La
storia inversa
«Fiori
d’arancio e improbabili complicazioni»
Lunedì«
Toronto,
Ontario, Canada.
14 luglio, ore otto e trenta del mattino.
Quella
poteva essere una giornata perfetta, per Duncan.
Era il
suo giorno libero, il che implicava il poter rimanere a letto fino a
mezzogiorno. Dopodiché avrebbe ordinato una pizza, guardato
un bel film
splatter in televisione - magari con un amico - e infine sarebbe andato
a
prendere Courtney al suo ufficio, organizzando un piano che potesse
metterla il
più possibile in imbarazzo davanti ai suoi colleghi. Certo,
probabilmente non
gli avrebbe parlato per una settimana - anche due, nel peggiore dei
casi -, ma
ne valeva la pena.
Poteva
essere, appunto. Perché in realtà non la fu,
nemmeno un poco.
Innanzitutto,
quella mattina qualche imbecille si era attaccato al campanello di
casa,
minacciando di rimanere lì fuori fino a quando non avrebbe
aperto, rovinandogli
il sonno.
E, una
volta sveglio, realizzò quello che era successo la sera
prima: John aveva fatto
irruzione nel suo appartamento,
rovinato la sua festa e
colonizzato
la sua camera da letto. Ragion per
cui, si ritrovava accovacciato lungo il corridoio, con la testa
poggiata al
muro e gli stessi vestiti del giorno precedente, mentre il suo nuovo
coinquilino dormiva beatamente nel
suo comodo
letto.
E
intanto il campanello continuava a suonare senza alcuna interruzione,
senza
nessuna pietà per le sue orecchie, istigandolo a buttare una
bestemmia così
grossa da far tremare i vetri delle finestre.
Insomma,
chi era il mentecatto che veniva a suonare alle otto e mezza di un
normalissimo
lunedì mattina di metà estate? Non aveva niente
da fare tipo, che so, dormire?
«Sta’
calmo, arrivo!» gridò attraverso il corridoio con
tutto il fiato che aveva in
gola, rialzandosi a fatica da terra e trascinandosi verso
l’ingresso.
Una
volta aperta la porta, non ebbe nemmeno il tempo di vedere chi fosse e
di
lanciargli contro le peggio maledizioni, perché costui - o
costei - si era
precipitato nel suo salotto di corsa.
«Innanzitutto,
un buongiorno sarebbe quantomeno gradito, principessa» disse,
chiudendosi la
porta alle spalle e voltandosi lentamente.
Naturalmente,
aveva già capito di chi si trattasse dal modo in cui
l’aveva scansato: davanti
a lui vi era una Courtney pettinata, vestita in modo impeccabile e
fresca come
una rosa sin dal primo mattino. Aveva la sua borsa a tracolla e si
rigirava tra
le mani le chiavi della sua auto. A giudicare
dall’espressione che aveva in
volto, era in preda al nervosismo - come la maggior parte delle volte.
«Cosa
ci fai ancora conciato in quella maniera?! Sei
impresentabile!» sbraitò lei,
ignorando completamente la sua precedente frase. «Perlomeno,
quando vieni ad
aprire la porta, potresti avere un aspetto quantomeno
decente… e dovresti anche
lavarti i denti».
Effettivamente,
per strada avrebbero potuto tranquillamente scambiarlo per un barbone:
i
capelli spettinati, due enormi occhiaie, un’alitosi da
spavento e la barba
sfatta. Almeno, punto a suo favore, per quanto sporchi e fradici di
sudore
fossero, aveva dei vestiti addosso. Solitamente, infatti, si presentava
con una
canottiera bianca incrostata di sugo o, peggio ancora, in boxer.
«Mi
sono appena svegliato e non ho avuto il tempo di pensare al mio aspetto
esteriore, anche perché avevi deciso di non mollare quel
maledetto campanello»
si giustificò. «Ecco perché sono
“ancora
conciato in quella maniera”».
«Allora
farai meglio a vestirti perché abbiamo un sacco di cose da
fare, questa
mattina» gli rispose, accomodandosi aggraziatamente sul
divano, scansando varie
lattine di birra e briciole varie e poggiando la borsa accanto a lei.
Ci mise
un po’ ad elaborare la frase - erano pur sempre le otto di
mattina, dannazione!
- ed un’unica domanda gli affiorò in mente: che
cosa dovevano fare di così
tanto importante, in un ordinario lunedì mattina?
Prima
che potesse formulare il quesito direttamente, qualcuno fece il suo
trionfale ingresso
in salotto a gran passi e si piazzò davanti al televisore.
Aveva la faccia
ricoperta di schiuma, teneva in una mano uno spazzolino e
nell’altro una
lametta e tutto ciò che indossava era un semplice
asciugamano attorno alla
vita.
«Okay,
si può sapere chi è il mentecatto che si era
attaccato al campanello di prima
mattina e mi ha fatto tagliare la faccia con questo maledettissimo
rasoio da
due soldi?!» annunciò, con uno sguardo accigliato
in volto. «Se lo becco io-
oh, ciao Courtney».
Adesso,
l’espressione sul suo volto era di puro terrore.
«John»
ricambiò lei il saluto, facendo un cenno col capo.
«Quindi
eri tu che-»
«Già»
lo interruppe subito, con tono piatto.
«Io non
le pensavo veramente tutte quelle cose».
«Lo
spero».
Duncan,
impegnato a sghignazzare, non si accorse subito con cosa
il suo coinquilino si fosse presentato lì. Si era
già
sistemato per il meglio, insomma.
«Scusa
se ti interrompo,» iniziò, «ma ti stai
facendo la barba con la mia lametta
- che, tanto per la cronaca,
non è da due soldi -, ti sei lavato i denti col mio spazzolino e quello che hai intorno
alla vita è il mio
asciugamano».
La
frase avrebbe dovuto suonare come una domanda, ma venne fuori come una
fredda
affermazione.
«Già,
non avevo voglia di disfare i bagagli. Troppa fatica» gli
rispose, facendosi
spazio sul divano, prese dal tavolino il suo
portatile e lo accese, poggiandoselo sulle gambe.
Evitò
anche di commentare, non ne aveva la voglia… e, ad ogni
modo, non l’avrebbe mai
ascoltato. Ormai aveva perso ogni speranza verso
quell’individuo da un sacco di
tempo.
Così
decise di sedersi sul bracciolo del divano e di riprendere il discorso
lasciato
in precedenza: «Cos’è che, di preciso,
dovremmo fare tu ed io insieme questa
mattina?» chiese, guardando il suo profilo.
«Sapevi
del matrimonio di Gwen e Trent, immagino» rispose, senza
guardarlo.
Fece
per un secondo mente locale. Si ricordava di quando gli era arrivato
quell’invito, mesi prima: all’inizio era rimasto
incredulo, poi non poté fare a
meno che essere felice per la sua amica, nonché ex ragazza.
La chiamò anche per
congratularsi direttamente - e ricordare anche un po’ di
vecchi tempi.
«Naturalmente,
e anche da parecchio tempo. E con questo?»
Finalmente
si voltò in sua direzione: «Sai che il matrimonio
è questo sabato, vero?»
chiese nuovamente, alzando un sopracciglio. Evidentemente, conosceva
già la
risposta.
«Impossibile,
l’ho segnato sul calendario. Il matrimonio
è,» e lanciò uno sguardo alla parete
di fronte, spalancando gli occhi, «questo sabato»
concluse, con un mormorio. «E
io non ho il vestito. Né un regalo decente».
Lei
incrociò le braccia al petto, soddisfatta. Aveva ragione,
come al solito.
«Un
momento,» li interruppe John, alzando lo sguardo dal
computer, «perché Gwen e
Trent si sposano e non mi hanno invitato?»
«Perché
noi siamo vip e tu sei un povero plebeo» scherzò
Duncan, anche se la battuta
non fece ridere nessuno. «Perché a malapena ti
conoscono, razza di scimmia
decerebrata!»
Prima
che potesse ribattere, scatenando così una rissa, Courtney
prese la parola:
«Mentre io e questa sottospecie di uomo,» e qui
indicò Duncan, «andremo a fare
spese - perché il mio invito è misteriosamente
arrivato ieri e non ho avuto
tempo -, te ne starai a casa, senza disturbare il vicinato e senza
demolire
l’intero appartamento».
All’apparenza
sembrava un’ottima idea, ma c’era un punto che non
andava: Duncan non avrebbe
mai e poi mai lasciato John da solo per quelle poche ore, figuriamoci
se
l’avrebbe fatto per un paio di giorni - specie se si trovava
a più di duemila
chilometri da casa!
«Dobbiamo
rivedere il piano: io non permetterò in nessun modo che lui
rimanga qui,
completamente da solo» obiettò, scattando in
piedi. «Quindi le soluzioni sono
due: o fa le valige e si trova un altro alloggio, oppure viene con noi
a Vancouver.
Io, personalmente, scelgo la prima opzione».
«E io
la seconda» rispose il bruno. «Voglio venire
anch’io al matrimonio».
Courtney
non ci pensò nemmeno per un secondo:
«Dimenticatelo, non sei stato invitato!»
«E
quindi, addio, quella è la porta» aggiunse Duncan
con un sorriso smagliante,
indicando l’uscita.
Ma John
lo ignorò completamente: andò, invece, di fronte
all’amica e si mise in
ginocchio con le mani giunte.
«Ti
prego!» esclamò, allungando esageratamente la
“e”.
Lei
distolse lo sguardo, e fissò un punto indefinito alla sua
destra. Guardarlo
significava cedere seduta stante: era stranamente bravo a far sentire
le
persone in colpa con una semplice espressione facciale.
Ce
l’avrebbe fatta, non era una debole.
Purtroppo
resistette per circa una trentina di secondi. Per un fatale scherzo del
destino, non poté fare a meno di incrociare i suoi occhioni
color nocciola e il
labbruccio tremolante. E a quel punto, fallì miseramente.
«D’accordo,
verrai, ma solo perché mi fa pena vederti solo come un
cane» sospirò; nel
frattempo, John faceva i salti di gioia, ringraziandola in tutte le
lingue che
conosceva, e Duncan imprecò sonoramente, perché
sapeva che l’avrebbe avuto in
mezzo ai piedi anche durante quella vacanza. «Ora andate
immediatamente a
vestirvi, non ho tempo da perdere con voi».
Si
prospettava una lunghissima giornata.
• •
•
Ore nove e quarantadue.
Circa
un’ora dopo si ritrovavano a camminare per le sontuose strade
del centro di
Toronto, con Courtney che procedeva in testa al terzetto con passo
veloce e due
affannati John e Duncan che cercavano di starle dietro.
Continuava
ad impartire ordini da quando avevano lasciato casa, circa venti minuti
prima,
e ogni tanto dava un’occhiata al suo telefono, per
controllare la lista che si
era preparata.
«Ripetiamo
ancora una volta,» annunciò, accingendosi a
rileggere il tutto per la terza
volta, «questa mattina ci recheremo a comprare uno smoking
decente per tutti e
due e un abito che possa adattarsi al mio ruolo di
testimone». Indugiò per un
attimo nell’ultima parte, come a voler sottolineare quanto
tenesse a quel
compito.
«Domanda»
esordì Duncan, alzando l’indice e fermandosi un
secondo per riprendere fiato.
«È proprio necessario il vestito elegante? Sai,
non metto uno smoking dal
lontano…», e qui si fermò a riflettere,
grattandosi la testa, «non ho mai messo
uno smoking!»
Tra un
respiro affannoso e l’altro, si udì John dire
qualcosa come “sciattone”.
«Scordatelo,
non ti permetterò di farmi fare una brutta figura»
rispose, voltandosi appena
ma senza smettere di camminare. «Poi, dopo una velocissima
pausa pranzo, andremo
a comprare un adeguato regalo di nozze. Tutto ciò
dovrà avvenire in meno tempo
possibile, dato che io devo finire il mio lavoro».
«Ehm,»
cominciò John con audacia, «sai che il matrimonio
è fra più di cinque giorni,
vero? Perché affrettarsi tanto, mi chiedo!»
Ma non
ricevette risposta, perché quella - forse non aveva sentito,
forse l’aveva
volutamente ignorato - continuò a procedere per la sua via,
senza degnarlo di
un piccolo sguardo.
Alla
fine di quel lungo viale, svoltò a destra e si
fermò davanti ad una vetrina,
mentre i due uomini si appoggiarono ad un palo e cercarono di fermare
il
fiatone. Lei, invece, era perfettamente ritta e non mostrava segni di
fatica,
come se fosse abituata a fare sempre tutto di fretta.
«Ci
siamo» annunciò loro, fissando i capi esposti
nella vetrina.
Si
trattava di un negozio di abiti eleganti abbastanza modesto, un outfit,
senza
prezzi esageratamente alti né era troppo squallido.
Prima
che potessero accorgersene, Courtney era già entrata nel
negozio e aveva
salutato la cassiera esponendole ciò che le serviva. Cinque
secondi dopo,
questa la portò via, lasciandoli completamente soli e
spaesati.
«Fantastico»
commentò John. «E ora che si fa?»
Non
ebbero il tempo di pensare a qualche piano o brillante idea che una
ragazza
biondissima, slanciata e dalle lunghe gambe si materializzò
davanti a loro, con
un sorriso a trentadue denti stampato in volto.
«Salve,
avete bisogno di aiuto?» chiese con tono gentile, fissando
prima uno e poi
l’altro.
Duncan
mise su la sua migliore espressione da rimorchiatore e rispose con il
tono più
seducente possibile: «Non è che per caso si
potrebbe avere il numero di questa bella
commessa? Sarebbe un peccato sprecare tanta bellezza senza nemmeno aver
provato
ad uscirci assieme» disse, ammiccando.
Quella
sorrise e cercò di nascondere il lieve rossore sulle gote.
«Nessuno
mi aveva mai detto una cosa del genere» mormorò,
guardando altrove per
l’imbarazzo.
La
situazione stava diventando fin troppo scomoda e fastidiosa. Chiunque
avrebbe
vissuto quella situazione come terzo incomodo, sarebbe stato
maledettamente a
disagio. Così John, evidentemente stufo di quel banale
flirt, da bravo
salvatore della patria, compì un gesto eroico: fece
accidentalmente cadere il
suo piede sopra quello di Duncan, che emise un grido così
acuto che farebbe
invidia ad un soprano.
Mentre
quello lo riempiva di coloriti insulti a malapena borbottati, prese
abilmente
la parola: «Perdona questo povero essere, è
soltanto un cretino. Siccome la
sergente che entrata qui con noi ci sbrana vivi, se non ci presentiamo
in modo
impeccabile al matrimonio della sua migliore amica, ci servirebbe
qualcosa di
quantomeno presentabile. Ora, capisco che trovare un vestito che regga
il
confronto con la mia fantastica persona,» e qui Duncan fece
di tutto per non
scoppiare a ridere, beccandosi un’occhiataccia,
«sia difficile, però ti chiedo
di fare un piccolo sforzo».
La
ragazza, ridacchiando, fece gesto di seguirli: «Potete
cominciare ad
accomodarvi nei camerini, mentre io cercherò qualcosa di adeguato
all’occasione».
Per
quanto ci fosse soltanto una ragazza nel suo cuore, non si
può certo pretendere
che il nostro caro Duncan abbandoni le sue vecchie abitudini dalla sera
alla
mattina: in sei anni, più che altro per passare il tempo,
aveva continuato a
sedurre giovani donzelle con lo scopo di passare qualche nottata
indimenticabile e, soprattutto, di far ingelosire la sua preda.
A
Courtney, naturalmente, tutto questo non era sfuggito e, sebbene
cercasse di
mantenere un atteggiamento sobrio davanti a lui, non poteva negare che
questo
le desse profondamente fastidio. Non perché fosse innamorata
- non sia mai! -,
perché, facendo così,
non le dimostrava affatto che a lei
ci teneva.
Già,
principalmente era questo il motivo per cui il nostro amico era ancora
single.
Ce ne sarebbero circa altri trecento novantaquattro(1),
ma sarebbe troppo lungo e borioso elencarli tutti.
Nel
frattempo la commessa, che avevano scoperto chiamarsi Cherry leggendo
la
targhetta appuntata al suo petto, aveva portato loro tre diversi
completi a
testa e, mentre si cambiavano, John diede il meglio di sé,
esordendo con frasi
del calibro «Non si abbottona la camicia!», oppure,
venti volte più umiliante,
«Questo mi sta stretto al cavallo».
Dopo
due minuti buoni di lamentele, Duncan, al limite della sopportazione,
con
l’intento di farsi capire bene da chiunque gridò:
«Non è colpa nostra se sei
uno schifoso obeso e passi le tue giornate a poltrire, piuttosto che a
sgobbare
per portare a casa un misero stipendio!»
Non appena la disse, trovò che quella
frase suonasse molto male per uno come lui. Certo, aveva un lavoro ben
retribuito e non era un pigrone di prima categoria, ma non si trovava
mica
nella posizione di poter criticare, quando pochi anni addietro era
nelle stesse
condizioni!
«Ha parlato l’uomo vissuto!» rispose,
irritato. «E poi questa non è trippa, è
una cover per i miei addominali».
Dopo un altro paio di minuti di frasi
imbarazzanti e insulti gratuiti, come se tutto fosse programmato,
uscirono in
contemporanea dai camerini e si voltarono l’uno verso
l’altro. Servirono circa
cinque secondi per studiarsi dalla testa ai piedi, dopodiché
scoppiarono a
ridere fragorosamente, piegandosi in due e cercando di trattenere le
lacrime.
«Sembri un paggetto, con quel vestito!»
commentò Duncan, indicandolo.
«E tu, con quella pelle cadaverica e
quelle occhiaie profonde tre centimetri?» ribatté
John, cercando di darsi un
contegno. «Potresti benissimo essere uno della famiglia
Addams».
«Siete fantastici» commentò Cherry,
spingendoli davanti ad un grosso specchio rettangolare, posto sulla
parete a
loro di fronte. «Ecco, vedete se vi piacciono e ditemi cosa
ne pensate».
Duncan si scrutò nello specchio e non
poté fare a meno di spalancare gli occhi. Quello non era
decisamente lui.
Lì riflesso, vi era un uomo a tutti gli
effetti, i tratti del viso ben accentuati e una barba incolta. A
completare il
tutto, la suite elegante che indossava lo faceva apparire
più maturo di quello
che era.
Era davvero passato così tanto tempo,
da quando era un adolescente senza grilli per la testa? Quello nello
specchio
era veramente lui, o solo qualcuno che gli somigliava?
Eppure non gli sembrava di essere
cresciuto - ed invecchiato tanto: sotto sotto, forse era ancora quel
ragazzo di
un tempo, strafottente e spensierato. Sembrava fosse ieri.
E
invece erano già sei anni dall’ultima stagione del
reality.
Mentre
era assorto nei suoi pensieri,
John si fissava orripilato, con la bocca semiaperta.
«Scherziamo? Non si addice per niente
al mio corpo, mi fa sembrare un pinguino!»
sbraitò, sbattendo i piedi a terra;
intanto la commessa fece un passo indietro, colta in flagrante dalla
sua
reazione.
«Beh, se vuoi ti prendo un altro
completo» balbettò quasi, sparendo dietro un alto
scaffale.
Non era mai stato vanitoso, né gli
importava di cosa indossava. Spesso gli piaceva far impazzire i
commessi, con i
suoi gusti strabici; era difficile da accontentare e aveva da ridire su
qualunque cosa, tanto da farsi lanciare mentalmente ogni maledizione
dal
personale - talvolta anche ad alta voce, come quando un negoziante,
siccome era
lì da ore e avrebbe dovuto chiudere venti minuti prima, gli
aveva cominciato ad
urlare contro le peggio bestemmie.
Inoltre, per quell’occasione ci teneva
ad essere perfettamente impeccabile. Un po’ perché
non voleva rimanere da solo
in città, senza nessuno da disturbare; un po’
perché il vestito era
dannatamente aderente in ogni punto e non voleva rimanere nudo nel bel
mezzo
della celebrazione - avrebbe potuto scandalizzare tante gente; e un
po’ anche
perché, se non avrebbe seguito alla lettera le istruzioni,
Courtney avrebbe
deliberatamente impedito che prendesse l’aereo. Non
l’avrebbe mai ammesso, ma
molto spesso quella donna le faceva paura.
E poi aveva bisogno di una vacanza e di
ferie non meritate dal suo
noiosissimo lavoro - in quel periodo, era un impiegato della biblioteca
della
città; possiamo considerarlo un paradosso, dato che lui odia il silenzio -, era da tanto che non
se ne prendeva - circa tre
settimane, tempo relativamente lungo.
Duncan, capendo che la faccenda avrebbe
avuto lunga durata, con uno sbuffo e le mani dietro la schiena, prese a
camminare senza una meta precisa. Andava dove le sue gambe lo portavano
e,
misteriosamente, si ritrovò nel reparto femminile, a
camminare tra vestiti
casual e lunghi abiti da sera con scarso interesse.
Ad un certo punto si bloccò di scatto,
sorpreso per la seconda volta nell’arco di una manciata di
minuti: davanti a
lui, intenta ad aggiustarsi al meglio l’abito di fronte ad
uno specchio, vi era
una Courtney elegante quanto mai. Il vestito era di un rosso acceso,
con le
maniche lunghe di pizzo, una scollatura ad U sulla schiena e la gonna
toccava alle
ginocchia.
«Wow» si lasciò sfuggire, mentre lei si
girò di scatto nella sua direzione. «Sei
semplicemente… wow».
Era rimasto completamente senza parole,
incapace di formulare una frase di senso compiuto. La bellezza davanti
ai suoi
occhi era esageratamente tanta ed era come se si sentisse impotente,
davanti ad
essa.
«Anche tu sei… stai veramente alla
grande» mormorò con un imbarazzo che non le
apparteneva, stampandosi in faccia
uno dei sorrisi più belli e sinceri che le aveva visto fare.
Vederla con quelle vesti eleganti, gli
faceva capire di quanto anche lei sia cresciuta e maturata negli ultimi
anni,
senza che se ne fosse reso conto. Dopotutto, il carattere era ancora
molto
simile a quello adolescenziale e neanche i modi di fare erano cambiati
più di tanto.
Forse averla avuta sotto gli occhi per
tutto quel tempo gli aveva giocato un brutto scherzo, forse
l’aveva vista
diventare adulta gradualmente, senza darvi conto più di
tanto. Probabilmente,
se l’avrebbe rivista in quel momento, dopo ben sei anni, non
l’avrebbe
riconosciuta: i capelli leggermente più lunghi, delle
rughette attorno agli
occhi e dei tratti del viso più marcati, caratteristici di
un adulto.
Solo in quel momento si rese conto di
quanto la sua principessa fosse
cresciuta… e sì, anche diventata più
bella.
Mentre era impegnato a boccheggiare
come un idiota, lei prese la parola, interrompendo
quell’imbarazzante silenzio:
«Allora prendo questo» sentenziò,
ritornando al suo solito tono autoritario.
«Quanto vi manca? Siamo leggermente in ritardo con la tabella
di marcia».
«Io ho fatto, solo il tempo di
rivestirmi» rispose, risvegliandosi da quella specie di coma,
scuotendo la
testa. «John è ancora in alto mare, ma immagino
che non ci vorranno più di
altri cinque minuti».
•
• •
Ore quattro
e un quarto.
E si sbagliava di grosso,
eccome!
John non ci mise
cinque minuti per
scegliere l’abito, bensì due ore e mezza
abbonanti. Dopo aver provato ogni
singolo capo del negozio, indovinate per quale abito optò?
Esatto, il primo che
aveva indossato.
In seguito ad una
sfuriata di Courtney,
in preda ad un attacco isterico, durata per tutto il tragitto in
macchina, in
cui urlò le peggio cose a John - il quale, naturalmente non
aveva ascoltato una
parola; Duncan, invece, aveva passato tutto il viaggio a ridere e a
guadagnarsi, di conseguenza, occhiate di fuoco -, si erano fermati in
una
piccola e squallida trattoria, il cui proprietario era un amico del
nostro
Duncan, per rifocillarsi.
E poi
un’altra volta in auto, alla
ricerca del regalo di nozze perfetto.
«Quelle
polpette mi sono rimaste tutte
sullo stomaco» commentò John con una mano sulla
pancia, sdraiato sui sedili
posteriori. «Naturalmente i posti squallidi tutti tu li
becchi!».
«La prossima
volta fermati ad un
ristorante di lusso, dato che hai un palato fine» gli rispose
con tono Duncan,
seduto sul sedile del passeggere, leggerissimamente adirato.
«Sembrate
due bambini» dichiarò
Courtney, al volante, ruotando gli occhi. «Mentre voi due
eravate impegnati a
litigare e a tirarvi pezzi di melone in faccia, io ho fatto
sì che Gwen
aggiungesse un posto anche per John - a proposito, non appena saremo a
Vancouver, ti darà l’invito -, ho prenotato il
volo per domani, per le tre meno
un quarto del pomeriggio, e l’hotel».
«Perché
partiamo domani, se il
matrimonio è sabato?» domandò John,
appoggiando la testa al finestrino. «Hai
paura di arrivare troppo tardi?»
«Gli altri
voli erano tutti pieni e gli
unici disponibili erano - appunto - per domani e per
domenica» rispose,
guardandolo attraverso lo specchietto retrovisore. Pochi istanti dopo,
aggiunse
con un grido: «E togli i piedi da lì, mi sporchi
tutto il sedile».
Sobbalzando e col
cuore che batteva a
mille, si mise a sedere come una persona civile.
«Credo di
aver perso l’udito» constatò
Duncan, massaggiandosi le orecchie. «E fa attenzione
al-».
Non poté
finire la frase, che quella
frenò pericolosamente davanti ad un semaforo che
diventò all’istante rosso,
mentre lui fu sbalzato in avanti e sferrò un colpo con il
mento all’airbag.
Per dei buoni cinque
minuti, non si sentirono
altro che pesanti bestemmie, che Courtney fece finta di non sentire,
accompagnate dalla risata malefica di John, che godeva come non mai.
«Siamo
arrivati» annunciò la ragazza,
dopo un quarto d’ora di guida, parcheggiando davanti ad una
piccola gioielleria.
«Mi sono fatta inviare la lista di nozze per e-mail, so
esattamente cosa
comprare».
Senza aggiungere
altro, entrarono nel
negozio. Non appena il campanellino apposto sulla porta
squillò, si
materializzò dietro un bancone un vecchietto minuto e calvo,
con dei grossi
occhiali rettangolari sul volto.
«Oh, prego
giovanotti, accomodatevi
pure» li accolse calorosamente, col tono di chi non vedeva
clienti da secoli.
«Cosa vi serve? Una collana? Degli orecchini?» Si
voltò verso Duncan e aggiunse,
indicando con un cenno della testa l’unica femmina del
gruppetto. «Un anello
per la fidanzatina?»
«Niente di
tutto questo» lo interruppe
Courtney, stranamente a disagio. «Cerchiamo un regalo per il
matrimonio della
mia migliore amica».
«Oh, allora
questo è il posto che fa
per voi» disse quello e, con un cenno della testa, aggiunse
in direzione della
donna: «Se vuole seguirmi».
Prima che i due
scomparirono dietro il
bancone, lasciando i due ragazzi indietro, Courtney lanciò
loro un’occhiata
come per dire: «Se fate danni, vi assicuro che non vedrete la
luce di domani».
Un primo momento,
rimasero entrambi
immobili come pali, senza sapere cosa fare e tentati, per un attimo, di
seguire
il negoziante e di esprimere anche loro pareri sul regalo di nozze.
Dopotutto,
avrebbero dovuto comunque sborsare un terzo dell’importo a
testa.
Dopo questi attimi di
esitazioni, John
decise di cominciare ad aggirarsi pericolosamente tra le vetrine che
esponevano
articoli di inestimabile valore.
Dico pericolosamente
perché egli era
conosciuto per non essere esattamente delicato ed aggraziato come una
ballerina; al contrario, era irruento e devastante come un uragano.
Spesso,
infatti, quando si trovava in qualche negozio, distruggeva qualunque
cosa gli
capitasse sotto tiro, vedendosi costretto a rimborsare ogni suo danno.
Duncan che,
naturalmente, sapeva bene
queste cose, cominciò a stargli alle calcagna, pronto ad
intervenire in caso di
qualche passo falso. Non intendeva cacciare una cifra esorbitante di
dollari
per danni da lui non commessi, né sorbirsi una delle
più lunghe ramanzine della
storia dell’umanità.
Dopo qualche minuto di
pedinamento,
John esordì con uno sbuffo: «Non serve che mi fai
da balia, non sono così
maldestro da demolire l’intera gioielleria» e,
detto questo, si poggiò alla
vetrinetta alla sua destra.
Non l’avesse
mai fatto!
Essa, evidentemente in
equilibrio
precario, cominciò a traballare avanti e indietro, fino a
che non cadde
verticalmente sul suolo. Poco prima che toccasse terra, inoltre, gli
sportelli di
vetro si aprirono e tutti gli oggetti in porcellana al loro interno si
infransero in mille pezzettini. Il tutto accadde in meno di tre secondi
e
nessuno riuscì ad intervenire in tempo.
Il fragore si
propagandò fino a dietro
il bancone in modo talmente assordante che, in un quarto di secondo, il
vecchietto e Courtney già si erano precipitati nella stanza.
Fu in quel preciso
istante che John
cominciò a fare sfoggio della sua conoscenza in materia di
Santi, pregandoli
dal primo all’ultimo.
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Ore
cinque e sette.
Vi
risparmierò quella che, come Duncan
aveva previsto, fu una ramanzina storica.
Non appena vide quel disastro, Courtney
cominciò ad urlare contro le due povere vittime, dicendo che
erano peggio dei
lattanti, che non poteva lasciarli soli un attimo perché
combinavano casini,
che erano completamente inaffidabili. Inoltre, aggiunse anche che
avrebbero
dovuto ripagare fino all’ultimo centesimo tutta la merce
polverizzata -
qualcosa come una cifra di tanti zero, che quasi li fece piangere per
la
disperazione.
Il tutto davanti a dei Duncan e John
con uno sguardo misto tra il rassegnato e il terrorizzato, e un
vecchietto
rimasto a dir poco scioccato e attonito.
Dopodiché si era limitata a pagare il
regalo di nozze - una splendida cornice in argento - e a scortare i due
a casa,
senza degnarli di un’altra parola.
I ragazzi avevano provato più volte ad
aprire bocca, a cercare di farsi perdonare, ma lei li
liquidò ogni volta con un
gesto della mano. Era veramente nera.
Passarono tutto il resto del viaggio in
religioso silenzio, fino a quando non arrivarono sotto il palazzo dei
due.
John scese immediatamente dall’auto,
salutandola con un secco «ciao», intenzionato a
prendere la TV per primo;
Duncan, invece, indugiò un attimo.
«Allora, ci sentiamo stasera» disse,
facendo qualcosa di completamente inaspettato: le depositò
un leggero bacio
sulla guancia.
Prima che lei potesse fare qualsiasi
cosa, era già sotto il porticato e ammiccava in sua
direzione.
Per un secondo indugiò, sfiorandosi la
guancia con la punta delle dita, senza nascondere un alone improvviso
di
sorpresa e, sì, di euforia. Ma, dopo pochissimi attimi, si
riprese.
Sei
patetica, urlò
una vocina nella
sua testa.
Senza degnarlo di un altro sguardo,
schiacciò sull’acceleratore e la sua macchina
sparì per le trafficate vie di
Toronto.
Hayle’s wall
Lo
so, ci ho messo
una vita ad aggiornare. Con le molteplici verifiche ed interrogazioni,
non ho
avuto un secondo di pace, benché questo capitolo fosse
concluso già da un po’.
Ma ora sono qui, e vi
ringrazio per le due recensioni. Sono poche, certo, ma non
m’immaginavo che i
vecchi recensori tornassero - soprattutto perché il fandom
è morto -, né che mi
notassero tutti i nuovi autori.
Vi annuncio che nel
prossimo capitolo entrerà in scena il fuso orario.
Perché Vancouver è indietro
di - se non sbaglio - tre ore, rispetto a Toronto, quindi, se leggete
cose
strane, è per questo, don’t
worry.
Dato questo annuncio,
spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Ho cercato di mettere
equivoci
complicazioni e qualche parte più sentimentale e un poco
introspettiva. Che
volete farci, io amo l’introspezione!
Mi auguro di
aggiornare una volta alla settimana - o sabato, o domenica - con
proverbiale
puntualità. Un grosso bacio e ci si vede prestissimo.
Hayle xx