V.
Enodia
Lo
sguardo si perde, scivola sulla vasta distesa di terra [1] – solo
stringendo gli occhi le arriva il ritmico moto delle onde; la
soffice, liquida barriera di nembi e pioggia che cela la Sposa al Cielo
[2] e a chi lo abita si congiunge con la distesa del mare, troppo
lontano per coglierne il sale nell'aria umida.
Leuce
aborrirebbe quella prigione di roccia, le strangolerebbe in gola il
respiro; e Kore, l’odierebbe anche lei, in un presente diverso
– una diversa svolta degli eventi che le vedesse ancora assieme,
le braccia intrecciate, a incoraggiarsi a vicenda a portare pazienza; a
sussurrare, per consolarsi, di un giorno in cui a Kore saranno concesse
le libertà di Artemide e Atena.
Accade
che improvvisi lampi di lucidità penetrino la nebbia in cui
s’è avvolta, in cui soffoca le voci dei supplici che
premono per sfondare la barriera del silenzio; allora, Kore immagina di
poter tornare a quel tempo, quando ancora non aveva incrociato lo
sguardo di Zeus e trovatovi se stessa – quando non gli aveva ancora concesso più di quanto una figlia dovrebbe.
Alle sue spalle, il tàlamo è quieto.
Il
chiacchiericcio delle ancelle nei suoi quartieri la sfianca. Benedice e
maledice in egual misura l’assenza di Demetra, che gliene sottrae
la metà; è grata che quelle che restano si siano arrese a
relegarsi nel gineceo senza più cercare di avvicinarla.
Ha
tentato di interessarsi a loro, di interessarsi al palazzo intero, ma
non riesce a curarsene; ha perso il conto dei giri di Helios sulla
volta del cielo e le ore cadono interminabili quanto la pioggia.
La
stanza di Demetra è il perfetto nascondiglio. Osserva il mondo,
non vista, e quando la veglia, infine, la esaspera, si trascina nel
kliné della madre. Sul lenzuolo, aleggia ancora il suo profumo.
Ma non può aiutarla Demetra, da viva, più di quanto Leuce possa farlo da morta.
Si tocca il ventre vuoto, si stringe nell’himation. [3]
Pensa
a Zagreo, tra i monti. Nel cerchio amoroso delle braccia di qualche
ninfa, magari. Oscilla: vuol gettarsi ai piedi di quella ninfa, baciare
la terra dove cammina e seminarle dietro una scia di fiori a profumarle
la via; vuol stringere le dita attorno al suo esile collo, e spegnerne
l’anelito di vita – volente o nolente, si gode ciò che è suo: lo vedrà crescere, camminare, correre.
La pioggia, aldilà della finestra, si fa più intensa.
Solleva
gli occhi, li punta in alto; cerca segni del cocchio, dei draghi
che lo tirano, sinuosi, di un biondo diverso dalle dita di Helios;
inutilmente, lo sa, ma ha imparato a preferire la paralisi
dell’attesa al futuro sterile che le succede.
Guarda,
dunque, e non si cura dello scricchiolare bagnato contro il pavimento.
L’odore di cuoio, di umido, le invade le narici, annunciandole la
nuova venuta ben prima che quella la chiami.
Non si allarma, ma i muscoli si fanno più duri della pietra che la accoglie.
« Despoine [4]. »
Girarsi a guardarla è arduo, ma Kore volta il viso a fatica, contro volontà.
Gocce
di pioggia rotolano sulle guance lisce di Ecate - il chitone corto, i
calzari da caccia che ancora indossa lordi di fango; la schiena dritta
sotto il peso di arco e faretra, le membra composte
nell’immobilità del predatore.
Kore si costringe a incrociarne, a sostenerne lo sguardo mutevole.
Che non lascia scampo.
« Angelos. [5] Ti ascolto. »
Avanza, Ecate, e non si inchina.
«
Ti porto lamenti da cielo e da terra. Helios domanda accesso ai
mortali, Nefele [6] chiede riposo. Hai dissetato la Terra; ora la
ubriachi, e i semi marciscono nel ventre materno. I fiumi si
ingrossano, e le bestie stremate sono inghiottite dai flutti. La
Cacciatrice non caccia, e il Signore di Erebo leva lo sguardo verso
l’alto e domanda. »
« Erebo...?»
domanda, e non prova timore nel pronunciare quel nome. La tensione si
fa acida, tra le sue labbra. « Cosa importa,
all’Invisibile, se fuori tuona e da qualche parte piove? »
Le emozioni cangiano negli occhi di Ecate come una fiamma, e come una fiamma, Kore non riesce ad afferrarli.
«
Con le tue lacrime anneghi i tuoi figli, e affolli i suoi banchi
anzitempo, e oltre misura. Distruggi quell’Ordine che tanto gli
preme. »
«
Tanto preme, l’Ordine, ai figli di Crono, eppure quanto è
facile per loro disdegnarlo a convenienza. »
Kore
salta in piedi, lascia cadere l’himation sulla pietra calda del
suo corpo gelato. La rabbia si accende dalla sommità del capo,
scende sul volto contratto rendendolo porpora, si chiude sui pugni
stretti nello sdegno.
«
Forse che è Cosmos [7] rapire una figlia di Oceano alle sue
rive, e trascinarla in un regno a cui non appartiene? Quante remore si
è fatto, Zeus Ctonio [8], Signore degli Inferi, quando si
è trattato delle faccende sue? Non abbastanza, e così mio
padre, l’Olimpio [9] : forse pensava al Cosmos mentre giaceva con
la sua stessa figlia, concepiva con lei e poi le strappava quel seme
che appena ha gettato radici per trapiantarlo tra le braccia delle
montagne? »
Sibila,
Kore, e, nel sibilare, spruzza veleno e lacrime. Fuori, la pioggia
bussa sulla pietra, e un lampo attraversa il muro di nubi.
Il volto di Ecate non si adombra; lo sguardo, fermo e impazzito assieme, non concede terreno.
« Qualunque cosa accada, è un tassello nel mosaico del Fato. Persino quando dal Cosmos sconfina nel Caos. »
Alla
prima occhiata, pare impossibile che quella creatura sia tanto
più antica di sua madre, persino per la loro razza.
Finché non si inciampa nei suoi occhi e non se ne rimane
consumati. Ma Kore arde di collera anche lei. Si rifiuta di lasciarsi
rabbonire da quel bel parlare che tanto le ricorda Zeus.
« Dimmi del Fato, dunque, Ecate. Rivelami il mio, tu che tutto sai e nulla dici. »
Kore
è consapevole che è lo sfogo di una bambina, quello, il
pianto dirotto che la sferza, oltre la finestra scuote le foglie sulle
chiome degli alberi. Non ha colpa, Ecate, delle loro scelte sbagliate,
non ha colpa di dover mantenere il silenzio; ma su qualcuno deve
rovesciare la rabbia che suppura, sotto la pelle, che gonfia la mente
di umori infetti.
« Parlami, figlia di Perse », soffia, le guance fredde di dolore e calde di vergogna sotto quegli occhi di fuoco.
Si
domanda cosa vedano: forse, la bambina verso cui tanto più
affetto dimostrava un tempo; forse la creatura urlante che ha aiutato a
sgravarsi, paonazza e pulsante di vita; forse, la bestia che,
aggrappata al suo collo, lo ha inzuppato di lacrime.
Ecate
abbandona contro la parete arco e faretra; si fa vicina, le preme una
mano sulla sua spalla e, con delicatezza, la costringe a sedersi sulla
pietra dura oltre la barriera dell’himation, occupando il posto
vuoto - di Demetra, di Leuce - accanto a lei. Subito, toglie la mano;
se la posa sul grembo, intrecciandola all’altra, la schiena
dritta mentre inizia a parlare.
«
Ordine e Fato non sempre percorrono lo stesso sentiero: è
difficile trovare il punto dove l’uno diverge dall’altro;
non sono preda e cacciatore: chi insegua e chi corra, raramente
è chiaro. » esordisce, solenne, e la sua voce ha un suono
antico.
«
Il Destino mi ha posto sotto di te, sotto tua madre, che mi porta il
tuo medesimo rancore. Mi fece, lei, la tua stessa domanda in un tempo
passato, quando di te non c’era che una promessa nel suo ventre.
La vita è un cerchio. »
Non
è un tono duro, il suo; non vi è calore, né
ostilità. La tranquilla ineluttabilità degli eventi pare
permearla, e Kore le invidia quella pace. Tende le orecchie a catturare
ogni sfumatura che colora le sue parole, ma esse sono grigie ed
enigmatiche come il cielo di fuori.
«
Oggi, come allora, non posso dirti tutto. Posso dirti alcune cose.
Posso dirti che, di fronte al bivio, hai scelto tu la direzione. Hai
creato tu stessa il tuo Ordine – sola, hai forgiato la tua catena
e la tua prigione. Molto hai guadagnato, e di più hai dato in
cambio; tornerà in equilibrio, l’asse della tua bilancia.
»
Non
è improvviso, il tremore che la scuote: principia sulle ciglia;
si allarga sul volto per nulla provato; si estende per tutto il corpo
esile – e quando Kore si aggrappa a un ginocchio nudo, la pelle
lì arde come lingua di fuoco, e, ugualmente, muta.
Non
è la giovane bagnata di pioggia, che le parla, ora, ma una dea
dal volto di madre, appena segnato d’età. Dondola su se
stessa, scossa come dalla corrente, ma il tono resta placido come mare
in bonaccia.
«
Stimi ben misero il tuo potere, ma è in tuo potere ottenerne di
più; tra le braccia del Padre hai perso il tuo nome, ma
ciò che è perso, non è perduto. La tua è
una pelle di serpente: il nuovo già ti cresce addosso.
Tenteranno di lavarlo via nelle acque di Pafo, ma non pagherai di nuovo
il vecchio tributo; il primo ti macchiò le cosce; le labbra,
l’ultimo, quando, colto il fiore senza frutto, assaggerai il
frutto senza estate. »
Si
piega in avanti, e la scura criniera di capelli si imbianca; il volto
si incrina e accanto a sé, lentamente e all’improvviso,
c’è una graia, che la pugnala con lo sguardo antico. La
bocca è una linea dritta, rugosa; pochi denti affilati spuntano
dalle gengive secche, eppure, Kore comprende ogni motto, quasi la voce
glielo sussurrasse entro i confini del capo.
«
E quando il serpente mangerà l’altro serpente, esso
diverrà un drago; ma la vita è un cerchio: penserai di
essere arrivata, e scoprirai di dover ancora partire. »
Ecate
si affloscia, le muore tra le braccia. Contro ogni senso, Kore
trattiene il fiato – il temporale pare, come lei, sospeso a un
filo.È impossibile, ma non respira, Ecate, ne è certa. Il petto non si alza, non si abbassa sotto il chitone.
È un corpo morto, quello contro il suo.
La
sorregge, agghiacciata, le scosta i capelli dal volto… è
fanciulla, di nuovo. Le palpebre fremono, gli occhi di fiamma la
fissano, vigili in un attimo.
Si scioglie dalla sua presa, Ecate, si siede diritta, il viso volto nella sua direzione.
Nel
silenzio che segue, Kore trema un poco, si concede di gonfiare
d’aria il petto; lascia che il tremore scivoli via, liquido,
dalle membra.
«
… Non mi hai detto nulla », le esce di bocca, e si
picchierebbe per tanta ingratitudine, ma pensiero e parole sembrano
seguire direzioni diverse. La meraviglia ancora le colma gli occhi,
dietro le iridi.
«
Ti ho detto abbastanza. » Ecate rassetta la benda che le
trattiene le ciocche scure; se prova stizza, lo tiene per sé. La
vergogna di Kore, d’altra parte, fa capolino dalle guance, dallo
sguardo abbassato.
«
Soffri, ed è giusto. Cerchi la solitudine, la sicurezza della
tana: ti comporti in accordo con la tua natura. » Si alza, le si
mette di fronte, le gambe larghe, la posa del guerriero.
«
Si avvicinano le Procaristerie [10]. Chiunque tu sia, ora, quelli le
cui voci ti ostini a soffocare, dipendono da te come fossero tua carne.
La Primavera è tempo di gioia [11]. Di nascita. Non è
Cosmos che porti la morte. Non è Cosmos che tu dimentichi chi
sei. »
Parole che bruciano, sulla pelle. La colpa è un sassolino che cade in un pozzo.
«
Se quanto ti serve è sentirti viva », conclude,
allontanandosi da lei e recuperando arco e faretra, « Vieni con
me. E caccia. »
Le dita rosee di Eos sfiorano il volto di Urano.
Sotto il manto di umide fronde, corrono assieme, cagna e fanciulla.
Non piove più.
NOTE:
[1]: Il pezzo è ambientato ad Agrigento, dove sorge un tempi dedicato a Demetra in stile dorico, costruito attorno al 407 AC. Nel pezzo, antecedente, la roccia in cui il tempio venne scavato funge da palazzo di Demetra.
[2]: Urano e Gea, progerinitori dei Cronidi.
[3]: Una mantella leggera.
[4]: Appellativo che Persefone divide con Demetra ed Ecate (a volte identificata come una dea a sé, figlia di Demetra e Poseidone). Letteralmente, "signora".
[5]: Appellativo di Ecate, letteralmente "messaggera".
[6]: Divinità delle nubi.
[7]: Il concetto di ordine che domina la concezione dell'universo nell'Antica Grecia.
[8]: Altro nome di Ade.
[9]: Appellativo di Zeus, letteralmente "di Olimpia".
[10]: Feste che si svolgevano ad Atene il 21 marzo in onore di Kore, Demetra e Atena, alle quali i magistrati della città facevano offerte.
[11]: Si allude a una teoria in cui il termine "Kore", nel parlato, avesse anche il significato di "gioia".