Fanfic su artisti musicali > One Direction
Ricorda la storia  |      
Autore: __HoranSmile__    28/10/2015    0 recensioni
Si possono dire di lui tante cose. Ma quello che diciamo, è realmente quello che è?
***dal testo***
Mi rifugiavo spesso nelle varie stanze d’hotel, senza vedere nessuno per ore, senza parlare, senza mangiare, senza fare nulla di concreto. Non ne avevo assolutamente nessuna voglia. Me ne stavo li, in silenzio, con le cuffie nelle orecchie con una voglia matta di spaccare tutto.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Non avrei mai voluto ammetterlo, ma tutto quel caos, quelle persone, quelle urla, quei momenti mi terrorizzavano ma morire. Si può pensare che io mi sia abituato a tutto quello, ma no, nulla mi era mai più parso famigliare da quando avevo deciso di intraprendere quel tipo di strada, di vita.
Ero famoso, amato, voluto e sapevo con certezza che loro avrebbero dato la vita per me. Ma per chi? Non per me, non per il vero me, non ero mai stato in grado di mostrare chi ero veramente, cosa dentro di me si nascondeva con tanta paura di venire fuori, cosa il vero Harry era. Dal di fuori e da quello che loro vedevano di me, sembravo un ragazzo carino, educato, col sorriso quasi sempre sulle labbra, disponibile e molto spesso protettivo nei confronti delle mie fan. Ma io ero tutto il contrario, dentro di me qualcosa ribolliva, odiavo tutto e tutti, qualunque cosa mi apparisse davanti agli occhi io la odiavo con tutto me stesso, come se mi obbligasse a essere in un certo modo. Nessuno mi aveva mai costretto ad apparire in un certo modo, ma anche io, sapevo benissimo che il vero me non avrebbe fatto dischi, avuto fan e soprattutto cantato a squarciagola fino a tarda notte in uno stadio, così mi limitavo a mostrare quello che, loro, volevano vedere. Dentro di me c’era solo rabbia, una rabbia folle, che a volte mi sembrava di non riuscire a contenere ma alla fine, mettevo su un bel sorriso che nascondeva il tutto. L’unica cosa che riuscivo ad amare con ogni parte del mio corpo e della mia anima era la musica, il mio unico motivo per cui svegliarmi al mattino, solo la musica, poi, tutto quello che lei aveva intorno lo odiavo. Odiavo anche chi, grazie a loro, ero riuscito a far avverare il mio sogno più grande.
Ero infelice, questo pare abbastanza ovvio, ma, non sapevo il perché, portandomi a essere sempre più arrabbiato. Dalla vita non mi mancava nulla, solo la felicità non era mia, ma troppo tardi mi sono accorto che la felicità non la posso comprare, la felicità non potevo metterla in un testo e poi cantarla, non potevo semplicemente permettermela. E mi sembrava una cosa così idiota. Insomma, potevo avere tutto quello che volevo semplicemente dicendolo. Volevo sesso? Aprivo un attimo la porta della mia camera di hotel e ne facevo entrare una, due o tre. Volevo una macchina nuova? Schiacciavo due tasti sul telefono e un paio di ore dopo avevo la mia nuova macchina nel mio garage. Volevo un telefono nuovo? Stessa cosa che per la macchina. Volevo andare in America anche se ero in Germania e non partivano voli all’istante? Una chiamata o due e dodici ore dopo ero nella mia piscina di Los Angeles a bere vino e ubriacarmi. Niente era irraggiungibile per me. Ma la felicità aveva un prezzo troppo alto da pagare.
Mi rifugiavo spesso nelle varie stanze d’hotel, senza vedere nessuno per ore, senza parlare, senza mangiare, senza fare nulla di concreto. Non ne avevo assolutamente nessuna voglia. Me ne stavo li, in silenzio, con le cuffie nelle orecchie con una voglia matta di spaccare tutto. A volte mi mettevo pure a scrivere, ne ho scritti dieci di libri, ma alla fine, finivano tutti nel cestino del pc. Cose strane mi ronzavano per la testa, cose che nemmeno ricordo bene, forse perché non le voglio ricordare, forse perché le ho semplicemente rimosse col corso del tempo.  Ricordo vagamente che una sera, dopo un concerto, ero nella mia stanza in silenzio quando nella testa cominciò a ronzarmi il fatto che sarei potuto sparire, cambiare nome, città e persino faccia e ricominciare tutto da capo, fingendo magari che il mitico Harry Styles fosse morto, fottendoli tutti. La cosa morì subito li, ma in quei momenti in cui immaginavo la mia nuova vita un fremito mi prese la schiena e mi venne la smania di farlo, di vedere come la gente avrebbe reagito a una cosa del genere, vedere se la mia ipotetica e futura moglie se ne sarebbe mai accorta e se un giorno lo avrei raccontato ai miei nipoti morente nel mio letto. Fottendo tutti il doppio.
Per un periodo pensai pure di essere pazzo, un po’ lo ero, ma in quel periodo avrei voluto rinchiudermi in un qualche ospedale psichiatrico e far buttare via la chiave, pensai di internarmi di mia spontanea volontà ma la cosa mi mandò ancor di più fuori di testa e scartai l’idea subito. Allora pensai di farmi ricoverare come autolesionista suicida, ma anche lì, sarebbe stato come farmi ricoverare di mia spontanea volontà, avevo bisogno di qualcosa che sarebbe presto uscita dal mio controllo e che mi avrebbe costretto a chiedere aiuto, in modo che qualcuno di competente decidesse di farmi ricoverare. Non mi vennero idee e lasciai che le cose facessero il suo corso.
Quel periodo fu più duro di quanto potessi immaginare, forse ero pazzo davvero e la cosa non mi piaceva stavo giorni interi nella mia stanza, con le luci spente e le finestre chiuse, senza far passare un filo di luce ne di aria fresca. L’esterno mi metteva il panico più del solito. Un giorno nella mia stanza entrò un signore, avrà avuto si e no settant’anni o anche di più che molto delicatezza iniziò a farmi varie domande, io, scazzato, gli rispondevo. Cominciò a venire quasi tutti i giorni dopo la fine del tour, quando ormai, mi ero insediato in un piccolo appartamento poco fuori New York. Avevo la mia villa ma era troppo grande e soleggiata, io avevo bisogno di qualcosa di piccolo e buio per stare un po’ tranquillo. La sua ‘compagnia’ non mi dava più troppo fastidio e così iniziai ad aprirmi sempre di più con lui. Gli raccontavo cosa mi ronzava in testa, cosa mi innervosiva e cosa, a mio malgrado ero costretto a fare almeno un giorno al mese, cioè uscire, gli dicevo quanto odiassi quelle uscite e quanto la gente che mi chiedeva foto o autografi mi desse fastidio. Non parlava quasi mai, quell’uomo, si limitava ad annuire e lasciarmi parlare, ogni tanto mi faceva qualche domanda ma niente di più.
Passarono quattro mesi e un giorno, come al solito, l’uomo si presentò alla mia porta. Non era solo. Con lui c’era anche una donna e un ragazzo che era di poco più grande di me.
Mi dissero che in tutto quell’arco di tempo, l’uomo mi aveva osservato e ascoltato, la cosa non mi stupii più di tanto anche perché era proprio quello che faceva e mi dissero che avevo sviluppato un disturbo alimentare e la depressione. Urlai, li cacciai via e li minacciai che se fossero tornati li avrei ammazzati con le mie mani. Se ne andarono ma mi lasciarono un dubbio allucinante. Mangiavo? Risposta semplice, due mele al giorno. Mi andai a pesare. 47 chili e 200 grammi. Cazzo. Mi osservai bene allo specchio ed ero un fottuto ammasso di pelle e ossa. Mi venne da vomitare.
Due giorni dopo, le stesse persone di presentarono alla mia porta. Le lasciai entrare e quando la donna aprì la bocca per dire chissà cosa, scoppiai a piangere come una bambina con la testa della bambola in una mano e il corpo nell’altra. Mentre mi lasciavano piangere il ragazzo sparì per qualche minuto e tornò con un borsone. Chiesi dove avevano intenzione di portarmi e loro dissero che mi avrebbero portato in una clinica che si occupava di malattie come le mie. Quello su cui avevo tanto pensato si stava trasformando in realtà. Dentro di me, sapevo che un po’ la cosa me la ero indotta,  ma una grossa parte del mio subconscio mi disse che no, era sempre stato così, solo che ora mi era permesso farlo vedere.
Passai due mesi nel centro, la cosa più dura e brutta che io abbia mai dovuto vivere. Quando mi sentii meglio, mi mandarono a casa, nella villa, e mi dissero di cercare di cominciare a lavorare presto per sentirmi ancora meglio ed evitare ricadute. In poche parole volevano che pensassi a tutt’altro. Ricominciai a lavorare ma i pensieri non se ne andarono tanto presto. Un po’ della mia rabbia e del mio odio erano spariti, posso osare a dire che incontrare i fan mi faceva quasi piacere. Mi sentii più amato di quanto mi fosse concesso, mandandomi in crisi. Lo meritavo? Ovviamente no, ma allora perché, erano così attaccate a me? Io non le avevo mai dato niente che fosse reale, niente che fosse sentito veramente. Persino i miei abbracci, i miei sorrisi, le mie parole erano false. Mi sentivo in colpa. Loro non meritavano quello che io gli stavo dando. Pensai che se mi avessero amato sul serio avrebbero sopportato anche il vero me. Ma parlando con i ragazzi arrivammo alla conclusione che no, non mi avrebbero sopportato.
Continuavo a vedere l’uomo una volta a settimana, in casa mia, come al solito. Mi faceva parlare, sfogare, dire cosa non andava. Ogni volta che veniva mi dovevo anche pesare e stavo riacquistando peso velocemente. Alla fine il problema alimentare era solo una conseguenza della depressione, io non mi ero mai visto grasso o cose del genere, mi sentivo bene col mio corpo, beh, prima del disturbo alimentare. Dopo quello mi facevo assolutamente schifo, mi sentivo fragile, non mi sentivo attraente il che, molto spesso mi indusse a pensare di non andare a lavorare, uscire, farmi vedere. Ma resistetti perché io, in quel maledetto centro non ci volevo più mettere piede. Non potevo permettermi di ributtarmi sulla depressione.
Il centro faceva schifo sotto tutti i punti di vista. Non mi permettevano di usare il cellulare o di restare a letto dopo le 9 del mattino e di pomeriggio, dovevo sempre stare a fare qualcosa. Quelle stupide cose che mi fanno uscire di testa, come il collage o i puzzle. Avevo ventuno fottuti anni, non dieci che devo fare il puzzle. Cazzo.
Nel centro non si poteva fumare, ma tutti fumavano, me compreso, tenevamo le sigarette nel cortile, dentro una scatoletta messa sotto un carrello che probabilmente non veniva mosso da anni. Ce le lasciavano le infermiere, un pacchetto ogni due giorni. Mi bastava a me, ad altri no e ci andavo fuori di testa, avrebbero dato qualunque cosa per scroccartene una, ma nessuno di noi dava mai le proprio sigarette.
Un medico in particolare mi odiava, per fortuna, l’avevo visto solo poche volte. Questo medico, diceva che io non volevo guarire, che ero solo un ragazzo ricco a cui non gli importava nulla di tutto il resto. Magari aveva ragione, ma il modo sprezzante in cui mi guardava mi faceva ribollire il sangue nelle vene. La mia camera era la più piccola di tutto l’edificio e la prima volta che entrai mi arrivò un tanfo di chiuso che quasi mi mettevo a vomitare. Quando l’infermiera mi lasciò da solo per mettere a posto la mia roba, scoppiai a piangere, non ci volevo stare li, avevo desiderato andarci ma in quel momento avrei voluto essere a casa. Ma ero li e dovevo farmelo andare bene. A cena vomitai pure l’anima. Mi dissero che era normale, avevo mangiato in modo normale e il mio stomaco non era pronto a una portata del genere. Pesai che fu tutta una merda e piansi di nuovo.
Andò avanti a vomito e pianti per due settimane, poi, mi abituai.
Il disturbo era passato del tutto e mi lasciarono tornare al lavoro. Come ho già detto, il mio carattere migliorò.
Non so poi cosa successe, non so perché presi quella decisione, ma era la mia decisione e nessuno aveva voce in capitolo.
Decisi di lasciarmi tutto alle spalle, mollare tutto, abbandonare le fan e i ragazzi. Decisi di diventare qualcuno che nessuno si sarebbe mai immaginato, mi misi a studiare per diventare medico.
Avevo bisogno di aiutare le persone che si trovavano nella mia stessa situazione. Volevo aiutare davvero e in modo pratico le persone. Appena presi la mia decisione, il mio carattere si ribaltò. Dall’odio subentrò la calma e la pace, la mia mente non faceva più giri strani, non pesavo più a cose come la morte. Pensavo che io, come ero potevo salvare davvero la gente. Trovai la felicità.
Anche se, il primo periodo fu difficile, le fan mi assalivano, i giornalisti mi seguivano fin dentro l’università e non smettevo di ricevere chiamate dai manager per farmi cambiare idea. Nel giro di un anno però, tutto cambiò, nessuno si ricordava più di me, nessuno era più interessato alla mia vita. Mi lasciarono solo, solo con la mia felicità.
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: __HoranSmile__