Dopo cinque anni di separazione e una residenza
forzata in Italia per difendersi da Dimitri Karkaroff e Astoria Greengrass,
Hermione torna in Inghilterra in cerca di Draco assieme al figlio Alex, di cui
Draco stesso non sa nulla. Nel suo viaggio, Hermione viene aiutata da Dean,
Pansy e Seth che la informano che Draco potrebbe essere ancora con Raissa
Karkaroff. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un
incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto
nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli
aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di
lei. Hermione, però, non la conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione,
Dean, Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era
una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, strappando
la pagina di un libro, testimoniando quindi un probabile contatto tra le
due. Tatia non voleva che Hermione si
ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento, alla scoperta del
gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire dell’ultima dimora
di Tatia Krasova: era in Finlandia dove era
sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova
una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove
lei le dice tutto quello che le è accaduto, rivelandole anche che Raissa sente
ancora Ilai di cui è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di
Dimitri e Raissa, sebbene fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti
assieme come fratelli. Tatia da sempre dotata di un fortissimo
potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa
dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto
più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati,
Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva
fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo
stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe
rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta
la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a
casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma.
Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura per
sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare
Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità
sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i
suoi amici prima di partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore del secondo
premio di una lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di Serenity,
facendo presagire che la bambina non sia ovviamente da sola. Ma l’attesa di
Hermione si rivela vana: Serenity non è con Draco, ma con Raissa che, pazza di
gelosia nell’aver intuito un legame tra Ilai ed Hermione, usa un Incantesimo
per far comparire Dimitri, mai morto e sempre più ossessionato da Hermione. Le
ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi
cosa gli succeda, accada al bambino: Hermione ha solo tre giorni per impedire
che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi,
trascinandosi dietro anche il figlio. Tornata a casa di Draco, Hermione
distrutta ricambia il bacio di Ilai, poco prima che Draco ricompaia nella sua
vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno
dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco
e Raissa. Le cose peggiorano, quando in modo rocambolesco e a causa
dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene possa
fare parola, che Alex è anche suo figlio. La scoperta lo distrugge emotivamente
e psicologicamente, minando forse per sempre la fiducia nei confronti di Hermione.
Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione
apprendono dall’Empatica Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una
guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere
i Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta
dal demone che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti,
cinque anni prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e
al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una
serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del
demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis, lo
scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso da
Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova è però complicata,
difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si
è deteriorato il loro rapporto. La Solutio damnationis è però
l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza
dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti
i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe
avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai
Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed
empatico, per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di
non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova
vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi
alla Solutio damnationis. Dopo essersi chiarita con Ron, Hermione
parla con Serenity, raccontandole di suo “fratello” Alex. Ma proprio durante la
conversazione con la bambina, mentre mostra a Draco le fotografie del loro
figlio, dal suo album di foto ne compare una di lei con Draco, scattata e
conservata di nascosto da cinque anni prima. È allora che Draco mostra ad
Hermione un libro di favole disegnato da lui, per Serenity. Ogni principessa
del libro ha il volto di Hermione. È la molla per la peggiore delle rivelazioni
possibili. Sebbene entrambi sono consci di essere ancora profondamente legati
l’uno all’altra, Draco ed Hermione affrontandosi si rendono conto di essere
innamorati del loro passato, più che di loro stessi al momento. Troppo dolore e
rancore è intercorso tra loro, e purtroppo ormai non sanno se potranno
recuperare loro stessi vista l’imminente prova con il demone. Disperando di
poter tornare vivi, in un clima di tregua indotto dalle circostanze, restano assieme
per la loro ultima notte. Al mattino, a causa degli effetti del legame empatico
tra lei ed Ilai Radcenko, Hermione scopre non solo i sentimenti dell’uomo verso
di lei, ma anche di quanto questi inaspettatamente non siano a senso unico,
cosa che la dilania. È in tale sentimento confuso che Draco ed Hermione
incontrano il demone Adamar e la sua compagna di vita, Eva Dubois. La prova del
demone è semplice: cancellati i tradimenti che hanno condizionato il futuro di
Draco ed Hermione, il loro destino sarebbe stato completamente diverso e,
secondo Adamar, avrebbero avuto quello che davvero desideravano. Adamar li
blocca quindi in un altro mondo ed un’altra vita con una sola minuscola
scappatoia per fuggire, un fantomatico “giungere palma a palma”: senza memoria
del mondo reale, Hermione e Draco vivono due vite parallele assolutamente
ignari che sia un inganno del demone. Più tempo passa, però, e meno avranno
possibilità di tornare indietro.
Capitolo 46 – Disturbia, step one : about happenstance.
28 novembre
E’ tutto bianco, come se avesse nevicato. Ma la neve è bella, pulita,
fresca, pura… ed invece quel bianco è malato, ansiogeno. Si mangia i colori, si
mangia le voci, è vorace di luci e suoni. Dà l’impressione di essere diventati
ciechi o di essere diventati sordi, anzi peggio… di essere morti e di non
essersene accorti.
Già… morti.
Trapassati nell’inesistenza in un soffio di fiato più forte degli altri.
Morti come le foglie secche schiacciate dai piedi frettolosi di un
passante. Un fruscio sinistro e poi più niente.
Lei però qualcosa sente. Qualcosa sente.
Una sola singola e tonante frase che le rimbomba nel petto come una campana a
morto. Una voce maschile che preme contro le sue orecchie. È strascicata,
eppure roca, profonda. Le dà i brividi. Sussurra contro le sue guance, come se
fosse ad un alito da lei.
Però è come se il bianco avesse una voce che sa di vento, furore, tempesta.
Di occhi dorati e malati di demone.
E si porta via quelle parole. Non le distingue. O le sente ma le dimentica
assieme nello stesso istante. Ricorda solo la fine di una frase che sembra non
avere senso.
“… il motivo che cerchi…”.
Fa male.
Il bianco la strattona dal fianco destro, come se si divertisse a tenderla
come un elastico per vedere quanto resiste. E lei puntualmente si spezza.
La chiamano, la chiama: e lei non può
rispondere. La voce se l’inghiotte il bianco.
Poi si inghiotte anche lei, intera, in un solo morso.
Al mattino Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, ha sempre una lacrima
sotto l’occhio sinistro che non capisce. La sfiora con un dito, l’assaggia, fa
una buffa smorfia cercando di dare spessore ad una serie indefinita di lampi
dorati nel bianco. Da tre mesi non ricorda più i suoi sogni al risveglio. Ma
devono essere incubi visto che alla mattina sembra che abbia pianto.
“Grazie memoria selettiva, allora…” sussurra allora a sé stessa con un
sorriso stanco.
Indugia nel letto qualche secondo, pigra. L’aria del primo mattino è
fredda, le coperte sono calde invece. Poi si alza con un sospiro ed indossa la
vestaglia da camera sul pigiama rosa di flanella.
La lacrima dalle sue dita cade sulla fronte di suo marito, mentre lo
accarezza con distratto affetto, sussurrandogli di svegliarsi.
La goccia di sale evapora ancora prima che Ronald Weasley si sia svegliato.
Le rughe mi hanno sempre affascinato.
Quando in un impeto di sincerità l’ho raccontato
a Ginny, lei mi ha guardato storto e ha borbottato roteando inquieta gli occhi:
“Cioè, già sei immune alla maggior parte delle preoccupazioni femminili… ma
anche le rughe adesso ti piacciono? Non avrai qualche seria turba psichica di
cui non sei ancora completamente a conoscenza?”.
Dopo allora, credo di non averlo più
propriamente esternato a qualcuno di diverso da me stessa, mentre mi guardavo
allo specchio.
Intendiamoci: ovvio che sono perfettamente
consapevole che ogni singola ruga sul viso di una donna, somiglia ad un passo
verso la strada della decadenza della bellezza.
E già questo dovrebbe indurre a comprendere
quanto potrebbe fregarmene di meno.
Diamo però per scontato che io non sia Hermione
Granger, 36 anni, la regina della razionalità incarnata e la principessa dal
motto “La sostanza vale tutto, la forma non vale niente”.
Supponiamo per un momento, invece, che sia una
modestamente più interessata all’estetica: probabilmente avrei ugualmente
fascino delle rughe, di quelle linee scolpite nella pelle di una donna o di un
uomo, a contarne gli anni come i cerchi degli alberi.
Le rughe mi ricordano il viso di Silente: quella
pace scolpita, quella dolcezza addormentata, quel reticolo di pensieri che, da
bambina, mi davano l’impressione di essere così potenti e forti da non restare
confinati nel tracciato dei neuroni, ma che avevano necessità di uscire fuori,
scoppiare all’esterno, chiazzare l’epidermide.
E io mi auguravo una folla di pensieri così.
Le rughe mi ricordano anche il viso di mia madre
quando sorride: e mi spingono a cercare in una di esse, in quella più profonda,
in quella più scavata vicino alle labbra, la presenza di mio padre che, da
cinque anni, non può più baciare quell’angolo della bocca.
Le rughe mi sembrano, insomma, una specie di
mappa del cuore di una persona.
Come se tu potessi ricostruirne la trama dei
ricordi, soltanto guardando un viso: sono pochi ragionevolmente sul volto
glabro di un bambino. Diventano tracce del sangue, quando si diventa adulti e
vecchi.
Per questo, il mio esercizio al mattino è
studiarmi il volto alla ricerca di quei segni: saranno più o meno di ieri? Un
sogno della notte avrà lasciato un marchio tangibile nella pelle accaldata?
Osservo il mio riflesso allo specchio, una ruga
piccola ed irregolare taglia a metà lo spazio tra gli occhi: è il carico di
ghiaccio che mi congelò il cervello quando vidi il corpo di Harry
apparentemente morto penzolare tra le braccia di Hagrid il giorno della
battaglia di Hogwarts. Un’altra, dritta e profonda, solca lo zigomo destro e
scende lungo le fossette del sorriso: è l’ultima spinta quando misi al mondo
Hugo, gemendo sudata dopo un travaglio di dodici ore. Un’altra ancora appena
accennata segue la linea del collo, ricordandomi del giorno in cui persi di
vista Rose e lei si ruppe un braccio cascando dal trampolino della piscina.
Poi ce n’è una che non mi crea tutta quella
serenità che provo alla vista delle altre.
Una recente, ma profonda. E soprattutto
particolarmente fastidiosa da guardare stavolta, come se fosse… diversa.
Non mi ricorda nulla, assolutamente nulla.
È un segno evidentemente scolpito, come se fossi
fatta di marmo e fossi stata scavata nella pelle con una mano dotata di
scalpello. Corre come la goccia che fende la roccia, partendo dall’angolo
interno dell’occhio destro e segue gli itinerari delle lacrime, scivolando
sullo zigomo e sulla guancia.
L’ho notata per la prima volta quando sono
tornata a casa il 1° settembre, dopo aver lasciato Rose alla stazione di King’s Cross. Certo, avevo pianto un pochino sulla spalla
di Ron mentre riprendevamo l’auto, ma non così tanto da addirittura ritenere
che ciò lasciasse un segno. Ero contenta che mia figlia fosse ad Hogwarts, lo
sono ancora, le scrivo ogni giorno cercando notizie e elemosinando aneddoti
dalla sua penna da ragazzina, dolendomi se mi scrive troppo, avrà amici con
cui occupare il tempo in cui dovrebbe scrivere a sua madre? e lamentandomi
se mi scrive poco, nemmeno tre mesi sono passati e già si è dimenticata
della sua mamma!
Un iter largamente normale che mi vede compagna
di centinaia di mamme con cui condivido discorsi stereotipati, conditi da
troppi sospiri e singulti di rassegnazione.
Ma quella ruga, quel segno come se avessi pianto
fino a scorticarmi il cuore, come se mi avessero strappato qualcuno da dentro
facendomi sanguinare e scoppiare le vene…
… io non me lo sono mai riuscito a spiegare dal
1° settembre di qualche mese fa.
"Finisci la tua colazione! Devi andare a
scuola... e non credo che abbiamo ancora animali domestici da sacrificare per
giustificare i tuoi ritardi! Questo mese sono morti tre canarini, un pesce
rosso ed sette criceti. La casa della morte la chiameranno!".
Nessuno dei miei due figli ha preso da me: hanno
qualcosa come un calco confuso, ma nessuna reale somiglianza. Ron spesso
sostiene che Rose abbia ereditato la mia intelligenza, ma mi sono schermita
spesso di fronte al complimento. Questo perché mio marito non ha mai
riconosciuto di avere una sua forma specifica di intelligenza, ben diversa
dalla mia.
Accorgendosene invece, si sarebbe reso conto di
quanto in questo Rose sia diversa da me.
La mia è un’intelligenza nervosa, sudata,
isterica, forgiata dalla carta e dell’inchiostro.
L’intelligenza di Rose è più istintiva,
naturale, rapida come il fuoco che incendia le frasche. Le piace leggere, ma
non divora libri come facevo io alla sua età. Conosce parecchie nozioni sparse,
apprese per forza di cose dai dialoghi infiniti che ha sempre avuto con me, ma
non ne fa sfoggio od uso eccessivo, se non nei momenti in cui sia vitalmente
necessario. Intuitivamente è il mio opposto, dato che invece ho sempre brandito
la conoscenza come la spada affilata a scudo delle mie insicurezze ed
incertezze. Se prende un voto basso a scuola, sbuffa un pochino, poi scoppia a
ridere dicendo che non le interessa.
Io, al suo posto, mi sarei fatta venire una caterva
di precoci rughe.
Difficilmente riesce a stare ferma per più di
dieci secondi cronometrati: le piace correre, sporcarsi d’erba, giocare a
Quidditch.
È una Weasley, inutile girarci attorno.
Ricorda così tanto il fantasma di Fred e George
come entità indivisibile e mai separata nei ricordi, da fare male al fiato e
allo stomaco.
Il suo aspetto ne è un ulteriore conferma.
Lunghi capelli lucidi e lisci, solo un po’ arricciati sulle punte come residuo
del mio patrimonio genetico. Occhi grandi e puliti che di mio hanno solo il
colore: io non ho mai avuto occhi così tersi neanche alla nascita, avevo sempre
troppe domande a cui rispondere e che mi affannavano lo sguardo. A completare
il tutto, Rose sfoggia un corpo acerbo e dinoccolato da ragazzina: magra come
un chiodo, con le ginocchia spigolose e il viso tondo dell’infanzia. In tutto,
ricorda maggiormente la zia Ginevra che la madre Hermione.
Il discorso non è neanche molto differente con
Hugo: anzi probabilmente, visto il suo sesso diverso dal mio, mio figlio sembra
aver preso solo il sangue di suo padre.
È coraggioso ma insicuro, sempre timoroso e
convinto di non essere capace di fare determinate cose, finché non apprende che
non solo le sa fare, ma sa anche migliorarsi continuamente. Anche a lui piace
stare all’aperto, vivere nell’erba e nel vento e, contrariamente a Rose, non ha
alcuna pazienza né di ascoltare storie, né tantomeno di leggere.
Non mi lamento: adoro i miei figli, amo mio
marito. Vederlo riflesso in loro è sempre stato come mettere in parentesi
l’amore per lui e moltiplicarlo all’ennesima potenza.
Spesso ho pensato a come sarebbe stato avere un
figlio, o una figlia, che avesse invece ereditato il mio amore sviscerale per i
libri, le mie labbra, il mio taglio degli occhi, persino la mia espressione da
pesce palla. Ci ho pensato spesso ed è un pensiero che mi ha sempre causato un
senso strano di mancanza.
Come di amputazione di metà del mio corpo,
quella più vitale e necessaria. Quindi l’ho ricacciato indietro, perché è un
sentimento ingiusto.
Così brucia l’amore del genitore. Un moccioso
urlante tra le braccia, ancora sporco di placenta e sangue. Una fotografia
stupida tra le dita, saporosa di passato e rimpianto. E non sei più uguale a
prima: tessi tele e ricami che siano i vessilli del sangue che vi lega. Se ci
somiglia, è la migliore versione di noi stessi. Ma se non ci somiglia, in
fondo, è il migliore rimpiazzo a noi stessi.
E io non potevo desiderare rimpiazzi migliori a
me stessa di Rose ed Hugo.
Sorrido non vista, mentre dando le spalle al
tavolo della colazione continuo a lavare i piatti. Passo la spugna insaponata
sulle tazze sporche e, con uno strano senso di nausea, osservo il contenuto
avanzato della mia. Un fondo di caffè nero ed amaro, una volta bollente, mi
informa che stamattina non ho bevuto come al solito il mio succo di ananas. Io
ingurgito sempre caffè solo quando sono terribilmente nervosa. Sospiro a lungo,
anche quella è una novità degli ultimi tre mesi. Da quando è partita Rose, non
c’è stato verso di riprendere con le mie solite abitudini alimentari della
colazione. Eppure, non potrei dirmi nervosa o agitata, o in pensiero per mia
figlia. Diamine, è a scuola, non è stata rapita da un pazzo omicida. Il mio
corpo, però, non è dello stesso avviso. Chiudo gli occhi per un paio di
secondi, fermando il conato di vomito che mi raggiunge le labbra, e
meccanicamente ingiungo ad Hugo di muoversi con la sua colazione.
In risposta mi giunge un gorgheggio lamentoso ed
acuto di mio figlio, assieme al tintinnio secco del cucchiaio che gira ancora
nella tazza di cereali. Quando sto già per voltarmi e rincarare la dose, Ron
pensa bene di intervenire, redarguendomi con voce flemmatica: “Mione dai...
devi essere un po' più elastica!".
La tazza che stavo risciacquando annoiata mi scivola
dalle dita bagnate di sapone di marsiglia, cascando con un tonfo sordo nel
lavandino. Trattengo un respiro più forte che rilascio all’improvviso come se
fossi un palloncino che viene sgonfiato di schianto. Freno con un impeto di
coraggio e calma il rigurgito acido di parole che sta già solcando le mie
labbra; esso però si accompagna con un ulteriore e ben più reale attacco di
nausea che mi fa barcollare. È quello che non trattiene in gola, alla fine, il
mio commento piccato: "Ti regalerò il dizionario dei sinonimi e contrari
per evitare che pronunci otto volte al giorno quel simpatico
aggettivo...".
Ron Weasley ha sempre il modo giusto e pronto in
tasca per farmi arrabbiare: in momenti di lucidità o di estrema pace, penso
semplicemente che non lo faccia apposta, che sia soltanto un uomo distratto e
superficiale come ce ne sono tanti. Non è peggiore di tanti altri, le donne
devono da sempre imparare ad avere pazienza con l’atteggiamento da elefanti in
una cristalleria dei loro compagni. Altre volte penso in modo automatico che
Ron Weasley non sia venuto al mondo provvisto del manuale d’istruzioni di
Hermione Granger. E non a caso, in un modo che spero sempre che sia
inconsapevole perché a metterci impegno si sfiorerebbe la crudeltà, Ron mi
punzecchia ancora con l’aggettivo poco elastica che sa perfettamente che
detesto. Credo persino di averglielo detto in una decina di occasioni,
sforzandomi di essere seria, chiara e concisa. Ed invece, per l’ennesima volta,
ci risiamo.
Odio essere definita così perché mi sembra quasi
un retaggio delle chiacchiere adolescenziali che berciavano alle mie spalle:
sì, ero tanto intelligente e capace, ma ero anche una bacchettona snob ed
antipatica che sveniva sul colpo a non rispettare le regole, ad accorciare una
gonna, a bere un bicchiere di Acquaviola, a concedersi ad un ragazzo. Certo,
magari mi può importare poco di quelle che sono solo paranoie da ragazzina
ormai dimenticate, ma l’adolescenza si attacca alle ossa anche quando si
cresce. Ci si crede sempre in debito di dimostrazione con essa: e io credo
davvero di essermi ammorbidita negli anni.
La guerra, quella dannata guerra che abbiamo
vinto, avrei potuto superarla solo se flessibile come giunco, e non rigida come
quercia.
D’altronde, Ron è quello che ha vissuto tutte
quelle esperienze con me. Dovrebbe avermi vista maturare ed aprirmi come un
bocciolo di loto e per primo dovrebbe riconoscere che non sono più la stessa
ragazzina tutta acqua e sapone ed inchiostro e libri: quindi che si ostini a
chiamarmi ancora in nome di una vecchia pecca del mio carattere, è quantomeno
irritante.
Non lo fa apposta, mi dico daccapo nella
mente, accompagnando la frase con uno sospiro profondo, specie quando intuisco
che Ron se l’è presa per il mio commento piccato, avendo ulteriore conferma
della mia scarsa propensione al gioco, all’ironia ed allo scherzo. Mi sforzo
quindi di voltarmi con espressione più neutra, mentre Hugo sbraita di nuovo con
vocetta acuta: "E poi, mamma, a me non piacciono le ciambelline di avena!
Volevo le stelle di cioccolato con lo zucchero!".
Una nuova vertigine mi colpisce infida alle
tempie, accompagnandosi all’ennesimo conato. Rispondo quindi acidamente, senza
ascoltare nemmeno che cosa stia dicendo: "Bè certo effettivamente non
erano abbastanza colme di glucosio! La prossima volta a colazione, direttamente
il saccarosio! Te ne preparerò una ciotola piena, va bene, Alex?".
Alle mie parole, sento seguire uno silenzio
strano da parte di mio marito e di mio figlio, cosa che mi costringe a voltarmi
su me stessa, chiedendomi se non siano improvvisamente evaporati liberandomi
dal fracasso mattutino.
Ron mi guarda inarcando un sopracciglio, le
labbra che descrivono una piccola “o” di sorpresa, mentre Hugo sporge il labbro
inferiore, ancora vagamente infastidito: "Mamma io sono Hugo".
L’ovvietà dell’affermazione di mio figlio,
pronunciata con voce tra il saccente e lo scontato, mi spinge a ricapitolare
mentalmente le mie parole precedenti che non trovo assolutamente sbagliate.
Dopo qualche secondo, arresami, poggiando la tazza pulita nella credenza,
chiedo con uno schiocco di lingua nervoso: "Perché, che ho detto?".
"Alex" risponde Hugo, quasi offeso, guardandomi storto come se lo
avessi tradito personalmente.
"Hai detto proprio Alex, Mione"
rincara Ron la dose con espressione scettica, piegando il collo per dedicarmi
uno sguardo indagatore, come se fossi un foglio di carta da guardare in
controluce. Gli restituisco uno sguardo fosco, nebuloso, mentre chiedo ancora:
"Alex?".
"Alex, sì, non sono sordo" ribadisce Ron sfiancato, riprendendo a
sorseggiare il suo caffè con sufficienza. Resto per un attimo assorta nei miei
pensieri, la testa bassa e gli occhi fissi sulle piastrelle di ceramica del
pavimento della cucina. Alex. I miei occhi si impuntano su una crepa di
una mattonella, sembra una lunga ferita nel marmo, ne seguo il profilo con la
punta del piede.
Sebbene abbia studiato qualche anno fa
psicologia, non capisco che collegamento incomprensibile può aver fatto la mia
mente per suggerirmi un nome che non mi dice assolutamente niente. Certo,
Alexander è il nome di mio padre, ma non è entrato in alcuna associazione
mentale, adesso, mentre rimproveravo Hugo. E certo non mi sono mai riferita
mentalmente a mio padre con il nome “Alex”: ovvio che lo chiami ancora “papà”,
sebbene sia morto da cinque anni. Del resto, non conosco quell’abbreviazione
nemmeno per intercalare altrui: mia mamma ha sempre chiamato papà con il suo
nome di battesimo completo, cosa che mi dava sempre un tono solenne e mi
spingeva sempre a concludere, quando ero bambina, che Alexander fosse un nome
da imperatore, da zar, da sovrano, ed andasse quindi pronunciato per intero.
Quando rimasi incinta di Rose, il nome Alexander
era tra i papabili se avessi avuto un maschietto. Mi sarebbe piaciuto davvero
come nome, anche seguito dall’Arthur del padre di Ron.
Sarebbe stato davvero un nome da re se coniugato
in quella maniera.
Ma arrivò una bambina, la mia meravigliosa
piccola Rose, e scelsi io il nome per lei. Mi era sempre piaciuto come nome
assieme a Charlotte.
Come d’accordi, poi, lasciai che qualora
avessimo avuto un altro figlio, fosse Ron a scegliere il nome del neonato. Ma
allora non arrivò alcuna Charlotte, nome che lui stranamente aveva persino
approvato.
Arrivò un maschietto a cui appioppò il nome Hugo
che io detesto. E tanti saluti ad Alexander Arthur Weasley. Mio figlio,
invece di portare il nome di un re, porta il nome del portiere dei Cannoni di Chudley di una decina di anni fa. Me lo faccio piacere solo
perché, nel mio intimo, continuo a dirmi che si chiama Hugo in onore dello
scrittore francese Victor Hugo. E tecnicamente è anche la versione che do in
giro, quando mio marito non è a portata d’orecchio. È una cosa però superata da
anni, mi ci sono anche rassegnata su, perciò commento in modo scherzoso verso
Ron: "Sarà una vendetta del mio inconscio per averti concesso di scegliere
il nome di nostro figlio. Alex... da dove diamine mi è uscito?". Le mie
labbra, mentre do le spalle all’ulteriore siparietto tra Ron ed Hugo,
continuano a masticare il nome Alex per qualche secondo, fino a quando ho
l’impressione che questo faccia, se possibile, aumentare ancora di più la mia
nausea e vorticare il mio cervello come se fossi in una morsa.
Quando mi sembra di averne abbastanza di questi
giramenti di testa, mi siedo con attenzione e premo a lungo la mano sulle
labbra, attirando l’attenzione preoccupata di Ron.
“Mione, che c’è?” mi chiede con apprensione,
sfiorandomi la guancia con due dita, mentre si inginocchia di fronte a me.
Rassicura Hugo con un’occhiata, ingiungendogli severo di andarsi a preparare,
cosicché nostro figlio esca dalla cucina sbuffando e battendo i piedi, senza
accorgersi però del mio malessere. Cerco di rassicurarlo con un sorriso stanco,
mentre lui mi porge con solerzia un bicchiere di acqua fredda. Lo ingurgito in
due sorsi e, finalmente, la nausea sembra passare, lasciandomi solo una
sopportabile sensazione di stretta allo stomaco.
Sollevo lo sguardo finalmente verso Ron,
carezzandogli lo zigomo con dolcezza, prima di soffiare fuori: “Nulla di che.
Solo un po’ di nausea… e vertigini. Credo che sia un po’ di pressione bassa…”.
Ron non dismette l’espressione agitata e,
porgendomi la mano affinché mi alzi in piedi con cautela, mormora severo: “Non
dovresti andare al lavoro se non ti senti bene, Mione. E dovresti chiamare un
Medimago… non è la prima volta che ti succede…”.
Aggrottando le sopracciglia, mentre mi sollevo
malferma sulle ginocchia e mi appoggio al suo braccio teso, chiedo confusa:
“Quando altro mi sarebbe successo?”.
Ron chiude con la sua la mano che io tengo
poggiata sul suo avambraccio, mentre mi guida al piano di sopra. Il sole filtra
dalle finestre del salone, soffiandogli riflessi di vetro oltremare nello
sguardo azzurro. Poi, dopo una pausa di qualche secondo, sussurra quieto:
“Probabilmente ti è accaduto anche successivamente… ma me ne ricordo
distintamente il giorno in cui accompagnammo Rose al binario 9 e ¾ … ti
lamentasti del caldo e mi dicesti che avevi avuto una vertigine…”. È vero,
constato sommariamente mentre mi siedo sul letto in camera nostra. Me ne ero
completamente dimenticata. Avevo lamentato anche allora un malessere simile e
ne diedi la colpa alla temperatura alta di quella giornata di settembre. In
realtà, sapevo perfettamente a che cosa quel capogiro era stato dovuto:
all’improvviso vuoto della partenza di mia figlia. Ma non volevo confessarlo a
Ron che mi avrebbe preso in giro fino alla morte per quell’eccesso di nostalgia
da mamma chioccia, quindi imbastii quella scusa sul caldo.
È bello però che se ne ricordi e preoccupi
ancora.
Quindi sorrido in modo più caloroso, mentre lui
si veste e mi dà le spalle e lo rassicuro dicendo che cercherò di non stancarmi
troppo e di vedere quanto prima un medico. Intanto, Ron si offre di portare lui
a scuola Hugo, dato che per lui le ferie natalizie sono iniziate molto prima di
me, e non deve recarsi all’Ufficio degli Auror se non in tarda mattinata. Lo
ringrazio sommariamente e socchiudo leggermente gli occhi, quando mi bacia con
dolcezza sulle labbra, prima di uscire ingiungendomi di tornare a casa
dall’ufficio ad un orario decente.
Resto qualche secondo seduta sul letto della
stanza, accarezzando il copriletto cremisi con distrazione, mentre sento le
voci di Hugo e Ron rincorrersi al piano di sotto. Quando odo distintamente la
porta d’ingresso, mi concedo il lusso di rilasciare un sospiro nervoso e
stanco. Poi, mi alzo con decisione, mi fermo davanti allo specchio e lego i
capelli in una coda alta da cui sfuggono ciocche distratte.
Non mi affanno a cercare orecchini, collane o
anelli da abbinare: stamattina ho l’incontro con il capo della Divisione Elfi
Domestici del Sussex meridionale, e non sarà decisamente una passeggiata di
salute da risolvere con qualche moina femminile. Sto già per uscire afferrando
la cartella piena di documenti, quando torno indietro come se fossi stata punta
da uno spillo. Apro l’armadio, scavo tra pile di vestiti ed indumenti, fino a
trovare quello che sto cercando. Una sciarpa di lana che ho comprato il 1°
settembre, quando il vuoto per Rose mi era sembrato per un attimo
insopportabile da accettare.
Era in una vetrina, appoggiata mollemente al
collo di plastica di un manichino denutrito. Non era vistosa, non era elegante:
era semplice, ordinaria, persino un pochino fuori moda. Ginny mi avrebbe presa
in giro per quell’acquisto sciocco, quando poteva portarmi da Madama Seraphine a Diagon Alley e farmi realizzare una stola che
cambiava colore e pesantezza, a seconda della giornata.
Persino la commessa, una donna alta dai capelli
biondo ramati che portava al collo il cameo di una rosa bianca, lucido come un
pezzo di ghiaccio, mi aveva guardata un po’ meravigliata per la scelta estetica
dubbia, indicandomi piuttosto un meraviglioso foulard rosso fiammante con la
stampa di delicate margherite.
Ma inaspettatamente, ero stata irremovibile. Non
so spiegarmi il motivo, specie perché effettivamente il foulard rosso era più
adatto alla stagione, nonché declinato nel mio colore preferito. Mi ero
ritrovata invece ad insistere caparbia e testarda, io che di solito assecondo
le commesse in tutto e per tutto per pigrizia e noia.
“No, voglio quella che c’è in vetrina. La
sciarpa di lana… quella grigia…” avevo ripetuto cocciuta.
Addosso, stretta attorno al mio collo, sapeva di
casa. Non è che facesse tutto questo caldo, ma mi faceva sentire serena,
riposata, incardinata in un punto preciso del mondo senza che sbandassi
altrove.
Quel grigio negli occhi sapeva di tempesta,
lampo, mare di dicembre, nube acquosa, strada maestra, spuma di onda, carta e
libro, pietra carsica, caverna di roccia, capelli di vecchio, argento vivo,
luna e stella, pioggia dalla finestra, cenere e fondo di fiume, lacrima sporca.
Ed il vuoto della mancanza di Rose mi aveva
fatto meno paura.
Me la drappeggio attorno con un collo con un
sorriso statico, affidandomi di nuovo a quel ritaglio di stoffa.
Sebbene mi aspetti solo una normale giornata da
Hermione Granger in Weasley.
Come tante altre prima di questa.
Suo marito aveva ragione. La nausea durava da molto più di quanto lei
stessa ricordasse: era una sensazione tipica, spavalda, infida come un calcio
nello stomaco. E la colpiva senza preavviso alcuno. Ma Hermione Granger, 36
anni compiuti, era una donna che non faceva la cronaca dei propri malesseri
quando erano assolutamente trascurabili. Passava così come era venuta, e tanto
bastava per dedicarsi nuovamente al lavoro, alle lettere alla figlia, alla cura
per il figlio, ai rimproveri scherzosi al marito, agli impegni con amici e
famiglia. Ci poteva mettere più attenzione, sicuramente, ma lei non era così.
Era la pressione bassa. Era il caldo. Era lo stress. Era quel intruglio di
carne e rape che aveva preparato sua suocera per cena.
Aveva un carnet di spiegazioni ineccepibili.
La nausea, poi, non aveva alcuno schema preciso: veniva e passava,
somigliando alla sosta di una barca in mezzo al mare, in preda ai flutti.
Pochi secondi, occhi chiusi, respiro più forte… e passava.
Era solo un patema distratto del corpo che reagiva a cose assolutamente
scollegate tra loro.
Il binario 9 e ¾ e i commenti su un vecchio compagno di scuola.
Una passeggiata in centro, e Hugo che propone di comprare del gelato
fritto.
L’ondata di pigrizia quando Ginny le aveva proposto di portare i bimbi in
un parco di divertimenti di nome Wonderland.
Il maglione turchese che aveva ricevuto in regalo per il suo compleanno.
L’odore di rose di una passante.
Il succo d’ananas praticamente ogni mattina… e la sua sostituzione con
caffè amaro, nero, bollente, come se fosse sempre nervosa e nemmeno se ne
rendesse conto.
Anche a voler unire tutti gli indizi, nessun disegno sarebbe venuto fuori.
Ed Hermione Granger non era una che cadeva nelle trappole dell’intuizione
spicce.
Era ovvio pensare che fosse solo un po’ stanca a causa del lavoro.
Glielo disse anche un’adorabile vecchietta dallo sguardo vispo che era
venuta a chiederle udienza e consiglio per il caso di un Elfo domestico che non
voleva smettere di picchiarsi.
“Signora Weasley! Si riposi ogni tanto! Sembra così deperita…” le ingiunse
severamente, accarezzandosi il suo cameo di una rosa bianca.
Hermione Granger, 36 anni, annuì sorridendo, respingendo al mittente la
nausea che le aveva colpito di nuovo lo stomaco, mentre riordinava le novecento
tredici schede dell’archivio.
La nausea non aveva alcuno schema preciso.
Era solo un patema distratto del corpo, che reagiva a cose assolutamente
scollegate tra loro.
Diventare i vicini di casa di Harry e Ginny
quando mi ero sposata, mi era sembrato un segno meraviglioso del destino:
nessuna volizione, nessun desiderio specifico. Solo una serie di fortunate
coincidenze, che io avevo liquidato con solerzia sotto l’etichetta di indizi
superiori di una volontà più forte di farci vivere la nostra vita quanto più
vicini possibili.
Harry e Ginny si erano sposati da qualche mese,
aspettavano James, ed io e Ron eravamo ancora alla ricerca della casa perfetta
per un matrimonio che avrebbe seguito il loro di meno di un anno. Ciondolavamo
di appartamento in appartamento, di cottage in cottage, di villa in villa,
liquidando tutte le costruzioni come ben poco confacenti al concetto di casa.
A questo, si aggiungevano tutte le variabili del caso: serviva una casa che
fosse sufficientemente vicina alla Tana per quando fossimo diventati genitori,
e Molly ed Arthur avessero voluto fare avanti ed indietro per vedere i loro
nipotini. Ne volevamo anche una che fosse vicina alla Passaporta
internazionale situata alla Torre di Londra, così da raggiungere velocemente i
miei genitori per lo stesso motivo, dato che avevano deciso di stabilirsi a Favignana,
in Sicilia, nella vecchia casa di mia nonna. Eravamo entrambi d’accordo di non
vivere in campagna aperta ma di essere almeno nella periferia di Londra, così
da facilitare gli spostamenti lavorativi. C’erano poi alcuni quartieri che non
ci andavano eccessivamente a genio, come Notting Hill
che ci era sempre parso troppo caotico, cosa che ogni volta contribuiva a
procurarmi un’emicrania perforante ed una nausea pazzesca. O come Belgravia,
che a Ron era sempre sembrato come “il recinto di quelli con la puzza sotto il
naso”. Ci eravamo ormai rassegnati ad andare a vivere con i suoi per un po’
appena dopo il matrimonio, dato che il contratto di affitto dell’appartamento
di 40 metri quadrati dove convivevamo scadeva un mese prima delle nozze e non
aveva senso rinnovarlo, visto che non ci avremmo potuto vivere se la nostra
famiglia si allargava. Senza contare che era un buco dall’affitto decisamente
sproporzionato… insomma fu in quel momento che Ginny venne praticamente di
corsa ad avvisarmi che era stata messa in vendita la casa accanto alla loro, a Earls Court, un quartiere che io avevo sempre adorato.
Tranquillo, ben collegato, con esterni ben
curati.
L’appartamento di Ginny ed Harry mi era sempre
piaciuto perché piccolo, luminoso, su due piani e con una sfiziosa porta
laccata in azzurro. Aveva un minuscolo giardino, dove Ginny aveva fatto
piantare delle piante aromatiche che usava per le zuppe invernali. Quella che
sarebbe diventata casa mia, aveva una struttura parallela e gemella a quella:
salone, cucina ed un piccolo corridoio al piano terra; due camere da letto ed
un bagno al piano superiore. Era quasi incassata in casa di Harry, al punto che
affacciandomi alla finestra, potevo spesso passare a Ginny il sale o lo
zucchero o le uova, se le aveva dimenticate al supermercato. I primi tempi in
quella casa furono un autentico sogno: Earls Court
era vicinissima a Holland Park, un posto che avevo
sempre adorato di Londra. Holland Park è considerato
uno dei più tranquilli e romantici parchi di Londra, e io amavo passarci
il tempo quando ero a casa da Hogwarts per le vacanze estive. Ci tornavo spesso
quando ero incinta di Rose: mi sedevo vicino alla famosa Orangery,
circondata da enormi siepi di rose, e respiravo felice. Forse, persino da quei
pomeriggi pigri, ricavai l’intuizione per il nome di mia figlia. Mi destava
anche enorme curiosità il fatto che ci fosse un set di scacchi giganti con cui
si può effettivamente giocare: da bambina, specie nell’estate del mio primo
anno ad Hogwarts dopo la vittoria su Voldemort/Raptor
proprio per una partita a scacchi, costringevo i miei a portarmi lì e a
cominciare lunghissime partite che sapevo di vincere sempre. È forse uno dei
posti più cari della mia infanzia e della prima adolescenza, per questo casa
mia mi parve subito così speciale essendoci così a quel parco. Ci sono tornata
sempre meno poi negli anni e forse di riflesso, anche casa mia ha perso le sue
meravigliose attrattive per questo.
L’ultima volta che sono stata ad Holland Park, tra l’altro, ne ho un pessimo ricordo: sarà
stato circa un mese fa, avevo una mezza giornata libera e un libro meraviglioso
da finire. Avevo cercato la mia panchina preferita di quando ero piccola,
proprio vicino ad un roseto di boccioli bianchi. Non ero riuscita a leggere
nemmeno una riga, lo stomaco mi pungeva, la schiena mi si era inzuppata di
sudore freddo come se fossi rimasta per ore sotto la pioggia, e le gambe mi
formicolavano come se volessi solo scappare via a e chiudermi in casa. Quando
avevo provato a cambiare posto, avvicinandomi alla scacchiera, era stato
peggio: guardavo i pezzi ed avevo sempre la sensazione di aver dimenticato
qualcosa. Qualcosa che dovevo tenere a mente a tutti i costi: ma più ci pensavo
e più mi veniva in mente solo la parola “palma”.
E di interesse botanico per una pianta
tropicale, non credo di averne mai nutrito in vita mia.
Una serie di comportamenti mentali fastidiosi,
al limite dell’idiozia e della paranoia, insomma. Però alla fine avevano
confermato quello che già pensavo e credevo: odiavo, ormai, vivere lì. E ciò si
era ripercosso anche nell’adorato parco dei miei ricordi, ormai ridotto ad un
posto che mi comunicava solo nervosismo. Dopo la partenza di Rose, con meno
impegni a gravarmi il cervello, la cosa appariva molto più chiara. Ormai tutto di
casa mia contribuiva ad innervosirmi: la poca luce la mattina nelle stanze, e
quella decisamente eccessiva nel pomeriggio. La camera da letto troppo piccola.
Il disimpegno davanti alla porta d’ingresso inutilizzato. Le dimensioni
esagerate della camera di Hugo. Insomma: qualsiasi cosa mi dava fastidio,
persino il colore laccato verde della porta che, all’inizio, mi aveva tanto
colpito.
Queste cose, in fondo però, erano aspetti
risolvibili o comunque trascurabili. Non è che uno cambia casa perché non gli piace
il colore della porta. C’era, invece, qualcosa che da essere la cosa più bella
di quell’abitazione, improvvisamente era diventato l’aspetto peggiore. E a ciò
non c’era rimedio.
La vicinanza con Harry e Ginny.
È ovvio che essere così vicini con i miei
cognati sia una comodità ed un sostegno notevole, specie nelle faccende che
riguardano i bambini. Ed è anche indiscusso che avere la mia migliore amica a
così stretta portata di mano, significa anche poter contare su di lei in
qualsiasi momento, fosse anche per farci del semplice popcorn e vederci un film
strappalacrime assieme. Stessa cosa, ovviamente, è per Ron con Harry: e questo,
nei primi anni del matrimonio, aveva fatto sì che mi sentissi sempre in
vacanza, con i miei migliori amici sempre vicini in una sorta di grande
famiglia allargata.
Ma di anni intanto ne erano passati dodici dalle
mie nozze ed ora lentamente, avevo capito che una coppia sposata, nonché i
propri figli, ha un estremo bisogno di una vita che sia quanto più separata
possibile: relazioni forti ed intense con famiglia ed amici, ma anche un
perimetro di vita solo propria. E io questo perimetro non l’avevo mai avuto.
Bastava un semplice litigio mio e di Ron,
normalissimo nella vita da sposati, e Ginny ne poteva avere tutta una telecronaca
visto che le pareti erano di compensato e cartone. E ciò naturalmente finiva
spesso per sedare i miei malumori in modo artificioso, dato che ero a
conoscenza del fatto di voler lasciare la cosa personale, quindi ad un certo
punto della discussione, sebbene insoddisfatta, mi imponevo di tacere per paura
di essere ascoltata. O lanciavo Incantesimi Insonorizzanti che, nei culmini di
nervosismo, potevano anche spaccare i vasi dell’ingresso e non raggiungere il
loro bersaglio reale.
Un mio semplice malessere e voglia di stare da
sola a casa mia, poteva mettere su un caso nazionale, non da ultimo riferito
anche a mia suocera, specie se si traduceva nel mio rifiuto di vedere Harry e
Ginny piombati nel mio salotto per un’improvvisata. I miei figli risentivano molto
della vicinanza continua con i cugini, assimilandone comportamenti da me non
approvati o non graditi: e a questo si aggiunge il fatto che Hugo e Lily non
vadano affatto d’accordo, cosa che aumenta enormemente le mie emicranie.
In questo, si spiega perché proprio stamattina
che sono vittima di questo malessere cretino ed avrei solamente voglia di
passeggiare per arrivare al Ministero, usando magari i mezzi babbani che mi
danno meno nausea della Smaterializzazione, sentire le voci di mio marito e dei
miei cognati in giardino, cosa che mi costringerà a passare loro davanti,
dovendomi intrattenere in una qualche forma di conversazione civile, mi fa
ribollire il sangue nelle vene.
Con fastidio, resto qualche minuto
nell’anticamera del salone, l’orecchio contro la porta, sperando che ci mettano
poco a terminare le chiacchiere così che io possa sgusciare fuori, non vista.
Ma naturalmente i discorsi si protraggono oltre il tempo concessomi dal fatto
di essere l’unica, ancora, che deve andare al lavoro e che già beneficerà di
qualche minuto di permesso a causa del mio malore.
Aggiungiamoci pure che l’Ufficio Auror è parco
di attività prima di Natale e, se Ron deve recarsi alla sede centrale per delle
scartoffie dopo le undici, Harry non ha nemmeno quell’occupazione, avendo
sistemato tutto prima delle tanto agognate ferie per dedicarsi completamente
alla motocicletta di Sirius, che necessita dell’ennesimo check
up. Ginny, ovviamente, scrive per la Gazzetta del Profeta: può decidere
autonomamente i suoi tempi di lavoro, anche se questo implica iniziare a
scrivere la telecronaca dell’incontro delle Holyhead Harpies dopo una corroborante chiacchierata con marito e
fratello. Nondimeno posso sperare che ad Hugo, improvvisamente, sia venuta
voglia di andare a scuola: lo sento urlare acidulo qualcosa all’indirizzo di
Lily, che strilla ugualmente irritata qualche serie di improperi al suo
indirizzo.
Per un attimo penso di Smaterializzarmi,
fregandomene della nausea e di tutto: ma la pila di depliant
delle agenzie immobiliari che accatasto da tre mesi in cucina affinché Ron dia
loro un’occhiata, magari approvando il cambiamento di casa, mi fa desistere.
L’acido nervoso che sento in gola, constatando come ogni giorno che non sono
stati minimamente toccati probabilmente al grido di “Stiamo così bene qui!”, si
traduce nell’ennesima torsione olimpionica del mio stomaco. Alla fine, quando
comprendo che la cosa andrà per le lunghe, respiro profondamente nella mia
sciarpa grigia e mi preparo ad uscire, malgrado il fuoco incrociato che mi
aspetta. Chiudo gli occhi per qualche secondo, la mano sulla maniglia, mentre
mi riprometto di imbottirmi di un digestivo per farmi passare l’acidità che
inevitabilmente sta per peggiorare.
Quando però esco in giardino, il sole dolcemente
tiepido che filtra tra le nuvole e mi soffia in viso uno stralcio di buonumore
destinato a soccombere presto, comprendo che avrò bisogno di un’autobotte di
digestivo, non di una semplice bustina. La quantità di decibel prodotti dalla
conversazione pacata che si sta tenendo all’esterno, infatti, mi fa
convenientemente supporre che ben presto sarà infranto il muro del suono, cosa
che produrrà un’onda d’urto terrificante, in grado di schiantare al suolo tutte
le persone nel raggio di quattordici miglia. La strada è ancora tranquilla,
poche persone camminano pigramente per raggiungere il posto di lavoro, sferzate
da un venticello gelido che preannuncia la prima neve dell’anno. Darei di tutto
per respirare questa pace prima di arrivare in ufficio, ma la mia caotica famiglia
non è del medesimo avviso. Ron ha completamente perso di interesse in Hugo per
dedicare tutta la sua attenzione ad Harry, che a sua volta è intento a
controllare una perdita d’olio della motocicletta di Sirius, cosa che fa
gocciare un liquido nerastro di pessimo odore nel nostro vialetto
d’ingresso, dato che al mio intelligente marito è venuta la straordinaria idea
di concedere al suo cognato preferito di eseguire le piccole riparazioni del
veicolo da noi, visto che Ginny sostiene che i fumi di scarico facciano male
alle sue piante aromatiche. Non al mio equilibrio psicofisico fanno male, ma
alle sue piante.
Già questo basterebbe per farmi urlare come
un’isterica pazza, ma la ciliegina sulla torta è mio figlio che continua a
gridare come un ossesso contro Lily, che risponde con una serie di pacati e
calibrati calci negli stinchi di Hugo. Ad ogni calcio ben assestato, il volume
delle urla di Hugo aumenta sensibilmente ed, in tutto questo, naturalmente
Ginny è assolutamente calma ed indifferente. Si limita ad una serie di stanchi
rimproveri all’indirizzo della figlia che non sovrastano nemmeno gli strilli
dei due bambini. La comprendo in fondo, Lily è decisamente una bambina
impossibile, ci sta che la mia amica sia già stravolta alle otto di mattina.
Lily non ha mai legato granché con nessuno né all’asilo, né tantomeno alla
scuola elementare. Nemmeno con i suoi fratelli ha un rapporto così idilliaco. È
prepotente, violenta, testarda, decisamente difficile da gestire. In questo
assomiglia abbastanza a Ginny, credo che abbia risentito anche lei, come sua
madre, di essere cresciuta con due maschietti più grandi ed intraprendenti. Ma
se questo in Ginny provocò dapprima una fortissima timidezza, e successivamente
in pubertà una grande carica e forza emotiva, Lily invece ha appreso in modo
inconscio che l’unico modo che aveva per farsi rispettare era urlare, gridare,
calciare, picchiare, anche se fosse solo per ottenere un gelato. Spesso,
abbiamo cercato di farla legare con i suoi coetanei, ma è sempre stato un completo
disastro. Non ha mai trovato nessuno che le tenesse testa, in modo deciso ma
comunque non violento: o finiva per trovare altre attaccabrighe con cui
ingaggiava lotte senza quartiere, o bimbe delicate come fiori che strillavano
come matte al primo accenno di prepotenza. Questo ha finito per irrigidire Lily
sempre di più, rendendola sempre peggiore nei modi e nel comportamento, facendo
arrendere anche Harry e Ginny che ormai tendono ad ignorare il problema,
sperando che, una volta ad Hogwarts, la situazione si risolvi da sola. Io,
onestamente, non ci giurerei. Ricordo ancora il destino della sua ultima
amichetta, Kara Scamander, la figlia di Luna
Lovegood, una dolcissima piccola bimba dalla pelle bianca e le trecce biondo
platino. Al termine di un solo pomeriggio con Lily, Kara non aveva più soffici
capelli da sfoggiare: in un impeto di furia ed in un attimo di distrazione di
Ginny, Lily glieli tagliò tutti con le forbici. Per fortuna era la figlia di
una donna abbastanza svagata come Luna che non aveva dato peso eccessivo
all’episodio.
Ma in ogni caso, Kara non si era fatta più
vedere.
Esteriormente Lily è un amore di bambina:
capelli rossi e lisci come quelli della mamma, occhi verdi lucenti come quelli
del papà, viso tondo e roseo. Ma basta che apra bocca, e ti fa pentire di
questa tua considerazione ingenua.
Saluto con un cenno del capo Harry e Ron, i
quali, ancora presi nella loro conversazione sullo spinterogeno, si limitano ad
un gutturale cenno di gola che vorrebbe significare per Harry un “Buongiorno
Hermione, mia cara cognata!” e per Ron un “Stai tranquilla amore, tra
poco porto Hugo a scuola, sai che te l’ho promesso!”. Sospiro a lungo prima
di avvicinarmi a Ginny, sperando di non ritrovarmi ben presto a massaggiarmi le
tempie come sta facendo lei, in preda all’emicrania. Abbozzo un saluto, prima
di fiondarmi a dividere le piccole bestioline, rimproverando Hugo con finta
solerzia, tanto per non dare l’impressione di credere che sia sempre colpa di
sua cugina, come invece in realtà ritengo. Hugo, ovviamente, mi mette il
broncio, incrocia le braccia per l’accusa ingiusta e si va a sedere sui gradini
dell’ingresso sotto il portico, guardandomi in cagnesco. In tutto questo, Lily
per un po’ continua a provocarlo da lontano, poi, quando Harry si decide finalmente
a erompere in un rimprovero vagamente più autoritario, scoppia in un pianto
isterico e rientra correndo in casa, convinta di essere immediatamente seguita
da sua madre, pronta a consolarla.
Ginny, invece, decide saggiamente di lasciarla a
macerare un po’ nella sua rabbia stizzita, restando fuori in giardino. Si
appoggia stancamente alla ringhiera che divide le nostre due abitazioni con un
forte sospiro, ha i bei occhi azzurri cerchiati dal sonno e sembra abbastanza
stanca. Anche il suo corpo si è appesantito nel corso degli anni, rendendola
più simile a sua madre di quanto era da ragazzina. Ma resta una donna forte,
energica, attiva. Troppo, forse. Credo che la vita domestica le stia
stretta, sebbene scriva per la Gazzetta del Profeta, lo fa da casa e questo ha
contribuito che si lasciasse molto andare con il tempo. Della scattante
giocatrice di Quidditch di qualche anno fa, è rimasto poco. Non è una, però,
che si lascia andare, che si dichiara sconfitta, che subisce la vita. Forse,
per questo le voglio così bene ed è ormai una sorella per me. Ha sempre quello
scatto di coraggio che a me manca, sopito nel conformismo. Ha deciso di
frequentare un corso per diventare volontaria al San Mungo, non lo avrei mai
detto, ma le piace la medicina. Le ho chiesto una volta, perché non ha mai
provato a diventare Medimago. Lei si è chiusa nelle spalle, ha fatto un sorriso
storto e ha borbottato dicendo che le Holyhead Harpies, ai tempi, le avevano garantito un buono stipendio
e, con Ron che frequentava il Corso per diventare Auror, non voleva gravare
troppo sui suoi genitori che già pagavano le spese di suo fratello.
Non so perché, ma sono convinta che sarebbe
stata un buon Medimago. Glielo dico spesso, ma lei si schermisce innervosita.
Solo alcune volte, accetta di buon grado il complimento e questo
tendenzialmente avviene quando parliamo della mia ferita magica sulla schiena:
quella che mi sono procurata un anno dopo la fine della guerra, in un covo di
Voldemort dove aveva lasciato delle vecchie carte muffite riportanti i nomi dei
suoi Mangiamorte. Gli Auror avevano chiesto l’intervento del Dipartimento della
Cura delle Creature Magiche dove allora lavoravo, perché a guardia della grotta
vi era una statua che si trasformava in una sorta di Basilisco. Avevo sottovalutato
il pericolo di quella creatura, finendo per essere colpita dal suo veleno e
procurandomi una ferita maledetta che riprende a sanguinare nelle notti di
novilunio e per cui sono sempre costretta ad assumere una pozione una volta al
mese. Ebbene, è su quella che Ginny ciancia spesso. Sostiene che, secondo lei,
potrebbe sparire del tutto con una sorta di pozione potenziata del veleno del
Basilisco stesso, che mi immunizzerebbe dalle tossine in modo permanente. La
lascio parlare e sorrido calorosa solo per incoraggiarla.
Dovrebbero mandarmi in coma per provare una
Pozione del genere.
“Lo sai che la colpa era di Lily, vero?”
esordisce Ginny a mo’ di saluto, guardandomi in tralice. Punta sul vivo,
replico affannata ed imbarazzata: “Certo perché Hugo invece era calmo e
serafico? Ho sentito le sue urla dal primo piano…!”, getto un’occhiata
colpevole al mio bambino, ancora seduto scornato sui gradini, promettendomi di
ricompensarlo per questo rimprovero ingiustificatamente subito.
Mia cognata sorride dolcemente, limitandosi a
staccare una foglia secca dalle parete di ibisco rosso che divide i nostri
giardini, prima di soffiare fuori: “A volte penso che se fossi stata meno a
casa e l’avessi asfissiata di meno con le mie cure da “sei la sola
femminuccia!”, sarebbe venuta su molto meglio…”.
“Non dire sciocchezze, Gin… ogni bambino è
diverso dall’altro…” commento fiocamente, sollevando il capo per respirare a
pieni polmoni l’aria mattutina “Non sarebbe cambiato nulla… e poi…”, cerco di
aggiungere con tono di voce allegro, rassicurandola: “Credo che stiano
migliorando le cose, no? Ultimamente la vedo più… tranquilla, ecco…”.
Alludo effettivamente al fatto che Lily non abbia preso a morsi il polpaccio di
Hugo, non mollando la presa nemmeno al rimprovero di Harry e ad un tentativo di
esorcismo: per i suoi standard, è un comportamento decisamente tranquillo.
“A dire cazzate, fai pena…” commenta con una
risata Ginny, scuotendo il capo “Quasi quanto quei due come meccanici…” e con
un’alzata di spalle, indica i nostri adorabili mariti, intendi a riempirsi di
grasso ed olio del motore. Sospiro lungamente, anche Hugo ha lasciato perdere
il suo contegno offeso per osservare con occhio clinico la vettura. Cerco di
comunicare telepaticamente a Ron di stare perlomeno attento a nostro figlio e
al fatto che non si imbratti come un operaio su una piattaforma petrolifera, ma
ottengo solo che Ron risponda a qualche affermazione di Harry con un sentito: “Miseriaccia!”.
“Siamo circondati da mocciosi…” sorride Ginny
con rassegnazione, a cui rispondo con un sentito verso gutturale di assenso.
Una folata ghiacciata di vento mi soffia sul viso, costringendomi a chiudermi
meglio nella mia sciarpa che, a quel refolo, rilascia un buon odore di pulito.
Ginny si informa sui miei programmi mattutini, dolendosi del fatto che il
Dipartimento della Regolazione della Legge Magica non abbia ancora dichiarato
la sosta natalizia, e io rispondo accorata sebbene meno sentitamente di lei. In
realtà, andare al lavoro non mi disturba affatto, ho ancora una decina di cause
da sistemare prima delle festività e spero di riportarmi in pari entro oggi.
“E tu, invece?” chiedo cortese a Ginny che, con
un’efficace movimento rotatorio degli occhi a testimoniare la sua irritazione,
mi racconta di avere l’ennesimo incontro con le insegnanti di Lily dato che la
bambina ha versato un barattolo di vernice gialla addosso ad un altro bambino,
per giunta autistico, che adesso si rifiuta di recarsi a scuola.
“Forse ti ricordi di chi si tratta…” commenta
Ginny con calma, enumerando sulle dita “Ricordi Natalie McDonald? Grifondoro,
occhi verdi, carina?”.
“Vagamente…”.
“Insomma, è suo figlio il bambino, Elias si
chiama… già ha mille problemi relazionali, ci mancava anche incrociare la
strada con quel Anticristo che mi trovo per figlia…”.
Rido sommessamente nonostante tutto, prima di
rendermi conto che è già abbastanza tardi e che devo correre in ufficio, specie
se ho intenzione di camminare un po’ ed usare i mezzi pubblici. Ginny, per
fortuna, viene richiamata in casa da uno squillo del telefono, utensile che si
è rivelato necessario visto che viviamo in una strada babbana e il passaggio di
gufi, alla lunga, sarebbe stato notato. Il fatto, poi, che il telefono squilli
per due volte e poi si interrompa per poi ricominciare con questa sequenza una
decina di volte, ci fa intuire agevolmente che si tratta di una chiamata di
Molly: nonostante tutte le spiegazioni del caso, non ha mai imparato bene l’uso
di questo “infernale aggeggio!”.
Lieta di poter sgusciare via prima che, per
qualche minuto, la chiamata di mia suocera coinvolga inaspettatamente anche me,
saluto velocemente Ginny ed Harry ed ingiungo a Ron di muoversi a portare Hugo
a scuola, prima di incamminarmi verso la stazione della metro.
Che viva da un po’ troppo tempo come strega, mi
si rende evidente subito: sono sempre stata convinta di essere una di quelle
donne che, sebbene abbiano dei poteri magici, non dimentichino mai la propria
origine mezzosangue e preservino quindi il senso dei piccoli riti delle persone
assolutamente normali. Per questo casa mia è piena di elettrodomestici, ho
obbligato Ron a prendere la patente di guida e ho erudito i miei figli sugli
aspetti essenziali della vita babbana. Nonostante questo, la maggior parte
della mia esistenza quotidiana prevede l’uso di una bacchetta e il fatto che,
invece, stamattina mi sia obbligata a prendere la metro come una normale donna
londinese che va al lavoro, mi avvisa di quanto in realtà sia rimasta indietro
senza accorgermene.
Per prima cosa, superato il complesso di case
residenziali dove vivo con la mia famiglia, mi accorgo della presenza di molta
più gente per strada di quanto sia abituata o di quanto mi ricordi: negli anni
ho dimenticato la regola basilare di stare sempre sul lato più interno del
marciapiede, se non vuoi rischiare di essere travolto da chi cammina a velocità
molto più sostenuta di te. E quindi subisco una serie di spintoni, pestoni e
collisioni tra i miei talloni e le ruote di diversi passeggini. Se quindi
pensavo di poter fare una tranquilla passeggiata che mi facesse passare nausea
ed emicrania, mi sbaglio notevolmente.
Arrivo alla stazione della metro di Earls Court ben più nervosa di quanto fossi all’uscita di
casa, anche perché nel frattempo ha iniziato a scendere una pioggerella
irritante come solo a Londra può esistere, e io naturalmente ho
dimenticato di portarmi l’ombrello, regola basilare della vita in questa parte
d’Inghilterra.
Tra le altre cose che ho rimosso, abituata a
Polvere Volante e Smaterializzazione, c’è la precauzione necessaria di vestirsi
a cipolla quando si ha intenzione di prendere la metro, visto che, se
all’esterno la temperatura può essere di -10 gradi, dentro invariabilmente si
toccheranno i massimi della regione di Calcutta quando l’asfalto si scioglie.
Questo significa inevitabilmente che, all’acqua che mi sono presa fuori, si
aggiunge il sudore dentro, oltre ad una sequela di bestemmie quando capisco che
il costo del biglietto giornaliero è aumentato di una sterlina.
Tutto farcito da un’altra serie di interessanti
iterazioni umane, consistenti in spallate e calci accidentali vari, mentre
controllo che linea devo prendere, visto che ce ne sono un paio che non
conosco.
Ovviamente sarebbe semplice adesso rinunciare
al mio esperimento pseudo-sociologico ed afferrare la bacchetta che mi preme
nella tasca e raggiungere l’ufficio in tre secondi, visto che l’emicrania che
volevo scacciare si è triplicata ed adesso assomiglia ad un martello pneumatico
che perfora un muro.
Ma ovviamente faccio di nome Hermione Granger,
con sottotitoli onorari a testimoniare la caparbietà, l’ostinazione, la
tenacia, assieme ad una buona dose di puntiglio. Quindi, insisto mentalmente
per arrivare al lavoro in metro come mi ero prefissa. Presa dal mio delirio di
onnipotenza, dimentico un’altra regola fondamentale.
Non ascoltare musica in metro se sei seduta, ma
circondata da persone in piedi che ti impediscono di capire a quante fermate
sei dalla tua.
Mentre infatti sono ancora intenta a skippare a
piè pari tutte le canzoni d’amore che sono residuate sul mio i-pod e che mi
causano un’orticaria fulminante a braccia e gambe, non mi rendo conto di aver
abbondantemente superato la mia fermata. Quando capisco che dovrei essere già
arrivata e mi alzo alla successiva apertura delle porte, leggo con fatica sul
cartellone la beffarda scritta “Notting Hill”, intuendo
che, non solo sono scesa in ritardo e mi sono distratta, ma ho preso anche la
metro che va in direzione esattamente opposta alla mia.
Borbotto a denti stretti catapultandomi fuori
dal vagone già in ripartenza, prima di allontanarmi ancora di più dalla mia
meta. Il caldo nella stazione è asfissiante e la gente mi urta senza ritegno,
mentre cerco di arrivare al pannello delle linee, così da capire quale mi
conviene prendere per tornare indietro. Davanti agli occhi, le semirette
colorate danzano pericolosamente e si attorcigliano in modo confuso, mentre il
nome “Notting Hill” continua a riecheggiarmi in testa
come se fosse il suono di una campana rintoccante, risvegliando alla
rievocazione della mia stupidità la celeberrima nausea.
Solo che questa volta, al lampeggiare sinistro
del nome di quella stazione della metro, il mio malessere sembra persino più
forte del solito: arrivo persino a piegarmi in due su me stessa, come se stessi
per rimettere anche l’anima, una mano premuta sulla bocca a far sì che non
filtri alle mie narici alcun odore molesto. E lì che mi preoccupo davvero ed
impensierisco: che diamine è questa nausea?
Sperando che l’aria fresca mi arrechi sollievo,
ignorando che siano ormai quasi le nove, salgo velocemente le scale, la mano
sempre a premere sulle labbra, ed esco velocemente all’esterno, ritrovandomi
nel traffico del colorato quartiere di Londra che, solitamente, frequento meno.
L’aria fredda mi sferza il viso accompagnandosi all’odore dell’erba bagnata:
finalmente ricomincio a respirare e la nausea si acquatta in un angolo del mio
stomaco.
Non è una cosa però su cui stare sereni e
tranquilli: mi appunto mentalmente di vedere quanto prima un medico. Da un po’,
accade molto più di frequente. Posso anche darmi adesso la giustificazione del
caldo della metro, ma stamattina a colazione, quando mi è saltato in testa di
chiamare mio figlio Alex, stavo benissimo. Solo a ripensarci, la testa riprende
a girare come una trottola impazzita.
La cosa migliore da fare è fermarmi da qualche
parte per prendermi qualcosa da bere, magari una limonata. Mia mamma diceva
sempre che è un rimedio ideale contro il mal di stomaco. Magari sedendomi per
qualche secondo potrò anche recuperare le energie e non rischiare di collassare
prima di arrivare al lavoro. Per fortuna, ha anche smesso di piovere quindi
posso fare quattro passi come era nelle mie intenzioni iniziali. Apro la borsa
e ne estraggo il mio cellulare, lo uso di rado e solo per comunicare con Leda,
la mia segretaria. Essendo abbastanza più rapida a comprendere come funziona un
sms rispetto alle sue coetanee purosangue, le mando velocemente un messaggio
per avvisarla che arriverò più tardi del previsto. Il quartiere, nonostante le
mie premesse e i rifiuti, non è affatto male: è pittoresco, vivace, attivo.
Cammino un po’ guardandomi avidamente attorno, la folla colorata e multietnica
che scorre vicina a me. I negozi sono pieni di merce particolare, soppesata con
occhio critico dalla clientela, e per un po’ gironzolo beatamente senza
pensieri, pentendomi di non esserci mai venuta prima con più calma.
Del resto, constato con una punta di acidità
mentale, non sarebbe nemmeno stata la stessa cosa se ci fossi venuta con Ron,
che avrebbe sbuffato ogni due per tre se mi fossi fermata davanti a qualche
vetrina, oppure peggio con i miei figli, che mi avrebbero reso materialmente
impossibile prestare attenzione a qualsiasi cosa diversa da loro. Mi riprometto
mentalmente di prendermi più tempo per me stessa, come tecnicamente faccio
sempre, riuscendoci molto poco: infatti, se non fosse stata per questa nausea
maledetta, non penso che mi starei nemmeno parzialmente godendo questo momento.
Con un sorriso quasi colpevole sul volto, un
raggio di sole che mi colpisce di oro gli occhi, percorro un vialetto alla mia
sinistra, quasi spinta dall’istinto di scoprire al meglio questo quartiere
dimenticato. Nella mia testa, per dimenticare che sono sempre in ritardo per il
lavoro, mi dico che sto sempre cercando un pub o qualcosa del genere, così da
prendermi qualcosa che combatta il mio malessere.
Il viale che percorro è dominato da una serie di
imponenti alberi di magnolia e da una sfilza di bancarelle all’aperto che
vendono cibi di ogni sorta. Incuriosita da una bancarella ricolma di trecce
d’aglio e spezie odorose, gestita da un francese dal naso rosso, intravedo
all’angolo del palazzo un negozio di fiori.
Ammiro il contrasto cromatico tra una serie di
vasi di latta azzurra e delle meravigliose peonie bianche.
Al ritorno di una nuova vertigine, temendo di
schiantarmi al suolo, decido di accelerare la ricerca almeno di una
caffetteria, imboccando una stradina alla mia sinistra. Dopo un negozio di
musica celtica ed una cartoleria piena di mocciosetti
che comprano le penne colorate al sapore di frutta, vengo attirata da
un’insegna luminosa che assomiglia vagamente a quella di un pub o qualcosa del
genere. Mi avvicino cautamente e mi rendo conto che la mia supposizione sembra
essere corretta, i caratteri recano la scritta “Sharon’s
place”.
A meno che non mi sono imbattuta in una casa
chiusa gestita da questa Sharon, questo dovrebbe significare che sono di fronte
ad una specie di pub.
Non che sia del tutto convinta di non essere
caduta in un errore grossolano, visto che la prima cosa che noto del posto è
che sciaguratamente monocolore nella peggiore delle maniere.
Le pareti interne, la saracinesca, il bancone
che a malapena intravedo, sono tutti di uno squillante e lezioso lilla che
contribuisce a farmi venire il mal di testa.
Chi ha avuto quest’idea geniale deve essere
davvero passabile della pena di morte.
Spio all’interno, notando comunque che è un
locale abbastanza frequentato da gente tutto sommato normale.
Ripetendomi mentalmente che comunque non è che
io debba recensirlo su Tripadvisor, ma solo prendere
una stramaledetta limonata, mi decido ad entrare.
L’interno mi restituisce una sensazione tutto
sommato positiva: si tratta di un ambiente abbastanza grande e luminoso,
frequentato da parecchia gente. Mi dà l’impressione di essere molto più grande
di quello che sembra, e mi chiedo se non sia sprecato come semplice pub.
Intravedo nell’angolo una scala a chiocciola che porta al piano superiore, cosa
che mi fa suppore che probabilmente ci vivano anche qui. Tutto è avvolto in un
odore vezzoso di vaniglia e cannella che, se possibile, contribuisce a farmi
pulsare il cervello di nervosismo. In fondo, intravedo un bancone sempre dello
stesso maledetto colore lilla, verso cui mi dirigo cercando di non inspirare
eccessivamente la mistura caramellosa. Mi siedo con lentezza, quasi timorosa di
innescare una nuova vertigine, attirando con la mia manovra l’attenzione di una
giovane mamma con bambino. Le sorrido rassicurante, lei mi risponde con
educazione, provvedendo a nascondere dall’impeto del figlio il cameo di una
rosa bianca che porta al collo.
Ci sono due cameriere: una dall’aria truce, mora
con lunghissimi capelli neri legati in una sola ed unica treccia, che mi
squadra con i sottili e allungati occhi neri mentre pulisce il bancone con aria
annoiata. All’aspetto poco rassicurante che fa abbastanza a cazzotti con il
color caramella della divisa che indossa, si aggiunge un orribile, a mio dire,
anello al naso ed un tatuaggio d’aquila con le ali spiegate che copre entrambe
le clavicole e che è perfettamente evidente a causa della maglia scollata. La
seconda invece, è una ragazza dai corti capelli biondo cenere con delle ciocche
rosso acceso. Mi sorride e mi sta immediatamente più simpatica, nonostante
anche lei sembri strana forte. Oltre ai capelli bicolori, la cui frangetta
copre quasi integralmente i suoi occhi celesti, porta anche lei un brillantino
al naso, ma la cosa strana è che da esso pende una catenina d’argento che
conduce all’orecchio e alla piccola gemma rossa che splende sul lobo. E
comunque, alla catenina, è appeso un ciondolino a forma di croce anch’essa
rossa. Lei, almeno, sembra lievemente più compatibile cromaticamente con la
divisa.
Chiedo a quest’ultima una limonata, fidandomi
maggiormente della sua aria svagata che di quella da omicida seriale della sua
collega, poi, in un impeto di espansività, mormoro: “Non ero mai venuta qui…
sembra un posto…”, così maledettamente fru-fru che persino Lavanda Brown sarebbe potuta sembrare una donna di concetto al
confronto “… carino…”, commento diplomatica, prima di chiedere con un
sorriso educato: “Siete aperti da molto?”.
“Da troppo siamo aperti…” schiocca la
lingua scocciata la tizia truce guardandomi storto, come se fossi una di quelle
vecchiette che vogliono per forza intavolare una discussione annoiando il
prossimo. Roteo gli occhi rinunciando al mio eccesso di confidenza, non prima
però che la bionda decida invece di rispondermi al suo posto: “Siamo aperti da
circa cinque anni, signora”. Una vena del collo, all’appellativo, mi si
gonfia paurosamente mentre la mia bacchetta freme nella mia tasca, sprizzando
qualche immaginaria scintilla al pensiero di quante maledizioni potrei
lanciarle, visto che non ritengo di meritare l’epiteto essendo lei quasi mia
coetanea. Mi guardo nel riflesso dello specchio alle spalle del bancone ed
analizzo distaccata il mio trench beige, il mio maglione a collo alto, le mie
occhiaie scure, il mio pallore e i miei capelli legati in una crocchia
distratta. Per la prima volta comprendo che effettivamente dimostro più anni di
quelli che ho, specie quando sono stanca. Ricaccio indietro l’accesso di ira
alle parole della svampita cameriera e sorseggio pensosamente la mia bibita.
“Va tutto bene?” si informa a quel punto una
voce comparsa alle mie spalle, con un accento dolce eppure petulante. Mi volto
su me stessa e, nella stessa irritante divisa lilla, c’è una donna dai capelli
rosso-ramati, il viso paffuto e gli occhi verde sporco. Una targhetta appuntata
sulla camicia recita compita “Sharon Tingle”, quindi
suppongo che sia la proprietaria, probabilmente incuriosita dalla presenza di
una cliente nuova da dover a tutti i costi ammaliare così da renderla una
presenza abituale. Sorrido annuendo, prima di chiedere ragione della mia
congettura. D’altronde, il pub ha praticamente il suo stesso nome.
Mi pento del mio slancio di gentilezza circa
cinque secondi dopo la suddetta domanda. Sharon è infatti una donna prolissa e
dalla chiacchiera facile e, come se non bastasse, il nome del pub racchiude
praticamente tutta la sua storia d’amore con suo marito. Assolutamente non
richiesto, mi giunge quindi tutto il racconto del momento in cui ha rincontrato
suo marito a Londra dopo anni in cui non si vedevano, dato che avevano
frequentato la scuola assieme, e di come allora fosse scoppiata tra di loro la
scintilla, sebbene ai tempi del liceo non si fossero mai granché filati di
striscio. Conosco quindi tutti i particolari del loro sogno di aprire un pub a Notting Hill, di come questo era stato più complesso del
previsto e di come, quando alla fine ci erano riusciti, lui fosse stato così
sollevato dalla cosa da decidere istintivamente di chiamare il posto come la
sua adorabile mogliettina. Così che tu possa sentirti sempre a casa, aggiunge
con tono di voce sognante, congiungendo le mani e poggiandole drammaticamente
sulle guance, mentre mi sono slogata la mascella a furia di finti sorrisi e di
cenni del capo entusiasti. In compenso, essendo alla mia quinta limonata, posso
dire la mia nausea completamente dissolta.
Avendo quindi la bevanda svolto il ruolo che
ancestralmente mia madre le attribuiva, mi chino per recuperare la borsa ed
andare via, ma ovviamente la verbosa Sharon ormai mi tratta da amica del cuore
ed insiste per presentarmi il formidabile marito campione di romanticismo.
Erompe quindi in una specie di richiamo, probabilmente utilizzato anche dalle
femmine di pipistrello per attirare l’attenzione dei compagni, e da una porta
laterale compare l’uomo intento a pulirsi le mani bagnate su un canovaccio.
Dall’espressione vacua, comprendo che probabilmente era dedito a qualche
attività che il gracchiare della moglie ha bruscamente interrotto. Lo studio
per qualche secondo, uno strano allarme nel cervello: non mi sembra di averlo
mai visto, ma ha qualcosa di vagamente familiare. Non dimostra più di
trent’anni, in tutto e per tutto è un normale ragazzo dai ricci capelli scuri e
dagli occhi verde acqua. Mi squadra torvo per un po’, mi studia attentamente
guardandomi in tutta la mia figura per un paio di volte. Indugia sui miei
capelli raccolti alla bell’e meglio, mentre io mi serro nelle spalle. Sbuffa
con il naso un paio di volte esibendo una specie di broncio infantile, prima di
borbottare qualcosa all’indirizzo di Sharon.
Non so perché continuo a squadrarlo senza ritegno,
come se ci fosse qualcosa che stona in lui. Sembra il più normale dei ragazzi,
solo un po’ trasandato e stanco. Probabilmente la giovane moglie lo sta
rintronando, appesa com’è al suo braccio ed intenta all’ennesima rievocazione
della loro saga romantica, ma è un’espressione che non mi ricorda la
superficialità maschile che ha spesso anche Ron quando straparlo. Piuttosto…
sembra davvero e sinceramente spazientito. Nulla di lui richiama l’eroe
romantico che stava descrivendo sua moglie… e forse è questo che mi sembra così
sbagliato nel suo aspetto.
Del resto non ha nulla che sembri strano alla
vista: indossa dei jeans un po’ strappati sulle ginocchia, una maglia rossa da
calcio lievemente stinta sui bordi, delle scarpe di tela sporche di polvere
bianca e gialla.
Sembra solo lievemente più scuro di pelle del
consueto, cosa che mi fa intuire che non sia inglese al 100%.
Eppure la sensazione che ci sia qualcosa che non
va, non mi fa dismettere lo sguardo indagatore.
Non sorride nemmeno per sbaglio. Neanche per educazione: sembra che faccia
fatica persino a restare fermo qui.
Come faccia sua moglie a non rendersene conto, è un autentico mistero.
“Devo tornare al lavoro, Sharon…” ingiunge dopo
un po’ con voce atona “Devo riparare il rubinetto del bagno di servizio prima
che ci allaghiamo…”.
“Certo, tesoro! Vai pure… credo di aver tediato
fin troppo la nostra gentile cliente…” ridacchia scioccamente Sharon, ancora
bellamente ignara dell’evidente espressione insoddisfatta del marito, persa
com’è nella sua nuvola rosa. Ed è da lì che si rende conto di non sapere
nemmeno come mi chiamo.
“Hermione Jane Granger” sorrido educatamente,
porgendo la mano ad entrambi. Il ragazzo la afferra in modo distratto in una
presa umida e un po’ lenta, sussurrando in un sospiro lieve: “Il mio nome è
Seth Green…”. Nelle sue dita che, immediatamente, senza alcuna partecipazione
emotiva, lasciano le mie, avverto di nuovo quello strano senso di estraneità
che non riesco a spiegarmi.
È qualcosa che mi spinge a voler trattenere la
malinconia di questo ragazzo come se temessi che, lasciato da solo in questo
pub che sa di frivolo e sciocco, possa commettere qualche pazzia. Della sua
tristezza, si ammanta ogni cosa circostante, eppure nessuno sembra rendersene
conto.
Presa da questa strana angoscia vedendolo darmi
già le spalle, dico frettolosamente: “E’ molto bello amare così tanto una
persona dopo tanti anni…”, riferendomi ovviamente alla moglie che continua a
vomitare melensaggini. Seth si volta verso di me, per un attimo con un singulto
negli occhi verdi da farmi temere che si metta a piangere così, di schianto. Mi
agghiaccia il cuore e d’istinto, mi guardo attorno come a cercare un appoggio,
un sostegno, sotto quell’insopportabile sguardo. Non ne trovo nessuno e mi
sento soffocare.
“Certo, è bellissimo, Hermione… glielo
posso assicurare…” ribatte caustico, come se stesse pensando tutto il contrario
di quello che sta dicendo e si divertisse a farlo fluire nelle parole che la
moglie non comprenderà, sciocca com’è “L’amore dovrebbe farti cambiare e
renderti migliore. Spingerti ad essere te stesso. Fortunatamente io ho
una persona che mi ama esattamente così come se fossimo ancora al liceo…”.
Ogni sua parola oscilla tra la stanchezza ed il
veleno, come se fosse semplicemente troppo annoiato per ribellarsi davvero, ma
al contempo non abbia ancora rinunciato ad un tono dismesso e crudele. È
evidente e palese che non ami questa donna dalla voce trillante e dal
comportamento appiccicoso: perché sia evidente a me che lo conosco da cinque
secondi ma non a lei, resta un mistero. Non so come mi sia trovata io, qui, una
perfetta estranea, a comprendere tutto questo, ma penso che sia semplicemente
perché questo ragazzo è circondato da idioti. Cammina con un enorme segnale in
testa di infelicità, ma nessuno pare accorgersene, e ciò stranamente mi fa
sentire responsabile della sua serenità come se lo dovessi abbandonare in mezzo
al mare.
Mi riprometto di tornare qui come se dovessi
tipo tenerlo sotto controllo, e non posso fare a meno di provare un senso
inconsueto di abbandono quando sparisce nel retrobottega, mentre io pago le mie
consumazioni. Afferro la mia borsa lasciata su una sedia ed esco fuori
respirando di nuovo, come se un po’ di quell’aria interna mi avesse viziato il
fiato.
“Mi scusi, signora?”.
E con questa fanno due appellativi da sessantenne in una giornata, borbotto tra me e me, voltandomi in direzione della voce che mi ha
richiamato indietro appena fuori dal “Sharon’s place”.
Mi ricompongo un po’ quando mi rendo conto che
si tratta di un agente di polizia: assumo subito un contegno rispettoso, mentre
l’uomo, non molto più grande di me, mi chiede numi su un auto parcheggiata
nella strada nonostante un ben evidente divieto di sosta e fermata. Faccio
spallucce assicurando che non sia mia, l’agente sospira rumorosamente come se
fosse profondamente stanco, cosa che marchia la sua espressione apparentemente
arcigna di una ruga di sconforto che me lo rende immediatamente più simpatico.
Mi affretto quindi a dire partecipe, indicando
con il capo il pub da cui sono uscita: “Molto probabilmente è di qualcuno che
prende un caffè…”, aguzzo la vista per leggere la targhetta del nome che porta
appuntato sulla divisa linda e pulita, Kevin Stevenson, prima di
concludere con un riverente: “… agente Stevenson…”.
L’agente mi restituisce un sorriso slavato che
non gli arriva agli occhi oltremare, prima di concludere annoiato che molto
probabilmente ho ragione.
Lo seguo per un po’ con lo sguardo mentre entra
nel locale, mi pare persino di sentire la voce di Sharon che squittisce
qualcosa e chiama di nuovo a gran voce suo marito Seth per risolvere la grana.
Accarezzo la mia sciarpa grigia, affondandoci il
naso dentro per ripararmi da un improvvido vento ghiacciato.
Mi restituisce un accenno dell’odore di pioggia
che soffia il vento sul mio viso, cosa che mi ricorda per associazione di idee
l’erba bagnata nel mese di settembre, quando pochi giorni prima del mio
compleanno l’estate dismette i suoi panni e il mondo sembra più dolce, più
tiepido. Non hai paura della tempesta, sebbene si addensi all’orizzonte. La
terra ha aspettato tanto la pioggia, arsa dal sole. E, quando finalmente sta
per erompere dal cielo, pensa a mettere a riparo i suoi figli, temendo che si
facciano del male. È forte abbastanza da sopportare il suo impeto? Non lo sa.
Rabbrividisce per i tuoni, geme per i fulmini,
impallidisce per i lampi.
Ma sa che accetterà la pioggia, perché la pioggia è il suo destino.
Sorrido un po’ adesso, senza motivo, solo con
quel profumo nelle narici.
Improvvisamente certa, sicura, che per ognuno ci
sia un destino in attesa.
Persino per il ragazzo dall’aria sconfitta di
nome Seth.
Andare al lavoro per me è diventato da anni uno
slalom continuo nella stupidità umana. Uno pensa che magari io esageri perché,
oggettivamente, non ho molta tolleranza nei confronti della comune mancanza di
buon senso. Non sarei appellata ogni due per tre da mio marito come poco
elastica, se non fosse così. In realtà, a sfidare anche la logica e la
statistica, nel Dipartimento della Regolazione della Legge Magica si sono
concentrati le menti meno eccelse della Storia del Mondo della Magia a partire
da Mago Merlino e dagli incantatori di serpenti saraceni. Non so per quale
ancestrale motivo ciò sia accaduto.
D’altronde siamo una delle branche più
importanti del Ministero: quella che, a rigor di
logica, garantisce integrità e tranquillità nel nostro mondo e nel rapporto con
quello babbano. E sicuramente non mancano elementi validi, senza falsa
modestia, come la sottoscritta.
Ma, tralasciando qualche altro infaticabile
dipendente, c’è stata in questo dipartimento una concentrazione tale di idiozia
da vanificare ogni mente vagamente illuminata che potesse averci messo piede.
Io non dovevo lavorare qui, ovvio: la vita
spesso, però, si attorciglia e annoda attorno ad eventi che uno non potrebbe
mai preconizzare. E quindi ti ritrovi in un ufficio a quasi quarant’anni, senza
che niente, prima, ti abbia avvisato che saresti finita qui. Ero tornata ad
Hogwarts alla fine della guerra, avevo completato la mia istruzione magica come
a quei due asini di Harry e Ron non era assolutamente saltato in mente. Avevo
ovviamente messo il muso, il broncio, ma non era servito a nulla: a loro due
era sembrato assolutamente normale non terminare gli studi.
Avevamo diciotto anni, un’età in cui pochi soldi
in tasca fanno già una differenza abissale tra sentirsi bambini e sentirsi
adulti.
Harry, il ricco orfano di guerra ora anche eroe,
aveva saggiamente deciso di investire le sue risorse economiche, lievitate dopo
la guerra con i suoi encomi ed onori, per frequentare il Corso per Auror.
Sembrava una strada quasi obbligata per lui, e non aveva deluso nessuno. Si
trattava di studi impegnativi, gravosi, pesanti anche dal punto di vista
strettamente monetario, ma Harry non si era fatto dissuadere.
In pochi anni, era riuscito a raggiungere
l’agognato titolo, aveva cominciato ad uscire in missione, si era inserito
perfettamente nella vita criminale del mondo magico come uno spauracchio
letale.
C’era stato un periodo in cui era stato tentato
dalla carriera politica, aveva pensato persino di concorrere come Ministro
della Magia, ma poi aveva deciso di restare nel Corpo degli Auror.
Il motivo era semplice: ci era entrato anche
Ron.
Questo, in effetti, era molto meno scontato:
finita la guerra, dopo la morte di Fred, era stato per lui naturale restare nel
negozio a Diagon Alley per aiutare suo fratello George. Faceva qualche soldo,
poteva permettersi persino di offrirmi delle cene eleganti in occasioni di
anniversari e compleanni e questo, per il ragazzo che aveva avuto sempre poco o
niente se non di seconda mano, faceva tutta la differenza e l’entusiasmo del
mondo. Poi, terminato il primo periodo di euforia, Ron comprese che quella non
era la sua strada, ma era una modellata su quella del defunto fratello. Non era
giusto per nessuno giocare a sostituirlo se lui aveva altri sogni e desideri:
del resto, poi, George aveva sposato da poco Angelina e, naturalmente, il
negozio di scherzi era diventato la fonte di sostentamento della neonata
famiglia. Ron era velatamente, ma naturalmente, diventato di troppo.
Fu un periodo complicato e nebuloso. Ron
sembrava avere tante ambizioni, tanti sogni, tanti progetti, ma erano sempre
stelle di fumo, miraggi di nebbia. Era sempre troppo insicuro per provare davvero
a fare qualcosa, aveva sempre troppo timore di fallire e si rifugiava sempre
nella sua famiglia, ora meditando di tornare a lavorare con George chiedendo
magari una paga ridotta, ora pensando di andare in Romania con Charlie, ora paventando
la possibilità di assistere Percy nel suo lavoro. Io, da parte mia, avevo da
poco finito Hogwarts, ero sempre la strega più brillante della mia generazione,
ero presa dall’ansia di dimostrare al mondo quanto valessi. Fu difficile starci
accanto. Era come se Ron temesse sempre che volessi eclissarlo, oscurarlo,
sotto la mia luce. Io mi muovevo sempre in punta di piedi, spaventata di fare
troppo rumore, o di essere troppo brava, o troppo valente per lui e per quello
che stava passando. Finsi quindi un’insopportabile incertezza su che cosa
volevo fare della mia vita, esibendo una specie di dubbiosità insita nel fatto
che mi ero sempre interessata a troppe cose in modo da mostrarmi a mia volta
fallace, umana, corruttibile.
Ron si sollevava d’animo alle mie difficoltà,
comprendeva che magari non era così assurdo che anche lui fosse incerto se addirittura
lo ero anche io: sorridevo, lo rassicuravo, ed intanto facevo colloqui
segreti e spedivo curriculum di notte. Non mi sono mai pentita di questo, mai:
ebbi qualche scricchiolio solo quando Ron si fece coraggio e fece un provino
per una squadra di Quidditch, finendo per essere rifiutato.
Lì, toccammo il fondo. Sul serio. Ron divenne
ombroso, scontroso, chiuso in sé stesso. Passava il tempo seduto sul divano con
un bicchiere di Acquaviola, lo sguardo annacquato nel vuoto.
Iniziammo a litigare sempre più spesso. Per cose
sceme, per cose importanti, per cose sceme per lui ed importanti per me, e
viceversa.
Io dicevo che era troppo immaturo, che doveva
reagire, che era solo un fallimento venale e che ci stava nella scala di cose
che accadono in una vita.
Lui ribadiva che ero troppo rigida, troppo poco
elastica, che non potevo sapere com’era la vita per lui, abituata ad essere
sempre perfetta.
Proprio come accadeva ad Hogwarts. Ma peggio.
Stavolta non c’era Harry a fare da paciere.
Stavolta eravamo anche fidanzati.
Le cose, se possibile, peggiorarono quando
andammo a vivere assieme, convinti che così le cose si sarebbero sistemati,
potendoci prendere cura l’uno dell’altra. Ma prendemmo ad evitarci nelle stesse
mura di quella casa. Lui usciva e tornava a casa tardissimo, ubriacandosi con
gli amici. Io mi addormentavo a braccia incrociate sul tavolo, aspettandolo.
Eravamo sempre stanchi e nervosi, pronti a rimbeccarci in qualsivoglia
occasione. Guardavamo un po’ di tv in silenzio e poi a letto. Ovviamente a
dormire.
Ma, nemmeno per un attimo, ho mai smesso di
credere a me e a lui assieme.
Era il mio destino stare con lui. Eravamo
sopravvissuti a Voldemort, non potevano spaventarci le liste della spesa, le
fatture da pagare e l’affitto.
Lui era il mio principe azzurro da tutta
la vita, stare con lui era ogni giorno una fiaba.
Questa caparbietà fece così che le cose, piano,
iniziassero ad andare meglio. Sostanzialmente per molto dovetti trainare da
sola la mia relazione, sperando sempre che ne valesse la pena. Misi alle
strette Ron, cercai di capire che cosa voleva fare della sua vita, dissi che
non potevamo andare avanti così, nessuno dei due. Mentii e feci ragionevolmente
finta di riferirmi anche a me stessa, che dovevo decidere a mia volta la mia
strada, sebbene dopo mesi l’avevo capito anche io che cosa volessi fare.
Peccato che quella risposta si schiantò come vetro quando scoprii che era la
stessa di Ron.
L’Auror. Entrambi volevamo fare l’Auror.
Confessarlo a Ron lo avrebbe distrutto. Ora che
aveva faticosamente capito che cosa voleva fare della sua vita, se avesse
saputo che c’ero io di nuovo a fargli da contraltare e da luminoso paragone,
sarebbe crollato. Non avrebbe retto. Lo avrei perso sul serio. E io, davvero,
pensavo onestamente che potessi fare qualsiasi cosa.
Quindi lo lodai, lo aiutai a studiare, convinsi
i suoi ad aiutarlo economicamente per la scuola, lo abbracciai e baciai quando
mi disse, con gli occhi lucidi, che ce l’aveva fatta.
Stirai la sua camicia il primo giorno di lavoro
e gli dissi di stare attento, mentre usciva di casa per andare in missione la
prima volta.
Chiusi la porta, mi accasciai contro di essa e
piansi, a lungo. La luce che cambiava nel corridoio per ore, con il mio
sacrificio che premeva nel petto, le mani che mi soffocavano le lacrime in gola
per il mio piccolo sogno infranto. Era odioso capire di volere una cosa nello
stesso momento in cui la si perde. Avevo voluto essere un’Auror per tante cose:
per la scarica di adrenalina che mi avevano dato le mie infinite battaglie, per
il mio desiderio mai arso di giustizia, per la volontà di rendere il mondo un
posto migliore, per la convinzione profonda che sarei potuta essere grande, per
la consapevolezza che volevo dimostrare a tutti quanto elastica fossi.
Tutto, al confronto, sembrava avere il sapore
farinoso e insipido della segatura.
Fu così che finii al Ministero prima al
Dipartimento per la Cura delle Creature Magiche, cercando di riannodare i fili
della mia me stessa che voleva giustizia per chi fosse più debole di lei. Ma
avevo un incarico sottopagato che non mi portava da nessuna parte. Scartoffie,
burocrazia, controlli di routine di bestie poco mansuete. Poi, la ferita magica,
una convalescenza di otto mesi e mezzo, Ron che tornava a casa e mi raccontava
del suo lavoro… e io desideravo solo che sparisse.
Fummo vicini ad implodere anche allora, forse ci
fummo più vicini che in qualsiasi altro momento. Forse però, le coppie che
restano assieme nonostante tutto, malgrado persino sé stessi, sono quelle che
alla fine l’hanno vinta. Ron mi vedeva deperire, mi sentiva depressa. Lottò
perché fossi trasferita al Dipartimento per la Regolazione della Legge Magica,
e le cose migliorarono abbastanza. Sempre lavoro di ufficio era, sempre poco a
che fare con l’Auror aveva, ma avevo almeno l’impercettibile sensazione che
fossi una parte di quella linea sottile tra ordine e caos.
Le ultime resistenze verso Ron, mi sparirono dal
cuore quando mi chiese di sposarlo.
Accettai, ovviamente.
Il resto, poi, è storia ormai delle mie ossa e
della mia carne.
Non per questo amo il mio lavoro. Sono ben
pagata, negli anni ho fatto carriera giungendo ad essere una dei dirigenti e,
ben presto, dovrei poter entrare nel Wizengamot come uditore giudiziario prima,
e come giudice poi. Ci dovrebbe essere molto lavoro in futuro, dicono che
stanno aprendo molte indagini su alcuni crimini commessi proprio dagli Auror
nel periodo della guerra.
E io potrei davvero fare qualcosa.
Solo questo ha sepolto, dopo decenni, la voce
dell’Auror dentro di me, soppiantandola con la consapevolezza che non fossero
così puri ed innocenti come sempre ho pensato. Io non sarei sicuramente
diventata un’Auror anche se avessi potuto, qualora avessi saputo una cosa del
genere. In questo sono decisamente meno elastica di Ron ed Harry, che hanno
sempre pensato che io sola potessi creare problemi. Mi hanno sempre apostrofato
in modo sarcastico, quando ne parliamo, dicendomi che sono troppo pronta a
credere che il mondo sia bianco e nero e che un minimo dubbio mi avrebbe fatto
uscire dai giochi.
Ho dato loro persino ragione, hanno decisamente
più pelo sullo stomaco di me.
Ma ci sono voluti più di quindici anni a darmi
la pace. E, spesso, il prezzo del sacrificio che ho fatto per Ron mi è sempre
sembrato troppo caro.
Lo è di più specie quando comprendo che lavoro
in un ufficio di idioti.
E, stamattina, nervosa come sono, non ho granché
picchi di positività per ricacciare indietro i pensieri negativi, né tantomeno
riflessioni eziologiche su me stessa che mi facciano sentire contenta di essere
dove sono. Stamattina, stancamente mi limito a respirare piano nella mia
sciarpa grigia, illudendomi di calmarmi.
La stoffa spessa mi restituisce, ancora, quel
quieto odore di pioggia. È quello che mi rende fredda anche quando vedo
stazionare nel corridoio che porta al mio ufficio i due peggiori esponenti
della razza di incapaci che sono costretta a frequentare in questo
Dipartimento: mi si imperla già la fronte di sudore freddo, considerando che
non ho vie di fuga e che sarò costretta a passargli davanti, intrattenendo
persino qualche amabile chiacchiera che mi costerà una mutilazione di
intelligenza ed autocontrollo. Uno dei due avventori è una ragazza piuttosto
giovane, alta, decisamente carina: pelle bianca, un sorriso accattivante e
seducente, occhi azzurri dal particolare taglio allungato, una cascata di
fluenti capelli ondulati biondo platino, abbigliamento da turista in vacanza
estiva, visto che indossa una camicia azzurra senza maniche abbondantemente
aperta sul seno, e un paio di shorts molto corti. Sospiro, ha una spalla
mollemente poggiata sullo stipite di una porta e sussurra suadente nei
confronti dell’uomo che ha di fronte, mentre porta alle labbra un bicchiere di
carta.
Uno direbbe che, come minimo, per tale
atteggiamento rilassato, si debba trattare quantomeno di una dirigente o di un
impiegata capace e di lungo corso.
Sbaglierebbe in entrambi i casi: la procace
ragazzetta altri non è che la mia pessima segretaria, Leda Pole, alle mie
strette dipendenze da un infernale anno.
Non l’ho assunta, né cercata personalmente: non
potrei riunire tanta sconsideratezza in una sola discutibile scelta nemmeno
mettendomi d’impegno, dato che Leda incarna praticamente tutto ciò che detesto
nelle donne. Partiamo dal suo abbigliamento e dal fatto che sia tremendamente
frivola, oscena, oca, sempre impegnata a fare colpo su qualche componente della
razza maschile, specie se costui possa esibire un portafoglio gonfio, poco
importa se sia celibe o sposato, single o vedovo, padre o nonno. Leda
puntualmente strizzerà il seno in un bustier
minuscolo, esibirà un sorriso vorace da mangiatrice di uomini, sbatterà le
ciglia gravate dal mascara e si darà al flirt selvaggio. Sembra sempre vivere
sotto il dogma de “il mare è pieno di pesci”, nel dubbio cala quanti più
ami possibili, indifferente a chi abbocchi.
Questo, però, in fondo è un fatto solamente suo.
Del resto non è mai sembrata interessata a mio marito, anzi quando lo incrocia
ne sembra persino infastidita, cosa che non può far altro che allietarmi.
E certo, caratterialmente, è abbastanza
permalosa, vanesia, viziata ed umorale, ma, ancora, ci devo lavorare assieme,
non diventare amica del cuore.
Il problema è, appunto, lavorare assieme a Leda.
Perché è un’incapace, superficiale, smemorata, e non dico eresie se ammetto
candidamente che il mio lavoro è triplicato da quando c’è lei. Devo sempre
correre ai ripari per le sue dimenticanze, perché può darsi che non mi riferisca
di importanti incontri ed appuntamenti. In compenso, tiene a mente benissimo
fatti intimi e personali come se fosse Pico della Mirandola: è capace persino
di tenere nota mentale di ogni mio litigio con Ron, di ogni mia sfuriata con
Ginny, di ogni incomprensione con i miei figli e finanche del mio ciclo
mestruale. Quindi, insomma, se ci mettesse impegno, potrebbe anche tenere in
testa due nomi in croce, seguiti da qualche orario. E, se a ciò ci aggiungiamo
che è abbastanza inaffidabile, quindi può sparire senza nessun margine di
preavviso per giorni e senza che nessuno sappia dove sia e quando tornerà,
abbiamo raggiunto l’apoteosi.
Ora è naturale che uno si chieda perché lavori
con me. Semplicemente, è un altro di quegli enormi compromessi che devo fare
con me stessa ogni giorno lavorando qui.
A furia di gettare ami, circa due anni fa, Leda
ottenne davvero un buon partito: non so chi sia, ma chiacchiere di corridoio
parlano di un uomo molto ricco, con una posizione ammirevole, di buona
famiglia, naturalmente sposato con figli. Leda si innamorò istantaneamente del
suddetto personaggio, perché sembra anche che, caso più unico che raro, il
facoltoso tipo fosse anche giovane e decisamente affascinante. Questa
combinazione fece sì che la mia futura segretaria cadesse ai piedi dell’uomo
come una pera cotta, sperando persino di essere impalmata un giorno. Ma il
fedifrago non la pensava affatto così e, dopo qualche intenso mese di
frequentazione, la scaricò. La delusione cocente della ragazza fu tale che minacciò
di mettere a soqquadro l’intero mondo magico e la reputazione della famiglia
dell’uomo spiattellando tutta la storia, a meno che non avesse ricevuto una
contropartita soddisfacente per la sua delusione amorosa.
Le fu dato credito perché i Pole fanno parte
comunque di un ramo cadetto della famiglia Nott, quindi poteva essere
ragionevolmente creduta ed alzare anche il tiro delle sue pretese, paventando
persino la possibilità fasulla che fosse incinta.
Il suo devastante mal d’amore fu risarcito con
una somma di denaro che onestamente non rammento e nemmeno mi interessa, e nel
diritto di poter trattenere una serie di ninnoli e regali dei tempi del
corteggiamento, tra cui un vistoso anello di opale da cui lei non si separa
mai. In aggiunta, ottenne di poter essere sistemata professionalmente al
Ministero, dopo il fallimento delle sue velleità da cantante.
Il caso vuole che, in quel momento, io stessi
appunto cercando un collaboratore. Sfortuna vuole che tutti sapessero quanto io
sia discreta e disponibile, pronta anche a crocifiggermi per adempiere il mio
lavoro. Se poi lei, furbescamente, mi fu di primo acchito dipinta come una
povera vittima delle circostanze, sedotta ed abbandonata da un becero
maschilista che si era approfittato della sua ingenuità da ragazzina
innamorata… potete capire come l’accolsi a braccia aperte. Accettai di buon
grado la sua lunaticità il primo mese, perdonai le sue sfuriate e le sue
distrazioni, fui accondiscendente con le sue assenze e moine. Avevo persino in
programma di salvarla e riabilitarla dalla lettera scarlatta che il Mondo
magico le aveva dipinto in fronte, convinta che non fosse colpa sua.
Ci misi due mesi, però, a comprendere che quel
ruolo le piaceva parecchio, che se l’era scelto, che non c’era alcun errore di
considerazione e nessuna malevola chiacchiera infondata alle sue spalle. E che,
soprattutto, sarebbe stata un peso nel mio lavoro. Ormai, però, me la dovevo
piangere nel mio ufficio, dato che era virtualmente insostituibile e
ragionevolmente irremovibile, senza che rischiassi io stessa il posto.
All’inizio non me ne interessava, tornavo a casa così nervosa ed arrabbiata da
sfogarmi ripetutamente con Ron mentre cucinavo la cena. Arrivai al punto di
scrivere una lunga lettera di dimissioni, minacciando di andarmene se non me la
toglievano dalle scatole. Ma poi Ron mi fece ragionare, parlò di quanto ci era
utile il mio stipendio, di come Rose fosse vicina ad andare ad Hogwarts con
tutte le sue spese e di quanto necessitassimo di stabilità. E quindi quel “porta
pazienza per un mese o due”, alla fine è diventato “sopportala e basta.
Fai il suo lavoro. E mastica amaro mattina e sera, allevandoti un tumore che ti
ucciderà a cinquant’anni scarsi…”.
Leda, presa singolarmente, è relativamente
innocua: fastidiosa come una puntura di zanzara, ma alla fine basta che non ci
pensi. Diventa una specie di ulcera perforante, unita ad un ustione di quinto
grado e ad una collisione del mignolo del piede contro uno spigolo, quando è in
compagnia di un uomo. E non di un uomo qualunque… ma del mio odioso
dirimpettaio lavorativo, Dean Thomas.
È infatti lui che, adesso, sta “parlando” con
Leda, sebbene non credo che il verbo parlare sia adatto al loro palese flirtare
e lanciarsi occhiatine provocanti. Non a caso, al momento, Leda continua a passarsi
languida la lingua sulle labbra, ignara della mia presenza, come se fosse
maniacalmente attenta alla pulizia della sua bocca dopo aver bevuto il caffè, e
Dean praticamente pende da esse come se fosse la Sibilla Cumana. Sospiro con
nervosismo, è come aspettare di essere travolti da un disastro ferroviario,
misto ad un incidente aereo e ad un terremoto di 9 gradi sulla scala Richter.
Sono il quadretto più classico che esista al
mondo di pateticità e perversione: ho già abbondantemente chiarito di che razza
sia fatta Leda Pole, una che si innamora dei codici IBAN degli uomini. Se però
il conto corrente della persona in questione rasenta lo zero assoluto, dobbiamo
per forza parlare di un altro personaggio sui generis.
Dean Thomas è infatti un idiota. Senza
mezze misure.
Ne avevo pallidi sospetti ad Hogwarts, ma sono
sempre stata fiduciosa sulla ripresa neurale delle sue sinapsi. Era un ragazzo
immaturo e superficiale, con una pericolosa attitudine alla menzogna gratuita,
ma in fondo buono, onesto, innocente. Se avesse trovato compagnie giuste,
nonché una donna che gli insegnasse che poteva anche non essere spaccone per
essere scelto, sarebbe diventato sicuramente il migliore degli uomini. Aveva
bisogno di una sorta di sfida vinta alla lotteria del destino, di ingranare il
colpo di coda del gioco di carte della vita, perché poi tutto filasse da sé.
Invece se il teorema insegna che, nella vita
degli uomini, saranno fondamentali le donne che andrà incontrando ed amando, si
comprende che, essendo capitata a Dean Thomas invece Lavanda Brown, la conquista più facile ed oca della storia del
mondo, inevitabilmente tutto sarebbe andato a scatafascio. Iniziarono una
relazione per caso all’indomani della mia con Ron che spezzò il cuore di quella
vanesia gallina. Dean era libero, carino, disponibile: non sono cieca, persino
adesso è un bel vedere. Non era nemmeno esageratamente impegnativo, e Lavanda
dovette pensare che fosse un bel ripiego.
Fecero tira e molla per parecchi anni
ripagandosi i tradimenti con gli interessi, finché si arresero alla fine di
quel gioco quando Lavanda scoprì di essere incinta e dovettero sposarsi in
fretta e furia.
Ebbero un figlio, Gabriel, e per alcuni anni
furono il ritratto dell’insipida vita coniugale, tutti concentrati sul loro piccolo
tesoro che intanto cresceva in arroganza e presunzione.
Poi, appena Gabriel fu sbolognato al nido,
ripresero le loro antiche abitudini, peggiorate dalla convivenza forzata e
dall’esistenza del unigenito che comunque li costringeva a restare assieme. Hanno
preso stranamente ad assomigliarsi anche nell’aspetto: sono sempre
abbronzantissimi anche a dicembre, con la manicure fatta, i capelli ossigenati
e le rughe che spiccano sulla pelle scura attorno agli occhi. Credo che Dean
abbia anche adottato lo stesso tono di voce della moglie, acuto e stridulo.
Sono una specie di barzelletta triste del nostro
mondo: ci sono giri di scommesse su quanto dureranno, su quando il loro figlio
li ammazzerà nel sonno, su chi sarà la prossima preda del loro continuo tradirsi
a vicenda. Quest’ultimo giro scommesse, però, è fermo da mesi riguardo a Dean.
Perché lui è ormai il giocattolo sessuale ufficiale di Leda Pole.
È stata lei a confessarmelo candidamente un
pomeriggio d’estate. Ovviamente non lo ama, ed ovviamente non pensa che ci
possa essere un futuro qualunque tra loro, visto che Dean ha una semplice paga
da impiegato, un figlio a carico ed un destino bloccato in questo Dipartimento,
dopo che anni fa rifiutò una promozione del suo vecchio Dipartimento alla
Cooperazione internazionale che lo avrebbe però portato a Parigi, lontano dalla
moglie gravida. Chiaro che questo scenario non possa far fremere nulla di Leda.
Ma è un bell’uomo, “scopa da Dio! Ha questo vizio di non smettere di
guardarmi negli occhi quando viene dentro di me! E a me viene da ridere! Lui
sorride un po’, pare pure triste, volta il capo e se ne va…”, mi ha
riferito zelante e non richiesta Leda.
È stata quella confidenza non voluta, a cui ho
risposto con un commento acido che mi ha tolto Leda di torno per una settimana,
a farmi stringere il cuore.
Non ho mai provato pena o compassione per Dean
Thomas, figuriamoci. Non ne proverei mai per uno che volontariamente non solo
si sposa con Lavanda, ma se la fa con Leda.
Però quel particolare, quel suo modo di guardare
negli occhi questa sciocca ragazzina qualunque, come se cercasse qualcosa ma
lei fosse troppo sorda e cieca per capirlo… mi ha illuminato su quanto debba
sentirsi perso e perduto dietro quell’aspetto solare da playboy impenitente.
Suo figlio non è una consolazione: è un quindicenne maleducato e distante, che
lo appella nelle maniere peggiori possibili tra cui vince decisamente la parola
“coglione”. Dean, però, più sta male e più sorride. Magari in modo più stanco,
ma questo fa.
E dice solo: “Sarebbe stato meglio avere anche tre
figlie femmine, io con le femmine ci so fare decisamente meglio!”. Leda a
quelle parole scoppia a ridere civetta, sporgendosi in avanti con il busto a
sottolineare che con lei, effettivamente, ci sa fare. Dean ancora sorride, ma
ha uno spasmo all’angolo della bocca che somiglia ad un rantolo trattenuto.
E io penso davvero che qualsiasi vita sarebbe
stata migliore di questa.
Una volta qualche mese fa, il 21 giugno, lo
beccai che piangeva. Mi disse che era il compleanno di Gabriel, che era
commosso dal tempo che passava, che suo figlio era diventato un uomo e che per
questo non voleva passare la festività con lui, andando a pescare. Finsi di
credergli, feci una battuta su Rose che ormai non voleva più la babysitter.
Dentro di me, pensai al dramma di un uomo per
cui il compleanno del figlio è il giorno peggiore della sua vita.
Quello dove ha legato il suo destino a questo
pagliaccio da gossip che interpreta, e non è stato in grado di liberarsene più.
Giunta in prossimità del triangolo delle Bermuda
(ed anche di qualche altro pezzo di intimo) tra la squinzia e il toy boy,
accenno ad un cenno del capo che funga da saluto ma non mi risucchi nelle loro
chiacchiere porno soft. Sono convinta di essere sgusciata indenne, quando Leda con
voce zuccherosa mi richiama indietro: “Capo! Ho un messaggio da consegnarle!”.
Mi volto sorpresa dalla sua efficienza, dato che
sarà tipo il secondo messaggio che riesce a riferirmi in un anno. Ed il primo è
giunto a destinazione solo perché era di Blaise Zabini, un altro dei suoi
target annunciati. Con un sorriso svenevole che causa un altro rantolo in Dean,
mi porge un biglietto dalla tasca del top che porta, quindi praticamente in
corrispondenza del seno sinistro.
Disgustata e comprendendo che se n’è ricordata
solo in virtù del suo utilizzo come rituale di accoppiamento, afferro il
biglietto con due dita ringraziandola a denti stretti, mentre dico caustica:
“Leda, sei sempre la mia salvezza in ogni circostanza. Un toccasana per
il mio sistema nervoso…”. L’imbecille ovviamente non capisce l’antifona e
sorride ancora zuccherosa, mentre Dean annuisce entusiasta, lo sguardo ancora
sul punto da cui la mia solerte segretaria ha estratto il messaggio.
“Dean sei cianotico…” commento piccata,
guardandolo storto mentre rientro nel mio ufficio “Forse è meglio che chiami
Lavanda e ti faccia venire a prendere…”. Punto sul vivo, si affretta anche lui
a rientrare nel suo ufficio, lasciando Leda da sola che mette su un broncio da
bambina scontenta.
“Cara…” rimarco al suo indirizzo, sapendo
quanto detesti l’appellativo perché ritiene che la invecchi “Potresti portarmi
la pratica del caso Latimore? Dovrebbe essere
all’Archivio N4…”, quindi dall’altra parte del Ministero e dove
tendenzialmente c’è una coda di un’ora e mezzo, così possa dimenticarmi che
esisti.
Contrariata, Leda è costretta ad accettare e si
incammina a grandi passi sui tacchi traballanti.
Finalmente posso entrare in ufficio e chiudermi
la porta alle spalle con un enorme sospiro. Guardo con un sorriso l’albero di
Natale spelacchiato che Hugo ha insistito perché facessi in ufficio, agitando
la bacchetta perché si accenda di oro e rosso. Mi siedo alla scrivania
spostando una serie di scartoffie che Leda avrebbe dovuto sistemare nello
schedario, cosa che mi costringe ad un nuovo sbuffo di fastidio, e finalmente
apro il messaggio. È di Ginny e recita solo poche parole: “Riunione Weasley
stasera alla Tana. Dramma in arrivo. Non mancare. G.”.
Rassicurante al punto giusto, devo dire.
Così che io abbia davvero voglia di tornare a
casa, bramando di trovarmi di nuovo nel mezzo di una crisi dai capelli rossi.
Guardo le pratiche sulla mia scrivania,
decidendo che proprio oggi avrò misteriosamente un carico di lavoro tale
da trattenermi qui fino alle 21 passate.
Ginny ha usato l’espressione “riunione Weasley”,
perché in fondo è questo quello che siamo. Tutti.
Weasley.
Persino Harry, che ha il cognome più importante
del mondo magico. Persino lui che è un uomo e, in una logica prettamente
maschilista ed antiquata, dovrebbe trasmettere il proprio cognome a sua moglie.
È un Weasley anche lui e stiamo sempre parlando
dell’unico genero che Molly ed Arthur Weasley avranno mai. Una specie di razza
in via d’estinzione.
Figuriamoci se non lo siamo, a maggior ragione,
io, Fleur, Angelina, Audrey e persino Cora, l’eterna fidanzata mai del tutto
ufficiale di Charlie.
Abbiamo dismesso cognomi ed identità, nel
momento in cui abbiamo messo le fedi al dito.
Esagero, lo so.
In parte influenza il fatto che sono le otto di
sera e, dopo un gufo particolarmente minaccioso di Ron, ho dovuto mollare
l’ufficio perché lo raggiungessi immediatamente a casa dei suoi genitori. Un
po’ influisce che io abbia al momento le caviglie gonfie e i piedi doloranti
dopo che sono stata in piedi per un’ora, intrattenuta nei convenevoli con
l’ambasciatore neozelandese, e che quindi il mio solo desiderio sarebbe tornare
a casa, farmi un bagno ed andare a letto. Sicuramente, il disagio è aumentato
dalla nausea, risorta improvvida dopo il mio pranzo, quando mi è saltato in
mente di prendere un pezzo di torta alle carote e mandorle. Quindi ammetto che,
al momento, potrei non essere molto razionale.
Questo in condizioni normali dovrebbe spingermi
automaticamente ad allontanarmi da qualsiasi forma di iterazione umana per
paura di far danni, ma naturalmente non sono stata messa nelle condizioni di
rintanarmi nel mio buco di solitudine e misantropia.
Sollevo lo sguardo annebbiato dalla stanchezza
verso le finestre della casa, che si staglia come una grande ombra scura nel
centro esatto della valle silente: giunge dall’interno il tramestio comune di
più di venti paia di passi, accompagnato da un’accozzaglia di voci tra le più
diverse, condito dall’odore di arrosto alle cipolle selvatiche di Molly che
costringe il mio stomaco ad un ulteriore capriola di fastidio. Sospiro
lungamente cercando di ricacciare indietro la nausea, preoccupata di dover
anche subire un terzo grado da chioccia da parte di qualcuno all’interno, poi,
illuminata, decido di sedermi qualche secondo sui gradini dell’ingresso,
nascosta dalla siepe di buganvillea, godendo del freddo pungente della sera. La
mia innocua giustificazione mentale è che, spero, l’aria fresca possa
restituirmi il benessere e un po’ di energia. La mia vera reale preoccupazione
è di ritardare quanto più possibile l’incontro con il dramma in corso,
che realisticamente si rivelerà essere solo una divergenze di vedute sul menù
di Natale tra le solite ventinove portate e il tentativo di Molly di aggiungere
anche il pasticcio di rognone, ostracizzato come da tradizione.
Appoggio la testa contro la siepe ritrovandomi
ad occhi chiusi, le labbra strette.
Ho sempre adorato i Weasley, tutti, dal primo
all’ultimo. Ho sempre adorato il caos che si respira a casa loro, ho sempre
adorato di non sentirsi mai davvero soli. Mi sono innamorata, prima che di Ron,
di quel rumore di fondo delle stanze che erano voci e sedie accostate,
bicchieri che si toccano e mani che si sfiorano, e che non somigliava affatto
al silenzio bianco della mia casa da bambina.
Sono figlia unica, sono unigenita figlia di due
unigeniti genitori: esclusi loro, escluse qualche sporadica amichetta del corso
di pianoforte, sono sempre stata una bimba solitaria e strana, con il naso
sempre affossato nei libri, gli occhi sempre incuriositi dai movimenti
infantili degli altri e dai loro giochi, ma con la posa ritta e severa di
un’adulta che già si escludeva e faceva ombra a sé stessa.
Fino ad Hogwarts.
Fino ai Weasley, appunto.
Sono diventata una figlia ed una sorella con una
velocità che mi ha sempre sorpreso e che non poteva essere imputata a me,
sempre chiusa e bacchettona. Ma a loro, alla loro franchezza, al loro calore,
alla loro gioia di accogliere qualcuno nel loro tiepido guscio. Io ed Harry ci
siamo trovati seduti ad un tavolo, circondati da teste rosse, dall’oggi al
domani: mangiavamo porridge caldo su una tovaglia a
scacchi e ci sentivamo a casa, l’orfano e l’unigenita. Avevamo regali da
scartare che, pure se di fattura scadente, erano di enorme cuore e sostanza di
amore. E tutto sembrava solo una meraviglia dolce di affetto, piombataci
addosso come risarcimento di due infanzie solitarie. Certo, la mia non è
minimamente paragonabile a quella di Harry con quegli zii infernali che aveva,
ma insomma… ci siamo capiti.
È un segreto ostile come un serpente, ma fino a
non molto tempo fa, a mio modo, li consideravo quasi come la mia vera famiglia.
Lo ammetto. Influiva decisamente che il mio albero genealogico contava pochi e
sparuti membri che conoscevo poco e che erano tutti babbani fino al midollo: mi
avevano sempre fatto sentire diversa, strana, anormale. Ne avevano ragione, ma
ovvio che ora che ne avessi una giustificazione mentale e fisica, avessi ancora
meno interesse a frequentarli se all’antica umiliazione ed inadeguatezza si
aggiungeva anche un corposo senso di rivalsa.
Il mio posto era un altro, la mia vita era
un’altra: loro manco sapevano che c’era stata una guerra e quanta gente era
morta, per salvare anche loro. Avevo persino avuto una sorta di blocco emotivo per
un paio di settimane al termine del conflitto quando avevo recuperato i miei
genitori dall’Australia, per lo stesso motivo. Mi seccava dover spiegare che
cosa era accaduto, in fondo ritenevo che non avrebbero capito, specie nella
mora ancora fresca della perdita di Fred e in quel miasma di dolore che
sembrava unire tutti i Weasley, me ed Harry, ed escludere automaticamente tutto
il resto del mondo.
Quando tutto tornò alla normalità, per molto le
cose non cambiarono: anzi, il mio nuovo status di fidanzata di Ron mi
rese ancora più parte integrante del clan, ora senza più alcun genere di scusa.
I miei stessi genitori furono trascinati nel vortice della vita alla Tana,
perché era ovvio che la legge dei numeri prevedesse automaticamente che due
individui potessero spostarsi tranquillamente, meno venti e passa.
Ogni Natale, ogni festa qualunque, l’ho sempre
festeggiata qui dai tempi del fidanzamento fino a quelli del matrimonio. A
maggior ragione, quando sono nati Rose ed Hugo.
Ed andava bene, sul serio. Sono sempre stata
felice. Contenta. In pace.
A godermi confusione e chiasso, a bearmi delle
chiacchiere e dei piccoli motteggi di mia suocera, a preoccuparmi bonariamente
di mio suocero, a controllare che i miei figli non si mettessero nei guai con i
loro cugini. Mi sono sempre sentita benedetta e rassicurata che non vivessi in
una fittizia vita di plastilina dalla pecca, tutto sommato normale e
trascurabile che, escludendo Ginny, non ho mai avuto grandi rapporti con le mie
cognate. Fleur di fondo non mi è mai piaciuta, troppo vanitosa e bella per non
mettermi a disagio con i miei capelli sempre in disordine e le unghie
mangiucchiate. Angelina, la moglie di George, è un’autoritaria allenatrice di
Quidditch a suo modo anche simpatica, ma con cui ho ben pochi argomenti di
conversazione in comune. Audrey, la moglie di Percy, è abbastanza nevrastenica
e perfezionista, non penso di averla mia beccata da sola in un momento che non
fosse la preoccupazione per lo stato dei vestiti delle sue figlie, o per la
presenza o meno di grassi insaturi nelle salsicce di fegato.
Cora, invece, è un caso a parte.
Ha tipo quarant’anni, ma ne dimostra la metà:
bellissima, con un corpo da favola e lunghi capelli corvini. Una modella,
praticamente, ma che ha anche il pregio di essere colta e simpatica. Ma è una
meteora. Lei e Charlie girano il mondo curando i draghi, non si fermano mai
troppo a lungo nello stesso posto, non pensano minimamente né di sposarsi e
nemmeno di avere figli.
Mi piace molto forse proprio perché è il mio
opposto… ma la vedo troppo poco per legare con lei.
Però, tutto questo non è mai stato un problema:
vado d’accordo con Molly, con Ginny. Ho mia madre. Insomma, non ambisco alla
perfezione.
Poi qualcosa è cambiato. Dalla morte di mio
padre.
Arrivò Natale, mia madre ormai viveva da sola a
Favignana in Sicilia. Volevo passare le feste da lei, non volevo costringerla a
spostarsi, non volevo nemmeno che affrontasse l’Inghilterra e tutti i suoi
ricordi. Volevo anche che i miei figli conoscessero quel lato di me, quella
casa che sapeva di arancia e limone, quella lontana origine che avevo solo
finto di dimenticare e che ora mi richiamava a sé come il mare di una
conchiglia. Solo un anno, dissi convinta a Ron quasi supplicando, dammi
solo un anno. Sapevo di chiedere molto, lui adora il Natale a casa, sua
madre non ci avrebbe perdonati facilmente. Ma pensavo davvero che capissero.
Ebbene, non capirono. Per nulla.
Ron mise un broncio da bambino di cinque anni
che gli durò settimane: preparava i bagagli con malagrazia, accatastando cose
con malavoglia e guardando con desiderio Harry mentre rientrava a casa carico
di pacchetti. Formalmente diceva: “Andiamo, tranquilla, non ti preoccupare… che
saranno due settimane da babbano?” ed intanto nell’appunto finale, ci metteva
abbastanza sarcasmo da darmi il voltastomaco. Non parliamo nemmeno poi del vero
ed autentico ostruzionismo che mi fecero Rose ed Hugo: naturalmente alla
prospettiva del più normale dei Natali, senza i tiri vispi Weasley ad
inventarsi corolle di luce porpora, senza alcun cuginetto con cui giocare e
senza nemmeno il caos tipico delle nostre feste, montarono beghe e noie
assurde. Favignana, del resto, non aveva grandi attrattive d’inverno con cui
poterli allettare. Riuscii a resistere abbastanza bene al fuoco incrociato di
mio marito e dei miei figli, ignorando il primo e mollando ceffoni ai secondi
quando si permisero insolenti di dire anche che “ci rifiutiamo di andare da
nonna Eleanor perché è pizzosa!”.
Capitolai, però, durante il pranzo domenicale
del quindici dicembre, due giorni prima di partire. Tra i miei cognati che
organizzavano le festività, spingendo all’invidia Ron e i bambini che
continuavano a guardarmi storto, e i miei suoceri che oscillavano tra “non
sarà la stessa cosa senza di voi” e “d’altronde avrebbe avuto più senso
che si fosse spostata solo Eleanor! Sarebbe stata anche in compagnia! Si
divertirebbe di più”, conditi da sguardi lacrimevoli e stucchevoli
complimenti alla “la famiglia è sempre la famiglia!”… semplicemente non
ce la feci più e dichiarai bandiera bianca su tutta la linea, stremata.
Restammo a Londra, i miei figli si divertirono
come pazzi, Ron poté vedere la finale di Quidditch con i suoi fratelli, mia
madre prenotò un volo economico all’ultimo minuto, ed io…
… spaccai una decina di piatti in preda
all’isteria da sola nella cucina di casa mia, prima di raggiungere gli altri
alla Tana.
È una delle cose più irrazionali che abbia mai
fatto: scientemente ho passato un’ora d’orologio a spaccare piatti, rimetterli
assieme con la bacchetta e poi a frantumarli daccapo in modo sempre più
fantasioso.
Non è una bacchetta, però, che ripara le crepe
che ti si aprono dentro. Mai. Al massimo ci metti gesso e stucco, ma il difetto
è nell’intelaiatura, sta sempre lì. Mettici una pietanza più calda e si venerà
daccapo.
In Italia ci siamo andati poi a Pasqua, i miei
figli si sono divertiti un mondo giocando a mare sulla spiaggia, mia madre ha
mostrato le ristrutturazioni fatte alla casa di mia nonna, Ron ha mangiato
chili di pasticcini con la marmellata d’arance… tutto bellissimo. Certo.
In realtà, non è andato più niente a posto da
allora per me nella famiglia di mio marito. Improvvisamente piccole cose che mi
erano sempre passate innocue sotto il naso, sono diventati elefanti da salotto
che nascondevano la luce del sole. Esattamente come la prossimità di Harry e
Ginny come vicini di casa.
Il senso profondo della condivisione, ora, mi
infastidiva: c’erano cose che avevano il dovere di restare mie e di mio marito,
e non essere lavate nel caldaio Weasley magari anche con sufficienza. La
continua mancanza di privacy adesso mi irritava perché scoprivo di nuovo la mia
dimensione più introversa che necessitava e bramava come ossigeno domeniche a
casa, festività solitarie o semplici pomeriggi dove assentarmi senza alcuna
spiegazione. L’appartenenza che, improvvisamente, faceva scomparire famiglie
d’origine o conoscenze esterne, delineandoti a pieno un membro del clan, dava
sì supporto e sostegno, ma schiacciava anche senza respiro. E, se per me non
era eccessivamente fastidioso, non potevo tollerare che i miei figli
considerassero amici solo quelli che, a conti fatti, erano sempre i loro
cugini.
C’era altro là fuori.
Dopo quello, ovviamente, tutti i piccoli e
grandi difetti sono sorti come funghi, infastidendomi come non mai. L’eccessiva
premura da mamma apprensiva di Molly, l’inconsistenza vaga dei pensieri di
Arthur, l’iper-precisione pedante di Percy e Audrey, la sfrontata spacconaggine
di George e Angelina, la superficialità vanesia di Fleur.
Intendiamoci: li adoro. Li amo sempre. Sono la
mia famiglia.
Ma necessito di pace, calma, tregua. Più spesso
di quanto riesca ad ottenerla.
Ciò mi fa sentire ingiusta e sbagliata al punto
che, solo perché pianifico di andare da sola in Italia per l’Epifania a trovare
mia madre, mi risale la nausea. Solo pensare alla veranda della sua villetta,
con la luce afosa dell’estate e l’odore di limoni mentre sono intenta a
scrivere qualcosa, mi fa sentire male. E non dovrei sentirmi così. Dovrebbe
essere un pensiero bello prendermi del tempo solo per me, come donna, da sola.
Ed invece, ormai, sono un punto indistinto in una trama color rosso ed oro.
Probabilmente la stanchezza esacerba tutto un
po’, penso con calma respirando il vento che sa di muschio e fresia, e probabilmente
il dramma annunciato sarà solo una sciocchezza da un paio di ore massimo.
Un paio di ore lontana dal mio copriletto caldo, dal mio libro rimasto alle
ultime trenta pagine, dalla mia camomilla con miele e limone.
Sospiro languidamente, prima mi do una mossa e
meglio è. Mi alzo sferzata da un’ondata di coraggio, ergendomi dritta in tutta
la mia modesta altezza, inarcando in avanti la schiena e spingendo in fuori il
busto. Salgo a due a due i gradini del portico, per poi fermarmi davanti alla
porta a vetri da cui giunge un bagliore aranciato e voci soffuse ma concitate.
Incasso di riflesso il collo nelle spalle, nascondendo la bocca nella mia
sciarpa grigia che ormai si è impregnata dell’odore di pioggia, sembra che
ci sia nata apposta con questo odore addosso, poi, rapida, sfruttando
l’ultimo anelito di masochismo rimasto, abbasso la maniglia con decisione
entrando.
Le voci, che all’esterno sembravano tutto
sommato sopportabili, mi rintronano una volta all’interno per il contraccolpo
rispetto al silenzio, assieme all’ondata di calore data dalla differenza di
temperatura. Con nervosismo, quindi, mi levo velocemente il cappotto mollandolo
su una poltrona assieme al cappello.
La sciarpa, no. Quella non riesco a togliermela
di dosso. Mi dà la rassicurante sensazione di potermici nascondere dentro.
Seguo la direzione delle voci, giungendo infine
in salotto. Le voci cessano all’improvviso, anche se sarebbe più corretto dire
che sono le urla a smettere di colpo non appena tutti avvertono la mia
presenza. Guardo tutti interrogativamente, la posa già alla Granger scolpita
nella mia espressione e nelle movenze del mio corpo: ho già inarcato
inavvertitamente un sopracciglio, ho già messo le mani sui fianchi e ho già
gonfiato le guance in un moto da pesce palla in posizione da combattimento.
Tutti, d’altro canto, mi guardano con un frammisto senso di terrore, di calma e
di immediata remissione di ogni problema sulle mie fiacche spalle. Ed è questo
che aggiunge alla mia postura un tic nervoso al piede sinistro che prende a
tamburellare sul pavimento, in attesa.
Dato che nessuno si ostina a parlare, getto uno
sguardo nervoso alla stanza intera mettendo a fuoco nella vista tremolante di
stanchezza tutti i presenti. In piedi, poggiato al davanzale della finestra,
c’è Harry che si pulisce gli occhiali con un lembo del maglione rosso che
indossa: lui mi sembra quello più calmo, più pacifico. E ciò mi rassicura sul
fatto che, in fondo, non sia successo niente di così grave. Mi restituisce uno
sguardo appannato a cui rispondo con un fremito dell’angolo destro della bocca
a dimostrazione di quanto mi consideri ben più esausta di lui, almeno tu sei
già in ferie.
Poco più in là Ginny è seduta scompostamente su
una poltrona, le gambe piegate su un bracciolo, mentre mangiucchia dei cubetti
di formaggio con estrema nonchalance, come se fosse perfettamente a suo agio e
non ci fosse nulla di cui preoccuparsi. Si limita semplicemente ad un cenno
frettoloso del capo in mia direzione per poi riprendere a mangiare con tutta
calma, un piede che dondola.
Comprendendo agevolmente che il problema non
siano i coniugi Potter, cerco naturalmente Ron nella stanza, sperando che
allora il problema non sia nostro: lo trovo in piedi a poca distanza da me,
visibilmente più agitato di Harry e Ginny, ma ben più calmo di quanto sarebbe
se ci fosse un qualcosa di grave su me, lui o i bambini. Ha solo le orecchie un
po’ più rosse del solito, i capelli più scompigliati e credo che non si sia
accorto di aver messo il pullover al contrario, dato che intravedo l’etichetta.
In cinque passi copre la distanza tra me e lui, mi guarda lievemente
imbronciato forse per il mio ritardo e si limita a toccarmi l’interno del polso
nel vago tentativo di rassicurarmi.
Il solo effetto che riesce ad ottenere è che le
mie spalle si affloscino come se fossi un mollusco privo di sostegno: continuo
ostinatamente a non capire che cosa stia succedendo e soprattutto l’urgenza
della convocazione. Guardo quindi Ron in attesa sperando che si spieghi, ma lui
si limita ad un sospiro e ad un cenno meccanico del caso come se mi
indicasse in silenzio la fonte
dell’enorme dramma in corso. Seguo la direzione del suo cenno fino al divano,
dove probabilmente ci sono i primi attori della tragedia in atto. Sul sofà rosa
stinto al centro del salotto, sono seduti i miei suoceri in atteggiamento ben
poco rassicurante: se Molly è infatti cianotica, con i capelli grigio polvere
scomposti e spettinati, abbandonata mollemente all’indietro con la nuca
poggiata sullo schienale, Arthur non mi pare in stato migliore. Pallido,
emaciato, con una tragicomica “o” a spalancargli la bocca mentre guarda nel
vuoto, completamente ignorato dalla seppur amorevole moglie che è intenta a
sventagliarsi con un fazzoletto scozzese, mentre borbotta frasi sconnesse. È
guardando in giro per la stanza alla ricerca di spiegazioni che, finalmente,
intravedo un capannello di persone che non ho notato per stanchezza, o perché
più realisticamente erano quasi seppelliti e nascosti nell’intercapedine tra il
tavolo e la credenza. Non sono naturalmente sconosciuti, ma era difficile
riconoscerli in questi panni dimessi e… spaventati.
Insomma non credo che esista nemmeno una parola
corretta per definire questi esserini informi, accartocciati su sé stessi come
vermetti contorcenti e che solitamente hanno risposto al nome dei miei cognati
Bill, Fleur, George e Angelina. Sono tutti abbastanza verdi in viso e, dalle
loro facce e dal modo che hanno di saettare lo sguardo in direzione del divano,
riconosco abilmente che la loro espressione è quella tipica da scontro con
Molly Weasley: una battaglia già persa in partenza. Dietro di loro,
finalmente, mi accorgo di due presenze familiari ma assolutamente inconsuete,
tanto che devo strizzare gli occhi un paio di volte per distinguerli bene. I
miei nipoti, Victorie e Teddy.
Li guardo senza ben capire, Victorie dovrebbe
essere a scuola e Teddy non lo vedo da qualche mese, dato che ha iniziato a
frequentare una scuola nel nord della Francia. E, a meno che non abbia capito
male, i corsi finivano il venti dicembre, non adesso.
Oltre però alla loro tangibile presenza, è anche
il loro aspetto che mi meraviglia un po’, facendomi infine capire che devono
essere loro nell’occhio del ciclone Weasley.
Si tengono per mano, ma ciò naturalmente non mi
sorprende: sappiamo tutti che stanno assieme. Teddy del resto, sin da bambino,
è sempre stato una sorta di Weasley acquisito. Ha praticamente vissuto a casa
di Harry da quando era in fasce, diventando praticamente un fratello per James,
Albus e Lily. E naturalmente un grande amico per i miei figli e i loro cugini.
Con Victorie c’era sempre stato un rapporto “speciale” ed alla fine sono
diventati una coppia. Gioia e giubilo in casa: era come avere una sorta di
timbro ancora più reale dell’appartenenza del piccolo Lupin alla famiglia.
Alle loro spalle c’erano state tutte le più
ampie congetture su come e quando si sarebbero sposati, cosa spesso interrotta
da Fleur che diceva che Vic doveva finire la scuola e poi pensare al resto. Fu
la sola volta che, stizzita dal comportamento vergognoso degli altri, le diedi
ragione su tutta la linea. Del resto, Teddy ha deciso di andare appunto a
vivere per quattro anni a Brest, in Bretagna, dove si trova una scuola molto
prestigiosa specializzata nel disegno di scope da corsa. È una scuola molto
costosa che Teddy si è potuto permettere solo perché, sciaguratamente un anno
fa, è venuta a mancare sua nonna Andromeda, la stessa che lo ha cresciuto e che
gli ha lasciato una discreta rendita. Probabilmente al termine del percorso
accademico, rimarrà anche lì in Francia a lavorare. A Brest c’è infatti la
fabbrica delle Firebolt.
I fiori d’arancio e i confetti bianchi quindi
sono stati abbondantemente accantonati in attesa di tempi più maturi.
D’altronde parliamo di due ragazzini, cavolo:
tra un anno Teddy potrebbe stare con una dolce e piccola francesina, mentre
Victorie decide di trasferirsi in Nuova Papuasia per studiare le vongole. È il
bello della giovinezza non essere mai davvero legati. Ovviamente tengo per me
questi pensieri, Ron mi darebbe delle sfasciafamiglie e della libertina: del
resto è abbastanza strano che io non mi faccia intenerire facilmente da niente
specie da due ragazzini innamorati che si tengono per mano con dolcezza,
suggerendoti in modo erroneo che non facciano altro.
Lui mi definisce cinica, io credo solo di essere
realista: non è il destino di tutti gli amori sopravvivere alla vita stessa.
Ora, però, paradossalmente, penso in modo più
convinto che potrebbero farcela a restare assieme persino per sempre. Hanno un
modo di aggrapparsi l’uno all’altra, sebbene appaiano sbattuti e nervosi,
prossimi forse anche alle lacrime, che mi sorprende. Non mi dà di due
ragazzini, insomma.
Victorie è livida in viso, ha i capelli
biondissimi spettinati e legati malamente in una treccia scomposta che pende
inerme su una spalla. Tiene stretta la maglia con una manoe
con l’altra quella di Teddy alle sue spalle. Ha gli occhi lucidi, il labbro che
trema, e sta a testa bassa. Teddy, invece, è saldo, forte, sembra un uomo. Le
sta dietro come un cavaliere ad un passo da una principessa. Mi saluta con un
quieto sorriso, mentre indossa il più comune degli aspetti: capelli castani ed
occhi azzurro polvere. Quando voglio sentirmi solo me stesso, zia. Sembra
ricordarmi solo con lo sguardo quella confidenza.
Decido d’improvviso slancio che, qualsiasi cosa
sia accaduta, sarò sempre dalla sua parte.
Gli voglio bene come un figlio, qualsiasi cosa
abbia fatto o sia successa. Non cambierà mai, questo.
Improvvisamente una vertigine sembra colpire
sleale Victorie e farle fare un passo indietro. Fleur si muove in modo
automatico verso la figlia, preoccupata, ma il suo piccolo mancamento viene
subito assorbito ovviamente da Teddy alle sue spalle. La ragazza si volta
leggermente con il viso, fino ad incontrare gli occhi chiari del fidanzato. Si
guardano nella distanza quasi nulla che esiste tra loro al momento. Ed è quasi
naturale per lei, come l’onda del mare al richiamo della marea, abbandonarsi
piano con la schiena contro di lui, stanca, esausta come dopo una lunga
camminata che le ha succhiato via ogni energia. E credo che sia naturale anche
per lui, semplicemente lasciarla lì, a sentire contro le sue spalle il
suo respiro che accelera sempre di più ad ogni secondo.
Ovvio. Naturale.
È solo un secondo in cui entrambi distolgono lo
sguardo da tutti noi, e trovano gli occhi dell’altro. È solo un attimo, ma vale
come mille anni.
Non so perché non sono riuscita a smettere di
guardarli. So che penso che non permetterò che gli facciano del male e che
rovescino la loro vita, piccola ed ingenua come ancora è. So che sono sempre
più arsa dalla curiosità di sapere che cosa dannazione sia successo.
Ma so che, per un attimo, non riesco a pensare a
nulla di qualsiasi cosa perché ogni parte del mio essere è impegnata a frenare
il conato di nausea che mi ha preso lo stomaco in un modo così forte da farmi
temere di morire. Come se la mia testa si spaccasse in due, come se d’un tratto
vedessi solo bianco e sentissi solo voci che mi chiamano nella testa.
Passa in un secondo scarso, respiro nella
sciarpa grigia e mi sembra di sentirmi meglio.
E, sollevata, mi rendo conto che nessuno si è
accorto del mio mancamento, nemmeno Ron a cui per fortuna davo le spalle. Vedo
le sue dita ancora chiuse sul mio polso e mi stacco come se fossero di troppo
in questo momento. Lui mi lascia fare, ovviamente preso dai suoi pensieri. E io
torno a guardare i ragazzi, sollevata dalla fine di quel contatto che pure
prima, mi aveva tanto tranquillizzato.
Non capisco perché ora mi turba tanto vederli assieme:
forse è solo l’invidia rancida di una quasi quarantenne che, dopo aver visto
Teddy e Victorie, rammenta che di quello sguardo così schietto ed ingenuo, di
amore vero, non ha più memoria. Non è il destino di tutti gli amori
sopravvivere alla vita: ma non è il destino dell’amore restare intonso di
sguardi e puro di cuore, così da non sporcarsi giorno per giorno con la vita
stessa. Un amore lucido e perfetto di cristallo, non si salva mai. Si rompe e
frantuma il cuore. Se vuole salvarsi, si fa roccia: sporca, venata, comune.
Si fa duro come cemento armato.
Non più così bello a vedersi, pieno di schegge
di compromessi, di crepe di rammarichi, di imperfezioni di rimpianti.
Ma si salva, resiste, vive. Ancora. Di giorno in
giorno, fino al “per sempre”.
Credere che l’amore possa restare sempre una
bellissima fiaba, è una puttanata grossa come una casa.
Quei pensieri, acidi come limone, mi spingono a
reagire nervosamente chiedendo stizzita e rompendo il silenzio della stanza:
“Si può sapere che cosa è successo?!”.
È come fare scoppiare un petardo nella stanza e
tutti mi guardano nel modo scioccato con cui guarderebbero un bambino
recalcitrante che si diverte a fare scherzi rumorosi.
Con imbarazzo e fastidio.
Si sta davvero bene in una stasi addormentata in
fondo, e magari vogliono anche smettere di pensare a che cosa è accaduto.
Andrebbe bene anche a me, se mi facessero tornare alla mia casa e alle mie
quattro mura.
Restano tutti immobili, chi a mangiarsi le
unghie, chi ad aprire la bocca e a chiuderla subito dopo, chi a guardare
interessato le tende o il soffitto… ed io inizio ad innervosirmi.
Sempre di più, come se fossi posseduta. Perché
nei loro sguardi, in quelli della mia famiglia, leggo quel sentimento di quieto
e riottoso incomodo che hanno per la mia persona. Per quella che razionalizzerà
tutto, minimizzerà tutto, si prodigherà in rimproveri e critiche e darà a tutti
l’impressione di essere stupidi per aver chiamato dramma un’autentica
sciocchezza.
Però, intanto, aspettano sempre quel mio movimento
di ramazza mentale che metterà tutto a posto. Imprecano, borbottano, giudicano:
ma lo aspettano come una salvezza piombata dal cielo. Perché in fondo a me non
costa niente, in fondo mi rende felice. Perché per loro io adoro passare la
vita a risolvere le grane altrui. Anche se non lo do a vedere.
Stasera, però, sono troppo stanca per questo.
Stasera, forse, mille lampadine di egoismo mi baluginano negli occhi a farmi
sentire esausta.
Stasera, lo ammetto, vedo solo Victorie che
guarda Teddy e si affida ciecamente, e mi chiedo se io mi sono mai sentita così
nella vita.
Pronta a mettere tutto di me nelle mani di un
altro.
E so già la risposta: no.
Io non me lo sono mai potuta permettere, nemmeno
con Ron, di affidare me stessa a qualcuno nella speranza di riposarmi un po’.
Va bene, sono forte abbastanza per tutti: ma non
stasera. Stasera voglio solo le mura della mia stanza a contenermi i pensieri,
a lasciarli galleggiare fuori e a tenerli circoscritti perché facciano male
solo a me.
Stasera, non so perché, ho la sensazione che
potrei persino far male a qualcuno, pur di salvarmi io.
Mi sembra che ci sia il destino in agguato, mi
sembra che sto mettendo punti a frasi di anni e che non potrò mai più tornare
indietro.
Nervosa per il silenzio che continua, decido
quindi di andarmene e tornare a casa.
Sono già di spalle nello sguardo di Ron che mi
guarda sconvolta, quando mi raggiunge la voce di Teddy.
Un bambino cresciuto in fretta, un uomo che non è mai stato un neonato.
Solo nel mondo, sebbene pensiamo sempre che sia un membro del clan.
Per questo, per lui, è facile fare il lupo solitario.
Perché lo è. Il branco è solo la pallida giustificazione che diamo ad
un’infanzia sfortunata che vogliamo destinata ad essere invece perfetta.
È solo. E da oggi lo sarà anche di più.
“Victorie è incinta, zia. E non sono io il
padre”.
Il mio primo immediato istinto, stranamente, è
avvicinarmi ai ragazzi in modo automatico e meccanico come se mi richiamasse un
anelito selvatico di consapevolezza e dolcezza profonda. Nel silenzio fondo di
quella che, ora, mi sembra un puritano vessillo di borghesia, tendo le braccia
e le stringo attorno alle spalle di Victorie e Teddy. La loro reazione, il loro
non indugiare nemmeno per un secondo per stringermi a mia volta cingendomi per
la vita, mi fanno rapidamente capire che nessuno ha pensato prima di me a
fargli sentire semplicemente vicinanza e calore, affetto e comprensione, prima
di giudizi scomodi e facili e di sensi di colpa stantii e fumosi. Persino
Victorie, la mia prima nipote bellissima ed algida come un fiore di ghiaccio,
si aggrappa a me con una disperazione così forte da farmela sentire più bambina
di quanto sia mai stata. Ha solo diciassette anni, e già la sua vita da oggi
cambierà per sempre. Non so se lo meritasse, nemmeno me lo chiedo, picchietto
la sua schiena con piccole carezze regolari, mentre lei rilascia un respiro un
po’ più forte che sa di mora, spezia. Come se fosse ormai così adulta e lontana
da essere persino oltre me, la zia anaffettiva e razionale che, sola, adesso ha
avuto la decenza di abbracciarla. Teddy, dal canto suo, ha il solito odore
buono di muschio e sandalo che mi ricorda sempre il bosco, i lupi, l’origine
remota del sangue di suo padre. Respira un po’ nel mio collo come se si
nascondesse, come se per un secondo dismettesse vergognoso i panni del
capobranco ed indossasse quelli più miti del cucciolo spaventato e timoroso.
Tra i miei capelli, tra la chioma di una che non ha mai avuto la presunzione di
considerarsi sua madre ma ha sempre agito intimamente come tale, si concede una
tregua, una pausa, un riposo.
Quando mi stacco di loro, sono tornati ad essere
due fortezze di tendini ed ossa dagli occhi scavati. Hanno la schiena dritta
come se fossero al patibolo da innocenti. Tornando a guardare gli altri,
distinguo uno sguardo ceruleo su di me che mi spinge a cercarne l’origine. È
naturalmente Fleur, mi guarda con una meraviglia stemperata dalla gratitudine.
Sussurra qualcosa che non capisco, gli occhi come due specchi in fondo al mare,
annuisco come se non ci fosse bisogno di alcuna altra parola.
La tregua dura poco ovviamente: al mio gesto,
che forse in fondo ha svergognato la freddezza da calcolo degli altri, è come
se prendesse fuoco una steppa di sterpaglia secca.
Tutti cominciano a parlare nello stesso momento,
raccontandomi la loro versione con tono di voce tra la malcelata isteria e la
voglia di essere ragionevoli. Naturalmente è la voce di Molly quella che
sovrasta tutte le altre, specie perché accompagna le grida da soprano con una presa
ferrea sul mio gomito che mi costringe a mettermi seduta per ascoltarla. A
restare in silenzio, ovviamente, sono solo gli stremati ragazzi e Fleur che
passa il tempo a lisciare assente i capelli della figlia, mentre Bill si agita
come un avvocato difensore.
In breve apprendo che cosa è successo. Due mesi
fa Teddy e Victorie si erano lasciati per un periodo. Cose da ragazzi
naturalmente che non intendo e non mi interessano, sebbene Molly sia prodiga di
dettagli. In questo breve periodo Victorie ha frequentato un altro ragazzo, di
cui si ostina a non dire il nome neanche sotto minaccia e sotto costrizione.
Replica solo che è stato un ripiego, una sua stupida vendetta dolorosa e
rancorosa per la separazione dalla persona di cui era veramente innamorata. Non
importa chi diamine sia. Naturalmente, come ogni ragazzina confusa, Victorie
finisce a letto con il tipo, si vedono qualche sera per un’uscita a Hogsmeade,
si ingozzano di brownies e poi comprendono di essere solo amici e nulla più.
Victorie torna da sola, è sempre più distrutta dalla separazione da Teddy, poi
comincia a stare male anche fisicamente e pensa solo allo stress. Nausea,
vomito, vertigini: in una piccola farmacia babbana fuori Londra dove è scappata
un weekend con la scusa di andare a trovare una parente malata, scopre che sta
per diventare mamma.
I conti, purtroppo, sono inequivocabili: il
bambino può essere solo del “chiodo scaccia chiodo che ha clamorosamente
fallito nell’intento di farle scordare Teddy”.
È disperata naturalmente, distrutta, devastata.
Nasconde la cosa per settimane, ne parla con il padre del bambino che, a quanto
pare, è un ragazzo almeno responsabile e in gamba. Dice che non è pronto per
impegnarsi, dice naturalmente che non è innamorato di lei, dice che è stato un
errore, dice che lei sarà libera di scegliere che cosa vuole farne e che, in
ogni caso, lui la aiuterà, fosse anche solo come padre del piccolo o piccola.
Victorie si lascia solo sfuggire che è un ottimo amico ed una bellissima
persona, e sottolinea quasi a mo’ di giustificazione che la sua famiglia sta
molto bene economicamente, quindi suo figlio avrebbe comunque un futuro sereno.
La complicazione, naturalmente, giunge quando
Teddy si pente di averla lasciata e torna alla carica, professando scuse e
implorando perdono. È in fondo solo un diciannovenne confuso da una vita
lontana dalla terra natia e dalle cose e persone a cui è abituato. Ecco cosa
fa il branco, il clan: ti fa crescere con le radici incardinate al suolo e non
ti fa schiodare più. Nemmeno i pensieri sfiorano il cielo, ma restano sepolti
nella terra. Se ne esci, se voli e scappi, diventi polvere nel turbinio della
tempesta. In poco tempo Teddy torna alla ragione, si pente di averla
lasciata, scrive lettere, manda fiori, contatta amici comuni.
Ma Victorie, adolescente sfiorita troppo presto,
esibisce maturità e grazia: ed è questo che mi colpisce di tutta la storia, più
che i risvolti pratici di ciò che accadrà adesso.
Questa biondina dal volto ancora paffuto e dagli
occhi teneri di azzurro, che porta sempre orecchini coordinati alle scarpe e di
mercoledì si veste sempre di rosa, reagisce come una donna di ferro: taglia i
ponti, brucia lettere e fiori, stoica dice a Teddy che non c’è storia, simula
una relazione con un altro, chiama anche l’amico/padre a testimoniare. Protegge
il ragazzo che ama dalla vergogna del tradimento forse, ma in fondo lo vuole
salvare da una responsabilità che non è sua, che non lo sarà mai, che plasmerà
destino e carne, che non potrà mai più a rimangiare. Lo vuole salvare, ecco, da
qualsiasi peso possa portare.
Rinnega amore e cuore da ragazzina, per il
sangue e la placenta della madre.
Dovrebbero essere fieri di lei, altro che
additarla come un’irresponsabile che si è fatta mettere incinta.
Sarà più mamma lei con questo alito da aquila
che protegge i suoi cari, che qualsiasi nevrastenica quarantenne imbevuta di
manuali di puericultura con le braccia piene di tutine firmate.
Teddy, però, non se la beve. Per niente. Torna
all’improvviso, va a trovarla ad Hogsmeade, la ferma in un pub, pretende la
verità. Lei tace, piange cocciuta, implora che la lasci in pace. Si sente male,
rimette, sviene. La portano da un Medimago che parla con Teddy, mentre lei è
incosciente. Gli dice la verità, presupponendo che lui sia il padre del piccolo.
Teddy capisce tutto. Subito, come un fulmine. Ed
è stoico, implacabile: “Se la sola cosa che ci tiene lontani è la
gravidanza, io sarò chiunque tu vuoi che io sia. Per te e per il bambino.
Chiedimi quello che vuoi… e io lo farò… sparirò, se sarà necessario. Sarà
quello che tu vuoi, non avere paura. Farò tutto ciò che desideri. Ma se per un
solo istante, tu chiedi a me che cosa io voglia, se per un solo attimo sia la
mia volontà in gioco… se deve essere quello che io voglio… sia che, da
oggi in poi, io sia tuo marito e il padre di tuo figlio”.
Eccolo qui, il dramma.
Perché Victorie piange e lo bacia, lo abbraccia,
si mette al dito un anello trovato nelle patatine ed accetta. E ci
mancherebbe con una dedica così, persino a Molly è rimasta impressa e mi cita
parola per parola. E non finisce qui. Teddy sa tutto ciò da dieci giorni,
se ne va in giro con un fardello di risposte e discorsi da preparare ma tace
con tutti. Arriva qui solo quando ha trovato una specie di lavoro, quando ha
delle fotografie di una casa in affitto vicino Salisbury,
minuscola come una stanza singola. Ne parla solo quando ha già deciso che
lascerà la scuola per qualche anno, per poi riprendere dopo. Ne parla solo
quando anche Victorie dice tranquilla che prenderà il diploma e poi resterà a
casa con il piccolo, fino a quando sarà svezzato.
Il dramma nasce perché sembrano due bambini, e
si comportano da adulti. Perché in un mondo di bambocci, noi abbiamo due
miracoli di maturità ed intelligenza e restiamo basiti.
Ognuno, naturalmente, nella stanza ha
un’opinione diversa sulla questione e su come si dovrebbero comportare i
diretti interessati.
Molly non ha una vera e propria idea, in realtà
è semplicemente fossilizzata sulla vergogna e su ciò che dirà la gente quando
saprà la cosa. Erompe rossa ogni due per tre che non è possibile che sia
accaduta una cosa del genere nella loro famiglia, che Bill è sempre stato
troppo permissivo con la figlia, che adesso ci manchi che gli diamo la mano e
ci congratuliamo con loro per il pasticcio che hanno combinato.
Forse solo adesso mi rendo conto di quanto sia
invecchiata: i suoi processi mentali sono meno permissivi e più sclerotici, e
forse è anche giusto che sia così. Quest’anno compirà settant’anni, ormai ha
rinunciato a tingersi i capelli, lunghe striature di argento solcano il rame
dei riccioli scomposti. È sempre più stanca, si siede spesso, ha le mani
deformate dall’artrite. Non si può pretendere da lei molto di più.
Nemmeno ovviamente si può pretendere molto da
Arthur. E’ un anno più piccolo di Molly, ma non ha nulla dell’energia della
consorte. E’ vistosamente dimagrito. Lotta da anni con il diabete, è sempre più
perso nel suo mondo di invenzioni. Tendenzialmente ora passa molto tempo in
silenzio, a rimuginare o a bofonchiare da solo. Cosa che sta facendo anche
adesso, non esprimendosi anche lui appieno. La sola cosa che fa, è accarezzare
ad occhi spalancati ed ancora lievemente scioccati il dorso del suo cane,
Birillo, un botolo di ormai quindici anni che passa il tempo seduto sotto i
suoi piedi a sputare palle di pelo rognoso.
Se la senilità consente di ignorare le reazioni
dei miei suoceri o quantomeno di giustificarle, non posso dire lo stesso per
quelle dei miei coetanei o quasi.
Bill, naturalmente, è impegnato a difendere
tardivamente l’onore della figlia, cosa che lo rende dello stesso colore dei
suoi capelli lunghi e lisci, legati in un codino. Le cicatrici spiccano bianche
come tagli nel sangue, dando persino l’impressione di contorcersi mentre lui
continua a perorare la causa di Victorie e di una sua non meglio identificata
purezza ed ingenuità. Non è naturalmente un argomento convincente e nemmeno
molto veritiero se, con un candore ben diverso, Victorie ha confessato che non
era vergine al rapporto con il padre di suo figlio. E che, per pura casualità
dell’imprevedibile, il bambino era di costui, e non di Teddy. Non che ciò
importi… ma da padre, Bill ovviamente si aggrappa all’idea ben più accettabile
di una figlia stupidamente manovrabile, piuttosto che di una giovane donna che
ha fatto delle scelte consapevoli che è disposta persino ad affrontare. Per
Bill, è naturalmente più semplice quindi scagliarsi contro Teddy, reo
nell’ordine di averla lasciata, di aver consentito che subisse questo, di
essere troppo freddo e calmo in questa situazione, di aver suggerito soluzioni
francamente inaccettabili per la sua perfettissima figlia.
A trattenere l’impeto di Bill, non può
intervenire nemmeno la solita carismatica pacatezza bionda di Fleur, la sola
rimasta immutata negli anni come il quadro fulvo e fosco di una dea greca. Il
solo segnale del tempo trascorso è un taglio di capelli più corto, sbarazzino,
maschile, ma che ha l’effetto di farla sembrare per contrasto ancora più
femminile. Fleur di solito è il ritratto della flemma e della calma, posata ed
educata come pochi: ora, non smettendo un secondo di accarezzare i capelli di
Victorie, parla fitta in francese all’indirizzo dei ragazzi che rispondono in
modo meccanico ed apatico. Non ho idea naturalmente di che cosa stiano dicendo,
di primo acchito mi sorprende stupidamente solo che Teddy parli perfettamente
francese. Ma il viso di Fleur, quelle incomprensibili macchie violacee sul suo
viso marmoreo, quel luccichio malato degli occhi acquamarina, quella presa di
acciaio sul gomito della figlia e quella voce cantilenante e ripetitiva, mi
fanno capire agevolmente che sta premendo per qualcosa. La secchezza delle
risposte dei ragazzi, la loro stanchezza, il loro sguardo a tratti slavato e a
tratti infuriato, mi fa dedurre che non siano d’accordo.
In una pausa dei discorsi degli altri, mi arriva
quella parola: avortement, come una frustata secca e fragorosa.
Non devo essere certamente una madrelingua d’oltre Manica per intuire che cosa
significhi e per sbiancare un po’, reggendomi all’angolo del divano come se
stessi per cadere. Victorie guarda ad occhi sbarrati la madre, come se fosse
una specie di strega con lunghe unghie affilate piazzate sul suo ventre a
strapparle quel germe di vita bionda, poi si lascia trascinare via da Teddy
fino ad una nicchia tra credenza e poltrona in fondo alla stanza. Restano lì,
immobili, ad occhi chiusi come due cuccioli spauriti.
Non parleranno più, nel caos che li circonda.
Attorno, ovviamente, nessuno se ne rende
propriamente conto. Sono tutti impegnati nelle loro diatribe dialettiche, tutti
profondamente sicuri della loro verità e della loro assoluta residenza dalla
parte della ragione. George, con piglio spavaldo, sostenuto dalla moglie
Angelina, ribadisce netto che ci può anche stare che il bambino nasca e che se
ne prendano cura, ma che il matrimonio è una cosa da escludere per due
ragazzini. Non sapranno nemmeno che cosa vorranno l’inverno successivo e,
comunque, il piccolo è una responsabilità del padre, non di Teddy. Può amare e
curare sua madre, ma anche in una forma più leggera e meno impegnativa, così da
non avere più pesanti ricadute in futuro se dovessero lasciarsi. E con tutti
loro ad aiutarli, non ci saranno eccessivi problemi.
Dall’altro lato della barricata, invece, si
piazzano Harry e Ron: se il primo ha una fiducia smisurata in Teddy e nelle sue
decisioni, al punto da lodare continuamente la sua maturità ed assennatezza, il
secondo invece fa del mantra dell’inviolabilità degli impegni presi la sua
bandiera e vessillo. La gradazione degli impegni, secondo mio marito, va da
quello con Victorie, che era comunque la sua ragazza sebbene non nel frangente
storico della relazione che ha generato la gravidanza, a quello verso il
bambino, ad uno più generale verso l’idea di una famiglia che probabilmente ci sarebbe
stata lo stesso.
La giovinezza dei ragazzi è uno specchio a
doppio fondo: se per Angelina e George è il discrimine di un’immaturità a
prescindere, per Harry e Ron è invece qualcosa che non corrisponde ad un’acerba
imprevedibilità. Se per i primi tutto è volatile come aria, per i secondi tutto
è scolpito come roccia.
Solo dopo qualche minuto, mi rendo conto che
Ginny è comparsa al mio fianco come una nebbia rossa di silenzio. Non ha mai
parlato da quando sono entrata.
Mi fa un sorriso stanco e flessuoso di pensieri
tutti suoi, sussurrando nel chiasso: “Sono alquanto sorpresa, Hermione Granger.
Non hai ancora detto una sola parola. Possibile che tu non abbia un’opinione a
riguardo? Ce l’hanno tutti, persino Birillo il cane, e tu no?”. Sorrido
a mia volta, stendendomi meglio con la schiena sul divano e chiudendo gli occhi
per un attimo: “Nemmeno tu hai detto nulla”.
“Le mie opinioni sarebbero state mere bestemmie
di fronte all’impossibilità di questa famiglia di non interloquire con un tono
di voce da Concorde in fase di decollo…” commenta piccata Ginny,
strappandomi un altro sorriso mentre la guardo di lato “Ma fa parte del mio
personaggio: sono la stronza sarcastica. Tu sei la pedante
risolutrice…”.
Mi sposto di tre quarti per guardarla in viso e,
contemporaneamente, togliere dalla traiettoria del mio orecchio le onde sonore
prodotte da Molly che sta ancora urlando con Bill.
Con il sapore del fiele in bocca, qualcosa
persino di più pesante della solita nausea mai del tutto scomparsa, ammetto con
calma: “Non credo di avere una vera opinione, Gin…”, scuoto il capo ignorando
lo sguardo di Ron che cerca da me sostegno in un alterco con George che non sto
nemmeno ascoltando, poi proseguo con voce flebile: “Sarà anche strano, ma è
così. Davvero non so che cosa sia la cosa giusta da fare…”.
“E ti fa impazzire come cosa, vero?” completa
per me Ginny, dedicandomi un nuovo sorriso tra il sarcastico e il comprensivo.
Un acuto di Angelina copre la sua voce nel finale, distorcendola.
Faccio una tenue smorfia annuendo lievemente con
il capo come a non darle troppa soddisfazione, cosa che la fa scoppiare in una
genuina risata. Ron guarda male entrambe, ma poi torna alla sua discussione, le
orecchie come due tizzoni ardenti, evidentemente offeso da non essere sostenuto
né dalla moglie, né dalla sorella.
Mi lascio quindi andare ad una veloce
riflessione mordendomi l’unghia del pollice.
Effettivamente, constato con una punta di
frustrazione analizzando mentalmente la pianura dei miei pensieri, non riesco
ad avere una chiara opinione. Tutto mi sembra sfuggente e viscido come anguille
di fiume sporco. Chiamo ancora in causa la stanchezza, ma in verità non penso
che sia questo. Sono perfettamente in grado di ragionare anche con il cervello
congestionato, è sempre stata una mia precipua e meravigliosa caratteristica.
Ora, ogni pensiero ha la consistenza stopposa della segatura.
Riesco a capire ogni punto di vista… ma nessuno
mi appartiene davvero.
Ammiro la maturità di Teddy e Victorie, ma mi
chiedo se non stiano agendo secondo uno schema prestabilito dai loro stessi
doveri confusi. Spio il loro amore come una rinsecchita zitella, ma temo sempre
che sia una cotta da adolescenti sopravvalutata. Aborrisco all’idea di
un’interruzione di gravidanza, ma mi chiedo se non sia il caso comunque di
tenerla in considerazione. Vedo il matrimonio come una cosa da adulti, eppure
al pensiero di una mamma che cresce un figlio da sola, ho la nausea.
È così tangibile quel pensiero che, con
risoluzione, sento solo di escludere a priori che Victorie resti da sola ad
affrontare questa cosa, a costo persino di stare assieme al padre del bambino
per semplice dovere. Aggrappandosi a lui. Se non si è madri non lo si può
capire… quanto a volte diventa necessario anche aggrapparsi con le unghie e con
i denti a chi c’è in quel momento, pur di far stare bene il proprio figlio.
A me non è successo, ho cresciuto i miei figli
con il loro padre accanto, ma c’è qualcosa di sorprendentemente morbido e
sanguigno dentro a farmi intuire cosa debba essere una cosa così, anche se non
lo so per esperienza.
Una sola persona che si improvvisa per sempre madre e padre, innamorata e
sconfitta, salvatrice e salvezza, vittima e carnefice, tradita e traditrice.
La testa mi vortica come se fossi nel pieno di
una tempesta di vento, la tengo a freno chiudendo gli occhi e toccandomi una
tempia.
Resta che, escluso questo particolare aspetto,
non ho nessuna opinione a riguardo. O meglio, sono contro qualsiasi punto di
vista sto sentendo.
Le voci scemano, si smorzano, si avvitano tutte
attorno a me come le spire di un serpente, perché ora tutti, persi nel loro
cortocircuito dialettico, si rendono conto che io non ho ancora espresso
un’opinione. E naturalmente si chiedono perché. E naturalmente sanno che sarà
quella l’opinione da battere, o da smontare, o viceversa da appoggiare con
tutte le forze.
E io resto come un pesce all’amo, incapace di
parlare, ma solo di aprire e chiudere la bocca come un stupido luccio. Le iridi
di Ron saettano ferite nella mia direzione.
A salvarmi, per fortuna, è il lungo suono un po’
tirato del campanello.
“Finalmente è arrivato Percy…!” commenta rapida
Molly, fiondandosi nel corridoio per aprire la porta, certa di avere uno
smisurato appoggio dal figlio più intransigente della nidiata.
Sospiro per l’inaspettata tregua, ma
evidentemente troppo presto, dato che Ron pensa bene di guardarmi direttamente
e chiedermi: “Mione… che cosa ne pensi tu?”. Lo fulmino con lo sguardo per
avermi di nuovo posta al centro dell’attenzione e medito con un improvvisa
risoluzione di spellarlo vivo non appena torniamo a casa. Penso naturalmente se
optare su una soluzione diplomatica, oppure su un ben più sentito urlo
generalizzato alla ripresa della calma, mentre Teddy mi sorpassa affannato e si
ferma a poca distanza da me davanti alla porta del salone, berciando un veloce
e caloroso: “Ciao zio”.
“Ci mancava anche Percy”, borbotto tra me e
me mentre mi tormento le mani in grembo sotto lo sguardo indagatore di Ron, che
indubbiamente vuole avere ragione su tutta la linea. Cosa che potrei anche
concedergli: però davvero una delle mie poche certezze è che non penso, come
lui, che Teddy e Victorie abbiano un impegno tale da spingerli automaticamente
al matrimonio. Una considerazione simile mi spinge solo ad arricciare il naso e
a trattenere il vomito di piccate contraddizioni. Ma potrei insomma concedergli
di avere ragione per una volta e sostenerlo, tanto per spirito di pace e
conciliazione.
Tutti gli sguardi sono ancora puntati su di me e
sulla mia assoluta incapacità di parlare, mentre Teddy continua bellamente ad
intrattenere l’ignorato Percy: “Come sta zia? Tutto a posto? Riesce ad alzarsi
dal letto?”. Arriccio il naso aggrottando le sopracciglia sotto la sequela di
sguardi perforanti. Perché non pensano ad Audrey che ha la febbre, o che so o,
e non riesce ad alzarsi dal letto… invece di pensare a me?
“Sta bene, Edward… ma non così tanto da
liberarmi dal tedio abbastanza paralizzante di essere stato costretto ad
entrare in questa elegante magione. Ti ringrazio davvero ragazzo
dell’invito, la tua solerte premura ha alleviato quella quarantina di
contrazioni intestinali che ho avvertito nel tragitto fin qui… e dire che alla
precipitosa chiamata della mia cara genitrice preconizzavo un blocco renale.
Quindi possiamo concludere che sia una meravigliosa giornata di insperate
fortune… ”.
Avverto immediatamente qualcosa di strano nella
voce di Percy, che mi fa chiudere le labbra quando stavo già tentando di
rispondere a Ron. Lui mi guarda in attesa con espressione nervosa, aspettando
delle rade parole che io invece ho già dimenticato. Non intendo subito che cosa
ha detto Percy, ma solo il tono di voce profondamente diverso con cui le ha
dette. La voce di Percy la so a memoria: è strillante, acuta, pedante e
profondamente troncata sugli accenti. Questa, invece, è diversa. Lenta, roca,
strascicata sulle finali come se fosse sempre convinto che non stai mai capendo
che cosa sta dicendo e ciò lo irritasse enormemente. È una voce dal timbro
chiaro, preciso, come una campana ridondante che impone attenzione e riverenza.
Dall’accento inesistente, plasmato da una imposta dizione aristocratica e
nobile.
Un accenno di nausea mi risale senza motivo
dallo stomaco, corrodendo l’esofago come se fosse acido: mi chiudo le labbra
con una mano come a frenare il conato che, invece, si intensifica e mi dà
l’impressione che mi stiano rivoltando come un calzino. E forse a quel punto
che noto istantaneamente che la stanza è calata nel più profondo silenzio, una
bella differenza abissale rispetto al caos di poco fa.
Mi sporgo oltre la sagoma di Teddy che mi
bloccava la visuale della porta, e la prima cosa che riesco a fare è chiedermi
se non ho appena avuto un ictus celebrale asintomatico.
Penso che sia una cosa abbastanza normale temere
della mia salute, visto chi ho davanti agli occhi.
La mia voce si blocca in gola, mentre riconosco
la figura davanti a me.
Ecco perché riconoscevo la voce, ma al contempo
mi sembrava diversa da quella di Percy Weasley.
Accanto ad un’atterrita Molly, intenta a ridurre
ad una palla informe il grembiule sporco di sugo che ancora indossa, è comparso
misteriosamente ed inaspettatamente Draco Malfoy.
Continuo a guardarlo senza ritegno come se
pensassi che fosse una specie di visione, d’altronde si inserisce nel panorama
del salotto dei miei suoceri come si inserirebbe un eschimese nel cuore della
foresta pluviale. È ovviamente fuori posto, come se fosse sbagliato tutto
accanto a lui. Persino io. Ogni cosa di me stona accanto a lui. Donna,
babbana, mezzosangue, povera, castana... Lui è il contrario di tutto questo.
Trattengo ancora il conato di nausea, rendendomi conto che non può essere un
mio cortocircuito mentale da stanchezza o un improvviso aneurisma, visto che
anche gli altri sono ammutoliti e lo stanno guardando nella mia stessa identica
maniera.
Del resto mi sembra ovvio: che diamine c’entra
lui qui, adesso?
Spiandolo sotto le ciglia, seminascosta da Teddy
ancora in piedi davanti a me, mi do pena di osservarlo meglio mentre lui è
ancora intento con lo sguardo a soppesare Teddy stesso, non degnando il resto
della stanza della benché minima attenzione. Forse è la prima volta da anni che
lo rivedo da così vicino, credo di averlo incrociato spesso, ma sempre a
distanza per fortuna.
Al binario 9 e 3/4 quando avevo accompagnato
Rose per la partenza per Hogwarts, non ci avevo prestato molta attenzione. Era
avvolto dalla nebbia del fumo del treno, era distante… solo Ron con il solito
astio lo aveva guardato bene dandomene un ritratto completo appena tornati a
casa, accentuando che stava cominciando a stempiarsi anche lui.
Tutti i soldi che ha non possono comprare dei nuovi capelli! Esiste una
giustizia divina!
Noto, invece, che non credo esattamente che
stesse perdendo capelli, ma che forse abbia deciso volontariamente di tagliarli
molto corti, quasi rasati, magari in un impeto di giovinezza tardiva. Cosa che
decisamente ha funzionato, sembra esattamente lo stesso dei tempi della scuola.
La fronte spaziosa che è sempre corrugata, le labbra sottili arricciate in una
smorfia di fastidio, e poi quell’indiscusso talento di riempire le stanze. Non
so come definirlo, è una sensazione particolare, mi ricordo che l’aveva anche
Viktor… come se ti schiacciasse contro le pareti per fare posto alla sua
persona. Porta con eleganza un cappotto nero di panno pesante, che
probabilmente, vista la fattura, costa quanto il mio intero appartamento. Il
collo alto enfatizza i tratti appuntiti del suo viso facendomi notare che
sembra dimagrito.
Risalgo la linea degli zigomi fino agli occhi.
Con uno scoppio dentro lo stomaco che mi spinge di nuovo a chiudere le
palpebre, mi accorgo per la prima volta forse in decenni che non ha gli occhi
di uno slavato azzurro sbiadito come ho sempre pensato. Sono occhi… grigi.
Come il colore della mia sciarpa. Sembrano perennemente in tempesta.
Un paio di occhi tempesta.
Questa piccola constatazione innocente mi mette
a soqquadro le viscere come non mai. Resto ad occhi chiusi come se cercassi di
ancorare me stessa ad un qualsiasi punto che mi renda ferma, salda, immobile.
Ma tutto sembra vorticare senza sosta. Draco Malfoy ha gli occhi grigi.
Occhi grigi. Non ho mai conosciuto qualcuno con gli occhi grigi. Come se
piovesse ad aprile. Come una notte di pioggia in aprile.
Quell’associazione banale di idee è peggio di
tutto il resto, ho l’impressione che rimetterò a breve. Confusa, cerco a
tentoni la bacchetta in tasca, pronta a pronunciare un Incantesimo che ho
appreso da una mia collega a pranzo, quando di nuovo la nausea mi faceva
impazzire. Non trovo subito la bacchetta e ricordo di averla lasciata in borsa,
nell’ingresso. Imprecando mentalmente, riapro gli occhi perché con le palpebre
chiuse la nausea mi fa davvero sentire come se fossi in una barchetta in mezzo
al mare, e cerco di nuovo di acclimatarmi al clima circostante, respirando con
la bocca per fermare i conati. Non passano, ma almeno migliorano, attorno a me
per fortuna nessuno si è accorto di niente. Sono ancora tutti intenti
nell’esame di Malfoy, ed anche io fingo di non aver mai smesso di guardarlo.
Anche se adesso, per una buffa precauzione
sciocca, evito di guardarlo negli occhi per una seconda volta, come se fosse un
maledetto serpente che potrebbe ipnotizzarmi.
Malfoy esamina tutta la stanza a grandi occhiate
nervose come se stesse esaminando e comparando i mobili per un acquisto
scadente, per poi tornare inquieto ed innervosito a Teddy, sbuffando con
sussiego. Poi, come se qualcosa lo avesse punto alla schiena, si sporge
lievemente a sinistra del ragazzino, come se solamente adesso mi avesse notato
seduta sul divano. Mi guarda per qualche secondo con espressione indecifrabile,
sento il grigio di quelle lame contro il mio viso e, per qualche strano motivo,
adesso non distolgo prima il viso. Penso per sfida.
So solo che, quando si stacca con lo sguardo da
me, mi accorgo di tornare a respirare. La nausea per un attimo mi acceca,
medito persino una fuga in bagno.
Poi, restituendo uno sguardo rassicurante a Ron
che si è reso conto della mia manovra, finalmente passa.
Quando torno a guardare Malfoy come tutti gli
altri, lui ha di nuovo la sua espressione consueta, quell’aristocratica che
pare infastidita per l’esistenza stessa del mondo circostante. Lascia cadere
lungo il fianco un braccio, dopo che la mano destra aveva stretto in modo
febbrile la stoffa del cappotto all’altezza dell’addome, forse per uno spasmo
di nervosismo. Suppongo, del resto, che non deve essere facile per lui stare
qui. Figuriamoci, ci considera ancora la feccia della razza umana. Ciò mi rende
ancora più curiosa sul motivo per cui è piombato qui.
Ripercorro mentalmente ciò che ha detto appena
entrato, in cerca di una risposta, cercando di distrarre il mio corpo dal
malessere sempre in sottofondo.
E constato una cosa ovvia che mi lascia
abbastanza sconcertata: sembra che sia stato Teddy a chiamarlo. Malfoy infatti
si è rivolto solo a lui, ha parlato di un invito, ha risposto a convenevoli
sullo stato di una zia. Chi sia, naturalmente, mi sfugge… specie perché
Teddy ha appellato Malfoy in modo abbastanza affettuoso.
Lo ha chiamato zio.
Come chiama Harry, Ron, Percy, George, Bill e
Charlie. La sua famiglia.
Con una punta di rammarico, mi rendo conto che
tecnicamente è più Malfoy la sua famiglia che noi. Sono mezzi imparentati, sua
nonna Andromeda era la sorella di Narcissa Black. Con noi, non ha nessun legame
di sangue. Quel sangue stesso, però, è un sangue sporco, impuro, lercio. O
perlomeno Malfoy dovrebbe pensarla così, stiamo sempre parlando di un ragazzino
con sangue di lupo mannaro nelle vene, mutaforma, figlio di mezzosangue ed
amico di nati babbani e Weasley. Malfoy, invece, inaspettatamente si è rivolto
nella più classica delle maniere al ragazzo: è stato sarcastico, pungolante, ma
non in modo perfido. Lo ha anche confidenzialmente chiamato… Edward.
Ma certo… concludo con ovvietà, appannata
dalla stanchezza Il suo nome completo. Figuriamoci se Malfoy può chiamare
qualcuno con un nomignolo o un’abbreviazione.
Secondo me appella anche suo figlio in quel modo ridicolo, ma completo.
Scorpius.
Sicuro che chiama tutta la gente senza alcuna abbreviazione. Specie… quelli
a cui tiene, come se gli desse maggiore peso così.
A rompere il silenzio che è calato a grandi
maglie su di noi è naturalmente Ron, punto sul vivo dalla presenza del vecchio
nemico proprio nella sua casa. Vedo distintamente come segue lo sguardo grigio
dell’uomo che saetta su tutti i particolari più infidi dell’abitazione: dal
copridivano rammendato alle tende color bianco stinto, fino ai capelli privi di
messa in piega di Molly.
“Che diamine ci fai qui, Malfoy?” borbotta Ron
al suo indirizzo, le orecchie già in direzione del violetto “Ci contavo a
rivederti a giugno…”. Teddy contrae le spalle, probabilmente messo in allarme
dal tono di voce di mio marito, che preannuncia fulmini e tempesta. Fa per
aprire la bocca, ma la richiude subito come sotto uno spasmo involontario. Si
limita a guardare Victorie, come a comunicarle un solitario pensiero interiore,
comprensibile solo da loro due. Quando mi volto a guardarla, però, la ragazzina
bionda mi pare impassibile. Resta a testa bassa, persa nei suoi pensieri.
Malfoy ha fatto un solo singolo passo come se
volesse palesare maggiormente la sua presenza: ha la stessa andatura lunga ed
autoritaria che ricordavo ai tempi di scuola. Si massaggia distrattamente la
porzione di fronte sopra il sopracciglio sinistro, appare stanchissimo e
nervoso, freme lievemente la pelle del suo collo come se ansimasse in preda
all’irritazione. Poi respira a lungo cercando di calmarsi ed ingiunge in modo
meccanico, ignorando palesemente Ron: “Edward, mi faresti la cortesia di
spiegare la questione ai nostri gentili padroni di casa? Non serve
conoscere la mia biografia per sapere quanto sia alquanto improbabile
che ci intratteniamo piacevolmente chiacchierando della temperatura
eccessivamente rigida di questi giorni o dei nostri programmi natalizi…”, fa
una pausa studiata come ad aspettarsi una reazione che naturalmente non arriva.
Continua con voce più bassa, quasi vellutata: “Mi faciliteresti davvero le
cose, ragazzo…”.
Teddy d’improvviso si accende come una candela,
emana una luce tenue di speranza che non so davvero che motivazione abbia:
persino i capelli, come vittima di un’eccitazione improvvisa, trovano riflessi
di oro giallo trasformandosi. Malfoy li guarda senza battere ciglio,
confermandomi che non è la prima volta che vede Teddy cambiare il suo aspetto.
Ha ereditato questo aspetto da Dora, da sua madre, ma non la propensione alla
trasformazione ad ogni piè sospinto che aveva lei. Sin da ragazzino Teddy lo fa
di rado, quasi sempre involontariamente, tipo quando si emoziona per qualcosa.
Per il resto lascia le trasformazioni solo ai
momenti di gioco con amici e cuginetti. È una cosa che non gli è mai piaciuto
fare, sembro un pagliaccio zia!
Teddy è sempre stato un ragazzo pensoso, un po’
malinconico in alcuni frangenti. Somiglia molto di più a suo padre che a sua
madre.
Malfoy chiude gli occhi come se sapesse anche
questo, e notasse quindi la trasformazione come un evidente segnale di
nervosismo o agitazione in Teddy. Scatta quindi un nervo sottopelle vicino alle
labbra che contrae, mentre sembra prepararsi a rispondere ad una domanda che
nessuno ha sentito, ma che sembra che Teddy gli abbia fatto capire
distintamente.
Infatti Malfoy dopo pochi secondi riprende a
parlare con voce scandita e decisa, come se fosse rimasto da solo con Teddy e
noi non esistessimo più: “Mia madre ha una sua opinione. Che non ha mancato di
farmi conoscere, sviscerandone ogni particolare e riflesso…”, prende fiato
prima di proseguire, fissando Teddy direttamente negli occhi mentre il
ragazzino trattiene il fiato. Malfoy fa un sorriso sbilenco, storto, inseguendo
un pensiero tutto suo prima di aggiungere lapidario: “Non te la farò conoscere
la sua opinione. Non te ne devi sentire rincuorato o scoraggiato. Penso che
tu sappia o immagini che, visto come stanno le cose, dovrai decidere le cose da
solo d’ora in poi. E se non l’hai ancora capito, credo che siamo di fronte ad
un enorme problema ben più grave di tutto il resto…”, Malfoy studia per un
attimo il volto di Teddy come a sincerarsi della sua attenzione devota. Il
ragazzino trattiene il fiato, poi annuisce in modo grave con il capo. Malfoy
ancora si lascia andare ad una piega delle labbra che somiglia ad un sorriso
statico, continuando monocorde: “Puoi quindi ragionevolmente dedurre che non
saprai nemmeno che cosa ne penso io, ragazzo. Sarò qui solo ad accettarmi che,
qualsiasi cosa tu decida, l’onore della famiglia ne venga tutelato… è quello
che in fondo vuole mia madre. Ed è quello che in fondo ci avrebbe chiesto di
fare Andromeda…”, nel silenzio che regna sovrano nella stanza, come se le
parole di Malfoy avessero lo stesso potere della sua persona e cioè di
schiacciare tutte le altre contro le pareti non lasciandole respirare,
riconosco agevolmente il nome della nonna di Teddy. Una spia ulteriore di
curiosità si accende nel fondo del mio cervello ricordando che Cissy e sua
sorella non erano in buoni rapporti. Assolutamente.
Ora, Malfoy la nomina con nonchalance e calma,
persino con il suo nome di battesimo.
I miei occhi confusi incontrano casualmente
quelli di Harry che, a sua volta, fa spallucce e mi testimonia che anche lui,
come me, non ne sa assolutamente niente. Ha una piega strana degli occhi,
Harry, somiglia a cenere rappresa. Forse somiglia ai miei di occhi. Perché entrambi,
che pure così tanto amiamo questo ragazzino, comprendiamo che ha tutto un mondo
dietro che non conosciamo affatto. Un mondo cucito pezzo per pezzo su di lui
attraverso un’appartenenza di sangue che mai avrei giurato.
Mi sento in fondo tradita per non aver mai
conosciuto tutto questo.
Mi chiedo perché Teddy abbia sempre taciuto
questo legame, da quanto duri, come si svolga. Mi chiedo spaventata se Malfoy
non lo abbia trattato male e, un secondo dopo, mi rendo conto che è quello il
motivo per cui non ne sappiamo nulla.
Il sapore di segatura in bocca che è il pensiero
che Malfoy possa fare del male a Teddy.
Gli sguardi di questa stanza che non lo lasciano
in pace. Il silenzio alle sue parole. La ricerca malata di qualcosa che non
vada.
Non avremmo mai accettato che Teddy
riagganciasse con la sua famiglia d’origine. Lo avremmo protetto e la sola
protezione davvero efficace sarebbe stata impedire ogni contatto.
Teddy, invece, ne aveva bisogno. E ha tradito
noi tenendo fede a sé stesso. Con una punta di fierezza per la sua forza e
coraggio, per la sua contrapposizione al clan che nemmeno a me riesce così
bene, osservo superficialmente che d’altronde Malfoy lo tratta con enorme
rispetto e cura. È evidente.
Non lo guarda come guarda noi: ha gli occhi più
calmi, l’atteggiamento pacato, un’ironia spuntata di leggerezza e confidenza.
Si fa chiamare zio con la massima naturalezza possibile.
Forse, e mi sembra una contraddizione pensarlo,
Malfoy vuole persino bene a Teddy. Mi sembra così strano da darmi le vertigini.
Ed è allora che un’altra domanda fastidiosa mi tiene la mente ancora occupata,
impedendole di staccarsi dalle sue riflessioni.
Ma a me, in fondo, chi me l’ha mai detto che Malfoy non ha voluto bene a
nessuno?
Sbatto le palpebre un paio di volte a quel
pensiero come a scrollarlo e a cacciarlo fuori dalla mia testa: è un pensiero
fondo, viscoso come petrolio. Mi ingolfa la mente come se volesse bloccarne gli
ingranaggi, rendendo tutto straordinariamente bianco. È assurda come sensazione
e, di nuovo, la nausea risorge come un pericoloso vento malato nel mio basso
ventre. Mi massaggio la tempia con calma cercando di escludere quella
sensazione e, con flemma, faccio passare quel gesto per stanchezza in modo che
non se ne accorga nessuno. Ron per fortuna mi dà le spalle ed è troppo
impegnato a guardare in cagnesco Malfoy per accorgersene. Sollevo lo sguardo
quando credo che sia tornato limpido, concentrandomi di nuovo sulla scena di
fronte a me.
Sussulto con un lieve balzo dello stomaco, gli
occhi di Malfoy sono puntati nei miei con una ferocia spavalda che non
comprendo, ma che mi incenerisce la pelle. È questione di pochi secondi, ma ho
l’impressione chiara di essere in apnea. Segue la linea delle mie dita che
lasciano la tempia, chiude gli occhi e sbuffa un po’ con il naso, prima di
soffiare fuori con voce bassa: “… così saremo definitivamente pari, Edward…”.
La voce di Malfoy, di solito così strascicata e lenta da darmi i nervi, è
stavolta frettolosa e distratta come se volesse far sfuggire quelle parole
lontano, veloci, quasi senza accorgersene. Mi chiedo ancora perché, prima di
dirmi che in fondo non è che me ne interessa granché e che forse vedo in Malfoy
più di quanto pensi. Il motivo, penso con un’improvvisa illuminazione, è la
deformazione professionale delle indagini di Hogwarts quando lo credevamo
capace di qualsiasi azione malvagia, a cui si aggiunge un innato istinto di
protezione verso Teddy.
Evidentemente, però, nonostante la mia
attenzione, qualcosa ha comunque ferito Teddy nel sottotesto della loro
conversazione. Mio nipote affloscia le spalle, prima di soffiare fuori con una
vena di delusione infantile che diventa quasi un broncio: “E’ solo questo,
allora, zio? Parliamo ancora di quella vecchia storia?”.
Naturalmente non ci capisco nulla e me ne
rammarico molto: non intendo del resto restare ancora molto in questa
ignoranza. Appena Malfoy schioda, Teddy mi sente. Così impara a fidarsi di
personaggi del genere. Gli racconterò un bel paio di episodi da far accapponare
la pelle, così capisce con chi ha a che fare. I piedi mi formicolano nella loro
immobilità, mentre mi innervosisco al silenzio di Malfoy e allo sguardo
corrucciato di Teddy, cieca del resto della stanza ma solo vogliosa di mollare
un ceffone in viso a quella serpe.
Non è una sensazione nuova. L’ho provata per
anni, è solo andarmene di dejà vu. Mi mancava, oserei persino dire.
Dovevo mantenere i rapporti solo per trattarlo
come palletta antistress.
Mentre lo fisso come se lo volessi impalare
all’istante, mi accorgo che le labbra di Malfoy si sono piegate in una specie
di sorriso che forse, anche a chiamarlo così, si sbaglierebbe. È solo una piega
sfuggita della bocca mentre lui chiude gli occhi grigi. Si sistema meglio il
colletto del cappotto, rivelando un pesante anello di oro bianco con una gemma
nera all’anulare. Si avvicina a Teddy, gli poggia una mano sulla spalla
chiudendo forte le dita, vedo persino i polpastrelli affondare nel suo maglione
azzurro mentre lui lo fissa negli occhi con una punta di timore. Malfoy, non lasciando
un attimo gli occhi di Teddy, dice piano con voce autoritaria rivolgendosi a
Bill che è immediatamente alla sua destra: “Weasley-quasi-accettabile-socialmente-se
non fosse per quelle-orrende-cicatrici-da-competizione-con-Potter, passami
una sigaretta… o mi faccio di nicotina, o non resisto fino alla fine di questa deliziosa
serata…”.
Bill, troppo intontito per rispondere in modo
diverso da un semplice assenso, estrae dalla tasca una sigaretta che porge a
Malfoy che l’accetta ancora senza guardarlo, prima di lasciare la spalla di
Teddy che finalmente sorride scuotendo il capo quasi incredulo. Malfoy con la
massima flemma di questa terra come se fosse a casa sua, si riabbottona il
cappotto fino al mento ed esce sulla terrazza, chiudendola poi alle sue spalle.
Prima di sparire alla mia vista, lo sento mormorare un saluto cortese
all’indirizzo di Fleur, sempre ferma davanti alla portafinestra: “Buonasera Delacour”.
“Sciao Dracò” risponde lei distrattamente ma assolutamente normale
nel tono, cosa che causa anche in Bill una torsione innaturale del busto per
guardare in viso la moglie, che indifferente fa spallucce.
Il rumore della finestra accostata che chiude
fuori Malfoy assieme ad una folata gelida di vento di dicembre, ci risveglia da
quella specie di torpore che ha portato la sua presenza. Sono successe circa
duemila cose che non abbiamo capito appieno e che sembrano uscite da un film di
fantascienza.
Credo di aver anche rimosso la questione della
gravidanza di Victorie. Malfoy me l’ha tolta completamente dalla testa.
Penso che sia successo un po’ a tutti nella
stanza considerando che appena lui esce, esplodono domande e scoppiettano
imprecazioni.
Capitano del tumulto è naturalmente mio marito
che interroga Teddy per sapere che diamine ci faccia Draco Malfoy, 36 anni,
Purosangue ed uno dei più grandi stronzi della nostra generazione, a fumare
tranquillamente sulla terrazza della Tana come se fosse un gentile ospite
invitato a prendere il tè del pomeriggio.
Anche Bill sottopone sua moglie ad una veloce interrogatorio
sul saluto riservatole da Malfoy e sulla sua risposta assolutamente non
scandalizzata ma anzi quasi calorosa. Fleur non si scompone nemmeno per un
secondo, replicando stanca ed annoiata dall’accesso di gelosia del marito: “Dracò frequentava mia cugina Denise prima di sposare
Astoria. Mi pare normale che lo conoscessi anche io… non essere ridicule avec cette jalousie … ”. Mi scappa
un sorriso nonostante tutto alla nonchalance di Fleur e all’espressione di
Bill, punto decisamente sul vivo.
Posso persino arrivare a comprendere
l’irritazione di Bill: contrariamente a quanto può pensare Ron e continuare a
ripetere tra le sue invettive, Malfoy è ancora decisamente un bell’uomo. Non
sono cieca, anzi mi vanto di essere decisamente obiettiva. Quindi sì, Malfoy è
il diavolo incarnato… o quasi. Ma è decisamente un bell’uomo. Pochi fili grigi
sono spuntati tra i corti capelli biondi e stranamente sembrano averne trovato
dimora in modo armonioso. Ha ancora lo sguardo tagliente dei tempi della
scuola, cosa che conferisce vivacità alla sua espressione facendolo sembrare
più giovane. Non ha sicuramente l’aspetto appannato ed offuscato che ho invece
io, ecco. Ha mantenuto un fisico asciutto forse perché probabilmente è ancora
dedito a qualche specie di sport, d’altronde era un buon Cercatore per quanto
ne possa aver capito io ai tempi. La maturità, giunta in ritardo, ha sopperito
alla scarsa altezza che aveva fino ai diciassette anni, adesso torreggia molto
di più sulle persone di quanto comicamente potesse fare prima. Veste sempre in
modo impeccabile, non credo di averlo mai incrociato vestito in modo meno che
inappuntabile. È ancora ricchissimo, dato che ha sommato al suo discreto
patrimonio i proventi legati al fatto che, negli anni, è diventato uno Pozionista di chiara fama.
Per la serie: piove sempre sul bagnato. Leda ci si fionderebbe sopra come
una mosca sul miele. Dubito che non ci abbia già provato.
Difficile non accorgersene però di quanto la
guerra abbia lasciato delle impercettibili tracce anche su di lui. Penso che
sia una cosa ampiamente assodata che la mia generazione abbia ricevuto
un’eredità di tic nervosi, cicatrici nascoste, incubi ricorrenti o lievi
zoppie. Sono imperfezioni persino accolte con grazia e gratitudine, se sono
tangibili segni di sopravvivenza a merito ed onore di chi invece non ce l’ha
fatta.
Malfoy, sicuramente più di molti, deve avere un
intero armadio pieno di scheletri bellici, sebbene la postura autoritaria,
l’aria strafottente e i modi aristocratici facciano supporre il contrario.
Esteriormente, forse ora che mi sono data più pena di osservarlo vista la
stranezza della sua presenza qui, ho notato subito una caterva di piccoli segni
bianchi sulla mano destra, come delle piccole escoriazioni rimarginatesi male e
un’impercettibile indecisione dello stesso braccio quando si muove. Sembra
stranamente essersi più acclimatato all’uso del braccio sinistro.
Mi stupisco della quantità di dettagli che ho
notato in pochi istanti, ma concludo con una punta di isterico infantilismo
che, sebbene i tempi siano cambiati, sono una sorta di sua nemica naturale.
Alla fine credo che i nemici siano quelli che ti conoscono meglio. Un nemico ti
studia a fondo per scorgere ogni tua debolezza; invece un amico è intimamente
terrorizzato dall’idea di trovarne una in te, tale da farlo desistere dallo
starti vicino. Quindi, credo di conoscerlo bene Malfoy, le sue espressioni, i
suoi gesti e i suoi sguardi.
Non che lo vedi spesso, mi capita sempre di
sfuggita nel campo visivo della mia vita, però in quel modo solenne che ti si
imprime negli occhi. Vuoi per la sua persona svettante, vuoi perché mi annoto
con riflessi tardoadolescenziali se si stia comportando bene, vuoi perché dalla
fine della guerra ha assunto l’abitudine a riservarmi almeno un cenno di saluto
a cui, mio malgrado, per educazione rispondo… vuoi per tante cose, ma
sicuramente è una persona che, osservandola, conduce a molteplici riflessioni,
fosse pure sul tempo che passa o sulle persone che cambiano.
Draco Malfoy tutto sommato è cambiato appunto,
assumendo una nuova rispettabilità borghese che non ha nulla da invidiare a
nessuno: si è impegnato e sforzato, ha ingoiato rospi amari come case, ma alla
fine ha scollato la sua immagine da quella del Mangiamorte che quasi assassinò
Silente. È ancora oggetto di pregiudizi e dubbi intendiamoci, e giurerei che
sia rimasto una persona odiosa. Ma al
momento credo che sia solo uno stronzo snob, non un razzista bigotto: sono
soddisfazioni, dato che frequenta Teddy a quanto pare.
Credo che, a pensarla come me, siamo sia io che
Harry. Forse Harry ha qualche riflesso persino di una maggiore positività
quando si tratta di Malfoy, forse per il contraccolpo della bugia di sua madre
quando mentì a Voldemort sulla sua morte, cosa che a conti fatti ha davvero deciso
le sorti della guerra e della sua stessa vita. Naturalmente questo si
ripercuote anche su Ginny, grata della salvezza del marito.
Caso diverso è invece Ron che, per motivi tutto
sommato comprensibili, non ha mai smesso di detestare Malfoy. In fondo parliamo
del bulletto idiota che per tutti gli anni della scuola lo ha sempre trattato
come uno straccione, assieme alla sua famiglia. Ron era un Purosangue, ma forse
ha avuto il peggiore trattamento tra noi tre perché Malfoy premeva su aspetti
che per Ron sono sempre stati delicati, riguardando la sua famiglia nella
logica da clan su cui riflettevo poco fa. E naturalmente in poche disgustate
espressioni facciali, Malfoy ha mostrato chiaramente di non aver assolutamente
rinnegato quel lato. Può anche aver formalmente abiurato alla superiorità dei
maghi Purosangue, anche se ci scommetto che continua a fare enormi distinguo
tra i maghi stessi, ma non per questo non considera i Weasley una massa di
abominevoli teste rosse che disonorano il buon nome della comunità magica con
la loro ridicola insulsaggine, la loro chiassosa povertà e la loro scanzonata
modestia.
Comprendo quindi perché Ron, da quando Malfoy è
uscito, ha misurato la stanza a grandi passi borbottando a denti stretti e
calciando sedie e tavoli. Molly cerca in modo tattico di offrirgli una tazza di
tè al gelsomino, bevanda assunta sempre da mio marito per calmarsi, ma Ron la
ignora continuando a camminare e a gesticolare spazientito, le orecchie in
fiamme. Harry motteggia al suo indirizzo poche parole di rassicurazione che
però non hanno presa e gli altri sono bellamente presi dai loro affari e dal
ritorno pressante della conversazione su Victorie e Teddy. Dal canto mio, credo
di lasciarlo sfogare per istinto di conservazione del nostro matrimonio. Quando
si tratta di Malfoy, Ron diventa abbastanza odioso e cocciuto, ben più del
biondo che almeno solitamente non sento parlare.
Alla fine, sgonfiato come un soufflé andato a
male, Ron decide di dirigere la sua invettiva contro il colpevole
dell’intrusione di Malfoy nella sua casa. Si siede pigramente su una poltrona,
punta un dito contro Teddy con espressione stralunata e chiede con una punta di
feroce isterismo: “Perché Malfoy al momento è in casa mia a fumarsi una
sigaretta in terrazza?! Potrei avere una decente spiegazione?”.
Il fatto che tutti tacciano all’improvviso mi
ingiunge naturalmente a pensare che il punto era oggetto di curiosità di tutta
la stanza, persino più di cosa dovrebbero fare i ragazzi. Noto però con una
punta di rammarico il colorito grigiastro di Teddy, che evidentemente si
aspettava questa domanda ma quanto più tardi possibile. Se consideriamo
l’argomento delle conversazioni fino ad ora, comprendo quanto la cosa lo metta
in difficoltà se fino a poco fa è rimasto calmo e flemmatico. Persino Victorie,
che fino ad ora è stata un fantasma di assente raccoglimento interiore, chiude
la mano piccola sul polso del fidanzato, rendendo visibile alla luce del
lampadario l’anello di plastica rossa che porta come simbolo del loro
fidanzamento.
Mi fanno una tenerezza tale che, in notevole
ritardo, mi alzo in piedi e chioso severa verso mio marito: “Ron datti una
calmata. Siamo tutti stanchi e provati dagli eventi della serata… mi
pare che la presenza di Malfoy sia proprio l’ultimo dei problemi… se Teddy lo
ha voluto qui, avrà le sue buone ragioni…”. Completo la mia tiritera sollevando
il mento fiera e sorridendo con dolcezza a Teddy che mi guarda con gratitudine.
Tutto ciò, però, si ripercuote sullo stato emotivo di Ron che mi dedica
un’occhiataccia raggelante tra le migliori del suo repertorio, quella insomma
da umiliazione di fronte alla sua famiglia e da conseguente scorno per
un’intera settimana. Sospiro lungamente ancora più stremata, preparandomi al
fiume di parole sconnesse che adesso mi dedicherà in preda alla rabbia, nonché
all’inevitabile tentativo di Molly di fare da paciere e a quello di Ginny di
sdrammatizzare, entrambe cose che rintuzzeranno di più sia me che lui.
L’ultima cosa che mi impongo di fare in un
ultimo singulto di buonsenso è insonorizzare con un incantesimo pigro la
portafinestra così che almeno Malfoy non abbia pure la soddisfazione di
sentirsi questo litigio in diretta. È un incantesimo che mi tocca fare almeno
una volta al mese, quando a Ron salta in mente di urlare come uno
straccivendolo per qualcosa e io temo che Ginny ed Harry sentano tutto.
Ron ha già spalancato la bocca per prendere
fiato che miracolosamente viene interrotto da Teddy che, in modo deciso, si dà
pena di intervenire e spiegare. La sua voce è calma, pacata, monocorde, eppure
ho l’impressione che sia contemporaneamente molto coinvolto da ciò che sta
dicendo. Le poche pause mi fanno dedurre che è un discorso preparato da tempo,
forse da prima della gravidanza di Victorie. I balbettii sommessi mi informano
di quanto abbia temuto fino ad ora di parlare di questa storia, forse con la
paura di essere giudicato e non capito, come del resto sta in parte accadendo.
Eppure, il tono stentoreo che usa per iniziare
impone un silenzio di tomba attorno a lui, ben più di quello che è accaduto
quando ha confessato della gravidanza.
Specie perché con una semplicità disarmante ha
proferito solenne: “Draco Malfoy aveva tutti i diritti di essere qui. È mio
zio. Esattamente come tutti voi”.
A quelle parole persino un po’ crudeli, che
impongono una somiglianza di cuore ed affetto a cui nessuno mai aveva
lontanamente pensato, ricado seduta sul divano in modo fiacco, aspettando come
tutti che Teddy continui a parlare. La sagoma di Malfoy, nel velluto nero della
notte, è appena percettibile. Sembra un’ombra che si mangia la luce. La guardo
per tutto il tempo dello scarno discorso di Teddy, come a cercare di far
collimare le parole del ragazzo con quella schiena dritta, altezzosa.
“Mi dispiace non avervene parlato prima. Era una
cosa che mi… terrorizzava. Se aveste pensato che io non vi fossi grato o
peggio che non vi volessi bene… voi… tutti… siete la mia famiglia. Nella
sfortuna di non avere genitori, siete stati tutto per me. La mia casa, quando
pensavo di non averla. Non mi sono mai sentito mai solo una volta in tutta la
vita… grazie a voi. Però… come spiegare… c’era sempre un buco dentro, ogni
giorno. Tutti avevano delle radici ben piantate, io nessuna: ero un seme felice
nel vento, ma se quello si fosse fatto più intenso e pericoloso, sarei stato
spazzato via. Voi… avete sempre avuto delle risposte per ogni mia domanda. Ma
c’erano alcune a cui non potevate rispondere. E paradossalmente quelle sono
diventate pressanti e pesanti nel mio cervello. Mia nonna… lei… capiva.
Ha sempre capito. Mi ha detto una volta: “farò di tutto per farti capire,
per piantarti un’ancora nel cuore così che tu non ti senta perso nel mondo,
bambino mio”. Avevo tredici anni quando cominciò con quella ricerca. Lei
era già… debole, stanca. Malata. Ma recuperava coraggio, forza, sempre.
Per me. Se sarà una bambina… se mia figlia lo sarà… sarà Andromeda
Lupin. Non potrebbe avere nessun altro nome.
“I Tonks superstiti erano pochi. Omuncoli e
donnicciole sparse in poche case rade nel nord della Scozia, non sapevano
nemmeno che esistevo. Ci offrirono un tè freddo in una casa umida, parlarono
brevemente di mio nonno come di un parente lontano e distante. Erano tutti
babbani, raccontai loro della morte eroica di mio nonno Ted, piansero molto
assieme a mia nonna. Mi ringraziarono di quel pezzettino di storia che non
sapevano. Andò peggio con i Lupin. Non vollero vedermi, sembravano ancora
terrorizzati dalla fama da licantropo di mio padre. Non me ne curai. Andammo
via, me ne dimenticai. Chi ricordava ancora mio padre come un semplice
licantropo, non meritava la mia attenzione. Incontrai anche qualche parente di
mia nonna paterna Hope, dalle parti di Cardiff.
Terminammo quel mese di viaggio con un senso di vuoto che ancora non se ne
andava. Per me pensavo che fosse normale, da orfano stavo sempre così o quasi.
Ci sapevo convivere bene. Per mia nonna, era una novità. Era tutto collegato ad
un nome che, come nell’idea del suo significato, era nero di risposte. I Black.
“Sapevo da voi la storia di Sirius. Avevo saputo
da mia nonna delle sue sorelle Narcissa e Bellatrix, di ciò che le aveva
divise, del disonore che lei aveva causato con le sue nozze alla sua famiglia,
delle simpatie per Voldemort, del matrimonio di Cissy con Malfoy e di quello di
Bella con Lestrange, della morte di Bella in guerra e della bugia al Signore
Oscuro di Narcissa. Ma erano solo racconti, parole rade di vergogna e di
ribrezzo che non mi davano soddisfazione, anzi mi incuriosivano di più come in
una sorta di attrazione fatale per una specie di oscurità latente anche in me.
Mia nonna… lei mi confessò di aver spesso ripensato a sua sorella minore. Di aver sperato che le ultime fasi della
guerra e quella bugia fossero segnali di un ravvedimento anche nei suoi confronti.
Si sbagliò di grosso. Narcissa non fece mai nulla per riavvicinarsi a lei, e
mia nonna si macerava nella nostalgia e nell’assenza, incapace tuttavia di fare
una cosa qualunque per rompere il ghiaccio, certa che sua sorella non avrebbe
mai voluto vederla. Io, nel mio piccolo presi a masticare libri su libri sui
Black, ad impararne tradizioni ed usanze, a conoscerne membri ed abitudini,
aiutato per come poteva da mia nonna. Non ero mai sazio, mai soddisfatto, come
se in quella mancanza avessi riversato tutto il resto. So adesso che fu solo un
ripiego, mi mancavano in realtà mia madre e mio padre come sempre era stato.
Solo che quella mancanza così aveva assunto una forma più accettabile. Persino
rimediabile. Persi parecchio tempo così, studiai di nascosto, terrorizzato che
lo sapeste. E poi arrivò il mio quattordicesimo compleanno, il 9 aprile di
cinque anni fa. Facemmo una festa qui. Ricordo dei palloncini blu cobalto. E
poi quel gufo… andammo via prima io e la nonna con mille richieste di scuse e
profusi ringraziamenti. “Una lontana parente reclama Teddy per un regalo!”.
Era la prima volta che sentivo una bugia uscire fuori dalle labbra di mia
nonna. Negli anni, poi, ho sempre pensato che in realtà non mentì. Ebbi davvero
un regalo quel giorno.
“Nella nostra completa ed ovvia ignoranza, nonché
nella storica riservatezza di quella famiglia, non avevamo saputo naturalmente
che, nel mese di febbraio, Narcissa Black era stata colpita improvvisamente da
un ictus celebrale. Restò in coma un paio di settimane, le diedero l’estrema
unzione perché convinti che non sarebbe sopravvissuta. Ed invece lei, ostica
come sempre era stata, si riprese. Da allora, è rimasta paralizzata dalla vita
in giù: ma è viva, combattiva, fiera. Come sempre è stata. Quando si svegliò,
raccontò a suo figlio e a suo marito che non aveva fatto altro che sognare una
persona, per tutto il tempo. Mia madre. Sua nipote Ninfadora. Non ha mai
detto granché di che cosa sognava, di come lei fosse, di che cosa avesse detto…
ma da allora, continuò ad insistere in modo pressante per incontrare me e mia
nonna. Non devo morire un secondo prima di questo momento. Passò del
tempo naturalmente, doveva tornare a casa prima e quella lettera arrivò solo il
giorno del mio compleanno, come un regalo. Mi sono sempre chiesto se l’abbia
fatto apposta. Lei… non mi ha mai risposto, per questo penso sempre che sia
così.
“Mia nonna e sua sorella parlarono per cinque
ore, prima che fossi ammesso nella stanza di Lady Malfoy. Era adagiata in un
letto rosso, spiccava come un fiore dorato. Accanto a lei, come due guardie
silenziose pronte a realizzare ogni suo minimo ordine e comando, c’erano Lucius
e Draco. Mi intimorivano, sembravano solo accondiscendere a quella pazzia di
Narcissa sebbene non l’approvassero. Lei mi fece segno di avvicinarmi, studiò
il mio volto con un attenzione maniacale, chiese sgarbatamente se fossi anche
io un mannaro. Mi incespicai con le parole e per tutta risposta i miei capelli
cambiarono colore, diventando celeste acquamarina. Scorpius, il nipote di
Narcissa, che era seminascosto dietro le gambe del padre, mi venne incontro
ridendo, smaniando per toccarmi i capelli. Cissy sorrise e fu come se un
respiro fu rilasciato tutt’assieme nello stesso momento. Mia nonna non fece
altro che piangere tutto il tempo, parlava e piangeva, rideva e piangeva,
giocava con Scorpius e piangeva. Io feci quello che potevo, intontito come mi
sentivo. E poi mi portarono il mio regalo: l’arazzo dei Black. C’era il mio
nome adesso. Non c’erano più bruciature adesso. C’era mia mamma, mio papà, mia
nonna, io. Sentii finalmente quelle radici attraccarmi alla terra, come mai
nella vita.
“All’inizio, con Draco e Lucius, fu difficile.
Narcissa era algida, caparbia, fiera. Ma ebbe subito una dolcezza tenace nei
miei confronti, figlia del perdono che aveva destinato alla sorella. Suo marito
e suo figlio, invece, sembravano considerarmi solo un intralcio nella loro
casa. Ci misi un anno intero a farmi accettare da loro, mentre andavo in
segreto a casa loro per visitare Narcissa e farle compagnia assieme a mia
nonna. Accadde per caso per me in un primo momento… ma oggi penso che lo fecero
apposta per vedere la mia reazione. Mi fecero assistere alla scrittura del
testamento di Cissy, cosa che mi fece diventare triste in un modo fin troppo
evidente, anche se fingevo di no. Non potevo immaginare di perdere già adesso
mia zia. Fu quello il segnale per loro, per Draco e Lucius. Capirono che ero
davvero affezionato a lei, che non mi importava del denaro: non mi ero mostrato
minimamente incuriosito da quanto sicuramente avrei potuto ereditare, per me
era peggiore la prospettiva di veder morire Cissy. Solo allora, davvero mi
accolsero in casa loro come un pari, evitandomi e proteggendomi anche dalla
vista della moglie di Draco, Astoria, che invece aveva sottolineato spesso di
considerarmi inferiore. A Draco, però, non importava. Per nulla. Prima per
scherzo e poi seriamente si è fatto chiamare zio, insistendo però per usare il
mio nome sempre al completo. Non sei un orsacchiotto, Edward. Ha preteso
in modo imperioso che gli presentassi Victorie. Ha insistito alla sua maniera
che firmassi per diventare il tutore di Scorpius. Mi ha imposto di accettare la
somma che mi aveva lasciato Lucius quando morì due anni fa. Tecnicamente… è lui
che paga la scuola. Non mia nonna, non i suoi risparmi… non ce l’avrei mai
fatta, altrimenti. Draco è stata la prima persona che ho chiamato quando è
morta la nonna. So che magari per voi suona incomprensibile, ed orribile, ed
ingrato… specie perché ve l’ho nascosto. Specie perché mai ne ho parlato. Draco
avrebbe sempre voluto che lo facessi, Weasley ci rimane sul colpo, diceva
sarcastico, ma per me è sempre stato impossibile. Impossibile, perché… temevo
che non capiste, temevo che mi giudicaste. So chi è. So chi sono. So chi è
stata mia zia Narcissa, so tutto del passato di Draco Malfoy. Ma sono la mia
famiglia, esattamente come voi. E se non potessi credere alla capacità di
cambiare cuore e vita, vuol dire che mia madre e mio padre non mi hanno
trasmesso nulla. Non sarebbero morti se avessero pensato che, dopo di loro, io
continuassi a credere nei pregiudizi e non cercassi di cucire una nuova vita
con tutto il mio impegno e sforzo, seguendo il loro esempio.
“Poco prima che mia nonna morisse fece
promettere agli zii non tanto di prendersi cura di me, perché per quello
sapevano che c’eravate voi… anche se comunque si affidava anche a loro perché
io fossi felice e al sicuro… ma voleva soprattutto che mi facessero sentire
davvero l’ultimo dei Black assieme a Scorpius. Che mi considerassero parte
integrante della storia di una famiglia che dura da secoli, e che mia madre non
aveva invece potuto vivere appieno anche nei suoi aspetti positivi. Loro… hanno
accettato, insomma. Alludevo a questo, a questa storia, prima, quando ho
parlato con lo zio… quando lui mi ha detto che così saremmo stati pari.
Narcissa considera la sua redenzione per il comportamento che ha avuto con mia
mamma, vincolata a stretto filo a quanto invece farà per me. Come se io fossi
una specie di risarcimento danni: certe volte mi scoccia, lo dico sempre che
sono storie passate e che ormai non hanno più importanza. Ma la zia è molto
seria in questo… e per il resto… so, insomma, che non è solo una riparazione
dei torti. A loro modo, in questo modo sarcastico e velenoso, loro… zia Cissy e
zio Draco… mi vogliono bene. Ed ecco che arriviamo a perché lo zio è qui… ieri
gli ho parlato e gli ho raccontato di me e Victorie. Se l’ho fatto prima di
parlarne con voi, è perché un Black deve ottenere una specie di approvazione
dal membro più anziano della sua famiglia per contrarre matrimonio. Ed appunto,
come vi ho detto, mi considerano tale adesso. Per fortuna conoscevo tutte le
tradizioni dei Black prima ancora di conoscerli… insomma il membro più anziano
della famiglia è il solo che può concedere un permesso per sposarsi.
Altrimenti, certo uno si può comunque sposare… ma non sarebbe un matrimonio
considerato onorevole. È quello che accadde alla nonna, o a mamma. Ed il primo
segnale per me che le cose sono cambiate era avere questo permesso… la zia era
come sempre a letto, non mi ha potuto rispondere bene perché adesso ha anche
difficoltà respiratorie, e non riesce a parlare. Quindi sostanzialmente ha
abdicato al suo ruolo in favore dello zio. E lui… a modo suo mi ha detto poco
fa di fare come credo che sia giusto. A patto che l’onore della famiglia sia
rispettato… su questo vigilerà lui. Penso quindi che vorrà partecipare ai
preparativi o a tutte le altre faccende, se non altro per rassicurare zia Cissy
che ci tiene molto a queste cose. Hanno conosciuto Victorie, a loro piace…
credo davvero che sia solo una cosa formale che lo zio verrà qui. Sento che… è
giusto così, in fondo. Così come, adesso che sapete tutto questo ed adesso che
sapete che anche loro ci potranno aiutare, dovreste essere certi che io e Vic
non finiremo in mezzo ad una strada. Siamo in grado di crescere un bambino,
siamo in grado di sposarci… ho già parlato con lo zio, so che lui si sforzerà
di non trasformare questa occasione in un tiro alla fattura. Me lo ha promesso.
Voi… potete fare lo stesso? Per me? Qualsiasi sia il modo in cui la pensiate…
non voglio essere costretto a scegliere da che parte stare. Non costringetemi a
doverlo farlo. Loro… non lo hanno fatto. Voi lo farete? Io… io non sono in
grado di poter scegliere. Non posso farlo. Per favore”.
Teddy finisce di parlare in un suono di gola che
somiglia ad un singhiozzo trattenuto, mentre Victorie lo accarezza ritmicamente
sulla spalla destra guardandoci con espressione torva ed arcigna. Per un attimo
non studio colpevolmente la testa bassa del ragazzino e le spalle tremanti che
vistosamente celano un pianto che non vuole lasciar sfuggire, ma mi fisso sugli
occhi di Victorie, su quel ceruleo trasparente che diventa oltremare torbido.
Penso di nuovo istantaneamente che sarà una moglie e madre con un istinto alla
protezione così spiccato da trasfigurare la dolcezza dello sguardo e
l’immaturità dell’età in modo prodigioso. Guarda tutti, compresi i suoi
genitori e nonni, con una punta di feroce orgoglio solo perché abbiamo toccato
di striscio Teddy facendolo soffrire. Figuriamoci quando ci sarà di mezzo un
figlio.
Una madre si cava il sangue delle vene per un
figlio. Lei forse farà persino di più.
Dovrebbe davvero avere l’occasione di essere
madre di questo bambino, anche se nato sotto un tempo acerbo. Lo penso davvero
ed improvvisamente.
Ed è la prima opinione che riesco finalmente a
formarmi.
La seconda invece prende sostanza nel momento in
cui mi rendo conto del silenzio che, dopo le parole di Teddy, non ha smesso di
gravare nella stanza. Nessuno vuole aprire bocca per primo, e ciò d’improvviso
mi pare così ingiusto verso questo ragazzino che ha appena aperto il suo cuore
davanti a noi, che sono presa per converso dall’impulso di dire una cosa
qualunque pur di rassicurarlo sul fatto che gli vogliamo bene comunque, che lo
capiamo, che in fondo non è successo nulla, che non sarà certo la sua vicinanza
con Malfoy a farcelo alienare come figlio, nipote, amico, qualsiasi cosa sia
stato in questi anni. Per amore di Teddy, però, cerco prima di analizzare a
fondo tutte le parole che Malfoy ha detto appena entrato, la sua espressione ed
il sottotesto, specie ora che conosco la verità, come a volermi purificare i
pensieri, come a voler cercare di eliminare ogni onta di sospetto verso il
vecchio nemico. Non lo faccio per il biondo, sia chiaro, ma per Teddy.
È come se mi chiedessi se, in fondo, posso
fidarmi di Teddy al punto da affidarlo a Malfoy.
Una sola cosa mi è rimasta impressa e mi
sovviene subito appena richiamo alla mente tutto il breve incontro: l’occhiata
che Malfoy ha riservato a Teddy quando gli ha chiesto se faceva tutto questo
solo “per quella vecchia storia” e che ora so essere la promessa fatta ad
Andromeda. Malfoy ha scosso il capo, sembrava incredulo, sembrava sbigottito…
era sorpreso che Teddy ancora si chiedesse una cosa del genere.
Come se fosse ovvio, scontato, naturale che lui
lo facesse anche per altro… perché si è affezionato sinceramente a lui.
Gli ha poggiato la mano sulla spalla… e non ha
risposto direttamente. Teddy però ha capito subito. Come se… sapesse…
La mia mente si lambicca attorno ad un concetto
apparentemente semplice, ma che mi sfugge come se fosse fatto di polvere.
Sguscia, sfrigola e sguizza, e mi sembra di perderlo sempre. Lo stomaco che mi
punge, la nausea che resuscita nella mia gola donandole un sapore acre di
vomito, mi fa quasi perdere la presa come se facesse troppo male inseguire quel
pensiero, come se mi portasse nel labirinto del Minotauro. Non ho un filo in
tasca, però, che mi riporti indietro: la camicia sotto il maglione aderisce
alla pelle della schiena sudata, eppure continuo a cercare quel pensiero
cascatomi fuori dal cervello. Respiro piano, male, come se fossi sott’acqua e
non so perché ho paura di questo paragone… e poi in un rantolo compare
l’illuminazione che cercavo.
Una frase sciocca che non capisco perché mi
mettesse in un tale soggezione mentale. Tutto ciò che è minuscolo e stupido
con altri, con lui invece, diventa grandissimo e sterminato.
E’ questo che Teddy sapeva e capiva, ci ha visto
molto più di me in una pacca sulla schiena e in uno sguardo casuale.
Malfoy gli ha dato il motivo che cercava.
Accade allora: non ne prendo subito coscienza e
non riesco quindi nemmeno a fingere che vada tutto bene, come ho fatto
dall’inizio di questa lunghissima giornata. So solo che, in una frazione di
secondo, tutti i colori della stanza sembrano sparire assieme alle voci, come
se venissero risucchiati via in un vortice di luce intensa e malata. La nausea,
ormai, non è più solo dentro il mio corpo… ma ovunque, in ogni cosa. Fuori,
dentro, di me: all’esterno diventa solo una melassa condensata ed ondosa che mi
sbatte e ribatte avanti ed indietro.
Tutto diventa bianco, le ombre della gente
attorno si allungano e contorcono e qualcuno mi chiama preoccupato, ma io non
so più parlare.
Perdo i sensi nella voce di Ron che grida il mio
nome.
“… il motivo che cerchi…”.
Quando Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, riprese i sensi, era nel
letto di casa sua sotto il suo copriletto caldo, accanto al comodino con il
libro da finire in trenta pagine, vicino ad una camomilla con miele e limone.
Suo marito sorrideva incoraggiante, dicendo che doveva smettere di lavorare
così tanto, che era svenuta a casa di sua suocera come una pera cotta, che
erano nel pieno di un dramma famigliare in piena regola ed aveva bisogno che
lei stesse in forze. Sorrise suo marito, ironico e sarcastico, ed Hermione lo
capì sorridendo a sua volta, scusandosi del malessere che ancora non
comprendeva.
Disse che adesso stava bene e che era tutto a posto, non si doveva
preoccupare. Ma lui aveva già chiamato un Medimago, non si poteva prendere
infarti ogni volta.
Lei protestò, mise il broncio, incrociò le braccia, ma alla fine cedette.
Lasciò entrare la dottoressa, una donna di colore alta e bruna con un
sorriso sottile che non le arrivava agli occhi. La visitò meticolosamente,
disse che non era nulla di grave, le prescrisse un paio di giorni a letto. E le
diede una Pozione Guaritrice, rossa come sangue fluido e mai coagulato.
“Credo che abbia uno stato di debolezza generale, signora Weasley…”
aggiunse in tono flautato, sistemandosi i capelli “Niente di preoccupante, ma
meglio assumere cautelarmente del ferro per innalzare l’emoglobina del sangue.
Beva la fiala… e starà meglio”. Restò in
attesa, cauta, come se si aspettasse che non lo facesse.
Hermione Granger era testarda, detestava gli ordini. Era convinta di essere
solo stanca, quella dottoressa imbelle non poteva sapere che razza di vita
faceva e che quindi, nell’economia delle cose, uno svenimento ci poteva stare.
Rassicurò la dottoressa che avrebbe bevuto la Pozione, che sarebbe stata a
riposo, che non si sarebbe agitata e non sarebbe uscita per un paio di giorni.
Il medico sorrise di nuovo con quella piega senza espressione, e lasciò la stanza.
Hermione roteò gli occhi al cielo, sbuffò e poggiò la Pozione sul comodino,
prendendo invece la camomilla. Aveva bisogno solo di riposo, non dei rimedi di
una che doveva essere una ricca snob con la puzza sotto il naso e che faceva il
suo lavoro solo come rimedio alla noia. Le consigliasse una migliore segretaria
invece di Leda che triplicava il lavoro oppure una famiglia meno nevrastenica,
invece di imbottirla di Pozioni!
Non bevve l’intruglio, al mattino se ne scordò quando Leda chiamò per dirle
che non trovava la pratica sul caso Latimore. E,
dopo, Hugo pensò bene di versarla sul tappeto.
“Poco male…” si disse Hermione, scrollando le spalle “Una che indossa sul
camice gioielli vistosi come il cameo di una rosa bianca, non può essere un
buon medico!”.
Post
scriptum a suo modo necessario: questo capitolo, peraltro breve e dove forse
nemmeno succede granché, arriva ad un anno quasi di distanza dal precedente. È una
cosa che mi provoca un enorme imbarazzo e disagio, perché davvero a questa
storia ci tengo molto e credo che ormai, se ci siete ancora, lo sapete bene. Quest’
anno purtroppo è stato davvero sfiancante per molti motivi e la testa
spensierata che mi serve per scrivere l’ho avuta per poche settimane, quelle in
cui ho scritto. Non vi starò a raccontare che cosa mi è successo, non è nemmeno
giusto cercare giustificazioni e parlare quindi della mia vita personale. Posso
solo ripetere come sempre faccio che questa storia non sarà mai abbandonata,
che la porterò a termine comunque vada ed anche con questi tempi, e posso solo
ringraziare chi mi è stato vicino e chi ancora mi legge. Grazie davvero per
tutto. Cercherò di rispondere alle recensioni rimastemi e per il resto, se
volete, sono sempre su Facebook per qualsiasi domanda. Cassie.