One shot – Shelly
Londra, d’autunno.
Pov Sherlock Holmes
“… e vissero tutti, felici e contenti … Elly, dormi già?”
Sorrido.
Lei è bellissima, nella culla, che John e Mary avevano scelto, in un negozio, poco distante da qui.
Con
noncuranza avevo accettato i loro ringraziamenti commossi, così
l’invito a cena, nella casa, dove Watson si era trasferito, dopo
il matrimonio.
Un
pasto ricco di portate, Mary voleva fare bella figura, ci teneva
davvero ed io continuavo a fare il superiore, l’indifferente,
quando mai avevo assaporato il calore di un focolare domestico, di un
brandy davanti al caminetto acceso, dopo, insieme a John, che mi
parlava dei suoi nuovi e noiosi pazienti.
Nel
quartiere era già stimato, non me ne stupivo, però mi
ritraevo e contorcevo, quasi come un rettile raro ed intrappolato in
un’ampolla di vetro, così trasparente, che a lui io non
potevo mai nascondere nulla.
Mi guardava, con tenerezza e rammarico, ancora dispiaciuto per avermi abbandonato.
Era la sua vita.
La sua, con Mary, che ci spiava dalla cucina.
Fu lì, che mi reclamò, con una scusa.
E
proprio lì si raccomandò, dopo avermi catturato la mano e
costretto a posare una carezza su quel pancione buffo, di prendermi
cura di John e del figlio, nel caso qualcosa fosse andato storto.
Mi
incuriosì, in quell’espressione, un po’ cruda,
maschile, come se stessimo parlando di una delle mie strategie, per
incastrare un qualunque delinquente o risolvere un intricato mistero.
Annuii, più per accontentarla, ma l’inquietudine, che provai, mi gelò il sangue.
Lei morì.
Di parto.
Un presagio?
Forse.
Elly riposa, in un mondo di sogni, ha solo due anni e vive qui, nella nostra dimora storica, da quando è venuta al mondo.
È stato traumatico e poi altrettanto naturale, che John tornasse da me.
In
queste stanze, dove chi si fidava di lui, avrebbe compiuto una sorta di
processione, da quel momento in poi, per farsi curare, per un consiglio.
Ero fiero di Watson, ancora una volta.
Come se fosse mio.
Cosa
avrebbero detto, mi domandai, risistemando le sue cose, mentre lui, in
lacrime, non smetteva di lamentarsi per Mary, per non averla salvata?
C’era
la nostra padrona di casa, Mrs. Hudson, c’era pur sempre una
donna tra i piedi, riflettevo, quindi la buona società avrebbe
semplicemente concluso che Watson non poteva dimorare laddove
c’erano troppi ricordi dolorosi, che era un vedovo esemplare, che
rispettava la memoria della moglie, evitando contatti femminili dopo la
sua scomparsa, che lavorava con abnegazione, per fare crescere Eleanor
negli agi più assoluti e che sì, condivideva gli alloggi
con quel pazzo e strampalato detective privato, quel tale Sherlock
Holmes, un burbero scapolo, che nessuna signora della Londra bene,
avrebbe mai accettato in qualità di coniuge.
Così ingestibile ed insopportabile.
Il dottore, la governante/balia ed il bisbetico indomabile.
Ed Elly, che mi chiamava zio Shelly, pronunciando la z così bene.
Era sveglia, vivace, mi somigliava in fondo, no?
Che patetico … Così chiudo il libro delle favole ed esito ancora un attimo, sulla soglia, ad ammirarla.
Somiglia a John ed ha gli occhi di Mary.
Li ricordo bene.
Durante le lunghe passeggiate, durante la sua gravidanza serena.
Niente avrebbe lasciato presagire un così tragico epilogo.
Mi scriveva sovente e ci incontravamo.
Avevamo in comune John, lei completamente io nei miei sogni più proibiti.
Solo
rari abbracci casti, Watson non mi aveva mai concesso di più,
neppure quando mi ritrovò, dopo avermi creduto morto e sepolto
tra le acque delle cascate di Reichenbach, perito ed avvinghiato al
professor Moriarty.
Lo
avevo colto in lacrime, di gioia, mentre lo comunicava a Mary ed il
sollievo, che si palesò nel suo sguardo, come se John avesse di
nuovo un motivo per vivere.
Nemmeno quando seppe di diventare padre, aveva reagito con tanto impeto emotivo, Mary me lo rivelò.
Senza rancore.
Era così sincera da imbarazzarmi.
Era limpida, non giocava con le parole.
“John
ti ama e non lo ammetterà mai: si è costruito un bozzolo,
con me vicina, però non è ciò che vuole: si
strugge, nel ricordo di te, Sherlock e sarebbe impazzito, se non fossi
riapparso”
Aveva iniziato a darmi del tu, all’improvviso, come le sue scioccanti confidenze, a cuore aperto.
Avevo pianto, sulla panchina, dove ci eravamo seduti.
Lei
mi aveva preso le mani, con vigore – “Non arrenderti con
lui, non lasciarlo, anche se so che tutto ti è insopportabile,
vero?”
Sì, aveva piena ragione.
Io mi spegnevo, lui viveva.
Tornare a lavorare su alcuni casi, in coppia, non mi era bastato.
Lui correva, io arrancavo.
Le nozze, la paternità, io ero escluso da ogni dettaglio, da ogni giorno.
Gettarmi
in quell’abisso, non era stato il gesto eroico per giustiziare un
assassino di livello ed intelligenza superiori, come Moriarty,
bensì un suicidio, un addio, a quel mondo, dove per me non
c’era più posto, senza la presenza costante di John al mio
fianco.
Le
acque erano gelide, ma non quanto le frasi di circostanza, di Watson,
dopo avermi consegnato l’invito per la cerimonia, dove avrebbe
impalmato Miss. Morstan, quanto la odiai …
E quanto sbagliavo, su di lei.
Forse
l’ho amata più di John, sentendola vicina, mentre si
lagnava del peso, delle nausee, del gelo, sceso tra lei ed il marito,
tra le lenzuola e quel senso di sollievo, ravvisato in Watson, per non
doverla toccare più, perché incinta.
Ci
eravamo divisi anche la sua freddezza, il suo essere spietato, quando
John prendeva una decisione, quando sceglieva o si sacrificava.
“E’
svilente …” – aveva mormorato Mary, appoggiando la
guancia sinistra, alla mia spalla destra, ancora su quella seduta in
granito altrettanto glaciale, al parco, quel pomeriggio.
“Lo
so bene, sai?” – e le avevo sorriso – “Ma dopo,
vedrai, andrà meglio, quando il bambino nascerà, avrete
nuovi progetti, uno scopo solido, da curare, amare, crescere”
Cosa diavolo stavo farneticando?
Proiettavo su di lei, ciò che io ambivo.
A quel punto, ero persino ridicolo.
Mary,
al contrario, mi ringraziò, perché sì, io avevo
buon senso e lei era unicamente esaurita dal periodo di gestazione.
Ci prendevamo in giro a vicenda, ma era persino divertente.
Cominciammo a ridere e non so bene come riuscimmo a smettere, prima di andarcene, in direzioni opposte.
Sono
sicuro che anche lei pianse, quella sera, senza farsi vedere da John,
magari dando la colpa al trito di cipolle, preparato per il solito
arrosto.
A me non poteva vedere nessuno, ero fortunato …
Busso piano.
John
sorride, seduto in poltrona, un libro in mano, davanti al camino
scoppiettante, nella sua camera – “Entra Sherlock, non devi
mica farti annunciare”
E’ bellissimo.
“Sì,
scusami, l’abitudine …” – ho le mani in tasca
e guizzo con le mie occhiate vivaci, sui suoi appunti –
“Cosa scrivi?”
“Le mie memorie, lo sai” – ride, è di buon umore.
I
duchi di York lo hanno ingaggiato come medico di famiglia, con un
compenso allettante – “Pagheremo gli studi di Elly, in
collegio a”
“Cosa? Collegio? Ma scherzi?”
Avevamo litigato in mattinata, sull’argomento, ma ora, era tutto passato.
John
si era morsicato la lingua, ma io, furioso, gli avevo urlato in faccia
– “Ne sono consapevole, sei TU il padre, io non sono
NESSUNO, avanti dillo, per decidere della bambina, vero?!”
“E’
… E’ di nostra figlia, che stiamo parlando, Sherlock,
certo che hai diritto ad esprimerti e decidere”
Lo
aveva detto come si risponde ad un quesito banale “Che ore
sono?” – “Sono le tre, a proposito, abbiamo una
figlia, tu ed io, Shelly”
Mi
aveva zittito, interrompendomi con dolcezza, con tono pacato,
fissandomi, schietto, autentico, in ciò che stava affermando.
Ed io morivo.
E rinascevo.
Mi ero avvicinato, ammutolito, con un pianto insopportabile, ad infiammarmi gli occhi, la gola.
Una carezza, solo una, come quella posata su quel pancione, adesso andava a sfiorare lo zigomo sinistro di John.
Poi
uscii dal suo ambulatorio, passando in corridoio, dove Mrs. Hudson
stava facendo accomodare i coniugi Winston, in sala di attesa,
già gremita, dove vigeva un silenzio tombale.
Ero
terrorizzato al pensiero che avessero potuto ascoltarci, ma quando
rammentai che Watson aveva insonorizzato quell’ambiente, per
ragioni di privacy, ringraziai ogni santo potesse esserci in paradiso.
“Per
la scuola di Elly …” – accenno, restando al centro
di quel contesto ordinato, che sa di buono, dell’acqua di
colonia, che Mary regalava al consorte ad ogni Natale.
“Tra molti anni, direi, Sherlock” – e si alzò, parandosi davanti a me.
“Pensarla
in mezzo a certe megere di insegnanti” – provai a
scherzare, perché era così vicino, al mio respiro, con
quelle labbra, che avrei divorato di baci.
Rimasi
fermo, nei miei desideri insoddisfatti, perché io, così
sfrontato a sbaragliare anche una masnada di aggressori, in qualche
vicolo maleodorante, non riuscivo mai a segnare il punto, in presenza
di John.
John che ora mi stava avvolgendo e baciando.
Così
febbrilmente e così bene, da spezzarmi in due e ricompormi,
amorevole, come riusciva da quando ci conoscevamo, in fondo.
“Ti amo zio Shelly …” – mormora, senza allontanarsi dalla mia bocca, senza più lasciarmi.
“Ti amo John …”
E
la mia voce sembra arrivare da un punto imprecisato
dell’universo, dove ho fatto volare il mio cuore, con quello di
John, finalmente.
End