Fumetti/Cartoni americani > A tutto reality/Total Drama
Segui la storia  |       
Autore: smarsties    31/10/2015    3 recensioni
Sequel de «La storia inversa: ovvero, come distruggersi in sette giorni»
Sei anni dopo gli eventi del prequel, mentre tutti sono impegnati a fare i conti col mondo degli adulti, Trent e Gwen decidono di compiere il grande passo, ma alcuni inviti vengono recapitati all'ultimo momento.
Ciò innescherà una folle corsa contro il tempo prima, e una serie di esilaranti imprevisti poi, fra regali di nozze, fedi smarrite e antichi sentimenti mai scomparsi, sino al finale più dolce che possa esistere.
• • •
Dal settimo capitolo:
Davanti a lei vi era Duncan, spettinato e senza maglia. Cercò di sorvolare su quell’ultimo dettaglio.
«Almeno, principessa, abbi la decenza di metterti qualcosa addosso la prossima volta» la derise sghignazzando. «Ti sembra il caso di venire ad aprire conciata così? C’è il rischio che ti salti addosso» aggiunse con un occhiolino, accennando al suo pigiama - che comprendeva un top e un pantaloncino entrambi grigi.
Con una vaga nota di imbarazzo, replicò acidamente: «Hai forse perso la maglietta? In tal caso, mi dispiace deluderti, ma non è qui».
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Nuovo Personaggio, Trent | Coppie: Duncan/Courtney, Trent/Gwen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'La storia inversa: quando tutto va come non dovrebbe'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

La storia inversa

«Fiori d’arancio e improbabili complicazioni»

 

 


 

Lunedì«

 

Toronto, Ontario, Canada.
14 luglio, ore otto e trenta del mattino.

Quella poteva essere una giornata perfetta, per Duncan.
Era il suo giorno libero, il che implicava il poter rimanere a letto fino a mezzogiorno. Dopodiché avrebbe ordinato una pizza, guardato un bel film splatter in televisione - magari con un amico - e infine sarebbe andato a prendere Courtney al suo ufficio, organizzando un piano che potesse metterla il più possibile in imbarazzo davanti ai suoi colleghi. Certo, probabilmente non gli avrebbe parlato per una settimana - anche due, nel peggiore dei casi -, ma ne valeva la pena.
Poteva essere, appunto. Perché in realtà non la fu, nemmeno un poco.
Innanzitutto, quella mattina qualche imbecille si era attaccato al campanello di casa, minacciando di rimanere lì fuori fino a quando non avrebbe aperto, rovinandogli il sonno.
E, una volta sveglio, realizzò quello che era successo la sera prima: John aveva fatto irruzione nel suo appartamento, rovinato la sua festa e colonizzato la sua camera da letto. Ragion per cui, si ritrovava accovacciato lungo il corridoio, con la testa poggiata al muro e gli stessi vestiti del giorno precedente, mentre il suo nuovo coinquilino dormiva beatamente nel suo comodo letto.
E intanto il campanello continuava a suonare senza alcuna interruzione, senza nessuna pietà per le sue orecchie, istigandolo a buttare una bestemmia così grossa da far tremare i vetri delle finestre.
Insomma, chi era il mentecatto che veniva a suonare alle otto e mezza di un normalissimo lunedì mattina di metà estate? Non aveva niente da fare tipo, che so, dormire?
«Sta’ calmo, arrivo!» gridò attraverso il corridoio con tutto il fiato che aveva in gola, rialzandosi a fatica da terra e trascinandosi verso l’ingresso.
Una volta aperta la porta, non ebbe nemmeno il tempo di vedere chi fosse e di lanciargli contro le peggio maledizioni, perché costui - o costei - si era precipitato nel suo salotto di corsa.
«Innanzitutto, un buongiorno sarebbe quantomeno gradito, principessa» disse, chiudendosi la porta alle spalle e voltandosi lentamente.
Naturalmente, aveva già capito di chi si trattasse dal modo in cui l’aveva scansato: davanti a lui vi era una Courtney pettinata, vestita in modo impeccabile e fresca come una rosa sin dal primo mattino. Aveva la sua borsa a tracolla e si rigirava tra le mani le chiavi della sua auto. A giudicare dall’espressione che aveva in volto, era in preda al nervosismo - come la maggior parte delle volte.
«Cosa ci fai ancora conciato in quella maniera?! Sei impresentabile!» sbraitò lei, ignorando completamente la sua precedente frase. «Perlomeno, quando vieni ad aprire la porta, potresti avere un aspetto quantomeno decente… e dovresti anche lavarti i denti».
Effettivamente, per strada avrebbero potuto tranquillamente scambiarlo per un barbone: i capelli spettinati, due enormi occhiaie, un’alitosi da spavento e la barba sfatta. Almeno, punto a suo favore, per quanto sporchi e fradici di sudore fossero, aveva dei vestiti addosso. Solitamente, infatti, si presentava con una canottiera bianca incrostata di sugo o, peggio ancora, in boxer.
«Mi sono appena svegliato e non ho avuto il tempo di pensare al mio aspetto esteriore, anche perché avevi deciso di non mollare quel maledetto campanello» si giustificò. «Ecco perché sono “ancora conciato in quella maniera”».
«Allora farai meglio a vestirti perché abbiamo un sacco di cose da fare, questa mattina» gli rispose, accomodandosi aggraziatamente sul divano, scansando varie lattine di birra e briciole varie e poggiando la borsa accanto a lei.
Ci mise un po’ ad elaborare la frase - erano pur sempre le otto di mattina, dannazione! - ed un’unica domanda gli affiorò in mente: che cosa dovevano fare di così tanto importante, in un ordinario lunedì mattina?
Prima che potesse formulare il quesito direttamente, qualcuno fece il suo trionfale ingresso in salotto a gran passi e si piazzò davanti al televisore. Aveva la faccia ricoperta di schiuma, teneva in una mano uno spazzolino e nell’altro una lametta e tutto ciò che indossava era un semplice asciugamano attorno alla vita.
«Okay, si può sapere chi è il mentecatto che si era attaccato al campanello di prima mattina e mi ha fatto tagliare la faccia con questo maledettissimo rasoio da due soldi?!» annunciò, con uno sguardo accigliato in volto. «Se lo becco io- oh, ciao Courtney».
Adesso, l’espressione sul suo volto era di puro terrore.
«John» ricambiò lei il saluto, facendo un cenno col capo.
«Quindi eri tu che-»
«Già» lo interruppe subito, con tono piatto.
«Io non le pensavo veramente tutte quelle cose».
«Lo spero».
Duncan, impegnato a sghignazzare, non si accorse subito con cosa il suo coinquilino si fosse presentato lì. Si era già sistemato per il meglio, insomma.
«Scusa se ti interrompo,» iniziò, «ma ti stai facendo la barba con la mia lametta - che, tanto per la cronaca, non è da due soldi -, ti sei lavato i denti col mio spazzolino e quello che hai intorno alla vita è il mio asciugamano».
La frase avrebbe dovuto suonare come una domanda, ma venne fuori come una fredda affermazione.
«Già, non avevo voglia di disfare i bagagli. Troppa fatica» gli rispose, facendosi spazio sul divano, prese dal tavolino il suo portatile e lo accese, poggiandoselo sulle gambe.
Evitò anche di commentare, non ne aveva la voglia… e, ad ogni modo, non l’avrebbe mai ascoltato. Ormai aveva perso ogni speranza verso quell’individuo da un sacco di tempo.
Così decise di sedersi sul bracciolo del divano e di riprendere il discorso lasciato in precedenza: «Cos’è che, di preciso, dovremmo fare tu ed io insieme questa mattina?» chiese, guardando il suo profilo.
«Sapevi del matrimonio di Gwen e Trent, immagino» rispose, senza guardarlo.
Fece per un secondo mente locale. Si ricordava di quando gli era arrivato quell’invito, mesi prima: all’inizio era rimasto incredulo, poi non poté fare a meno che essere felice per la sua amica, nonché ex ragazza. La chiamò anche per congratularsi direttamente - e ricordare anche un po’ di vecchi tempi.
«Naturalmente, e anche da parecchio tempo. E con questo?»
Finalmente si voltò in sua direzione: «Sai che il matrimonio è questo sabato, vero?» chiese nuovamente, alzando un sopracciglio. Evidentemente, conosceva già la risposta.
«Impossibile, l’ho segnato sul calendario. Il matrimonio è,» e lanciò uno sguardo alla parete di fronte, spalancando gli occhi, «questo sabato» concluse, con un mormorio. «E io non ho il vestito. Né un regalo decente».
Lei incrociò le braccia al petto, soddisfatta. Aveva ragione, come al solito.
«Un momento,» li interruppe John, alzando lo sguardo dal computer, «perché Gwen e Trent si sposano e non mi hanno invitato?»
«Perché noi siamo vip e tu sei un povero plebeo» scherzò Duncan, anche se la battuta non fece ridere nessuno. «Perché a malapena ti conoscono, razza di scimmia decerebrata!»
Prima che potesse ribattere, scatenando così una rissa, Courtney prese la parola: «Mentre io e questa sottospecie di uomo,» e qui indicò Duncan, «andremo a fare spese - perché il mio invito è misteriosamente arrivato ieri e non ho avuto tempo -, te ne starai a casa, senza disturbare il vicinato e senza demolire l’intero appartamento».
All’apparenza sembrava un’ottima idea, ma c’era un punto che non andava: Duncan non avrebbe mai e poi mai lasciato John da solo per quelle poche ore, figuriamoci se l’avrebbe fatto per un paio di giorni - specie se si trovava a più di duemila chilometri da casa!
«Dobbiamo rivedere il piano: io non permetterò in nessun modo che lui rimanga qui, completamente da solo» obiettò, scattando in piedi. «Quindi le soluzioni sono due: o fa le valige e si trova un altro alloggio, oppure viene con noi a Vancouver. Io, personalmente, scelgo la prima opzione».
«E io la seconda» rispose il bruno. «Voglio venire anch’io al matrimonio».
Courtney non ci pensò nemmeno per un secondo: «Dimenticatelo, non sei stato invitato!»
«E quindi, addio, quella è la porta» aggiunse Duncan con un sorriso smagliante, indicando l’uscita.
Ma John lo ignorò completamente: andò, invece, di fronte all’amica e si mise in ginocchio con le mani giunte.
«Ti prego!» esclamò, allungando esageratamente la “e”.
Lei distolse lo sguardo, e fissò un punto indefinito alla sua destra. Guardarlo significava cedere seduta stante: era stranamente bravo a far sentire le persone in colpa con una semplice espressione facciale.

Ce l’avrebbe fatta, non era una debole.
Purtroppo resistette per circa una trentina di secondi. Per un fatale scherzo del destino, non poté fare a meno di incrociare i suoi occhioni color nocciola e il labbruccio tremolante. E a quel punto, fallì miseramente.
«D’accordo, verrai, ma solo perché mi fa pena vederti solo come un cane» sospirò; nel frattempo, John faceva i salti di gioia, ringraziandola in tutte le lingue che conosceva, e Duncan imprecò sonoramente, perché sapeva che l’avrebbe avuto in mezzo ai piedi anche durante quella vacanza. «Ora andate immediatamente a vestirvi, non ho tempo da perdere con voi».
Si prospettava una lunghissima giornata.

 
• • •

 
Ore nove e quarantadue.

Circa un’ora dopo si ritrovavano a camminare per le sontuose strade del centro di Toronto, con Courtney che procedeva in testa al terzetto con passo veloce e due affannati John e Duncan che cercavano di starle dietro.
Continuava ad impartire ordini da quando avevano lasciato casa, circa venti minuti prima, e ogni tanto dava un’occhiata al suo telefono, per controllare la lista che si era preparata.
«Ripetiamo ancora una volta,» annunciò, accingendosi a rileggere il tutto per la terza volta, «questa mattina ci recheremo a comprare uno smoking decente per tutti e due e un abito che possa adattarsi al mio ruolo di testimone». Indugiò per un attimo nell’ultima parte, come a voler sottolineare quanto tenesse a quel compito.
«Domanda» esordì Duncan, alzando l’indice e fermandosi un secondo per riprendere fiato. «È proprio necessario il vestito elegante? Sai, non metto uno smoking dal lontano…», e qui si fermò a riflettere, grattandosi la testa, «non ho mai messo uno smoking!»
Tra un respiro affannoso e l’altro, si udì John dire qualcosa come “sciattone”.
«Scordatelo, non ti permetterò di farmi fare una brutta figura» rispose, voltandosi appena ma senza smettere di camminare. «Poi, dopo una velocissima pausa pranzo, andremo a comprare un adeguato regalo di nozze. Tutto ciò dovrà avvenire in meno tempo possibile, dato che io devo finire il mio lavoro».
«Ehm,» cominciò John con audacia, «sai che il matrimonio è fra più di cinque giorni, vero? Perché affrettarsi tanto, mi chiedo!»
Ma non ricevette risposta, perché quella - forse non aveva sentito, forse l’aveva volutamente ignorato - continuò a procedere per la sua via, senza degnarlo di un piccolo sguardo.
Alla fine di quel lungo viale, svoltò a destra e si fermò davanti ad una vetrina, mentre i due uomini si appoggiarono ad un palo e cercarono di fermare il fiatone. Lei, invece, era perfettamente ritta e non mostrava segni di fatica, come se fosse abituata a fare sempre tutto di fretta.
«Ci siamo» annunciò loro, fissando i capi esposti nella vetrina.
Si trattava di un negozio di abiti eleganti abbastanza modesto, un outfit, senza prezzi esageratamente alti né era troppo squallido.
Prima che potessero accorgersene, Courtney era già entrata nel negozio e aveva salutato la cassiera esponendole ciò che le serviva. Cinque secondi dopo, questa la portò via, lasciandoli completamente soli e spaesati.
«Fantastico» commentò John. «E ora che si fa?»
Non ebbero il tempo di pensare a qualche piano o brillante idea che una ragazza biondissima, slanciata e dalle lunghe gambe si materializzò davanti a loro, con un sorriso a trentadue denti stampato in volto.
«Salve, avete bisogno di aiuto?» chiese con tono gentile, fissando prima uno e poi l’altro.
Duncan mise su la sua migliore espressione da rimorchiatore e rispose con il tono più seducente possibile: «Non è che per caso si potrebbe avere il numero di questa bella commessa? Sarebbe un peccato sprecare tanta bellezza senza nemmeno aver provato ad uscirci assieme» disse, ammiccando.
Quella sorrise e cercò di nascondere il lieve rossore sulle gote.
«Nessuno mi aveva mai detto una cosa del genere» mormorò, guardando altrove per l’imbarazzo.
La situazione stava diventando fin troppo scomoda e fastidiosa. Chiunque avrebbe vissuto quella situazione come terzo incomodo, sarebbe stato maledettamente a disagio. Così John, evidentemente stufo di quel banale flirt, da bravo salvatore della patria, compì un gesto eroico: fece accidentalmente cadere il suo piede sopra quello di Duncan, che emise un grido così acuto che farebbe invidia ad un soprano.
Mentre quello lo riempiva di coloriti insulti a malapena borbottati, prese abilmente la parola: «Perdona questo povero essere, è soltanto un cretino. Siccome la sergente che entrata qui con noi ci sbrana vivi, se non ci presentiamo in modo impeccabile al matrimonio della sua migliore amica, ci servirebbe qualcosa di quantomeno presentabile. Ora, capisco che trovare un vestito che regga il confronto con la mia fantastica persona,» e qui Duncan fece di tutto per non scoppiare a ridere, beccandosi un’occhiataccia, «sia difficile, però ti chiedo di fare un piccolo sforzo».
La ragazza, ridacchiando, fece gesto di seguirli: «Potete cominciare ad accomodarvi nei camerini, mentre io cercherò qualcosa di adeguato all’occasione».
Per quanto ci fosse soltanto una ragazza nel suo cuore, non si può certo pretendere che il nostro caro Duncan abbandoni le sue vecchie abitudini dalla sera alla mattina: in sei anni, più che altro per passare il tempo, aveva continuato a sedurre giovani donzelle con lo scopo di passare qualche nottata indimenticabile e, soprattutto, di far ingelosire la sua preda.
A Courtney, naturalmente, tutto questo non era sfuggito e, sebbene cercasse di mantenere un atteggiamento sobrio davanti a lui, non poteva negare che questo le desse profondamente fastidio. Non perché fosse innamorata - non sia mai! -, perché, facendo così, non le dimostrava affatto che a lei ci teneva.
Già, principalmente era questo il motivo per cui il nostro amico era ancora single. Ce ne sarebbero circa altri trecento novantaquattro(1), ma sarebbe troppo lungo e borioso elencarli tutti.
Nel frattempo la commessa, che avevano scoperto chiamarsi Cherry leggendo la targhetta appuntata al suo petto, aveva portato loro tre diversi completi a testa e, mentre si cambiavano, John diede il meglio di sé, esordendo con frasi del calibro «Non si abbottona la camicia!», oppure, venti volte più umiliante, «Questo mi sta stretto al cavallo».
Dopo due minuti buoni di lamentele, Duncan, al limite della sopportazione, con l’intento di farsi capire bene da chiunque gridò: «Non è colpa nostra se sei uno schifoso obeso e passi le tue giornate a poltrire, piuttosto che a sgobbare per portare a casa un misero stipendio!»
Non appena la disse, trovò che quella frase suonasse molto male per uno come lui. Certo, aveva un lavoro ben retribuito e non era un pigrone di prima categoria, ma non si trovava mica nella posizione di poter criticare, quando pochi anni addietro era nelle stesse condizioni!
«Ha parlato l’uomo vissuto!» rispose, irritato. «E poi questa non è trippa, è una cover per i miei addominali».
Dopo un altro paio di minuti di frasi imbarazzanti e insulti gratuiti, come se tutto fosse programmato, uscirono in contemporanea dai camerini e si voltarono l’uno verso l’altro. Servirono circa cinque secondi per studiarsi dalla testa ai piedi, dopodiché scoppiarono a ridere fragorosamente, piegandosi in due e cercando di trattenere le lacrime.
«Sembri un paggetto, con quel vestito!» commentò Duncan, indicandolo.
«E tu, con quella pelle cadaverica e quelle occhiaie profonde tre centimetri?» ribatté John, cercando di darsi un contegno. «Potresti benissimo essere uno della famiglia Addams».
«Siete fantastici» commentò Cherry, spingendoli davanti ad un grosso specchio rettangolare, posto sulla parete a loro di fronte. «Ecco, vedete se vi piacciono e ditemi cosa ne pensate».
Duncan si scrutò nello specchio e non poté fare a meno di spalancare gli occhi. Quello non era decisamente lui.
Lì riflesso, vi era un uomo a tutti gli effetti, i tratti del viso ben accentuati e una barba incolta. A completare il tutto, la suite elegante che indossava lo faceva apparire più maturo di quello che era.
Era davvero passato così tanto tempo, da quando era un adolescente senza grilli per la testa? Quello nello specchio era veramente lui, o solo qualcuno che gli somigliava?
Eppure non gli sembrava di essere cresciuto - ed invecchiato tanto: sotto sotto, forse era ancora quel ragazzo di un tempo, strafottente e spensierato. Sembrava fosse ieri.

E invece erano già sei anni dall’ultima stagione del reality.
Mentre era assorto nei suoi pensieri, John si fissava orripilato, con la bocca semiaperta.
«Scherziamo? Non si addice per niente al mio corpo, mi fa sembrare un pinguino!» sbraitò, sbattendo i piedi a terra; intanto la commessa fece un passo indietro, colta in flagrante dalla sua reazione.
«Beh, se vuoi ti prendo un altro completo» balbettò quasi, sparendo dietro un alto scaffale.
Non era mai stato vanitoso, né gli importava di cosa indossava. Spesso gli piaceva far impazzire i commessi, con i suoi gusti strabici; era difficile da accontentare e aveva da ridire su qualunque cosa, tanto da farsi lanciare mentalmente ogni maledizione dal personale - talvolta anche ad alta voce, come quando un negoziante, siccome era lì da ore e avrebbe dovuto chiudere venti minuti prima, gli aveva cominciato ad urlare contro le peggio bestemmie.
Inoltre, per quell’occasione ci teneva ad essere perfettamente impeccabile. Un po’ perché non voleva rimanere da solo in città, senza nessuno da disturbare; un po’ perché il vestito era dannatamente aderente in ogni punto e non voleva rimanere nudo nel bel mezzo della celebrazione - avrebbe potuto scandalizzare tante gente; e un po’ anche perché, se non avrebbe seguito alla lettera le istruzioni, Courtney avrebbe deliberatamente impedito che prendesse l’aereo. Non l’avrebbe mai ammesso, ma molto spesso quella donna le faceva paura.
E poi aveva bisogno di una vacanza e di ferie non meritate dal suo noiosissimo lavoro - in quel periodo, era un impiegato della biblioteca della città; possiamo considerarlo un paradosso, dato che lui odia il silenzio -, era da tanto che non se ne prendeva - circa tre settimane, tempo relativamente lungo.
Duncan, capendo che la faccenda avrebbe avuto lunga durata, con uno sbuffo e le mani dietro la schiena, prese a camminare senza una meta precisa. Andava dove le sue gambe lo portavano e, misteriosamente, si ritrovò nel reparto femminile, a camminare tra vestiti casual e lunghi abiti da sera con scarso interesse.
Ad un certo punto si bloccò di scatto, sorpreso per la seconda volta nell’arco di una manciata di minuti: davanti a lui, intenta ad aggiustarsi al meglio l’abito di fronte ad uno specchio, vi era una Courtney elegante quanto mai. Il vestito era di un rosso acceso, con le maniche lunghe di pizzo, una scollatura ad U sulla schiena e la gonna toccava alle ginocchia.
«Wow» si lasciò sfuggire, mentre lei si girò di scatto nella sua direzione. «Sei semplicemente… wow».
Era rimasto completamente senza parole, incapace di formulare una frase di senso compiuto. La bellezza davanti ai suoi occhi era esageratamente tanta ed era come se si sentisse impotente, davanti ad essa.
«Anche tu sei… stai veramente alla grande» mormorò con un imbarazzo che non le apparteneva, stampandosi in faccia uno dei sorrisi più belli e sinceri che le aveva visto fare.
Vederla con quelle vesti eleganti, gli faceva capire di quanto anche lei sia cresciuta e maturata negli ultimi anni, senza che se ne fosse reso conto. Dopotutto, il carattere era ancora molto simile a quello adolescenziale e neanche i modi di fare erano cambiati più di tanto.
Forse averla avuta sotto gli occhi per tutto quel tempo gli aveva giocato un brutto scherzo, forse l’aveva vista diventare adulta gradualmente, senza darvi conto più di tanto. Probabilmente, se l’avrebbe rivista in quel momento, dopo ben sei anni, non l’avrebbe riconosciuta: i capelli leggermente più lunghi, delle rughette attorno agli occhi e dei tratti del viso più marcati, caratteristici di un adulto.
Solo in quel momento si rese conto di quanto la sua principessa fosse cresciuta… e sì, anche diventata più bella.
Mentre era impegnato a boccheggiare come un idiota, lei prese la parola, interrompendo quell’imbarazzante silenzio: «Allora prendo questo» sentenziò, ritornando al suo solito tono autoritario. «Quanto vi manca? Siamo leggermente in ritardo con la tabella di marcia».
«Io ho fatto, solo il tempo di rivestirmi» rispose, risvegliandosi da quella specie di coma, scuotendo la testa. «John è ancora in alto mare, ma immagino che non ci vorranno più di altri cinque minuti».

 
• • •

 
Ore quattro e un quarto.
E si sbagliava di grosso, eccome!
John non ci mise cinque minuti per scegliere l’abito, bensì due ore e mezza abbonanti. Dopo aver provato ogni singolo capo del negozio, indovinate per quale abito optò? Esatto, il primo che aveva indossato.
In seguito ad una sfuriata di Courtney, in preda ad un attacco isterico, durata per tutto il tragitto in macchina, in cui urlò le peggio cose a John - il quale, naturalmente non aveva ascoltato una parola; Duncan, invece, aveva passato tutto il viaggio a ridere e a guadagnarsi, di conseguenza, occhiate di fuoco -, si erano fermati in una piccola e squallida trattoria, il cui proprietario era un amico del nostro Duncan, per rifocillarsi.
E poi un’altra volta in auto, alla ricerca del regalo di nozze perfetto.
«Quelle polpette mi sono rimaste tutte sullo stomaco» commentò John con una mano sulla pancia, sdraiato sui sedili posteriori. «Naturalmente i posti squallidi tutti tu li becchi!».
«La prossima volta fermati ad un ristorante di lusso, dato che hai un palato fine» gli rispose con tono Duncan, seduto sul sedile del passeggere, leggerissimamente adirato.
«Sembrate due bambini» dichiarò Courtney, al volante, ruotando gli occhi. «Mentre voi due eravate impegnati a litigare e a tirarvi pezzi di melone in faccia, io ho fatto sì che Gwen aggiungesse un posto anche per John - a proposito, non appena saremo a Vancouver, ti darà l’invito -, ho prenotato il volo per domani, per le tre meno un quarto del pomeriggio, e l’hotel».
«Perché partiamo domani, se il matrimonio è sabato?» domandò John, appoggiando la testa al finestrino. «Hai paura di arrivare troppo tardi?»
«Gli altri voli erano tutti pieni e gli unici disponibili erano - appunto - per domani e per domenica» rispose, guardandolo attraverso lo specchietto retrovisore. Pochi istanti dopo, aggiunse con un grido: «E togli i piedi da lì, mi sporchi tutto il sedile».
Sobbalzando e col cuore che batteva a mille, si mise a sedere come una persona civile.
«Credo di aver perso l’udito» constatò Duncan, massaggiandosi le orecchie. «E fa attenzione al-».
Non poté finire la frase, che quella frenò pericolosamente davanti ad un semaforo che diventò all’istante rosso, mentre lui fu sbalzato in avanti e sferrò un colpo con il mento all’airbag.
Per dei buoni cinque minuti, non si sentirono altro che pesanti bestemmie, che Courtney fece finta di non sentire, accompagnate dalla risata malefica di John, che godeva come non mai.
«Siamo arrivati» annunciò la ragazza, dopo un quarto d’ora di guida, parcheggiando davanti ad una piccola gioielleria. «Mi sono fatta inviare la lista di nozze per e-mail, so esattamente cosa comprare».
Senza aggiungere altro, entrarono nel negozio. Non appena il campanellino apposto sulla porta squillò, si materializzò dietro un bancone un vecchietto minuto e calvo, con dei grossi occhiali rettangolari sul volto.
«Oh, prego giovanotti, accomodatevi pure» li accolse calorosamente, col tono di chi non vedeva clienti da secoli. «Cosa vi serve? Una collana? Degli orecchini?» Si voltò verso Duncan e aggiunse, indicando con un cenno della testa l’unica femmina del gruppetto. «Un anello per la fidanzatina?»
«Niente di tutto questo» lo interruppe Courtney, stranamente a disagio. «Cerchiamo un regalo per il matrimonio della mia migliore amica».
«Oh, allora questo è il posto che fa per voi» disse quello e, con un cenno della testa, aggiunse in direzione della donna: «Se vuole seguirmi».
Prima che i due scomparirono dietro il bancone, lasciando i due ragazzi indietro, Courtney lanciò loro un’occhiata come per dire: «Se fate danni, vi assicuro che non vedrete la luce di domani».
Un primo momento, rimasero entrambi immobili come pali, senza sapere cosa fare e tentati, per un attimo, di seguire il negoziante e di esprimere anche loro pareri sul regalo di nozze. Dopotutto, avrebbero dovuto comunque sborsare un terzo dell’importo a testa.
Dopo questi attimi di esitazioni, John decise di cominciare ad aggirarsi pericolosamente tra le vetrine che esponevano articoli di inestimabile valore.
Dico pericolosamente perché egli era conosciuto per non essere esattamente delicato ed aggraziato come una ballerina; al contrario, era irruento e devastante come un uragano. Spesso, infatti, quando si trovava in qualche negozio, distruggeva qualunque cosa gli capitasse sotto tiro, vedendosi costretto a rimborsare ogni suo danno.
Duncan che, naturalmente, sapeva bene queste cose, cominciò a stargli alle calcagna, pronto ad intervenire in caso di qualche passo falso. Non intendeva cacciare una cifra esorbitante di dollari per danni da lui non commessi, né sorbirsi una delle più lunghe ramanzine della storia dell’umanità.
Dopo qualche minuto di pedinamento, John esordì con uno sbuffo: «Non serve che mi fai da balia, non sono così maldestro da demolire l’intera gioielleria» e, detto questo, si poggiò alla vetrinetta alla sua destra.
Non l’avesse mai fatto!
Essa, evidentemente in equilibrio precario, cominciò a traballare avanti e indietro, fino a che non cadde verticalmente sul suolo. Poco prima che toccasse terra, inoltre, gli sportelli di vetro si aprirono e tutti gli oggetti in porcellana al loro interno si infransero in mille pezzettini. Il tutto accadde in meno di tre secondi e nessuno riuscì ad intervenire in tempo.
Il fragore si propagandò fino a dietro il bancone in modo talmente assordante che, in un quarto di secondo, il vecchietto e Courtney già si erano precipitati nella stanza.
Fu in quel preciso istante che John cominciò a fare sfoggio della sua conoscenza in materia di Santi, pregandoli dal primo all’ultimo.

 
• • •

 
Ore cinque e sette.

Vi risparmierò quella che, come Duncan aveva previsto, fu una ramanzina storica.
Non appena vide quel disastro, Courtney cominciò ad urlare contro le due povere vittime, dicendo che erano peggio dei lattanti, che non poteva lasciarli soli un attimo perché combinavano casini, che erano completamente inaffidabili. Inoltre, aggiunse anche che avrebbero dovuto ripagare fino all’ultimo centesimo tutta la merce polverizzata - qualcosa come una cifra di tanti zero, che quasi li fece piangere per la disperazione.
Il tutto davanti a dei Duncan e John con uno sguardo misto tra il rassegnato e il terrorizzato, e un vecchietto rimasto a dir poco scioccato e attonito.
Dopodiché si era limitata a pagare il regalo di nozze - una splendida cornice in argento - e a scortare i due a casa, senza degnarli di un’altra parola.
I ragazzi avevano provato più volte ad aprire bocca, a cercare di farsi perdonare, ma lei li liquidò ogni volta con un gesto della mano. Era veramente nera.
Passarono tutto il resto del viaggio in religioso silenzio, fino a quando non arrivarono sotto il palazzo dei due.
John scese immediatamente dall’auto, salutandola con un secco «ciao», intenzionato a prendere la TV per primo; Duncan, invece, indugiò un attimo.
«Allora, ci sentiamo stasera» disse, facendo qualcosa di completamente inaspettato: le depositò un leggero bacio sulla guancia.
Prima che lei potesse fare qualsiasi cosa, era già sotto il porticato e ammiccava in sua direzione.
Per un secondo indugiò, sfiorandosi la guancia con la punta delle dita, senza nascondere un alone improvviso di sorpresa e, sì, di euforia. Ma, dopo pochissimi attimi, si riprese.

Sei patetica, urlò una vocina nella sua testa.
Senza degnarlo di un altro sguardo, schiacciò sull’acceleratore e la sua macchina sparì per le trafficate vie di Toronto.

 

 

 (1) Trecento novantaquattro: ovvio riferimento ad Harry Potter.

 

 

 

 

 

 

  

Hayle’s wall

Lo so, ci ho messo una vita ad aggiornare. Con le molteplici verifiche ed interrogazioni, non ho avuto un secondo di pace, benché questo capitolo fosse concluso già da un po’.
Ma ora sono qui, e vi ringrazio per le due recensioni. Sono poche, certo, ma non m’immaginavo che i vecchi recensori tornassero - soprattutto perché il fandom è morto -, né che mi notassero tutti i nuovi autori.
Vi annuncio che nel prossimo capitolo entrerà in scena il fuso orario. Perché Vancouver è indietro di - se non sbaglio - tre ore, rispetto a Toronto, quindi, se leggete cose strane, è per questo, don’t worry.
Dato questo annuncio, spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Ho cercato di mettere equivoci complicazioni e qualche parte più sentimentale e un poco introspettiva. Che volete farci, io amo l’introspezione!
Mi auguro di aggiornare una volta alla settimana - o sabato, o domenica - con proverbiale puntualità. Un grosso bacio e ci si vede prestissimo.

Hayle xx

  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fumetti/Cartoni americani > A tutto reality/Total Drama / Vai alla pagina dell'autore: smarsties