IV.
L'aquila
e
il serpente
Un mare grigio separa cielo e terra, dalle soffici onde che si infrangono senza suono sulle cime d’Olimpo.
L’odore
umido della pioggia attraversa la finestra e aleggia nella stanza,
mescolandosi alla fragranza penetrante dei fiori di loto [1].
Distrattamente, Zeus strofina una ciocca scura sul morbido candore del
braccio di Era che, disturbata nel sonno, gli dà le spalle,
strappandogli via il lenzuolo.
Abbassa
le palpebre sugli occhi ancora appesantiti dal bacio di Morfeo,
tendendo l’orecchio per cogliere il frusciare sussurrato
dell’acqua – Kore che gli parla senza parole.
Curioso
fatto, nessuna lamentela gli è giunta all’orecchio per
quell’interminabile rovescio primaverile. Helios, pigramente
sospeso sui i loro capi, e così affannato a insinuare
l’occhio luminoso negli affari mortali, non ha fatto motto sulla
cortina di nubi che gli blocca lo sguardo; né i Gemelli [3],
tanto ligi al dovere, levano le voci per reclamare i loro diritti sulla
Volta Celeste. Gea, sempre pronta a lagnarsi di questo e di quello, non
dà segno di ribellione e lascia che le gocce sciolgano il
cappuccio nevoso e bagnino il viso, bevendo con la gola spalancata.
È tiepida,
la Primavera, riporta Hermes, di ritorno dai suoi viaggi fra Cielo e
Terra, ma la pioggia è gelida – e c’è
qualcosa di pacato, nel suo tono, scevro dal solito canzonare.
Impossibile
dire quanto ancora durerà tanta mitezza dalla sua stirpe
polemica. È bene godersi quel temporaneo dono di Eirene, quella
quiete intorpidita e intorpidente quanto il profumo ritrovato degli
abbracci di Era. [4]
Zeus
costringe un sospiro tra le labbra serrate, aprendo gli occhi
lentamente. La vista per un attimo annebbiata, pure distingue i
contorni della figura ritta di fronte al klinè. Rapide sbattono
le palpebre e Zeus si alza a sedere, sicuro che non si tratti di
un’illusione; i muscoli, sotto la pelle, si tendono
impercettibilmente, e non si sforza di celare l’espressione
irritata mentre, il più silenzioso possibile, abbandona il letto
senza voltarsi, sperando nel sonno pesante di Era e certo di venire
seguito.
Oltre
le porte del tàlamo, cerca i figli di Styx senza trovare traccia
dei loro capi biondi ma inghiotte lo sdegno - c’è tanto
tempo per pensare a una punizione adeguata – e si volta,
schiaffeggiandola con la propria nudità.
« Dov’è il fanciullo? »
Le
braccia a croce sul petto generoso, gli occhi di Demetra sono le zanne
snudate di un serpente, pronti ad affondare e mordere. Non lasciano i
propri, e in essi, seppur così diversi dal liquido sguardo di
Era, arde la medesima collera.
Zeus pensa, in fretta.
« Ovunque io desideri che egli sia »,
replica, poiché non c’è gentilezza che possa
ammansire quella sorella sfuggente – la più affine a Gea
per indole e temperamento.
« Deve stare con sua madre », è la risposta secca, il viso brunito, increspato, pulsante di icore. « Bella considerazione le hai offerto sinora, e protezione alcuna contro i pericoli del mondo. Non contento, le sottrai l’unica consolazione dall’oltraggio che ha dovuto subire.»
Non
imbraccia più l’arco, Demetra, o la lancia, ma
l’aratro; non guida agili cavalli alla battaglia, ma pigri buoi
nei campi. Eppure, ancora gli si ribella, fiera come quando non copriva
ancora il bel corpo di panni da graia… [5] e irrispettosa, come
una sposa mai sarebbe potuta essere.
« Ho ben considerato il destino di mia figlia e così ha fatto lei, con una saggezza ben maggiore di quanto tu dimostri, Demetra.» Il
tono duro, di rimprovero. Ha domato Gea, domerà anche Demetra -
per volere o per forza. Che però si avvicina, il mento
sollevato, gli occhi fissi nei suoi in atto di pura sfida.
« Ci ho pensato, invece, amato fratello.» L’ultima parola è una stilettata familiare. « E, a mio giudizio,
il tuo prezioso onore di padre vale nulla contro la felicità
della mia sola bambina. Ma hai ragione: come potresti capire, tu, che
ti riproduci con la voracità di una fiera in primavera? »
Le
guance di Zeus si imporporano di sdegno, le dita gli tremano dal
desiderio di ghermirla e scrollarle via l'insania dalla mente: è
il suo re, se davvero non lo considera più un fratello (o un
amante). Non è creatura che trattenga gli appetiti o dalle
tentazioni; dunque la afferra per le braccia, affondando i polpastrelli
nella carne morbida, nella pelle calda (quanto la ricordava. Quanto
quella di Kore).
« Silenzio! », intima secco, sibilando come una serpe, gli occhi assottigliati dall’indignazione. « E’ qui che ti inganni: nel pensare che il tuo giudizio abbia qualche peso paragonato al mio! Il bambino crescerà al sicuro, lontano da occhi indiscreti; Kore riprenderà la sua vita, lontana abbastanza da non rappresentare tentazioni per noialtri. Che altro vuoi di più da me, dea? Già troppa magnanimità di ho dimostrato in passato, permettendoti di vivere tra i mortali come una ninfa qualsiasi! »
La
sta scrollando, ora, ma Demetra non demorde né si divincola. Non
v’è timore nel suo sguardo, e le guance di Zeus si
arrossano di più, e la rabbia suona la sua lingua come uno
strumento.
« Kore è una figlia più devota di quanto mai tu sarai sorella, e sa bene quale sia il suo posto; è ora che impari quale è il tuo! »
Una
strana sensazione lo attanaglia, e pure se è Demetra che le sue
mani stringono, quasi gli pare di avere di nuovo la cedevole forma di
Kore tanto vicina – che gli manca, quasi avesse dato via un pezzo
di sé abbandonandola. La pioggia scorre sotto di loro, attorno a
loro, senza spegnere la sua ira, ma macchiandola di malinconia acre.
« Tu scambi l’impotenza per consenso! », replica Demetra, per nulla placata. « Che consenso può esserci di fronte a suo padre, di fronte al suo re? Noi tutti dobbiamo piegarci al tuo arbitrio, e, quando è scomodo per te dare un giudizio, tanto felicemente ci abbandoni nelle mani di chi è sotto di te, sotto di noi, persino! Ma no, non io, e non mia figlia. »
« Sarebbe potuta andare in modo diverso, per te, se in passato avessi fatto scelte più savie. »
La risata di lei è bassa, e gelata. « E
finire al posto di Era, a procreare i tuoi eredi e subire i tuoi
tradimenti? Preferire, come avrei preferito allora,
l’Averno! »
È vicinissima, ora, e i loro respiri si mescolano, concitati in quella battaglia sussurrata. « Non il mare, Demetra? », domanda, poiché sa come ferire.
Se
l’espressione di lei si vela, è solo un attimo; un lieve
tremolare di labbra, di nuovo in una dritta linea coraggiosa.
Il
capo di Zeus duole, quanto doleva quando Atena premeva per uscirvi;
dimentica Era, nell’altra stanza, e ogni prudenza – e si
china, preme la bocca contro quella di lei, assetato, la pioggia ancora
nelle orecchie.
Non è come baciare Kore.
Non
c’è bisogno affamato, in Demetra; i denti di lei affondano
nelle sue labbra, ma Zeus non la lascia, la preme contro di sé:
perché ha goduto, ad averlo dentro, una volta; perché
è bene che ricordi che è stata debole, al suo cospetto,
che gli si è offerta; perché l’abbraccio di Era
è tanto distante – e Kore tanto presente.
Gli
pare che ceda, Demetra; e appena ha tempo per un folle gioire, che
quella lo batte, imprimendo l’ombra delle dita sulla sua grancia,
sullo zigomo.
Lo stupore lo fa sussultare – e sua sorella gli sfugge, rapida, sguscia via.
« Sai ancora di lei », gli sputa tra i denti. Disgustata. Ma, subito, si riprende « Fai dunque come credi, divino Zeus.» Nello sguardo, una dichiarazione di guerra. « Chiniamo il capo ai tuoi ordini. »
La
mente di Zeus sta tornando sua, scivolando dalla stretta della rabbia;
guarda Demetra, per un attimo ancora confuso – la lascia andare,
come quella prima volta, tanto tempo fa. Come allora, fissa
l’orlo del suo abito finché non sparisce, ed è
solo, di nuovo. Di nuovo in controllo di sé.
Non
ha che un attimo di requie, tuttavia: bianche braccia serpeggiano
attorno ai suoi fianchi nudi; il calore di un corpo contro la schiena,
l’odore dei fiori di loto.
« Dove sono i figli di Styx? »,
domanda Era, la voce bassa del primo mattino, rauca come quella di un
gatto. Zeus scuote il capo, lesto a riprendersi, a posare le mani
enormi su quelle piccole di lei, e carezzarle.
Non riceve che un cenno vago, in risposta, ma se lo trova curioso, lo tiene per sé.
« Cosa fai già alzato, caro sposo? » chiede
allora, e si districa, per andargli di fronte; lo osserva, liquida,
placida, e non ha bisogno di parole. “Ah… il solito mal di
capo. Vieni, vieni a sdraiarti. » Allaccia un braccio al suo, sollecita. Zeus non si lascia guidare, ma la scruta dietro il sorriso rassegnato.
« Temo, con mio grande cordoglio, di doverti lasciare ora, mia amata. » Una vaga nausea gli chiude la bocca dello stomaco; nonostante ciò, le carezza la chioma scura, libera. « Il mio mattino, purtroppo, sarà piuttosto pieno. »
E intenso.
Si
lecca le labbra, con discrezione, prima di chinarsi a baciare in scusa
quelle di Era: il sapore suo e di Demetra si mischiano, nella sua bocca.
Si
è concesso sin troppo tempo. Aquila e drago non possono
coesistere: nessuno può vivere, se l’altro sopravvive. [6]
NOTE:
[1]: Fiore sacro ad Era, in quanto simbolo di primavera e rinascita.
[2]: In quanto personificazione della primavera, ho pensato che Kore controlli la stagione anche dal punto di vista climatico, e dunque possa comunicare attraverso la pioggia con Zeus, che di essa è la divinità.
[3]: Apollo e Artemide.
[4]: In alcune varietà, il loto non solo ha un profumo stordente, ma anche proprietà soporifere.
[5]: Letteralmente, "vecchia". Le Graie sono divinità nate coi volti di donne anziane e le chiome canute.
[6]: Una storica citazione da Harry Potter: Il prigioniero di Azkaban, di J.K. Rowling.