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Autore: Rei_    27/10/2015    6 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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L'insegna con la falce e martello gli creò non poca tensione mentre, incerto, si avvicinava a piccoli passi alla sede di quello che sapeva essere il circolo territoriale del partito che, solo qualche giorno fa, aveva organizzato la manifestazione degli studenti a Cutro, la prima alla quale avesse partecipato. Nonostante avesse il cappuccio tirato su fino agli occhi, dentro i vestiti era fradicio. Il vento gli aveva distrutto l'ennesimo ombrello, e ora vagava per le strade del suo paese cercando riparo di tettoia in tettoia.
Non sapeva cosa fare. Voleva entrare lì dentro, certo, ma poi? Come si sarebbe presentato?
La politica lo affascinava. Quella manifestazione gli aveva aperto un mondo del quale era troppo curioso di saperne di più, ma non era stato solo quel motivo a spingerlo lì, quel giorno. In realtà gli serviva solo un posto tranquillo dove studiare, perché non poteva tornare a casa. Non oggi, perché suo padre era ancora arrabbiato con lui per essere andato a quella manifestazione, saltando un giorno di scuola. E sapeva bene che cosa significasse tornare a casa quando suo padre era arrabbiato. Non poteva scappare di casa per davvero, perché avrebbe solo peggiorato la situazione, ma il solo fatto di rimandare quell'inevitabile punizione gli bastava a dargli un briciolo di respiro. Aveva imparato a non pensarci, a ritagliarsi dei momenti solo suoi in cui nessuno potesse fargli del male.
Dentro la sezione del partito era accesa la luce e delle voci concitate si alternavano tra loro, rimbombando anche nel cortile esterno.
Michele fece un profondo respiro, poi si decise a bussare.
Un uomo venne ad aprire la porta. Aveva la testa rasata e una barba scura che gli copriva buona parte del volto.
«Chi sei?»
La voce non era scontrosa, ma Michele sentì comunque un groppo alla gola. Si morse il labbro e abbassò gli occhi, fissando le sue scarpe bianche inzuppate di pioggia.
«Mi chiamo Michele» iniziò, cercando inutilmente di mantenere un tono di voce superiore al sussurro, «ero alla manifestazione di venerdì. Mi chiedevo se…»
Un altro uomo un po' grassoccio si avvicinò alla porta, a fianco del primo, squadrando Michele da capo a piedi.
«Chi abbiamo qui? Ma sei tutto inzuppato, che fai lì fuori? Vieni dentro, su!»
Senza farselo ripetere due volte, Michele entrò nel locale, chiudendosi la pesante porta alle spalle. Il calore della stanza gli penetrò piacevolmente fin dentro i vestiti, arrossandogli il viso e le mani. La sala non era grandissima: c'era un tavolo con davanti qualche fila di sedie, un angolino con una scrivania e vari ripiani colmi di fogli sparsi e di giornali. Alcuni uomini, la maggior parte con i capelli bianchi, avevano disposto le sedie in cerchio, e lì seduti continuavano a chiacchierare tra loro, senza badare al nuovo ragazzo che aveva varcato la soglia.
Michele si concentrò sui due uomini che gli avevano aperto, incerto su cosa dire.
«Ecco… mi chiedevo se potevo restare qui, oggi. Solo fino a sera. È che a casa non riesco a concentrarmi, vorrei solo studiare. Non darò fastidio».
L’uomo grassottello rispose per primo, sorridendogli.
«Non preoccuparti ragazzo! Puoi metterti su quella scrivania. Come ti chiami?»
«Michele Martino» rispose, iniziando a togliersi di dosso tutti gli strati di vestiti fradici.
Al sentire quel nome, i due uomini si lanciarono un'occhiata d'intesa, che poi subito dissimularono.
«Martino? Sei il figlio di Nello Martino?» chiese l'uomo con la barba. Li fissò titubante. Come facevano a sapere chi era suo padre? Era venuto fino a lì proprio per stargli lontano e dopo solo due minuti era ricomparsa la sua ombra.
«Sì. Lo conoscete?»
Nessuno dei due rispose. Si mandarono sguardi incerti a vicenda, alternandoli ad occhiate fugaci alla piccola figura magra e inzuppata di Michele.
«Ci si conosce tutti, in paese. Ma sta' tranquillo, ragazzo! Vai a studiare, puoi stare quanto vuoi».
Michele appoggiò lo zaino fradicio, sollevato dall’accoglienza ricevuta.
Le ore passarono veloci lì dentro. Ogni tanto si distraeva dallo studio per ascoltare le conversazioni degli altri perché, sebbene non ne capisse molto, c'era qualcosa nel loro tono di voce che gli piaceva inspiegabilmente.
«Tieni, o avrai un calo di zuccheri a furia di stare sui libri!»
Quando alzò gli occhi e notò l'ora sull'enorme orologio a cucù rosso fuoco, si accorse di quanto era volato il tempo. Davanti a lui, l'uomo grassoccio gli stava porgendo del latte caldo in un bicchiere di plastica.
«Grazie, ma devo davvero scappare. Si è fatto tardi».
«Tieni, tieni!» insistette lui, mollandogli il bicchiere in mano,
«comunque quando vuoi puoi venire pure a studiare, ci fa piacere che qualcuno passi di qui, oltre a questi vecchi bacucchi!»
«Davvero posso?» chiese Michele, stupito. La notizia di aver trovato un posto al riparo da suo padre e dai suoi compagni di scuola gli sembrava troppo bella per essere vera.
«Ma certo!» sorrise l'uomo, «d’altra parte, se davvero sei venuto a manifestare venerdì, significa che questa è casa tua».
Gli allungò la mano, e quella piccola del ragazzo scomparì nella sua. Non poteva immaginare che quella sarebbe stata solo la prima di altre innumerevoli strette di mano con Antonio, il segretario territoriale di quel partito che, da lì a poco, gli avrebbe stravolto la vita.
 

Il suo cellulare era sul tavolo della cucina, ma dall’altra parte rispetto al posto che Michele stava occupando.
Doveva assolutamente resistere alla tentazione di chiamare Thomas o Arturo. Perché quella sarebbe stata la soluzione più semplice: raccontare tutto a loro e chiedere un parere rispetto all’idea di Andreani. Che poi, a dirla tutta, era stata sua l’idea: aveva lanciato quel sasso durante la loro ultima conversazione, non prevedendo che l’altro lo avrebbe raccolto al volo, mostrando sia entrambe le mani che la solita faccia tosta di chi può fare qualsiasi cosa senza rispondere a nessuno, se non ai propri ideali.
D’altra parte, l’errore era stato suo. Aveva lasciato intendere al capogruppo del Fronte di essere aperto rispetto alle sue posizioni politiche e quell’uomo lo aveva preso in parola, mettendolo in mezzo alle sue strambe iniziative. Così era successo con quella dannata foto, che non avrebbe potuto rifiutare in nessun caso, perché che figura ci avrebbe fatto con i ragazzi dell’associazione? E con che coraggio avrebbe sostenuto una posizione opposta a quella che pensava, rispetto al tema dei matrimoni gay?
Ormai la bomba era stata lanciata, e da quel punto di vista aveva ragione Andreani: era meglio cavalcarla che tirarsi indietro. Solo che in quel caso sarebbe servito tanto coraggio, e lui ne aveva una quantità scarsa, confinata dentro tutte le paure dietro ogni possibile scelta. Passò due ore a rimuginare su ogni evenienza, bevendo una quantità spropositata di tisana, e quando fu quasi mezzanotte si decise.
Andò in camera sua, trovando dopo un po’ l’agenda con i contatti dei principali esponenti di ciascun partito, sommersa da emendamenti e testi di leggi. Aveva il numero, e anche se l’ora era tarda non poteva rimandare, non ora che aveva trovato il giusto compromesso da proporre.
Dopo tre squilli, una voce rispose.
«Pronto?»
«Sono Michele Martino».
Il cuore gli batteva a mille. Sapeva che avrebbe dovuto dosare bene le parole con quell’uomo, e questo lo agitava.
«Buonasera» la voce non aveva traccia della minima sonnolenza, nonostante l’ora tarda.
«Sì, ecco» si sedette sul letto, con le braccia che tremavano, «ho pensato meglio a quello che mi hai detto, e credo che la legge potremmo scriverla».
 
Con il tono della voce fece finta di non avere altro da aggiungere, lasciando all’altro la soddisfazione per quella che si prospettava essere un’altra bomba da lanciare nel dibattito pubblico.
«Oh» Andreani rimase per un attimo senza parole, lasciando intendere quanto non si aspettasse quel risvolto, «sono contento che tu ti sia convinto. Beh, come vogliamo fare?»
«Però» si affrettò ad aggiungere Michele, rendendosi conto che l’altro stava già iniziando a viaggiare verso l’atto pratico, «la
condizione è che fin quando il testo non sarà pronto, questa cosa non sarà resa pubblica. Nemmeno all’interno dei rispettivi partiti».
Andreani restò un attimo in silenzio, ma Michele riuscì ad avvertire ugualmente il suo solito sorriso beffardo e divertito.
«Non vuoi avere cazzi con lo spilungone psicopatico, eh?»
«E un’altra cosa» intervenne di nuovo, rincuorato che tutto stesse procedendo liscio, «la legge sarà calendarizzata dopo la discussione delle leggi antifasciste».
«Lontana dal dibattito?» Andreani sembrò dubbioso, «okay, senti, tutto quello che vuoi, ma la vogliamo scrivere o no? Quando iniziamo?»
«Da domani per me si può fare».
«Perfetto, allora domani inizieremo. Ci vediamo dopo la seduta nel mio ufficio e facciamo un piano di lavoro».
Michele avvertì subito che la decisione ferrea dell’altro era anche per mettere alla prova la sua e capire se si sarebbe tirato indietro. Ma ormai il passo era fatto, le condizioni erano stabilite, non c’erano più scuse per non farlo.
«Okay per me. A domani».
 
 
*
 
 
Undici di sera passate.
La seduta era finita solo da un'ora, e Nicolò aveva avuto giusto il tempo di mangiare e fumarsi una sigaretta prima di dover tornare in ufficio ad aspettare Michele Martino.
Sulla scrivania c'erano già i vari fascicoli prodotti dai suoi collaboratori che sarebbero serviti per conoscere le leggi vigenti e i precedenti dibattiti sul tema. Quella sarebbe stata la prima legge che avrebbe scritto e intendeva farla al meglio. E soprattutto l’avrebbe portata fino all’approvazione, perché era la sua di battaglia.
Aveva accettato le condizioni di Martino, quindi non avrebbe provocato il dibattito mediatico per il momento, ma fantasticava già su come prendersi le prime pagine in futuro.
«Posso?» chiese una voce conosciuta da dietro la porta.
«Avanti, entra».
Michele entrò furtivamente nella stanza, richiudendo piano la porta con eccessiva attenzione. Era evidentemente agitato. Nicolò gli indicò la sedia davanti al pc acceso, e lui vi sedette.
«Questa settimana avremo sedute in aula da mattina a sera per la legge del tuo gruppo, più le riunioni di commissione. Se dovremo lavorare seriamente, quindi, sarà sempre a quest'ora» comunicò Nicolò con un sospiro rassegnato. Neanche lui era entusiasta di lavorare così tardi, ma non c'era altra scelta. Era stato lui a fare pressioni perché iniziassero subito, e certamente non sarebbe stato il primo a tirarsi indietro.
Michele annuì, senza scomporsi.
Iniziarono passando in rassegna tutta la documentazione, sottolineando con due evidenziatori diversi. Il silenzio, interrotto solo da occasionali frasi brevi, li accompagnò fin quando entrambi decisero che per quella sera poteva bastare.
Quando uscirono sul corridoio principale, il palazzo era deserto. I pochi commessi della Camera che incontrarono durante il cammino verso l'uscita li salutarono quasi affettuosamente, non abituati a vedere dei parlamentari lavorare a quell'ora di notte.
«Continuiamo domani allora?» chiese Nicolò, scrutando l’altro alla ricerca di ogni possibile sfumatura di indecisione.
«Sì» Martino restituì lo sguardo, quasi sfidandolo a ribattere. Nessuno dei due mostrò la minima esitazione ed entrambi tornarono a casa, ciascuno con i suoi pensieri.
 
 
*
 
 
Non fu per niente facile svegliarsi presto quella mattina.
Passò le ore in aula a prendere appunti per tenere sveglia la mente. Sui banchi del Fronte, Andreani appariva nervoso. Usciva molto spesso a fumare, e quando restava seduto raramente sembrava attento alla discussione.
Quella era la prima discussione in assoluto su una legge presente nella Carta Antifascista, il documento presentato da SD dopo che si furono spenti gli anni del terrore, in cui aveva perso la vita anche un ragazzo di Bologna, Francesco Venturi. Schierati in prima fila, il capogruppo e il segretario del partito avevano gli occhi puntati su chi parlava, prendevano vari appunti e si consultavano con la massima concentrazione. Era un momento solenne. Non un solo deputato di Sinistra Democratica si era permesso di assentarsi. La seduta fu tolta solo alle dieci di sera, e il giovane ebbe giusto il tempo di cenare con un panino veloce prima di salire all'ufficio di Andreani.
Fu piuttosto consolatorio trovare il capogruppo più stanco di quanto avesse previsto. Nessuno dei due avrebbe retto quel ritmo per una settimana intera ma, se anche Andreani si fosse stancato, sarebbe stato più facile decidere una tregua di comune accordo.
Michele non poteva permettersi di chiedergliela per primo, non voleva dargli l'idea di non voler veramente fare la legge. Era una questione di orgoglio, non poteva sopportare di essere considerato come un semplice soldatino di partito. Non era questo che voleva essere.
«Buonasera» salutò educatamente, prendendo posto sulla stessa sedia del giorno prima.
L'ufficio di Andreani era molto più disordinato del suo. Ovunque spuntavano post-it colorati e fogli sparsi, ma sembrava che per il deputato milanese non fosse un problema lavorare in mezzo a quel macello.
«Buonasera» rispose lui, battendo velocemente delle righe al PC
«arrivo subito, sto finendo una lettera che devo mandare come capogruppo».
Michele si ricordò solo in quel momento del ruolo di Andreani. Sapeva bene che un capogruppo aveva molto più lavoro di un normale deputato. Solo un essere sovrumano avrebbe potuto fare tutti quei compiti, sopportare sedute interminabili e nel frattempo scrivere anche un disegno di legge. La sua fronte abbronzata era un po' sudata e rifletteva la luce delle lampadine. Il colletto della camicia era fuori posto, e un accenno di occhiaie iniziava a spuntare sul volto contratto dalla stanchezza.
«Eccomi. Dove eravamo rimasti?»
In due ore e mezza riuscirono a mettere giù l'ossatura del testo. Scrivere una legge si rivelò non essere per niente un lavoro facile, come a Michele era sempre sembrato dall'esterno. Sapeva che molti deputati lasciavano la stesura ai collaboratori della Camera, ma Andreani mandava solo le bozze da correggere durante il giorno, lasciando per loro due il lavoro più faticoso di scrittura.
Il capogruppo del Fronte uscì per fumare, facendo ritorno con due tazze di tisana.
«Credo proprio che possiamo staccare» annunciò allegramente il capogruppo del Fronte, «con questo ritmo non ci vorrà molto, una settimana, massimo due».
Michele sorseggiò il liquido ambrato che subito gli diede un piacevole brivido di calore. L'idea di dover abbandonare l'ufficio accogliente per tuffarsi nel freddo di una notte di dicembre non lo entusiasmava, ma almeno ora riusciva ad intravedere il suo letto, che in quei giorni era l'unico luogo rimasto dove la sua mente non doveva per forza stare attenta a qualcosa di vitale come leggi, riunioni e discussioni.
Uscirono fuori insieme poco dopo, allungandosi la mano a vicenda per salutarsi come il giorno prima.
«A domani».
«A domani».
«Ehi, Martino!»
Michele si stava già voltando per andarsene, ma si rigirò di scatto non appena sentì il suo nome. Teneva le mani in tasca e tremava in modo ridicolo per il freddo che gli penetrava nelle caviglie e nelle maniche della giacca. Non vi era abituato, nel suo paese non faceva mai così freddo, nemmeno d'inverno.
«Mi dispiace che siamo costretti a lavorare a quest'ora, dopo queste giornate faticose. Però sono molto contento di ciò che stiamo facendo».
Gli occhi di Michele si illuminarono, riconoscenti per l’incoraggiamento sotteso.
«Anche io lo sono. Buonanotte!» rispose.
Salì su un taxi, tornando a mimetizzarsi nel gelo della notte.
 
 
Le giornate si susseguirono monotone e logoranti.
Si alzava all’alba, con la consueta compagnia di un rovente mal di testa, causato dalla totale mancanza di sonno. Lo stress accumulato a volte gli impediva di dormire, e anche quando ci riusciva era per un lasso di tempo troppo breve per essere riposante.
Poi incontrava al bar Arturo e Thomas. Il biondo ogni giorno gli faceva puntualmente notare le occhiaie mal celate, ricevendo in cambio solo uno dei suoi soliti sguardi distaccati. Arturo invece non gli parlava più di tanto, e Michele aveva il sospetto che, fosse venuto a conoscenza di ciò che stava facendo, ma non aveva né la voglia, né il coraggio di affrontarlo.
Alle otto entrava in aula e non vi usciva per le dieci ore seguenti, se non per esattamente cinque pause caffè, le quali non potevano durare più di dieci minuti, e due pause pranzo di massimo quarantacinque minuti. Gli orari li scandiva Pasqui, pretendendo che tutti fossero puntuali in aula alla ripresa, minacciando chiunque vedesse attardarsi in cortile. Dopo aver terminato la seduta, confuso per tutte quelle ore passate ad ascoltare, Michele correva a mangiare qualcosa e alle undici si presentava puntuale a bussare all'ufficio di Nicolò Andreani. Il lavoro sulla legge, nonostante tutto quello stress, andava avanti speditamente. Ciascuno dei due scriveva un articolo e, una volta finito, se li scambiavano per correggerseli a vicenda. I battibecchi erano la norma, dovuti per la maggior parte all'esasperante intransigenza di Andreani.
«Non possiamo comprendere anche l'emancipazione minorile. Questa parte va tolta per intero» sospirò stancamente per l'ennesima volta Michele, cancellando con un tasto tutto il paragrafo che l'altro aveva appena scritto.
«Ehi!» protestò Andreani, «e per quale motivo? Se per legge saresti maturo per sposarti con il consenso dei genitori, lo sei per farlo anche con chi è del tuo stesso sesso, o no?»
L'altro alzò gli occhi al cielo. Era almeno la centesima volta che ci discuteva, ma ogni volta la testa di legno di quell'uomo si induriva di più.
«Io sono d'accordo con te, ma ti ricordo che per fare passare la legge non bastano due voti. Saranno tanti quelli a dire che a sedici anni non puoi avere chiaro il tuo orientamento sessuale, non credi?»
«Che si fottano ‘sti democristiani!» replicò Andreani come al solito, cadendo di peso sullo schienale della poltrona. Non protestò però quando Michele salvò il documento senza la parte scritta da lui. Era già venerdì, e se solo due giorni prima il capogruppo del Fronte era capace di fare storie di un'ora per una virgola fuori posto, adesso si vedeva che anche lui era a pezzi e che desiderava solo finire quanto prima quella legge.
La mezzanotte scattò sull'orologio di Andreani, segnalando che era ora della pausa.
«Vado a fumare» avvisò, prendendo il cappotto dall'attaccapanni.
«Va bene, io intanto continuo».
«Sei sicuro? Fermati un attimo, tanto siamo già a buon punto».
«No, vado avanti. Non sono stanco» insistette Michele. Dopo una settimana passata a lavorare a tempo pieno, ormai la stanchezza faceva parte di lui, tanto che gli pareva di non sentirla praticamente più.
La sua mano continuò a volare sulla tastiera del pc per qualche minuto. Gli occhi nocciola, con le occhiaie ormai fisse di contorno, scorrevano il testo alla velocità della luce, fino a che la vibrazione del cellulare non lo costrinse a fermarsi.
Un messaggio da parte di Marchesi.
 
Michele,
quello che stai facendo con Andreani non è stato concordato, e può portare a gravissime conseguenze d’immagine per il nostro partito. Devo suggerirti di fermarti ora.
Rm
 
 
*
 
 
«Un caffè macchiato e uno lungo, giusto?»
Ormai il barista aveva imparato a memoria ciò che il capogruppo del Fronte gli ordinava tutte le sere. Nicolò annuì con un sorriso.
«Fammeli carichi, o il mio collega mi si addormenta sulla sedia» scherzò.
Dopo aver fumato si sentiva già meglio. Quella era stata la settimana più intensa di quei suoi primi mesi da parlamentare, ma finalmente era finita, e quella notte avrebbe potuto farsi una dormita come si deve. Stava arrivando il weekend, e non vedeva l’ora di uscire a correre per la Caffarella e sentire i compagni di Milano, informandosi su come stavano andando le attività nel nord, da cui non aveva notizie da un po'.
Quando tornò nel suo ufficio, notò subito che Martino stava davvero lavorando ancora. Non si aspettava così tanta determinazione da lui, e ogni volta che la notava si sentiva soddisfatto di essere riuscito a coinvolgerlo in quel modo. Si sarebbe aspettato che da un giorno all'altro mollasse, trovando qualche scusa, invece si era piacevolmente sbagliato.
«Ecco il caffè. Fermati un minuto, Schumacher!»
Martino cancellò le ultime due frasi che aveva scritto, e poi si fermò, stiracchiandosi con le braccia. Nico notò solo in quel momento che, da quando era uscito, il suo collega era andato avanti solo di una riga, tra l'altro piena di parole sottolineate in rosso dal correttore di Word.
«Qualcosa non va?» gli chiese con tutta la discrezione di cui era capace, porgendogli la tazzina direttamente tra le mani.
«No, niente».
Martino lasciò scivolare la tazzina tra le dita, che lasciò cadere il caffè sui fogli sparsi. Doveva essere eccessivamente stanco, era il quinto giorno che lavoravano senza pausa.
«Se preferisci ci fermiamo qui per oggi. Lunedì riprenderemo con calma, così saremo entrambi più freschi e lavoreremo meglio» propose Nicolò.
Il giovane scosse impercettibilmente la testa. Era pallido, ma in quei giorni il biancore del viso non era una novità per nessuno dei due.
«No, andiamo avanti».
Nico non osò ribattere. Nei minuti successivi, però, si rese conto che Michele non stava procedendo di un solo millimetro. Scriveva poche frasi e le cancellava il momento dopo con un rumore secco della tastiera. Nicolò riuscì a finire di scrivere un intero paragrafo, mentre il suo collega tornava per l'ennesima volta al punto di partenza, eliminando due righe con un'imprecazione appena sussurrata.
Il capogruppo del Fronte gli arrivò accanto e spense il suo PC con un colpo secco sul tasto di accensione, lasciando l'altro attonito, con le mani ancora sui tasti e gli occhi mezzi chiusi.
«Per oggi basta, d'accordo? Adesso andiamo a farci una tisana e poi a nanna. Dai, che ormai siamo agli sgoccioli!»
Non ricevette risposta a quel moto di incoraggiamento. Il giovane lo seguì come un'ombra fino al bancone del bar, e non disse nulla mentre lui ordinava le tisane. Da vicino Nicolò vedeva ancora più chiaramente quanto fosse a pezzi, con gli occhi ridotti a due fessure e il consueto tremolio della mano.
«Ti senti bene?» gli chiese cautamente, senza smettere di scrutarlo.
«Non lo so...» il giovane fece roteare gli occhi, evitando il suo sguardo, «credo di essere stanco».
Nicolò allungò una mano per toccargli la fronte, notandola particolarmente lucida, e per un attimo non cadde dallo sgabello.
Sembrava stesse per andare a fuoco.
«Senti, ti accompagno io a casa. Avrei dovuto accorgermene prima che non stavi bene» decise immediatamente Nicolò, offrendogli la mano per alzarsi.
Un tarlo che fino a quel momento si era dimenticato di avere fece di nuovo la sua comparsa all’altezza dello stomaco. Sapeva che cos’era, e non voleva affrontarlo di nuovo. Ingoiò saliva, pensando in fretta a come risolvere quella situazione.
Uscì dalla porta principale, reggendo il suo collega per la mano, e chiamò un taxi al volo, non curandosi nemmeno di stare lasciando la sua fidata moto nel parcheggio.
 
 
*
 
 
Il messaggio di Marchesi ancora gli rimbalzava nella mente mentre si immergeva nella notte nera e gelida della città. Era un freddo strano, quello. Quel tipo di quel freddo che ti entra nella pelle, ti penetra come un ago e più tremi, più sembra scavare in profondità.
Una mano familiare lo stava guidando da qualche parte, ma lui non riuscì a sentirsi al sicuro nemmeno quando salì sul retro di un taxi bianco. Avrebbe dovuto essere caldo quell'abitacolo, ma per qualche motivo sentiva che il calore fuggiva da lui, anzi, si rifiutava proprio di entrargli nel corpo.
«Non mi sento bene…»
«Calmati, stiamo andando al pronto soccorso».
Una scossa alle spalle lo riportò violentemente alla realtà di quei sedili in pelle sui quali, in qualche modo, era finito sdraiato sopra. Sentì una giacca conosciuta posarsi sul suo corpo, e quando inspirò quell’odore familiare chiuse gli occhi, arrendendosi alla stanchezza.
   
 
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