di sopra persino della cupola floreale che sovrastava la Foresta incantata, una luna chiara enorme e rotonda osservava i mobili, ingovernabili intrecci di rami e di cuori.
Un’illusione dello sguardo, un gioco delle ombre e dei chiaroscuri gettati dalle nuvole e dagli alberi, sembrava donarle fattezze umane.
O elfiche.
Ella infatti pareva avere lunghi occhi del colore grigio del temporale, labbra delicate e sottili, lisce guance infantili.
Ancora intatte, nonostante la venerabile età.
Guardava ogni cosa, e comprendeva meglio di coloro che erano impegnati in quel gioco infinito di desideri e speranze.
La sua luce era tale da rivaleggiare con l’acuto, freddo splendore delle stelle remote, a cui quella notte era dedicata.
Ella forse non era altrettanto pura. Una sfumatura rosata sulle pallide gote rivelava forse indimenticate passioni. Un molle languore l’avvolgeva come quello di un volto sprofondato tra le lenzuola, dopo una notte d’amore.
Ella non era algida, intatta. Ma dorata e trionfante, screziata come una tigre.
E sorrideva.

*

Una cascata fluida di lucidi capelli dalle sfumature di rame scese dalle bianche mani di Elrhoss. Essi ondeggiarono sulla schiena mentre egli sistemava l’elaborata acconciatura. Oscillarono sulle spalle muscolose, lambendo i fianchi torniti, la pelle ancora tiepida dell’amplesso appena consumato.
Lo sguardo bruciante di Feren ne seguiva ogni movimento, le iridi scure accese di un desiderio che era più tenero, meno urgente di quanto non fosse stato due ore prima. «Vai via? » chiese l’elfo bruno con un sospiro.
Elrhoss, nudo e bellissimo, attese qualche istante prima di voltarsi, lasciando che il languido sguardo dell’altro percorresse ogni particolare del suo corpo perfetto.
Poi girò appena il viso. «C’è una festa, questa sera, l’hai dimenticato?» un seducente sorriso sulle labbra delicate. Voltandosi poi del tutto raccolse i pantaloni, e li indossò con una rapidità non priva di eleganza, il mento alto e lo sguardo splendente di un Principe. Poi, con voce morbida: «È uso, durante la festa di Mereth Nuin Giliath, di chiedere una grazia al nostro Sovrano.»
Feren trattenne il fiato. Poi, afferrando l’altro per i fianchi: «Voglio che Thranduil ti permetta di trascorrere le notti nella Foresta… Nella residenza delle guardie… Sempre che tu voglia…» “Sempre che tu voglia” ripeté affondando il viso tra i morbidi capelli di Elrhoss, raggiungendo poi con le labbra il minuscolo orecchio dell’altro, di cui morse leggermente la punta.
Con le mani nervose e rudi Feren, luogotente del Re, gli invase le vesti.
Elrhoss aveva lo stesso odore della prima sera, fresco, eccitante, ma come addolcito da una nota di trepidazione.  Dall’attesa. Dalla frustrazione.

*

Elrhoss era una guardia di Thranduil, ma un tempo non troppo lontano era stato tra i suoi consiglieri. Ora non più, poiché aveva ricevuto una punizione severa.
Ogni sera il giovane elfo aveva interrotto le proprie mansioni nella Foresta. Aveva lasciato gli altri guardiani, mentre questi ridevano tra loro, complici, intenti a celebrare  splendide feste tra i fiori. Leggeri e danzanti, intorno ai fuochi; tenebrosi e sensuali, nascosti tra foglie e rami. Avvinghiati in amplessi di cui la Foresta avrebbe celato i segreti.
E la condanna di Thranduil gli era sembrata allora così crudele. Lasciarli, lasciare tutti loro, tornare alla rigida disciplina in vigore nelle Sale del Re. A Palazzo.
Credeva all’inizio di aver ricevuto una pena ben lieve. Certo, perdere il ruolo di consigliere era stata un’umiliazione violenta, che avrebbe devastato il vecchio Elrhoss. Il giovane ambizioso capace di sacrificare l’onore dei propri amici e colleghi, sull’altare delle proprie altissime aspirazioni.
Quelle che aveva inseguito per tutta la vita, il prestigio e la visibilità sociale.
Poiché Elrhoss doveva essere il primo.
Il primo tra i Sindar di cui condivideva le nobili origini, ma non la purezza della stirpe.
Il primo tra gli Elfi Silvani, con cui condivideva qualche cosa di ben più importante e carnale: il sangue materno. I capelli fulvi e la natura selvaggia di creature che erano “ meno sagge e più pericolose” di ogni altro Elfo.
Da qualche tempo però l’antica ambizione era cambiata, se non del tutto superata, nell’animo del fiero guardiano.
E sopra le gerarchie, sopra gli onori dei consiglieri, persino sopra il giudizio di Thranduil, per lui c’erano gli occhi e l’approvazione di Feren.
Ogni giorno aveva resistito alle sue provocazioni, ogni giorno aveva subito il suo scherno, o la sua disapprovazione, senza arrendersi, senza vacillare.
La punizione più crudele che il Sovrano gli aveva riservato era probabilmente quella.
Avere accanto la creatura che amava e non poter rivelare né sentimenti né desideri.
Subirne ogni giorno il muto processo e l’amarissima rabbia, senza poter reagire se non con altezzosa quanto falsa indifferenza. Si amavano, sì. Ma senza mai dire parole d’amore.
Almeno fino a quella sera. «Devi smettere di darmi ordini… e con quale tono!» Elrhoss aveva risposto, esasperato, all’ennesimo rimprovero.
«L’unico ordine che vorrei darti sarebbe quello di restare. Per sempre. » Feren si era allontanato di un passo, spaventato dalle sue stesse parole. L’elfo bruno era serio, le fattezze contratte mentre i suoi occhi scuri lampeggiavano: «Se resti con me – aveva detto gravemente, la voce bassissima – è per sempre, Elrhoss. Non m’importa della carriera, del Consiglio… Non m’importa nemmeno di Thranduil. Io non ti divido con nessuno. »
Elrhoss lo aveva fissato prima stupito, gli occhi immensi e più luminosi che mai, e poi decisamente divertito. «Sei pazzo – aveva detto scuotendo il capo – io non appartengo a nessuno. » Ma poi lo aveva baciato con foga.
*
«Per quello che mi riguarda – rispose Elrhoss gelido, raddrizzando le spalle e sciogliendosi dall’abbraccio di Feren – chiederò a Thranduil di riammettermi tra le file dei Consiglieri » Distolse gli occhi e allungando una mano afferrò la tunica che aveva coscienziosamente appeso a un basso ramo. La lasciò aperta sul bel petto glabro, e mentre tornava a guardare uno smarrito Feren, aveva di nuovo quell’espressione sfrontata che gli era usuale. «Questo, naturalmente, mi permetterà di trascorrere le notti dove più mi aggrada. » Un obliquo sorriso gli illuminò il viso, estendendosi anche agli occhi.
Inclinò la testa, portò la mano al petto nudo, e con grazia felina si girò per incamminarsi in direzione del Palazzo.
Feren sospirò, la tunica tra le mani, i pantaloni che scendevano un po’ sui fianchi.
Si sentiva sciocco, ma in un modo così piacevole che sfiorava l’estasi.
 
*
Sotto i raggi del sole che si abbassava all’orizzonte, avvampando, allungando tenere carezze su ogni cosa, Galion confermò alla propria coscienza l’esistenza, la concreta tangibilità di ogni oggetto e di ogni creatura viva sulla lunga tavola imbandita.
Fiori e stoviglie. Argenteria.
Fragili vetri accesi dal sole morente, morbidi ornamenti di gemme già quasi in boccio.
In quella commistione di luci e profumi, in quell’alternarsi di sensazioni fugaci e imprevedibili, e di solida, rigorosa armonia, vide rispecchiata e più volte riflessa l’immagine di colui che aveva voluto cose e creature in quel modo, e non in un altro; di colui che aveva tradotto in tovaglie immacolate e rigoglioso ma perfetto ordine le capricciose, sontuose fantasie di Re Thranduil.
Costui era il maestro di cerimonie, l’elfo Orelion.
 
 
*

Elrhoss sorrideva ancora quando, lasciando la radura in cui si era appartato con Feren, si imbattè nel Maestro di Cerimonie.
"Buonasera , Elrhoss " disse questi con voce bassa e gentile, il consueto splendido sorriso e una strana luce nei chiari occhi verdi.
Per tutto il giorno Orelion aveva attraversato con grazia i lunghi corridoi del Palazzo, con passo veloce ma sempre dignitoso. Con la stessa eleganza era uscito nella Foresta, muovendosi con destrezza nell'intricata vegetazione. Non un sospiro, tantomeno un grido erano usciti dalle sue labbra quando aveva strappato la tunica su spinosi grovigli, o quando aveva ferito i piedi delicati nel crudele scontro con sassi ruvidi e scheggiati, affilati come frecce.
Mai, neanche per un istante, l'Elfo Orelion aveva perso la propria compostezza, il proprio contagioso buonumore.
Una luce tenera brillava nel suo sguardo, una tranquilla sicurezza, priva di qualsiasi alterigia, improntava i suoi modi.
E quella luce era ferma, limpida. Verde e intatta come la superficie di due piccoli laghi, incastonati tra bianche sponde.
Il suo sguardo non tremava mai. Nemmeno di fronte agli imprevisti, all'insubordinazione di un servo impulsivo, alla svagata inaffidabilità di una giovane serva innamorata. Neppure sotto l'esame gelido e implacabile dei chiari occhi di Thranduil.
Nulla, in quella lunga giornata, aveva turbato l'intrepido sorriso di Orelion.
Nulla, fino all'incontro con la giovane guardia che ora, davanti a lui, con gesto tranquillo si chiudeva la tunica sul petto.
Il sorriso di Orelion si velò, come un vetro che incontra il fiato di un amante.
E tale era stato Elrhoss per lui, nel periodo in cui la Compagnia di Thorin Scudodiquercia era giunta nel reame boscoso.
Fino a quella sera in cui, approfittando della Festa, del vino, della leggerezza di Galion e della colpevole mancanza di Elrhoss, i Nani erano scappati.
Nei giorni successivi Elrhoss era stato sfuggente e strano, di un’indifferenza quasi crudele.
E con ancora più crudeli ma sobrie parole qualche giorno dopo si era presentato a Orelion, per comunicargli che la loro relazione era finita.
Con la stessa fredda e impenetrabile espressione che assumeva da quando era stato nominato Consigliere.
«Elrhoss…» mormorò Orelion. E i suoi occhi, come il suo sorriso, si adombrarono.
Elrhoss impallidì, il suo corpo ebbe come una scatto, Orelion non sapeva se per scappare o per corrergli incontro.
Poi la guardia si fermò, alzò il mento con decisione, anche se nei suoi occhi chiarissimi brillava una luce tremula.
«Orelion… - sospirò – Elmeril…» A quell’ultima parola, uscita in un morbido sussurro, Orelion arrossì violentemente.
Elrhoss sbatté gli occhi, scosse la testa per poi chinarla. «Scusami … -mormorò – non mi è più concesso di chiamarti in quel modo. Rosa stellata. Eppure le tue guance hanno ancora lo stesso colore, quando un’emozione ti sfiora. Hanno il colore dell’alba… Come se una splendida rosa, screziata di cremisi, sbocciasse ai primi raggi del sole, conservando però il ricordo della pallida luce stellare » Elrhoss rialzò il capo, sorrise.
Con sicurezza sorniona, seppure tenera, alzò due dita a sfiorare le gote vellutate del Maestro di Cerimonie. A quel gesto anche Orelion ritrovò il proprio sorriso, ancora più dolce per via del rimpianto.
Alzò una mano per sfiorare quelle dita sfacciate, le intercettò senza bloccarle.
«Il sussurro di una stella – mormorò il biondo elfo – sempre lieve e seducente, ma capace di fare male…»
Elrhoss s’adombrò, due solchi sottili si formarono tra le sue folte sopracciglia castane. «Perdonami.» disse poi distendendo la candida fronte.
Il suo sguardo era limpido, sincero.
Orelion si avvicinò, abbassò la fronte fino a sfiorare quella del suo antico amante.
«Chi può rifiutare la bellezza? Chi può restare in collera con la bellezza? » Le loro fronti si toccarono, tiepida quella di di Orelion, più fresca quella di Elrhoss.
«Anche se – disse Orelion raddrizzandosi velocemente, e forse arrossendo ancora – la bellezza è volatile… E per me ora è più seducente la solidità…  - » Due deliziose fossette si formarono sulle guance del maestro di cerimonie, e i suoi dolcissimi occhi verdi, del colore delle foglie di ninfea, brillarono di malizia.
Con aria attenta e sguardo acuto Elrhoss studiò la scena, vagando lontano con occhi che all’improvviso diventavano predatori e notturni. E da remoto lo scorse, altissimo e solido, lento e solenne nei movimenti. Vide la bella figura imponente di Galion, e capì.
Anche gli occhi di Elrhoss s’accesero di malizia. «E lui lo sa?»
Orelion scosse la testa, rise un po’ imbarazzato. «Intuitivo e indiscreto… Non sei cambiato»
«Oh, sì… - mormorò Elrhoss – E spero in meglio… Tu invece… Eri già perfetto» con grazia felina si avvicinò all’orecchio dell’altro, gli occhi che luccicavano, e le ultime parole furono davvero solo un sussurro di stella: «Ti ho amato, sai…E mi reputo fortunato, poiché sono stato amato da te. … E così deve sentirsi chiunque abbia questo onore…» Un bacio leggero sulla guancia, e si staccò da lui.
Orelion lo fissava, gli occhi lucidi e le labbra che un po’ tremavano.
 
E così li trovò Galion, che si era avvicinato senza sospettare nulla, solo per consultare Orelion sull’utilizzo di certe stoviglie.
La splendida zuppiera di porcellana, bianca e cremosa come un fiore, pendeva leggermente inclinata  dalla sua mano, il coperchio in bilico.
Nell’altra mano un tondo piatto di porcellana, delicato come schiuma, era invece talmente stretto tra le ditta che ne artigliavano il bordo che sembrava sul punto d’incrinarsi.
Un bianco scudo che il bruno servitore sembrava in procinto di lanciare, allo scopo di atterrare il guerriero che aveva di fronte.
Il nemico che aveva suscitato tale reazione era invero piuttosto coraggioso, ma la lunga esperienza e l’intelligenza pronta gli suggerirono che era il momento di battere in ritirata. «Torno a Palazzo – disse. E piegando seccamente la testa – Buonasera Galion. Buonasera, Orelion…» la sua voce si addolcì sull’ultimo nome, portò una mano al petto e nei suoi occhi guizzò una luce d’intesa.
Orelion sorrise, rispondendo con lo stesso gesto rispettoso. La sua mano indugiò appena un attimo in più del dovuto dalla parte del cuore. I suoi occhi avevano il chiarore dell’acqua sfiorata dalla splendente luna, tra foglie di ninfee. «Buonasera, Elrhoss»
Questi si allontanò con un grazioso cenno del capo, senza più guardare l’altro.

*

Galion piegò appena la testa, le labbra strette. A Orelion non sfuggì il suo disappunto per quell’incontro imprevisto, e il servitore non fece nulla per nasconderlo. D’altra parte, la sua antipatia per Elrhoss era cosa nota. Un sentimento abbastanza recente, a dire il vero, che datava dalla sera in cui erano scappati i Nani. Prima di allora tra lui ed Elrhoss non c’era mai stata molta confidenza, ma i loro rapporti erano amichevoli.
L’ambizioso consigliere era una gradevole compagnia, e un affascinante collega di bevute.
Ma persino Galion, che era ingenuo, appassionato ma semplice, aveva intuito che in quella terribile serata era accaduto qualche cosa di strano. La freddezza di Elrhoss nei giorni successivi lo aveva in principio mortificato, e poi sempre più insospettito.
Fino a che anche a lui erano giunte certe voci, di tradimenti e di confessioni impreviste, di scandali e di macchinazioni.
E poi il temerario Elrhoss aveva perduto la sua carica di consigliere. Ce n’era abbastanza anche per uno spirito puro come quello di Galion.
E ora… Ora che Galion era riuscito a recuperare almeno una parte della propria traballante autostima, quell’elfo sfrontato, con lo sguardo gelido da predatore, piombava ancora nella sua vita.
Senza attenzione, senza premura per la trascurabile persona del servitore, solo per il gusto di privarlo di… qualche cosa che era suo. A quel pensiero Galion  sussultò, l’elegante coperchio scivolò via dalla zuppiera, mentre il robusto Elfo si agitava e nel tentativo di afferrarlo lasciava cadere anche il piatto.
Fu la prontezza di Orelion a evitare il peggio, poiché avvicinandosi rapidamente a Galion, con un elegante volteggio prese al volo le fragili stoviglie.
Galion sembrava paralizzato, gli occhi scuri saettarono obliqui, senza che egli si decidesse a commentare l’imbarazzante situazione.
La risata di Orelion fu come musica. «Eru… avevo pensato di invitare qualche giocoliere… Ma non pensavo di dare spettacolo io stesso!»
Quel suono, quella voce dolce e insieme decisa, sollevarono l’animo di Galion come avrebbe fatto un sorso di miruvor in un corpo affaticato e offeso.
«Scusate, Mastro Orelion»
Mastro Orelion, il maestro di cerimonie… Per Galion non c’era una creatura più affascinante sotto la luna di Mereth Nuin Giliath.
«Non hai nulla di cui scusarti – rispose Orelion con calma – Vorrei anzi dirti grazie per tutto il lavoro che hai fatto questa sera.» la morbida voce di Orelion aveva una sfumatura di seduzione, e questa cosa gettò Galion nel panico più completo.
No, non poteva pensare che lo splendido sorriso, e gli sguardi lucenti, fossero proprio per lui.
Il più umile e maldestro dei servitori. Mai e poi mai Galion si era sentito degno di aspirare anche solo alla contemplazione di una tale grazia perfetta.
E… «Sarà una lunga notte, Galion… Potremo riposarci soltanto all’alba… - Orelion fece un passo avanti - Conosco una radura, a ovest, uno splendido rifugio appartato, fra rose selvatiche. Lo chiamo il mio “giardino segreto”, anche se non ho dubbi che sia frequentato anche da altri… Si dice che quelle rose siano meno belle delle meraviglie che fioriscono a Imloth Melui, tanto amate dal nostro Sovrano…Ma io trovo che siano di una bellezza diversa. Notevole, proprio perché esse sono semplici, modeste, e inconsapevoli del proprio fascino… » Con un altro passo leggero Orelion fu di fronte a Galion, e con un gesto grazioso gli porse il piatto e il coperchio ancora stretti tra le sue pallide mani.
Galion pensò per un attimo che egli volesse aggiungere qualche parola, in gran segreto, poiché il suo viso era così vicino… non era dunque pronto, quando Orelion posò un fresco, rapido bacio sulle sue labbra.
Poi, con la stessa soave eleganza quegli si voltò per andarsene, mentre Galion paonazzo e confuso cercava di balbettare una risposta coerente. Ma tutto quello che gli uscì dalle labbra fu un suono inarticolato, nel quale tuttavia Orelion ebbe l’impressione di distinguere le parole “fiori” e “vino”.
Sorrise tra sé, senza voltarsi, e intese tali parole come un “sì”.
 
*
 
Mereth Nuin Giliath era la festa del Languore e del Desiderio. Essa cadeva una volta l’anno, per celebrare la fine dell’ Autunno e l’inizio dell’Inverno.
Erano giorni dolci e crepuscolari, che a Thranduil erano molto cari.
Quest’anno però il pallido Elfo regale aveva più di un motivo per odiare la ricorrenza.
Poiché molti mesi prima, sulla soglia dell’Inverno, il suo amante aveva lasciato la selva protetta di Bosco Atro per affrontare il fuoco crudele del Drago. Il suo nome era Thorin Scudodiquercia.
E ora, mentre gli Elfi tornavano a vedere le stelle di Mereth Nuin Giliath, tutto il mondo credeva che il fiero Thorin e i suoi nipoti fossero morti.
Thranduil sapeva bene che ciò non era vero. Che lunghi mesi di cure, di rituali, di studi appassionati e di intrepidi viaggi spirituali avevano riportato il Nano e la sua progenie tra i vivi.
Ma, ancora prima che le creature a lui affidate tornassero allo stato cosciente, l’orgoglioso Re aveva concesso agli altri Nani di portarle via, affinché terminassero la convalescenza tra le premure e le riservate attenzioni della loro gente.
E in questa splendida sera sulla soglia dell’Inverno, il Re di Bosco Atro era ancora solo.
*
Cabranel entrò nella radura col passo leggero di un gatto.
Thranduil, in disparte da tutti, col volto rivolto alla luna, sembrava imbevuto di luce astrale.
Nei suoi occhi remoti danzavano intere galassie. Ed egli era di una malinconia estatica, mentre si crogiolava allo splendore di quella luce antichissima e pura, fondendosi con essa.
«Mio Signore » mormorò Cabranel. E a Thranduil non sfuggì quanto calore impregnasse quel “mio”.
Il Sovrano portò le mani al petto, che era nudo, poiché non aveva allacciato la bianca tunica.
«Cosa vuoi, mio Cabranel?»
«Nulla» rispose l’altro venendo un po’ più vicino. Senza aggiungere altro la guardia si sedette con la schiena appoggiata ad un nero tronco.
Thranduil si voltò, lo guardò. Poi sorridendo e con grande grazia si sedette anche lui. Proprio davanti a Cabranel, la schiena appoggiata al petto del guardiano, i fianchi premuti contro di lui.
Cabranel piegò le lunghe gambe, quasi a formare un rifugio e un giaciglio per il proprio Re, che senza parlare poggiò il capo sulla sua spalla.
Thranduil sospirò sulla candida pelle che affiorava dallo scollo della tunica nera. Con un sorriso vide quella pelle di seta incresparsi in un brivido, e vi posò un bacio casto.
Il sospiro di Cabranel fu meno languido, più sonoro e profondo di quello del proprio Re. La sua mano esitò per un attimo nell’aria argentata, poi scese a sfiorare i capelli biondissimi che gli inondavano il petto.
E rimasero così, in silenzio.

*

Aurethel correva, inciampando frequentemente in sassi, radici, persino in certe irrilevanti asperità del terreno, invisibili ai più. Che non avrebbero intralciato nessuno… tranne lei, la cui vita era costantemente una corsa irta di ostacoli.
Vestita solo di una tunichetta leggera, le lunghe gambe pallide e snelle come quelle di un airone rosa, ella era comunque una visione di una tale grazia e bellezza che era impossibile irritarsi per la sua maldestria.
Molti misericordiosamente la afferravano al volo, evitandole così danni peggiori. Alcuni le sorridevano.
Qualcuno, sfacciato, arrivava a proporle di trascorrere insieme quella notte incantata.
Ma nulla, né la vergogna né l’indignazione, tratteneva Aurethel per più di un attimo, in cui la fanciulla inalberava un sorriso o un broncio offeso, per poi riferire invariabilmente: «Questa sera devo cantare». Come se la consapevolezza di tale evento dovesse porre fine a qualunque discorso, che fossero scuse imbarazzate o il piccato rifiuto di profferte amorose.
Lo disse anche al giovane Elfo che la tratteneva con forza, mentre lei distrattamente tentava di superarlo. «Lo so, Aurethel… Canterai con me» La bella guardia sorride, trasformando la stretta in un affabile abbraccio.
«Oh, Caleloth! – esclamò lei illuminandosi – cercavo proprio te!»
Il giovane intravide un oggetto brillante tra le mani della ragazza, una scatolina di mithril, finemente cesellata, e con tre splendidi smeraldi incastonati sul coperchio minuscolo.
Di certo il regalo di un innamorato.
Caleloth distolse lo sguardo. «Dobbiamo provare, non credi?» chiese il giovane con dolcezza.
«Oh, sì, certo… ma quell’Elfo bruno…»
Caleloth aggrottò la fronte. Aveva appena incontrato Elrhoss, e le sue parole soavi e i suoi sguardi pieni di languore lo avevano incuriosito.
Evidentemente in quella magica sera gli amanti più testardi e tormentati di Bosco Atro avevano conosciuto un attimo di tregua e di riconciliazione.
Il giovane Elfo era felice per loro, poiché era di animo generoso e puro. Chiaramente quel gingillo, quello scrigno delicato come una gemma pronta a sbocciare, era un regalo del bruno Feren per l’algido e affascinante Elrhoss.
Non c’era sera più bella, per scambiarsi pegni d’amore.
Non per lui, però. Non per Caleloth, né per il suo amante. Questo era ovvio.
L’elfo dagli occhi verdi era stato recentemente e più volte disturbato, persino offeso, dal comportamento di Cabranel.
La malizia della bruna guardia nei confronti di Elrhoss, la sua incorreggibile propensione ad amoreggiare con tutti, persino con Aurethel, a cui nel corso della serata aveva più volte indirizzato segnali d’intesa…
Il suo legame indissolubile, eterno con il Sovrano di cui era stato l’amante…
C’era stato un tempo in cui Caleloth aveva sopportato tutto questo senza fiatare, ingoiando malinconia e qualche lacrima, ostentando sorrisi comprensivi e spargendo carezze e buone parole.
Ma era venuto il momento di dire basta. Cabranel sembrava avere un debole per qualunque creatura lo sfidasse e lo rifiutasse. Thranduil, Elrhoss, e chissà quanti altri. Forse era lui il bruno guardiano che aveva commissionato quel delicato gingillo, che con un seducente tintinnio rivelava qualche cosa di ancora più prezioso all’interno… Chissà quale misterioso amante lo avrebbe raccolto dalle pallide mani di Aurethel… O forse no, forse era destinato proprio a lei, la più leggiadra creatura del Regno. A prima vista la fanciulla non era il tipo del tenebroso guardiano, ma da lui Caleloth si aspettava di tutto.
Ed era stanco. Glielo aveva detto con calma e con gli occhi asciutti, poche ore prima della festa.
E Cabranel non si era degnato neanche di replicare. Ma, dritto e impassibile, gli aveva voltato le spalle, mormorando soltanto: «Come vuoi tu, Caleloth» Per poi ignorarlo ostentatamente per il resto della giornata.
Proprio ora, mentre Aurethel con vocina affannata investiva Caleloth con le sue spiegazioni, il bruno guardiano passava dietro di loro, guardando dritto davanti a sé. Solenne e altezzoso, senza degnarli neanche di un cenno.
La sua alta, scura figura, sparì rapidamente dalla vista del giovane Elfo, inghiottita dall’oscurità.
«Ma vedi, io non so se la mia voce sia abbastanza acuta per raggiungere quelle note, così alte, Caleloth… Alte al punto che persino la Luna in cielo potrà sentirle… - Aurethel rise – Ma… ecco, io non ti cercavo solo per questo… Un giovane Elfo, un fabbro… ma credo che abbia anche l’abilità di un orafo… mi ha consegnato questo piccolo oggetto… molto bello, se posso dare un giudizio. Pare che sia stato commissionato da quell’elfo un po’ antipatico, quello sempre vestito di nero, a me fa un po’ paura, e che al suo interno sia racchiuso un gioiello mille volte più bello e… devo consegnarlo a te! Cabranel ha detto… oh, ma non era lui poco fa? » Aurethel fece una giravolta, e Caleloth dovette preoccuparsi di afferrarla al volo per la vita, mentre con l’altra mano riceveva la piccola scatola di mithril.
Sul coperchio erano finemente cesellati, in un angolo, un corvo e una stella. Tre smeraldi incastonati al centro raffiguravano due foglie e un fiore in boccio. Un fiore verde.

*

Cabranel ricordava.. Il suo amante aveva curve d’alabastro e occhi del colore delle foglie.
Foglie nuove, bagnate, come le sue cosce imperlate di rugiada, ombreggiate dai lunghi grappoli dei glicini in fiore.
Le guance del ragazzo, adombrate da quella pioggia violetta, s’erano accese di pudore e di desiderio. Le grandi mani di Cabranel avevano stretto con fermezza i suoi fianchi. «Che cosa stai cercando, fiore verde? Qui non c’è nulla, per te, solo dispiaceri»
«Cerco il sollievo che solo tu mi puoi dare… e se per averne dovrò soffrire ancora, allora cercherò con gioia anche il dolore…»
Cabranel ricordò. La Foresta mormorava in attesa, il suo orecchio attento attendeva i soffici passi del suo intrepido amante…

*

Nel buio Thranduil sorrise.
Poi con un sospiro si alzò. Le lunghe mani delicate passarono sul lino bianco dei suoi pantaloni, allacciarono la tunica sul petto candido.
Con passo lento e solenne si addentrò nella Foresta, per raggiungere la festa.
 
La Luna, candida pozza di desideri e languori, sorrise dall’alto su ognuno di loro.
Su servi e guardie affaccendati, su amanti incorreggibili e scontrosi, sulle loro ansie e sulle loro paure.
Su un giovane Elfo che ora correva, stringendo nel pugno l’immagine di un Fiore Verde.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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