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Autore: Curleyswife3    31/10/2015    1 recensioni
Dal prologo: "Allora, Jamie” esclamò sorridendo Oliver “sei pronta per la notte più paurosa dell’anno?”.
Il vento errava gemendo attorno alla base terrestre come un’anima in pena e dalle grandi vetrate giungevano attutite le grida dell’oceano in tempesta.
“Già…” aggiunse Raita “la notte in cui cadono le barriere tra vivi e morti e i fantasmi si aggirano sulla Terra…”.
Una notte buia e tempestosa. Un'inquietante filastrocca. Un finale a sorpresa.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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FIVE LITTLE PUMPKINS
 
Marin!
Le parole senza suono attraversarono la stanza in penombra, facendo trasalire il pilota: non c’era nessun altro nell’alloggio insieme a lui - di questo era certo - eppure aveva distintamente udito una voce, una voce umana ma dal timbro strano, distorta come se per giungere fin lì avesse percorso distanze inimmaginabili. Forse sarebbe meglio dire che l’aveva sentita riecheggiare nei meandri oscuri del suo cuore e del suo cervello, più che materialmente ascoltata. 
Si guardò intorno nervosamente, quasi a sincerarsi una volta per tutte che non fosse stato uno scherzo di cattivo gusto e che non ci fosse  - acquattato nel buio della camera o magari dietro la porta – uno dei suoi compagni burloni deciso a fargli prendere un colpo, inscenando la visita di un fantasma nel bel mezzo della base militare BFS.
Accese la luce principale, che aveva inizialmente spento per concentrare l’illuminazione solo sul libro che aveva sulla scrivania, si alzò e, col cuore che gli martellava ancora furiosamente in mezzo al petto, attraversò l’alloggio da un capo all’altro percorrendo quei pochi metri quadrati con ansia e respiro affannoso.
Incapace di vincere un timore del quale non riusciva a spiegare l’origine, scrutò in ogni angolo: dietro le tende accuratamente chiuse, sotto la scrivania, nel cono d’ombra che s’insinuava tra la libreria e la porta d’ingresso…
Era consapevole dell’assurdità del gesto e del fatto che, se qualcuno l’avesse colto in un atteggiamento del genere, avrebbe potuto dire addio alla reputazione di soldato indomito e di razionale scienziato; ne era consapevole, eppure non riusciva a evitarlo.
Nessuno.
Decisamente, nella sua stanza tutto era come al solito: non c’era nulla che avrebbe dovuto turbarlo, ma nonostante ciò non riusciva a smettere di sentirsi stranamente inquieto, mentre un senso di oppressione gli gravava sul petto stringendolo come in  una morsa.
Esplorò ancora una volta con lo sguardo le familiari pareti, i mobili,  questa volta tutti immersi in una luce piena e rassicurante, e fece per abbassare finalmente gli occhi sulle pagine che aveva davanti, quando d’improvviso i pesanti tendaggi che oscuravano la vista della baia sottostante  si aprirono d’un tratto, mentre un forte colpo lo fece sobbalzare una seconda volta, strappandogli allo stesso tempo un gemito.
Dall’esterno giungevano attutiti i rumori del mare in burrasca e il ritmico ticchettio della pioggia sui vetri; il vento ululava e fischiava nell’oscurità della notte.
La sua attenzione venne attirata poi da un altro suono, questa volta soffocato, proveniente da un luogo che non riuscì a individuare: era come un bussare timido, appena accennato, o prodotto da mani incorporee. Così tenue che il pilota si convinse di essersi anche potuto ingannare e che, anzi, molto probabilmente si era trattato solo del frutto distorto della sua immaginazione sovreccitata.
Si ricordò di avere chiuso a chiave e senza alcuna spiegazione razionale si sentì immensamente rassicurato dalla cosa; tirò un respiro profondo e ancora una volta si alzò in piedi, tentando di  tranquillizzarsi.
Era sicuro di aver sentito la voce e di aver visto aperte le tende che prima si era preoccupato di tirare accuratamente, eppure quando volle verificare di nuovo la situazione non trovò niente di insolito né tanto meno di spaventoso: si sentiva accaldato ma, passandosi una mano tra i capelli, scoprì di avere la fronte imperlata di sudore gelido.
All’improvviso la luce che rischiarava la camera ondeggiò rabbuiandosi, l’aria divenne ghiacciata e il ragazzo udì il terribile ruggito del temporale che sembrò per un istante scuotere l’intero edificio dalle fondamenta.
“Marin”.
Ecco, l’aveva sentita di nuovo.
Ora non poteva più avere dubbi: era la medesima voce dal timbro metallico, stridente e spaventoso.
Istintivamente si voltò verso l’ingresso, da dove gli era sembrato che quel suono provenisse; col cuore in gola balzò verso la porta e la spalancò con forza.
Guardò fuori, ma davanti a lui si stendeva solo il corridoio buio e deserto. Uscì, richiudendo la porta dietro di sé, e fece qualche passo: non riusciva a spiegarsene la ragione, eppure tornare nel suo alloggio vuoto e silenzioso era diventato d’un tratto una cosa superiore alle sue forze.
D’improvviso anche restare da solo, chissà perché, gli faceva paura: evidentemente - masticò con rabbia un’imprecazione - era tutta colpa dei suoi amici e dei loro racconti sulla notte stregata di Halloween.
A passo veloce, quasi correndo senza rendersene conto, raggiunse l’alloggio di Oliver. Senza bussare, aprì la porta ed entrò.
Stranamente, la camera era silenziosa e quasi buia; solo dall’ampia finestra a oriente filtrava la luce incerta del cielo solcato da nubi temporalesche sospinte dal vento.
Chiamò il suo compagno, senza ottenere risposta.
Col cuore in tumulto, avanzò nell’oscurità guardandosi intorno.
A un tratto, un tremendo guizzo di folgore luccicò nella stanza buia e un pauroso scoppio di tuono lo fece sobbalzare.
Marin lanciò un grido e indietreggiò.
 
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La luce del fulmine aveva rivelato il corpo immobile di Oliver Jack, semiseduto sul pavimento: il grosso orologio appeso alla parete era caduto e gli aveva spaccato il cranio. Il sangue rappreso gli impiastricciava i capelli e la fronte, il suo volto era grigio e livido, gli occhi semichiusi ormai spenti, la bocca contorta in una smorfia di dolore atroce.
Accanto a lui, sul pavimento, stava la sua Bibbia. Quando Marin la raccolse, tremando, dalla pagine consunte sfuggì un piccolo pezzo di carta che cadde per terra.
Il ragazzo lo raccolse e lo fissò, senza fiato: scritte a lettere nere tremolanti, come vergate da una mano sconvolta, c’erano solo due frasi.
Five little pumpkins sitting on a gate” lesse Marin con voce incerta “The first one said: “Oh my, it’s getting late”.
Il pilota fissò ancora una volta il quadrante in frantumi dell’orologio e poi il cadavere a i suoi piedi.
It’s getting late…” mormorò, un istante prima di correre via.
Anche se una voce dentro di lui gli diceva che sarebbe stato inutile, si slanciò fuori col cuore in gola,  alla ricerca di aiuto. Un medico, un infermiere, qualcuno.
I suoi passi echeggiavano sinistri lungo i corridoi deserti: troppo deserti e troppo silenziosi anche per un’ora del genere.
Arrivò ansimante fuori al laboratorio della professoressa ed entrò.
Nella penombra, intravide la sagoma della scienziata sulla grande poltrona dietro la scrivania.
La chiamò una, due volte, senza che alla sua voce rispondesse altro suono che il sibilo del vento.
Si avvicinò, il cuore che gli martellava furiosamente nel petto, e fece scattare l’interruttore sulla parete.
Un urlo strozzato gli morì in gola perché davanti a lui, riversa sullo schienale, stava Era Quinstein: pallidissima, i capelli di solito rigorosamente disciplinati che le ricadevano disordinati sul viso cereo, le spalle e il petto immobile.
Gli occhi chiusi, le labbra livide da cui usciva un sottile rivolo bluastro; una mano era ricaduta sul grembo, l’altra allungata sulla scrivania accanto a un bicchiere rovesciato.
Senza una parola, Marin lo afferrò e lo accostò al naso: dal fondo esalavano chiare tracce di un odore inequivocabile di mandorle  amare.
D’un tratto, vide le labbra esangui della scienziata aprirsi appena e in quel momento udì per la terza volta la voce che già prima l’aveva terrorizzato.
The second one said: “But we don’t care”.
Le sillabe echeggiarono questa volta in tutta la loro inequivocabile chiarezza e vennero pronunciate a voce alta e forte, anche se quelle labbra morte parevano atteggiate solo a un flebile sussurro.
Marin seguitava a guardare, i nervi tesi fino allo spasimo e il respiro che gli moriva in gola, come incatenato da una forza demoniaca che non gli lasciava scampo.
Era quasi paralizzato, ma non al punto di rinunciare a un pietoso tentativo di fuga. Fece qualche passo indietro, senza tuttavia spezzare l’incantesimo in cui la teneva quella scena terribile; i suoi occhi continuarono a rimanere ostinatamente spalancati, rifiutando di chiudersi.
Cercò di alzare una mano per escludere del tutto l’orribile vista, ma i suoi nervi erano tanto scossi che il braccio non gli obbedì.
Non seppe quanto tempo durò quella straziante agonia; si rese conto che era terminata solo quando il fragoroso rombo di un tuono lo richiamò prepotentemente alla realtà.
Marin si riscosse dalla paralisi che l’aveva soggiogato e scattò verso la porta.
Non era possibile, non era possibile… cosa stava succedendo?
I pensieri rimbombavano impazziti nel suo cervello annebbiato, mentre correva a perdifiato attraverso i corridoi vuoti della base.
Era un incubo. Certo. Un altro dei terribili incubi che a volte lo tormentavano, come quello che settimane prima lo aveva costretto a ricorrere alle cure della professoressa, facendogli temere di non riuscire mai più a pilotare il Baldios.
Un incubo: sì, eppure era tutto così dannatamente reale…  
Avrebbe dato la sua vita per incontrare qualcuno… chiunque, un tecnico, un semplice soldato. Chiunque.
Eppure intorno a lui era solo silenzio e desolazione.
Aveva corso senza una direzione precisa e adesso si rese conto che i suoi passi lo avevano condotto senza volere davanti all’alloggio di Raita.
La porta era aperta, tutto innaturalmente tranquillo.
Nella penombra del corridoio desolato, deglutì impercettibilmente.
Cosa avrebbe trovato oltre la soglia?
Dovette chiamare a raccolta tutto il suo coraggio per entrare.
Gridò il nome del pilota giapponese, ma ancora una volta non ottenne risposta.
Fece scattare l’interruttore, però la luce rimase spenta e così Marin dovette inoltrarsi nella camera rischiarata solo dalla luce fugace dei lampi.
Si avvicinò al letto, che era proprio davanti a una grande finestra con le tende aperte.
Con la coda dell’occhio intravide un movimento del lenzuolo. Udì un leggero, ma distinto fruscio di stoffa.  
Si voltò e ciò che vide gli strappò un urlo di terrore dal petto: dove prima c’era solo un lembo di tessuto biancastro, ora un viso diafano e terreo lo fissava con occhi disperati, nei quali brillavano la disperazione e una malignità che andava al di là di ogni possibile sopportazione.
Raita Hokuto si sedette sul letto - le labbra gonfie e aperte, i denti stretti e gli occhi socchiusi in modo da lasciar vedere solo il bianco - e il lenzuolo ricadde, scivolando senza rumore sul pavimento.
Gli occhi semiaperti luccicavano in mezzo al viso gonfio e bluastro: era uno spettacolo da incubo, grottesco e raccapricciante insieme, e Marin rimase come pietrificato a fissarlo fino a che il cuore non gli resse più e chiuse le palpebre per un istante.
Quando li riaprì, quello che aveva tutta l’aria di un cadavere ormai rigido sollevò il braccio destro e indicò la finestra.
I suoi lineamenti si contorsero in una smorfia di terrore inconcepibile.
Le sue labbra si aprirono e ne uscì una voce cavernosa: The third one said: "I see witches in the air."
Ancora quella maledetta filastrocca… se solo, se solo avesse ascoltato più attentamente. Se solo fosse riuscito a ricordare come continuava…
Marin indietreggiò verso la porta, pazzo di stupore e di paura.
Gli tremavano le mani, il respiro non era che un rantolo.
Uscì barcollando, all’estremo di un’angoscia senza nome.
D’un tratto si fece strada nel suo cervello annebbiato un pensiero razionale: se non si trattava di un maledetto incubo, se era tutto vero, l’unica cosa da fare era avvisare immediatamente il comandante.
Strinse i pugni.
Sì, Bannister aveva sempre una soluzione. L’avrebbe avuta anche stavolta.

***
Non seppe per quanto tempo si era aggirato, sconvolto e ansante, lungo i corridoi deserti della base. A un tratto si fermò, il respiro mozzo, mentre una goccia di sudore gelido gli accarezzava la spina dorsale.
Non era la strada giusta! Maledizione, si era perso in quel dedalo di passaggi tutti uguali.
Si morse le labbra, gli occhi velati di lacrime.
Appoggiò per un istante le spalle alla parete, respirando profondamente.
Si sentiva esausto, come svuotato, ma al tempo stesso sapeva di non dover perdere altro tempo.
Ricominciò a correre pazzamente, senza una direzione precisa, finché non inciampò su qualcosa che stava per terra, nel bel mezzo del corridoio.
Cadde in avanti con un grido soffocato e solo dopo un secondo si rese conto che l’ostacolo che gli aveva intralciato la strada non era che un corpo riverso a faccia in giù sul pavimento.
Le braccia serrate sul petto, una gamba piegata sotto il corpo e l’altra allungata, come cristallizzato in un ultimo disperato slancio di corsa.
In preda a qualcosa che era più di un presentimento, lo voltò.
 
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Il serio, affidabile, rigoroso Comandante j. Bannister giaceva davanti a lui, gli occhi già vitrei spalancati sul nulla, i baffi grigi imbrattati di sangue rappreso. Sul petto, all’altezza del cuore, un’orrenda ferita che ancora stillava.
Marin soffocò un grido di terrore, ma non era finita.
Perché all’improvviso sentì distintamente una corrente d’aria gelida sfiorargli la faccia e subito dopo percepì di non essere più solo.
Un’altra presenza vivente - viva in qualche strano modo orribile che non capiva - era accanto a lui.
L’aveva sentita arrivare col cuore e con i nervi in maniera così chiara da non aver nessun dubbio.
Una frazione di secondo dopo si voltò istintivamente verso la parete da cui era arrivato quel gelido ansito mortale e vide, sul muro che fino a un istante prima era assolutamente immacolato, campeggiare una grande scritta.
Vergata con qualcosa che aveva tutta l’aria di essere sangue.
C’era scritto: “The fourth one said: “Let’s run, and run, and run”.
Quello fu troppo.
Pazzo di terrore, il giovane pilota corse via gridando.
Dovettero passare alcuni minuti perché ritrovasse un minimo di lucidità. Ansimante, le mani sulle ginocchia, cercò disperatamente di rimettere ordine nella sua mente febbricitante.
Ma era inutile.
D’un tratto un pensiero angosciante si fece strada dentro di lui: Jamie!
Se la maledetta filastrocca parlava di cinque piccole zucche che caddero nel vuoto, e se i suoi quattro amici erano stati orrendamente assassinati da una mano misteriosa che seguiva quelle strane strofe demoniache… allora mancava solo una strofa. E solo uno di loro, a parte lui.
Jamie!
Trasse un respiro profondo e corse, col cuore in gola, verso l’alloggio della ragazza.
Afferrò la maniglia con le mani tremanti e il fiato mozzo.
Quando aprì la porta fu scosso da un brivido che lo attraversò dalla testa ai piedi.
Jamie.
Gli sembrò d’improvviso che facesse freddo in quella bella stanza così femminile e accogliente, così cara e familiare, dove tante volte si era trattenuto a chiacchierare con la sua amica.
Che l’aria s’inspessisse, che la notte pesasse sul suo cuore e gli opprimesse il petto, impedendogli di respirare normalmente.
Avanzò con passi veloci e precipitosi, in preda a una terribile inquietudine
Aveva paura.
Lui che fino ad allora non aveva temuto niente.
Aveva paura.
Si guardò spasmodicamente intorno: gli oggetti familiari, i mobili, la trapunta rosa sul letto, le fotografie appese alla parete… ogni cosa, anziché rassicurarlo, gli ispirava un senso di atroce diffidenza come fosse estranea e nemica.
Nessuno.
La stanza era vuota.
La porta del bagno era però socchiusa e da lì filtrava una debole luce.
Marin attraversò la camera in un balzo e spalancò la porta chiamando a gran voce Jamie.
Ma Jamie non poteva sentirlo, perché giaceva sul freddo pavimento di ceramica, fredda e immobile anche lei.
Indossava il bel vestito rosa che aveva il giorno del concerto, era truccata e i lunghi capelli biondi erano fermati da un lato da una rosa scarlatta. Una rosa recisa, una cosa morta come la donna che l’aveva scelta con cura sognando una serata speciale che non sarebbe mai arrivata.
 
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Il cuore di Marin perse distintamente un battito.
S’inginocchiò accanto alla ragazza, le labbra tremanti.
“No… no… non è possibile…” mormorò.
Si prese la testa tra le mani, gli occhi pieni di lacrime.
Guardò ancora la giovane donna, bella anche nella morte. Con la mano che tremava scostò una ciocca di capelli che le copriva parte del viso. Quella carezza rivelò due orrendi segni violacei intorno al collo.
Marin scattò in piedi, inorridito, e si guardò intorno.
Sullo specchio qualcuno aveva scritto, con lo stesso rossetto che dipingeva le labbra gelide di Jamie, l’ultima strofa della filastrocca: “The fifht one said: “Get ready for some fun”.
“No!” gridò Marin.
“Non è possibile, no… Jamie…”.
“Nooooo…” ripeté, la vista offuscata dal pianto.
Afferrò un flacone di profumo che stava in bella vista sulla mensola e lo scagliò con tutte le sue forze contro lo specchio, che andò in mille pezzi con un fragore che rimbombò inquietante nell’alloggio silenzioso.
 
Appuntamento a stasera alle ore 21.00 per l’epilogo.
 
   
 
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