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Autore: Persej Combe    01/11/2015    1 recensioni
Ho passato intere giornate a chiedermi che cosa fossi, nascosto nel mio angolo buio e incapace di vedermi. Anche se non potevo guardarmi, me lo sentivo addosso che non ero più io, che mi ero trasformato in qualcos’altro: un’accozzaglia di pezzi incastrati tra loro che formavano un nulla, di ricordi frammentati nel mio cervello che neanche riuscivo a percepire con chiarezza. Il mio corpo... Il mio corpo non esisteva e lo rivolevo indietro a tutti i costi pensando che avrebbe determinato una volta per tutte la mia vera natura! Ma forse, che sciocco, un corpo non significa nulla... Eppure ancora non ho trovato una risposta. Guardami: che cosa vedi? Un uomo? Un mostro? O forse l’opera prediletta plasmata da un dio folle?
~~~
E se Elisio fosse riuscito a utilizzare l'arma suprema?
Aggiornamenti estremamente irregolari
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Calem, Elisio, N, Nuovo personaggio, Serena
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fragmenta'
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Ciao a tutti, miei cari! Come va? c:
Siamo già al terzo capitolo, non mi pare vero! Spero di non avervi fatto attendere troppo, ma purtroppo con gli impegni scolastici non ho più molto tempo per scrivere. Inoltre quest'anno ho la maturità, quindi lo studio ha la priorità. Chiedo scusa a tutti quelli che aspettano gli aggiornamenti delle storie rosicchiandosi le unghie e anche a quelli da cui dovrei passare a recensire da un po' di tempo: abbiate pazienza, per il momento sono leggermente ingarbugliata, ma ve lo prometto,
prima o poi farò tutto, fidatevi! ♥ 
Per prima cosa passo ai ringraziamenti: un grazie speciale a HolyBlackSpear, Afaneia e herr per aver recensito il capitolo precedente, agli ultimi due anche per aver messo la storia tra le seguite. I vostri pareri contano sempre molto per me per capire come sto andando, sono importantissimi, perciò vi ringrazio tantissimo! ♥
Spendo qualche riga per parlare un attimo di Malva, dato che oggi il capitolo è dedicato principalmente a lei. Siccome non compare molto nel gioco, ho avuto un po' di incertezze nel delineare il suo carattere. Mi sono basata soprattutto sui dialoghi che fa con il giocatore e ho notato che cerca spesso di mettersi al centro dell'attenzione. Quando la si batte alla Lega la prima volta si sforza di apparire comunque un po' superiore nonostante la sconfitta, mettendo in chiaro che se la gente acclama la vittoria del giocatore è grazie a lei che la comunica attraverso l'Holovox. Mi è sembrata una donna che tiene molto al proprio potere e ai propri principi. Durante la missione di Bellocchio chiede al giocatore di fermare Xante non perché teme per la salute di Matière, ma perché l'unico suo interesse è quello di salvaguardare il nome e gli ideali del Team Flare e di Elisio. Su questo mi è sembrata una donna molto fedele al proprio capo e su alcuni punti credo anche che possa assomigliargli. In questo capitolo dovrà fronteggiarsi con il mondo che ha creato e ne risentirà, spero comunque di non essere andata troppo OOC, in caso contrario avvisatemi che metto l'avvertimento fra le note della storia.
Detto questo vi lascio alla lettura, magari dalla prossima volta metterò l'angolo autrice alla fine per non dare fastidio, comunque spero di non avervi annoiati troppo!
Spero che anche questo capitolo vi piaccia!
Un abbraccio,
la vostra Pers ღ



III
Brace

  La fiamma accesa sopra il cerino si scuoteva e si contorceva senza trovare pace. Il vento era forte quel giorno – o quella sera: non capiva più che ora fosse. Il cielo, ormai da un mese, si era trasformato in una coltre grigia e fissa, come se da un momento all’altro sarebbe potuto piovere.
  Invece non era mai scesa neanche una goccia.
  Si trattava di un problema grave, poiché le scorte d’acqua che avevano recuperato lungo la strada stavano ormai per terminare e se non fossero stati in grado di raccoglierne dell’altra presto avrebbero rischiato di morire di sete.
  Da settimane neanche mangiavano più, a volte si scannavano a vicenda persino per un filo d’erba raggrinzito che spuntava fortuitamente nel cortile del maniero. Ogni volta lei tirava fuori le unghie tentando di tenere il compagno lontano perché non voleva condividere il misero pasto per nessun motivo al mondo, affamata com’era, ma poi, inevitabilmente, chi aveva la meglio era l’altro, con le sue braccia robuste e la corazza solidissima. Con cautela, allora, l’uomo coglieva ciò che si era trovato, lo puliva per quanto fosse possibile e lo divideva in parti uguali in modo da non lasciare nessuno con la bocca asciutta. Non era mai abbastanza, ma bisognava accontentarsi.
  Di fronte alla luce tremolante della fiamma, si osservò le braccia girando i polsi sottili verso l’alto. Era dimagrita vertiginosamente, la pelle era quasi attaccata alle ossa, e tastandosi il viso provava ribrezzo nel sentire gli zigomi così sporgenti. Assomigliava ad uno scheletro, un qualcosa di morto. E pensare che si era prodigata in ogni modo per ottenere garantita la vita! Poi ogni certezza era stata spazzata via all’improvviso, un fuori programma ed ecco come era ridotta a finire gli ultimi giorni della sua esistenza: nascosta nell’ombra per non essere trovata da coloro che in passato aveva chiamato compagni, senza cibo, senza acqua, sporca e ripugnante, spogliata di ogni ricchezza che le era appartenuta e che le spettava ancora di diritto.
  Una volta, pensò con rammarico, era stata una vera bellezza. Tutte le donne avevano invidiato il suo aspetto. Persino Diantha, ne era sicura, anche lei, la graziosa Campionessa di Kalos perfetta in tutto e per tutto, non aveva potuto fare a meno di ambire a somigliarle. La immaginava di continuo, sempre composta, gentile e carina, magari seduta al proprio fianco, che la osservava con ammirazione mentre invece nell’animo bruciava di gelosia. E di tutto questo non avrebbe mai potuto dire nulla, la Campionessa, sempre obbligata ad atteggiarsi in un certo modo; al contrario lei avrebbe sempre potuto dire quel che le pareva, avrebbe anche potuto schernirla di fronte a tutti, nessuno avrebbe potuto metterle i piedi in testa: la sua posizione di Superquattro offriva alcuni vantaggi di cui spesso e volentieri aveva abusato a proprio piacimento, più per divertimento che per necessità.
  Ma ora che il mondo era stato capovolto da cima in basso, a cosa le sarebbe servito aspirare ad essere la migliore? Quasi certamente Diantha doveva esser crepata schiacciata sotto qualche masso schizzato via dal raggio dell’arma, la bianca manina che sporgeva tra le pietre come un bocciolo appassito. Anche da morta quella lì doveva sembrare aggraziata, pensò con invidia. Tuttavia lei aveva il vantaggio più grande di tutti: essere ancora viva.
  Si chiese tuttavia se si trattasse davvero di un vantaggio.
  Prese un lembo della gonna del lungo abito che aveva raccattato in una casa abbandonata nelle vicinanze e si coprì le gambe magre, si tirò le maniche fin sui palmi delle mani per non poter guardare ancora quel suo corpo disgustoso.
  Che ironia pensare che una volta le era piaciuto così tanto mostrare a tutti proprio quello stesso corpo! Elisio non aveva mai sopportato il suo ventre scoperto, né le fessure sui pantaloni che lasciavano intravedere le gambe.
  «Ciò che è bello si dovrebbe nascondere, non esibirlo così svergognatamente agli occhi di chiunque!» le aveva detto indignato una volta in risposta a un suo approccio particolarmente sfacciato. Aveva tentato di sedurlo diverse volte, tuttavia non c’era mai riuscita. Elisio pareva non provare interesse nelle sue moine, e comunque anche lei dopo poco si era stufata di quel gioco.
  Erano come due facce della stessa medaglia. Erano talmente simili, nel profondo, che forse un rapporto del genere fra loro suonava davvero come un sacrilegio o un’empietà.
  Un sorrisetto malizioso le si dipinse sulle labbra smagrite dalla fame. Nonostante tutto, comunque, anche lui infine aveva dovuto arrendersi all’evidenza: aveva riconosciuto la sua bellezza ed era stato lui stesso a nominarla la stella che avrebbe fatto brillare le vendite degli Holovox. Era stata una grande soddisfazione.
  Ad un tratto, un ronzio sommesso risuonò nell’aria. Lentamente si fece sempre più forte, segno che gli elicotteri del Team Flare si stavano avvicinando. La donna si alzò da terra e si rifugiò all’interno dell’albergo abbandonato vicino a cui si era fermata in attesa che si allontanassero.
  Se soltanto prima dell’esplosione non si fosse imbattuta in quel pallone gonfiato di Timeus, pensò osservando da una finestra i velivoli che attraversavano i cieli della vecchia Castel Vanità e digrignando i denti per la rabbia.
  Il fatidico giorno, infatti, Malva si stava dirigendo verso il quartier generale per raggiungere gli altri quando ecco apparire all’improvviso il Superquattro d’Acciaio con la sua stupida armatura in mezzo alla strada. Preoccupato per la sua incolumità, aveva deciso di proteggerla e l’aveva trascinata in lungo e in largo fra i viali di Luminopoli in cerca di un posto in cui ripararsi dall’esplosione che in poco tempo avrebbe investito l’intera regione. Su tutte le furie per esser stata infastidita da lui, ad un tratto, approfittando del caos della folla che scalpitava e correva fra le vie, l’aveva lasciato da solo e si era diretta velocemente verso il Caffè Elisio, in quel momento divenuta la sua unica speranza di salvezza. Ma i suoi sforzi di seminarlo non erano valsi a nulla, così se lo era ritrovato alle calcagna dopo qualche metro ed era stata costretta a nascondersi insieme a lui all’interno dei piani più bassi dei Laboratori. Aveva tentato di contattare i compagni diverse volte per avvertirli della situazione, tuttavia l’Holovox era andato fuori uso e non ne era stata in grado. Dopo settimane vissute nell’ansia e nella desolazione, aveva tirato un sospiro di sollievo quando finalmente dal cielo erano scesi i primi elicotteri carichi di reclute, accorsi probabilmente per cercarla e trarla in salvo. Ma ancora una volta Timeus aveva distrutto ogni speranza che si era costruita, impedendole di attraversare da sola la città in presenza di quei malviventi. Infinite volte aveva cercato di toglierlo di mezzo per perseguire i propri scopi, e infinite volte, in qualche modo, l’uomo l’aveva sempre intralciata.
  Finché fosse rimasta con lui, non sarebbe potuta fuggire. Era sua prigioniera.
  Com’era stato terribile attraversare il Percorso 5 osservando di volta in volta, nascosta nella vegetazione decadente dei sentieri accanto allo sciagurato compagno, i numerosi velivoli che con sempre maggiore frequenza venivano inviati verso la capitale nella speranza di ritrovarla! E invece lei era lì, era lì, lontana, e non poteva in alcun modo farglielo sapere!
  Diverse volte, di notte, poi, si era ritrovata immersa in un pianto silenzioso.
  Perché, perché proprio a lei doveva capitare di finire con un soggetto del genere? Perché di punto in bianco si ritrovava strappata via da ogni sogno, da ogni ricchezza che aveva desiderato nel corso di quei mesi, di quegli anni in cui aveva progettato assieme a Elisio quel piano con cui punire chiunque non fosse stato degno di rimanere al loro fianco? Perché ora era costretta a rimanere con un così poco valido essere umano? Perché?
  Tutto ciò che le era rimasto era il fuoco.
  Fissò lo sguardo sulla fiamma ancora accesa del cerino. Presto si sarebbe spenta, ma il suo colore era ancora così acceso, forte, vivido.
  Tutto il contrario del fuoco che invece dimorava nel suo animo.
  «È così infelice, mia cara, che l’ardore che ti scuote le membra si sia fatto tanto fievole», erano state le ultime parole che Timeus le aveva detto prima che ella avesse perso la pazienza e uscendo si fosse rifugiata in quella zona dell’antico paese per sfuggirgli almeno per qualche quarto d’ora.
  A malincuore, doveva ammettere che per una volta dalle sue labbra era uscito qualcosa di sensato.
  La fiamma sul cerino si indebolì fino a spegnersi, la sala divenne buia.
  Strinse il legnetto tra le dita tremanti e lo gettò lontano con nervosismo.
  «Vaffanculo!» ringhiò accucciandosi su se stessa e lasciandosi andare a qualche lieve singhiozzo.
  All’improvviso uno scoppio fragoroso proveniente da fuori la fece sobbalzare, risvegliandola bruscamente dai suoi pensieri. Scattò in piedi, timorosa per quel rumore del tutto inaspettato, e corse alla porta per vedere di cosa si trattasse.
  Non appena mise piede sul ciottolato esterno, una violenta folata di vento le scompigliò i capelli rosei, scuotendole la gonna in numerose pieghe e onde. Le pale degli elicotteri si muovevano con forza ed essi dovevano essere particolarmente vicini se il loro brusio era così intenso. Rischiò di perdere l’equilibrio quando un secondo scoppio fece tremare la terra. Al terzo era ancora in piedi, ma al quarto si ritrovò gettata sul terreno con vigore, le fragili membra che dolevano per l’impatto.
  Si alzò con fatica, spingendosi sulle braccia deboli, poi con un rapido scatto si precipitò verso la zona da cui continuavano a provenire gli spari e gli scoppi. Vide un gruppo di persone che non aveva mai incontrato da quelle parti correre terrorizzato lungo la strada centrale del paese, cercando un riparo dalle granate e dai proiettili che venivano gettati su di loro dai velivoli. Malva si affrettò con cautela in mezzo ad uno stretto viottolo, sicura che in quel punto sarebbe stata ben nascosta e al sicuro. Si sedette a terra, di nuovo, le mani premute sulle orecchie per coprire il rumore assordante delle esplosioni e delle urla. Il cuore prese a batterle all’impazzata, strinse le palpebre nella mera illusione di rendersi invisibile semplicemente privandosi della vista.
  Che cosa stava succedendo? Perché il Team Flare aveva aperto il fuoco?
  Nel corso della settimana in cui si era accampata a Castel Vanità assieme a Timeus, non era mai accaduto che le reclute avessero deciso volontariamente di attaccare. Non ne era sicura, ma poteva essere forse perché non si erano mai accorti di loro? Se li avessero visti, avrebbero fatto lo stesso? Oppure c’era qualcosa di particolare che volvano ottenere da quelle persone che aveva visto fuggire? Erano dei sopravvissuti non più degni di far parte di quel mondo e che dovevano essere eliminati?
  Voltando lo sguardo verso la fessura che divideva i due palazzi in mezzo ai quali si stava proteggendo, scorse una ragazza che stava correndo. Aveva un’andatura sicura e decisa, si sorprese di notare come nei tratti del suo viso non vi fosse il benché minimo timore. I suoi occhi brillavano di forza, c’era qualcosa in lei che la spronava ad andare avanti nonostante il pericolo in cui si trovava. Un desiderio, un sogno, una promessa, non lo sapeva: tuttavia grazie ad esso le sue gambe si muovevano agili, saltavano gli ostacoli ed evitavano con attenzione gli spari.
  Poteva accaderle qualsiasi cosa, ma lei doveva muoversi, doveva sopravvivere.
  Non sarebbe potuta morire finché quel desiderio, quel sogno, quella promessa non si sarebbe avverata.
  Ad un tratto, però, vide che la scintilla dei suoi occhi era mutata, era sfocata in incertezza. Nello stesso momento perse il controllo dei propri movimenti, scivolò a terra. Sopra il suo corpo indifeso, come un avvoltoio affamato, si era fermato uno degli elicotteri, nella sadica attesa di potersi avventare su di lei per toglierla di mezzo.
  Malva si tirò su senza pensare, con le gambe che tremavano tentò di raggiungerla, mossa dal desiderio così inusuale per lei, in quelle circostanze, di voler salvare un’altra persona.
  «Vattene! Vattene!» le gridò, sperando che la sentisse e si rialzasse.
  Perché solo adesso, mentre una lacrima le scivolava sul viso, i suoi occhi si aprivano veramente? Perché solo adesso si era rotto il guscio in cui si era rinchiusa, quel guscio di specchio le cui pareti non le avevano mostrato altro che il riflesso della propria immagine, come se fosse stata l’unico perno su cui si tenevano il mondo e l’universo?
  Ma era davvero la sua vita talmente importante al punto da dover essere separata da quella della ragazza laggiù?
  In che cosa erano diverse? In che cosa erano simili?
  Perché il sangue è rosso? Perché il sangue è blu?
  Per quale motivo si era fatta ladra sanguinaria di un qualcosa di così prezioso come la vita?
  Con che diritto l’aveva tolta agli altri?
  I suoi occhi rossi si incontrarono di stralcio con quelli grigi della giovane, poi un lampo acceso separò i loro sguardi e la donna fu costretta a ritirarsi.
  Fu un lungo attimo in cui rimase a riflettere sul motivo per cui aveva compiuto tutto ciò che si era fatto, sul risultato di ciò che una volta aveva ritenuto l’unica speranza che avrebbe permesso al mondo di migliorare, di diventare un posto più bello per i suoi simili. Non tutti meritavano di poter accedere a quel paradiso che aveva sognato, c’erano alcune vite che per questo motivo bisognava accantonare. Eppure, nonostante ricordasse ancora i propri ideali, gli oltraggi subiti in passato, le crudeltà e le atrocità che aveva visto, ora sarebbe stata disposta a perdonare tutti: nessuno, pensava, era degno di una morte come quella che in parte era stata provocata anche dalle sue mani.
  Quando il chiasso cessò, la donna riemerse dal suo nascondiglio. Si guardò attorno timorosa, osservando il  modo in cui l’aspetto del luogo era stato stravolto nuovamente dalle bombe che erano state gettate. Palazzi addossati fra loro, voragini, strade interrotte, alberi sradicati e collassati gli uni sugli altri, cavi bruciati, polvere, fumo. Sembrava di essere appena stati testimoni di un attacco di guerra.
  Reggendosi sulla ruvida parete di un edificio si mosse in avanti, controllò che gli elicotteri del Team Flare fossero spariti dalla circolazione. La ragazza era scomparsa, nei dintorni non vi era alcuna sua traccia. Forse, si disse con sollievo, era riuscita a salvarsi. In pensiero per lei si mise a cercarla, perché era talmente assurdo sapere di avere accanto altre persone che erano sopravvissute e non rivolgergli la parola. Chi erano quelli? Come mai erano finiti a Castel Vanità? Cosa stavano cercando?
  Ma, soprattutto, perché il Team Flare li aveva attaccati? A questo non sapeva darsi alcuna risposta. Inoltre era più che certa che Elisio non avrebbe mai ordinato un massacro del genere senza una valida motivazione.
  Ad un tratto sentì un vociare provenire dalla propria sinistra. Senza perder tempo cambiò velocemente strada, quasi si gettò contro quelle voci sconosciute nell’ebbrezza di poter vedere corpi animati da vita dopo settimane vissute nella morte più buia.
  Si accorse, tuttavia, che una di quelle voci le era molto più che nota.
  Si arrestò all’improvviso dietro dei macigni, impietrita dalla vergogna, dal dolore e dal rimorso. Sporse di poco il viso e si coprì le labbra, lo sguardo intriso di incredulità.
  «Sono sollevato che questa volta tu abbia deciso di ascoltarmi», diceva un uomo dall’altezza sorprendente, che riconobbe essere il gigante che Elisio aveva intrappolato nei Laboratori «Se fossimo venuti con tutto il gruppo, di certo non l’avremmo scampata bene».
  La donna a cui si era rivolto, di spalle, stava controllando le condizioni dei quattro giovani che li avevano seguiti. Malva tremò quando ella si girò, mostrando il suo viso. Non volendolo fronteggiare, si volse di scatto, ma nello slancio urtò un ciottolo spingendolo contro la roccia provocando un gran rumore.
  Al gruppo non sfuggì, così, mentre tutti si guardavano attorno in cerca di un eventuale pericolo, Diantha afferrò un coltellino sfilandolo via dalla cinta dei pantaloni e, intimando agli altri di rimanere indietro, si diresse con cautela verso il punto da cui era provenuto il suono. Si sporse oltre il macigno e incrociò un paio di occhi impressi nel buio di un vicoletto non lontano da lì. Li fissò intensamente, cercando di definire il volto celato dalle ombre in cui essi dimoravano, la mano che impugnava la lama tremava lievemente. Improvvisamente la figura si mosse, fece per scappare, così la donna la seguì senza indugiare.
  La rincorse fra vie deserte e accidentate, solcate da buche, sassi e ostacoli non troppo difficili da oltrepassare: infatti, nonostante il suo oppositore sembrava tentare in tutti i modi di seminarla, pareva avere qualche difficoltà nel muoversi. Poi, superato qualche metro, si accorse che era un’oppositrice, le sue forme femminili erano ancora visibili oltre l’abito. Poi notò che queste forme erano spaventosamente sottili e gracili rispetto alla norma, che il suo corpo era significativamente affaticato da quella corsa e che presto avrebbe ceduto. Infine, con un groppo alla gola, riconobbe le sfumature dei suoi capelli e i suoi movimenti, i tratti del viso che scorgeva di sfuggita.
  Giunsero nei pressi del maniero. Malva, fermandosi in prossimità di un argine, osservò le acque del torrente. Era in un vicolo cieco, presto sarebbe finita nelle mani dell’altra. Non poteva permetterlo, non voleva permetterlo, non dopo tutto quello che la donna era stata costretta a subire per causa sua. Cosa avrebbe potuto dirle a sua discolpa? Nulla, nulla! In quale modo si può esser perdonati per una simile azione?
  Guardò in basso, posò lo sguardo su quella poltiglia grigia e marrone. Avrebbe potuto gettarsi e nuotare via, ma la corrente era troppo forte e avrebbe rischiato di essere travolta dall’imponente massa d’acqua, forse senza riuscire ad opporsi ad essa.
  E poi, si ricordò, l’acqua spegne il fuoco.
  Nel momento in cui, perse tutte le speranze, stava per spingersi in avanti e tuffarsi, Diantha la raggiunse, le prese una mano e la tirò via, il loro occhi si vennero incontro.
  Si osservarono a lungo, in silenzio, entrambe con la testa che scoppiava per la tensione.
  La Campionessa lasciò cadere il coltello a terra. Allungò le braccia verso di lei in un tentativo disperato di stringerla, la abbracciò con tenerezza, dai suoi occhi lucidi gocciolavano lacrime di gioia, di incredulità, di sollievo.
  «Malva! Malva!» singhiozzò baciandola ripetutamente sul viso e accarezzandole le braccia e la schiena, passando di tanto in tanto le dita sulle sue guance per asciugare il pianto in cui anche l’altra era caduta.
  E Malva accoglieva le sue carezze senza fiatare, stringendosi alla compagna con imbarazzo, quasi provando vergogna per tutto l’affetto che quella le mostrava, non sentendosi all’altezza, per una volta confrontandosi con lei, della sua dolcezza, della sua gentilezza, del suo bene.
  «Credevo fossi una delle reclute del Team Flare, ma poi ti ho riconosciuta e... Dio, sei ancora viva, sei ancora viva!».
  «Diantha...».
  Un boato squarciò l’aria. In lontananza si vedevano gli elicotteri che erano tornati indietro per cercare i fuggitivi, carichi di nuove munizioni per poter attaccare ancora. Lasciarono cadere un’altra bomba e le strade più a sud vennero pervase da un bagliore accecante.
  La Campionessa prese per mano la donna, il suo sguardo si era subito fatto cupo al pensiero della sorte dei compagni che aveva lasciato dietro. Correndo velocemente e aiutando rapidamente Malva in qualche tratto difficoltoso, ad un certo punto scorse AZ e i ragazzi che nuovamente tentavano di fuggire dai proiettili sparati contro di loro.
  Non appena le due si accostarono al gruppo, fu come se il tempo avesse smesso di scorrere per qualche attimo.
  Gli elicotteri si erano fermati, gli spari erano stati interrotti.
  Poi all’improvviso ecco che ricominciarono a colpirli e a prenderli di mira. Tuttavia pareva che lo stessero facendo con meno decisione rispetto a pochi minuti prima.
  Malva, capendo il ruolo in cui si era trovata in quel frangente, si mise in testa al gruppo, indicò agli altri la strada più sicura da prendere. Gli altri, pur non conoscendola, la seguirono, esortati da Diantha. Sembrava che grazie a lei stesse diventando più difficile per le reclute mirarli e colpirli.
  AZ osservò la traiettoria dei proiettili, in un primo momento non capì, ma gli parevano comunque avere un qualcosa di strano, sospetto.
  Poi se ne rese conto: le reclute stavano sbagliando i colpi intenzionalmente. Volevano evitarli.
  Si chiese perché, se fin da quando si erano messi in viaggio non avevano tentato altro che eliminarli tutti insieme. Avevano improvvisamente disimparato il loro mestiere? Alzò lo sguardo davanti a sé e vide la donna che Diantha aveva condotto da loro.
  Non avrebbe potuto affermare con certezza il pensiero che gli si era appena figurato in mente, ma comunque, la cosa non lo convinceva affatto.
  Dopo pochi istanti, le reclute cessarono il fuoco. Il rumore delle pale si fece via via più silenzioso, le grigie masse degli elicotteri scomparvero in mezzo alla coltre plumbea del cielo.
  Erano salvi.
 
  «Mia cara, dolce principessa!» non appena Timeus vide la familiare figura di Diantha apparire in fondo al corridoio del maniero, le corse incontro, le prese una mano e gliela baciò avidamente, gli occhi lucidi e commossi nel poter sentire nuovamente la freschezza della sua pelle viva, il suo profumo. Alzò il viso e guardò la donna negli occhi, e oh, quanto gli erano mancati quegli occhi! Si immerse nella loro chiarezza azzurrina come un vagabondo assetato si getta nelle acque di un limpido fiume trovato all’improvviso in mezzo al bosco, affogò in essa con indescrivibile piacere.
  «Oh, Diantha!» continuava a sussurrarle, incantato da lei.
  Mentre la donna accoglieva divertita le sue parole, felice di vedere che nonostante la grave situazione in cui erano ridotti fosse rimasto lo stesso uomo che aveva conosciuto alla Lega Pokémon, Malva osservava il compagno con disappunto. Non aveva mai sopportato questo suo modo così cerimonioso di esternare le proprie emozioni.
  Nello stesso momento, AZ e i ragazzi si aggiravano fra le stanze, osservando il modo in cui i due Superquattro avevano organizzato il loro rifugio. Molte sale erano state svuotate di ogni oggetto, diversi utensili di legno erano stati utilizzati per alimentare il fuoco nel camino della stanza principale. In essa erano stati accatastati due letti. Tende, coperte e tessuti di diverso tipo erano ammassati sopra i materassi: di notte Castel Vanità diventava molto fredda, perciò i due avevano cercato in ogni modo di accaparrarsi qualche fonte di calore. Sopra un tavolo, Timeus aveva riposto diverse bottiglie e caraffe in cui conservare l’acqua, tuttavia nei loro fondi ne erano rimaste ben poche gocce. Accanto vi era un paio di occhiali rotti, probabilmente appartenuti a Malva: AZ pensò che i due dovessero aver avuto una qualche rissa sul consumo della bevanda e che nella foga della discussione avessero cominciato a colpirsi, causando la rottura delle lenti. Alzò la testa e scrutò la donna dai capelli rosa. Il suo aspetto gracile rendeva quasi impossibile identificarla come una persona dall’animo forte e prepotente, tuttavia osservando l’atteggiamento adirato, quasi, con il quale si rivolgeva a Timeus, intuì un chiaro indizio della fiamma che albergava nel suo animo. Trovò altri segni di risse sparsi in giro per le sale ed ogni volta comprendeva che la persona ad aver ingaggiato per prima il litigio era stata la donna. Sarebbe stato meglio tenerle un occhio addosso, si disse.
  «Calem, ricordi quando siamo venuti qui insieme?» chiese ad un tratto Shana mentre con fare pensieroso scrutava le decorazioni scolpite sui soffitti e sulle colonne del maniero. Salì di corsa le scale e arrivata in cima si girò, guardò in basso verso i piani inferiori.
  «La prima volta abbiamo persino rischiato di perderci», ricordò ad alta voce la ragazza, passando una mano sul muro ruvido e poroso.
  Calem, ancora sulle scale, la vide abbassare la testa e poggiarsi contro la parete in modo sconsolato. La sentì sospirare mentre nascondeva il viso in mezzo alle mani. Percorse lentamente i gradini, si fermò di fronte a lei, aspettando che le desse qualche cenno. Shana sporse poco poco lo sguardo e lo posò su di lui, gli occhi lucidi erano cupi e malinconici.
  «Quante avventure abbiamo vissuto insieme, non è vero?» gli disse «Quanti Pokémon abbiamo catturato insieme. Ora non c’è più nulla. Persino la nostra vita è diventata così fuggevole...».
  Il ragazzo rimase immobile ad osservarla, intristito. Se soltanto avesse saputo dirle che quelli erano i suoi stessi pensieri! Come gli mancava il loro passato, come sembravano lontane le loro avventure di giovani cercatori di Pokémon! Aveva ragione: ora tutto quanto era andato perduto. Si morse le labbra nel momento in cui vide che la compagna aveva cominciato a singhiozzare, abbandonatasi ai ricordi dei loro momenti felici. Erano stati tutti così emozionati, tutti così decisi nel voler affrontare il loro futuro! Nessuno avrebbe potuto immaginare che cosa, invece, crudelmente, esso aveva tenuto in serbo per loro.
  Con un amaro sorriso, si accostò a lei, la strinse fra le braccia in silenzio. Com’era piccola e indifesa di fronte al mondo, così gracile e inerme! Le accarezzò i capelli bruni ascoltando i suoi mormorii, sentendo le sue lacrime calde scenderle dagli occhi e bagnargli la maglia.
  «Anziché stare qui a piangere, dovreste lottare per vendicarvi di ciò che vi hanno rubato».
  Si voltarono di scatto e videro Serena salire le scale con passi pesanti. La ragazza giunse in cima e si fermò vicino a loro, gli rivolse uno sguardo severo. Poi passò oltre.
  Calem la osservò allontanarsi, guardandola con sospetto e timore.
  Da quando erano partiti da Altoripoli aveva cominciato a comportarsi in modo strano. Nei suoi occhi c’era una scintilla buia e macabra, ma non riusciva a capire di che cosa si trattasse. Odio? Rancore? Dolore? Diverse volte aveva tentato di parlarne con lei, di scoprire quali sentimenti stesse celando così violentemente dentro se stessa, ma mai la compagna aveva voluto condividere con lui le proprie considerazioni.
  Calem sapeva quanto quella perdita l’avesse sconvolta, ma per quale motivo non si lasciava aiutare? Perché continuava a tenersi tutto dentro?
  La seguì con lo sguardo mentre si dirigeva verso le stanze più lontane del maniero, dopodiché fu costretto ad abbandonarla.
  In silenzio, la ragazza si fece strada tra i corridoi polverosi e sporchi. Quella parte del castello era stata del tutto abbandonata: mano a mano che avanzava, si rendeva conto del fatto che in quella zona non vi era stato alcun cambiamento, gli oggetti esposti nelle teche e nelle vetrine non erano state più toccate dal giorno dell’attivazione dell’arma. L’atmosfera buia e oscura trasmetteva una sensazione di pericolo, spostandosi da una porta all’altra aveva sempre il timore di trovarsi di fronte a qualche cosa di spaventoso che avrebbe potuto aggredirla. E così, per ogni singolo sospiro di vento che faceva battere le imposte e frusciare le pagine di un libro lasciato aperto su qualche antica scrivania, il suo cuore si fermava per pochi istanti, immobilizzandola e facendola sudare freddo per il terrore. Le sculture dei Pokémon poste ai limiti dei corridoi la scrutavano in silenzio e malignamente, si trasformavano in creature minacciose e crudeli a seconda del modo in cui la poca luce presente in quei luoghi le colpiva. Le intimavano di arrestarsi, di cessare il suo cammino, di ritornare sui propri passi, ma ella non ascoltava i loro sguardi, non ascoltava i loro ordini, le loro suppliche giungevano sorde alle sue orecchie. Ad un tratto, si ritrovò di fronte ad una sala che rapì la sua curiosità. Come richiamata da voce misteriosa, decise di oltrepassare la porta, venne inghiottita dalla sua oscurità.
  Con la vista ancora disabituata al buio, si guardò attorno come in cerca di qualcosa. La luce che proveniva dai battenti socchiusi di una finestra s’insinuava debolmente verso l’interno, la ragazza cominciò lentamente a scorgere i tratti della stanza e gli oggetti che vi erano dentro. Appese alle pareti, vi erano decine e decine di armi antiche esposte come opere d’arte in un museo. Coltelli, pugnali, spade, osservò ogni cosa con stupore ed uno strano interesse. Non ricordava, ripensando alla sua ultima visita a Castel Vanità, di esser mai stata in quella parte del maniero. Ecco che essa le si mostrava adesso in tutto il suo macabro splendore, come se, sopita per lungo tempo, non avesse aspettato altro che la sua venuta. Serena posava lo sguardo su ogni lama, ne studiava la forma e i ricchi particolari intarsiati nelle impugnature. Ad un tratto, per distrazione, urtò uno specchio posto accanto alla finestra ed esso cadde a terra, i vetri s’infransero in miriadi di schegge riversate sul vecchio pavimento. Tremando per quel rumore improvviso, ella si voltò, abbassò lo sguardo e restò immobile a scrutare la propria immagine scomposta in innumerevoli pezzi e frammenti nel riflesso del vetro. Come si era abituata, ormai, a quella visione! Eppure, vederla, ammirarla così vivida e nitida di fronte ai propri occhi, le trasmetteva una certa inquietudine che mai aveva provato. Un brivido le scosse il corpo e improvvisamente si sentì impaurita, fragile e debole, minuscola, esattamente come aveva fatto poco prima mentre le reclute del Team Flare l’avevano puntata con le proprie mitragliatrici e lei era caduta a terra.
  Il mondo era così grande, rispetto a lei. Il mondo era così crudele.
  In che modo cercare giustizia in un universo in cui il bene è destinato a soccombere al male?
  Ma, oh, per nulla al mondo avrebbe permesso ad Elisio di scamparla. L’avrebbe pagata, l’avrebbe pagata cara per ciò che aveva fatto, per ogni cosa che aveva strappato via da lei e dai suoi compagni!
  Alzò lo sguardo e di fronte a sé vide una spada appesa al muro, posta in un punto di rilevanza maggiore rispetto al resto delle armi. A quel punto, fu come un’illuminazione: sentì che lo scopo della sua venuta in quel luogo si era finalmente mostrato.
  Prese tra le mani la spada e la osservò in modo assorto, come fosse stata uno dei suoi frammenti smarriti ed ora ritrovato. Fece scorrere il dito lungo l’elsa d’oro che si rigirava su se stessa lungo tutta la lunghezza fino alla fine dell’impugnatura, dove si apriva in un fiore di achillea al cui centro vi era incastonata una pietra violacea opacizzata dalla polvere. Vi passò sopra un lembo della gonna e la strofinò con cura, sorrise nel momento in cui poi la vide risplendere in tutta la sua lucentezza.
  Si rigirò la lama tra le dita, guardandola da ogni angolazione, studiando ogni sua sfaccettatura. Avrebbe tanto desiderato prenderla e portarla con sé, ma sapeva che Diantha non l’avrebbe tollerato. Più di lei, a dir la verità, aveva timore di AZ: per quanto riguardava la violenza ed ogni cosa legata ad essa, l’uomo sembrava avere un certo tipo di pensiero che difficilmente lasciava contraddire agli altri. Non mancava mai di ricordare a tutti con fermezza i suoi principi.
  «La violenza è vile e irragionevole. Essa porta soltanto a tramutare i fratelli in nemici», aveva detto una sera il gigante, mentre, immerso nel racconto di un ultimo attacco da parte del Team Flare, stava cercando di dissuadere i più giovani e irruenti dall’attaccare a loro volta le reclute.
  «Dovremmo allora rimanere così come degli sciocchi a subire in silenzio?!» aveva esclamato allora la ragazza, non riuscendo più a sopportare quelle parole a suo parere assurde.
  Non l’avesse mai fatto! AZ aveva taciuto all’improvviso. Le sue labbra secche si erano fatte sottili, ricolme di sdegno, mentre i suoi occhi, neri e penetranti, le erano piombati addosso con pesantezza, grevi e severi. Il timore che le aveva infuso con quello sguardo ancora la faceva rabbrividire, di tanto in tanto, quando ci ripensava.
  Tenendo quell’oggetto avrebbe certamente scatenato la sua ira.
  Ad un tratto, udì dei passi avvicinarsi all’entrata della stanza, qualcuno la stava cercando. Ripose l’arma al proprio posto e attese che la persona che si stava dirigendo nella sua direzione si mostrasse.
  Si affacciò alla porta Trovato, sospirando di sollievo nel momento in cui finalmente riuscì a vedere l’amica nel buio.
  «Serena, che cosa ci fai in un posto così spaventoso? Vieni, stiamo tornando al rifugio!» le disse.
  «Arrivo!» rispose la ragazza.
  Lanciò un ultimo sguardo alla spada dall’elsa dorata con lieve malinconia. Come le doleva abbandonarla lì! Tuttavia non era triste, perché ormai l’aveva trovata e sapeva che essa le apparteneva: presto, magari di nascosto, sarebbe tornata a prenderla.
 
  Questa volta erano riusciti a trovare rifugio nella folta vegetazione del Percorso 6, in un piccolo antro ben nascosto dall’erba alta. Al loro arrivo, il cielo si stava già oscurando, segno che presto sarebbe sopraggiunta la notte. Ad accoglierli trovarono Tierno, il quale si era rimesso da poche settimane dalla sua malattia. Non appena scorse il gruppo di compagni all’orizzonte, alzò una mano per salutarli e Trovato, sorridendo, gli corse incontro per abbracciarlo forte.
  «Tierno, amicone mio!».
  «Trovato, ragazzi, ben tornati!» esclamò, osservando incuriosito i due nuovi arrivati.
  Diantha si fece avanti e con un sorriso presentò i suoi compagni: «Tierno, questi sono Timeus e Malva, miei cari amici. Il destino ha voluto che si salvassero. Si erano rifugiati a Castel Vanità, li abbiamo trovati oggi durante la nostra spedizione. D’ora in poi alloggeranno con noi ed entreranno a far parte del nostro gruppo».
  I due Superquattro vennero accolti con affetto da tutti quanti. Nel corso della serata furono assaliti da numerose domande e richieste, i sopravvissuti erano felici di essere riusciti a riunirsi ad altri superstiti. Malva ebbe modo di osservare ogni ragazzo negli occhi, di leggere nello sguardo di ognuno ciò che aveva vissuto, ciò che aveva perso. Raramente aprì la bocca per parlare, ammutolita dal lugubre spettacolo di quegli spettri vacui che le sorridevano in continuazione. Perché le sorridevano? Non capivano che quel destino in cui erano finiti l’aveva creato lei? Così taceva, chiudeva gli occhi, si allontanava. Timeus le andava dietro, provava a parlarle, ma la sua compagnia risultava ancora più fastidiosa: se soltanto non l’avesse seguita a Luminopoli, quel giorno, adesso non sarebbe stata costretta a subire la visione di quelle vite martoriate! Ogni volta che l’uomo provava ad avvicinarsi, lo scansava con rabbia. Lentamente la lasciò in pace.
  Dopo cena Malva si attardò ad osservare il fuoco del falò che avevano acceso al centro della caverna in modo da riscaldare l’ambiente. Era tardi. Molti già dormivano da un pezzo.
  Ad un tratto si avvicinò Diantha. Si sedette accanto alla compagna. Allungò una mano verso la sua guancia, le scostò con gentilezza un ciuffo di capelli rosa dal viso.
  La donna distolse lo sguardo dalla fiamma e lo pose sugli occhi dell’altra, incontrò il suo sorriso.
  «Mi sei mancata», sussurrò Diantha osservando assorta i tratti del suo volto e riconoscendovi quelli a cui si era abituata in passato, nonostante ora fossero così magri e indeboliti, quasi per nulla toccati dal fuoco che le aveva sempre bruciato l’animo «Mi siete mancati tutti. Sono contenta di aver potuto rivedere almeno voi due. Insieme agli allievi del Professore, siete le uniche persone che mi siano rimaste».
  Nel sentire quelle ultime parole venir pronunciate con un lieve tentennamento della voce, Malva rabbrividì. Si avvolse lo scialle più stretto al corpo, nascondendo con vergogna mento e naso sotto il telo, fingendo un brivido improvviso di freddo. Si guardò attorno, vide gli altri addormentati a terra, infagottati a gruppi di due, tre, a volte anche di cinque, dentro una coperta.
  Aveva osservato con attenzione i volti di ogni singolo sopravvissuto, quel pomeriggio, eppure c’era un viso che non era riuscita a trovare.
  Sempre ammesso che ci fosse ancora, quel viso.
  Guardò Diantha, la testa china da un lato, gli occhi socchiusi, il corpo rilassato, stava per addormentarsi. Non avrebbe voluto, sapendo che cosa c’era stato fra loro in passato, ma sentiva il bisogno incontrollabile di sapere, doveva chiederglielo ad ogni costo. La bruna si accorse del suo atteggiamento, comprese che c’era qualche domanda che intendeva porle. Chiuse gli occhi e strinse le braccia attorno alle gambe piegate, sospirò debolmente per la stanchezza.
  «Dimmi», le disse, aspettando la sua richiesta senza metterle fretta.
  «Che ne è stato del Professor Platan?» domandò scandendo intenzionalmente ogni parola con lentezza, come se avesse voluto allungare il momento di quiete prima che giungesse la burrasca. Si immaginò di vedere diverse reazioni, ma Diantha non ebbe nessuna di quelle previste da lei: aveva soltanto spalancato per un po’ gli occhi nel sentire quel nome, come sopraffatta da qualche improvviso dolore, poi ogni cosa era tornata alla normalità. La sua annosa carriera d’attrice sembrava averla istruita in modo quasi impeccabile nell’esternare i propri veri sentimenti, pensò.
  Non poteva sapere che per domare quelle emozioni aveva avuto bisogno di giorni e settimane.
  «Augustine è morto».
  Il fuoco tremolava di fronte a loro. Si sentiva il crepitio della legna che bruciava e s’inceneriva.
  Malva osservò la donna in silenzio. Il suo sguardo freddo puntava in avanti, eppure, in qualche modo, sembrava esser posato su qualcosa che non esisteva, una proiezione immateriale dei suoi pensieri. Assorta in qualche malinconico ricordo, Diantha socchiuse gli occhi, lasciò le labbra semiaperte. Poi all’improvviso si girò verso di lei, la guardò intensamente. Allungò una mano come a volerla accarezzare un’altra volta, bisognosa di conforto, forse, o per altri sentimenti che in quel momento non le erano chiari, ma Malva si allontanò.
  «È il mio turno di veglia», disse «Vado a dare il cambio a quel ragazzo».
  Diantha annuì, ritrasse lentamente la mano. Lasciò andare la donna e si sistemò accanto al fuoco per dormire.
  Malva uscì. Si fermò dopo pochi passi. Abbassò lo sguardo, si morse le labbra.
  «Non sarò mai degna del tuo perdono», ammise sconsolatamente.
  Avanzando silenziosamente, si avvicinò al giovane seduto all’entrata della caverna. Stava con la testa reclinata lungo la pietra, tutto rannicchiato su se stesso per il freddo, addormentato. La donna si chinò, lo scosse piano per una spalla e svegliandolo gli fece cenno di rientrare e andare a riposarsi. Rimasta sola, si poggiò contro la roccia, scrutò davanti a sé la foresta buia e desolata.
  Nel cielo brillava di tanto in tanto qualche lampo, accompagnato da rombi tonanti, il vento si alzava, le nuvole si ammassavano nell’oscurità.
  Prese dalla tasca dell’abito la scatola di cerini, provò ad accenderne un paio per fare luce, ma la corrente era troppo forte e il bagliore si spegneva dopo pochi istanti.
  Ad un tratto udì un fruscio molesto provenire dall’erba alta che aveva di fronte. Esso si faceva sempre più forte e minaccioso, la donna si mise in guardia attendendo pazientemente che l’avversario uscisse allo scoperto.
  Ma non lo fece.
  Anzi, dopo esser stato per vario tempo a provocarla, si rintanò nella macchia, la indusse malignamente a seguirlo.
  Non pensando ai compagni che stava abbandonando dietro di sé, Malva gli corse dietro, mossa dall’inquietudine e dalla disperazione, desiderando di scappare, di sfuggire, forse, a sé stessa e di perdersi. Spingendosi debolmente sulle gambe sottili, si fece strada tra i cunicoli brulli e stravolti che gli offriva di volta in volta il fitto della foresta.
  «Chi sei? Vieni fuori, maledetto!» lo chiamò digrignando i denti.
  Non ottenne risposta, perciò fu costretta a continuare la sua corsa, ed era così faticosa, così logorante ed estenuante per quel corpo che si era fatto talmente fragile.
  Non riuscendo più a fronteggiarlo, dopo poco si fermò, si chinò a terra piangendo, confusa.
  Che cosa stava cercando di raggiungere? Quale destino l’avrebbe attesa lontano dal rifugio se se ne fosse andata? Valeva la pena di afferrarlo, anche se l’avesse condotta alla morte?
  Ebbene, avrebbe preferito cento volte di più la morte che essere obbligata a convivere il resto dei suoi giorni insieme a coloro che aveva tradito, a marcire come prigioniera nelle grinfie di Timeus e degli altri.
  Il fruscio si era fermato, ma ecco che lentamente si apprestava a tornare indietro, ed era quasi tenero, commosso, ora, il suo mormorio.
  Il lampo di un fulmine squarciò l’aria, in quel frangente di luce si fece innanzi un uomo. Si fermò accanto alla donna, le tese una mano per aiutarla a rialzarsi. Ella l’afferrò e spingendo il viso in avanti posò lo sguardo sugli occhi di colui che era venuto in suo soccorso.
  Le prime gocce di pioggia cominciavano a cadere dalle nuvole, scivolando leggere fra i suoi capelli e lungo le sue spalle, accarezzandole le guance si mischiavano alle sue lacrime: mai si era sentita più libera dal dolore come in quell’istante.
 
  «Volevi forse che io ti seguissi cosicché mi avresti potuta riportare fra le nostre genti?».
  Aspettando una sua risposta, la donna si sistemò meglio sul sedile dell’elicottero, afferrò avidamente, eppure quasi vergognandosene, la tazza colma di tè caldo che il compagno le stava porgendo. Ne bevve un sorso e si scottò la lingua, ma con il freddo che aveva patito di fuori sentiva urgente bisogno di riscaldarsi e avrebbe sopportato anche quel fastidio in bocca pur di ricevere un po’ di calore. Si pulì le labbra con il dorso di una mano e osservò l’uomo seduto accanto a lei. Egli la scrutava silenziosamente, notando amaramente come i fatti avversi l’avessero ridotta in modo così misero.
  «Lo vorrei davvero, Malva. Tutti lo vorremmo. Le ragazze pensano a te in continuazione, ed anche Elisio non fa altro che chiedermi tue notizie. Sono stato incaricato di trovarti e sono certo che saranno tutti molto contenti di sapere che ci sono riuscito», rispose dopo un po’.
  «Questo significa che non puoi farlo?».
  «Gli eventi hanno preso una piega diversa da ciò che avevamo previsto. Ho bisogno che tu rimanga con i sopravvissuti».
  La pioggia picchiettava contro il parabrezza dell’elicottero.
  Mentre rifletteva sulle parole adatte con cui spiegare gli ultimi avvenimenti accaduti attorno al quartier generale, l’uomo strofinava con un panno le lenti rosse tra le mani tozze.
  Senza gli occhiali, gli occhi di Xante apparivano incredibilmente piccoli.
  «Circa un mese fa, una delle nostre reclute è stata assassinata da qualcuno all’interno del gruppo dei ribelli. Sembra che il colpo sia stato inferto a sangue freddo, il ragazzo non ha avuto neanche tempo di reagire. Forse non avrebbe nemmeno voluto, chissà. Comunque sia, poco più tardi è stato trovato un messaggio di minaccia di morte rivolto al capo in un luogo nelle vicinanze. Non sappiamo se si tratti della stessa persona, tuttavia è subito scattato l’allarme nell’intero quartier generale».
  «È per questo motivo che stavate cercando di colpire i sopravvissuti, oggi? Pensavate di sbarazzarvi così di questo pericolo togliendo di mezzo ogni possibile sospettato?» domandò sbigottita Malva.
  «L’idea era quella. La vita di Elisio è troppo preziosa. Nel caos che abbiamo creato, l’unico ad avere la mente lucida sembra essere lui. Lui solo sa come andare avanti, come ricostruire il nostro mondo. Se cade Elisio, per noi non c’è speranza», rispose l’uomo.
  Pose da parte il panno e tornò ad indossare gli occhiali.
  «È stato lui a dare l’ordine di attaccare?».
  «Se la mettiamo così, mi aveva anche dato l’ordine di non attivare l’arma suprema nel caso in cui l’allievo del Professor Platan avesse scelto il pulsante giusto».
  «Ma il ragazzo ha sbagliato, non è vero?».
  Xante tacque.
  La pioggia cominciò a farsi più violenta. Da una parte, Malva era sollevata di trovarsi all’interno del velivolo, al caldo, anziché fuori sotto la tempesta. Presto, però, sarebbe dovuta ritornare, o avrebbe destato sospetti.
  «Mi hanno detto che il Professor Platan è morto», disse ad un tratto, sovrappensiero, riflettendo sul discorso che aveva avuto poco prima con Diantha.
  «Davvero?» Xante sembrava quasi sorpreso «Credevo fosse riuscito a cavarsela insieme agli altri».
  La donna scosse la testa in segno negativo. Osservò il vapore che usciva dalla tazza e si ripiegava su se stesso mano a mano che saliva, disegnando mille spirali e curve.
  «Ascolta, Xante. Elisio e il Professor Platan non erano stati amici, una volta?» chiese, alzando lo sguardo e posandolo sulla massa grigia e scrosciante che ticchettava sul vetro.
  «So che Elisio ha studiato presso di lui per qualche anno», rispose «Ma non credo che lo avesse molto a cuore. Non dimenticare che gran parte del nostro progetto si fonda sulle ricerche che Elisio gli ha rubato. Tradiresti mai il tuo maestro se lo amassi veramente?».
  «Forse sì, se in questo modo potessi salvarlo».
  Xante rise con malinconia.
  «Che cosa vorresti cercare di salvare in questo mondo, Malva? Ogni cosa, comunque, finirà inevitabilmente per soccombere».
 
  Xante riaccompagnò Malva nelle vicinanze del rifugio, le coprì la testa con lo scialle affinché potesse ripararsi dalla pioggia. Le diede una spilla al cui interno aveva installato un congegno che permettesse di rintracciarla dai computer del quartier generale. La donna ripose con cura l’oggetto tra i vestiti, in un punto nascosto che non potesse essere visibile ai suoi nuovi compagni.
  «Scoprirò chi ha scritto quel messaggio. Di tanto in tanto vienimi a trovare, ti informerò di tutto ciò che saprò», disse Malva prima di prendere congedo.
  «Lo farò», l’uomo annuì, la guardò intensamente negli occhi con fiducia e solennità «Abbi cura di te. E ricorda, Malva, l’acqua potrà pur spegnere il fuoco, ma l’acciaio non può nulla contro la divampante forza delle fiamme».
  La donna inarcò le labbra in un sorriso affilato. Nei suoi occhi rossi sembrava riprendere vigore il suo spirito ardente.
  Si rivolsero uno sguardo, in silenzio, sotto il leggero calare della pioggia, poi ognuno fece ritorno alla propria strada.
 
  Bussò. Dovette attendere a lungo prima che gli venisse dato il permesso di entrare.
  «Avanti», risuonò allora la voce di Elisio, profonda e imperiosa.
  Xante aprì la porta, fece pochi passi all’interno e rivolse al capo un leggero inchino.
  Lo studio di Elisio non era di eccessive dimensioni. Abbastanza capiente, conteneva diversi scaffali e librerie in cui erano stati riposti tomi di inestimabile valore. Molti erano i libri antichi che l’uomo soleva conservare nelle proprie stanze per esclusivo uso personale. Vi erano voluminosi libri di filosofia, di scienza, letteratura e poesia. Spesso, durante le prime notti dopo l’apocalisse, Xante lo aveva trovato seduto alla sua scrivania con uno di quei volumi in mano: come se, nella lettura di quelle pagine, avesse potuto trovare conforto dal caos che aveva creato, come se avesse potuto porvi una qualche sorta di ordine illusorio.
  Negli ultimi tempi, invece, sembrava aver trovato una nuova occupazione. Il suo tavolo non era più coperto dagli spessi strati delle pagine dei libri, non aleggiava più nella stanza quell’odore di carta invecchiata.
  Ora sulla scrivania si affollavano perennemente cavi, lamine di metallo, cacciaviti di diverse dimensioni, chiodi, spille, attrezzi vari. Elisio lavorava incessantemente a quello strano oggetto che era sul tavolo. Di volta in volta, si era accorto Xante, la sua forma cambiava: si trattava forse di pezzi differenti che dovevano essere infine assemblati in qualche modo?
  Il capo lo accolse con un saluto appena sussurrato, incerto, quasi. Con gli occhiali sul naso osservava concentrato i fili che stava intrecciando all’interno del congegno, non rivolse al sottoposto la minima attenzione. Prese delle piccole forbici e tagliò un filo di rame più lungo degli altri.
  Soltanto quando Xante gli comunicò del ritrovamento di Malva staccò per un attimo gli occhi dal suo lavoro: il suo sguardo si era fatto acceso, vivido come una fiamma nello scoprire che la sua compagna era ancora viva. Fece un sorriso, un sorriso pieno di speranza e sollievo. Xante ne fu sorpreso: com’era incredibile veder quel modo di sorridere su quel volto tanto austero e rigido!
  «E dunque l’avete trovata?» domandò subito «Dov’è? Oh, dimmelo! È lì con te? Allora?».
  L’uomo scrutava impaziente la zona buia oltre la porta, nello sforzo di scorgere la cara figura della donna.
  «Mi spiace, Elisio, ma Malva è stata recuperata dai ribelli. L’abbiamo trovata per un caso fortuito questa mattina durante i nostri giri di ricognizione a Castel Vanità. Le ho raccontato di quella faccenda ed ha deciso di rimanere con gli altri nel tentativo di individuare chi ha scritto il messaggio».
  Elisio rimase in silenzio. Si tolse gli occhiali e abbassò la testa per un po’, pensieroso.
  «Mi auguro che sia stata una sua spontanea decisione e che non sia stato tu a convincerla in qualche modo. Conoscendola, mi sarei aspettato di vederla tornare immediatamente, attaccata com’è ai suoi agi e alle comodità. Ma forse, stavolta...».
  «Assolutamente», lo interruppe prontamente Xante «È stata una sua decisione. Sai quanto Malva tenga a te. Non ha esitato un momento. Ritornare tra noi, di fronte ad una simile occasione, sarebbe valso a un tradimento».
  «E come tradire colui che si ama?» sussurrò l’altro ad un tratto, socchiudendo gli occhi, perso in qualche pensiero che sembrava abbracciarlo tutto e riempirlo nell’animo. Posò lo sguardo sul marchingegno che campeggiava sul tavolo, osservò i bulloni e le viti che ancora non aveva stretto, i cavi da collegare e le lamine da saldare, sconsolato per la lontananza della gemella. Inforcò gli occhiali e si rimise all’opera, mentre Xante lo scrutava attentamente, cercando di capire che cosa fosse quell’oggetto a cui stava dedicando tanta cura.
 La forma centrale era simile a quella di un corto parallelepipedo, stretto in altezza. Da una delle sue facce più lunghe si diramavano perpendicolarmente quattro fasce di fili, al momento fissate provvisoriamente a delle sottili asticelle. Un altro gruppo, invece, usciva da una delle facce adiacenti alla prima ed era sistemato allo stesso modo degli altri. Infine, le cinque fasce si congiungevano tra loro e fuoriuscivano insieme dalla parte opposta del parallelepipedo, in linea retta. Parte della struttura era coperta esternamente da un rivestimento di metallo, tuttavia la forma complessiva era ancora troppo poco definita per capire di cosa si sarebbe potuto trattare una volta terminato il lavoro.
  Non avrebbe saputo dirlo con certezza, ma sembrava che Elisio volesse concluderlo al più presto.
  Nelle ultime settimane aveva cominciato a comportarsi in modo insolito. Le sue condizioni di salute erano migliorate molto, ma con la guarigione e il progressivo ritorno delle forze aveva iniziato ad avere delle strane abitudini. Spesso si chiudeva nelle proprie stanze per ore interminabili: nessuno era riuscito a scoprire per quale motivo si isolasse tanto a lungo dagli altri.
  Nelle mattine ricolme di lavoro, c’erano sempre certi orari in cui lasciava la propria postazione e l’assegnava momentaneamente a Xante per potersi allontanare e trattenersi nelle sue camere per qualche quarto d’ora: una volta in metà mattinata, poi di nuovo dopo pranzo e infine dopo cena. Solitamente la sera era il momento in cui maggiormente non voleva essere disturbato.
  Soltanto a pochi privilegiati era concesso d’entrare nei suoi appartamenti durante quegli orari, ma raramente Elisio permetteva effettivamente ad essi di rimanervi per più di un paio di minuti.
  Girava voce che in quelle stanze fosse nascosto un tesoro d’inestimabile valore, che il capo custodiva gelosamente fra i suoi averi e che non intendeva condividere con nessuno. Di cosa si trattasse, tuttavia, non era dato saperlo. Alcuni ipotizzavano un qualche bel quadro o una statua dalle forme perfette che celasse nelle proprie curve il segreto della vita eterna, ma non c’erano né indizi né prove di qualcosa di simile. Altri invece erano convinti che Elisio stesse lentamente sprofondando nella pazzia e che cercasse di isolarsi semplicemente per nasconderne gli effetti al resto del gruppo.
  Nessuno comunque avrebbe potuto dire quale fosse la verità.
  «Ho visto che spesso in questi giorni ti sei recato al cimitero. Per quale motivo?».
  «Vado a trovare Pyroar e gli altri miei Pokémon. Di tanto in tanto gli lascio dei fiori».
  Lo scienziato annuì, eppure non sembrava molto convinto della sua risposta. Sempre fermo accanto alla porta, ad un tratto chiese: «Elisio, posso sapere a che cosa stai lavorando?».
  Il capo alzò lo sguardo all’improvviso, fissò l’uomo con occhi gelidi: «Al momento non è di tuo interesse, Xante», rispose quasi infastidito, con voce ruvida e nervosa.
  «Eppure deve essere qualcosa a cui tieni molto, ho ragione?» insistette l’altro.
  «Ascolta, ho un favore da chiederti. Mi faresti il piacere di chiudere quella bocca e tornare al tuo lavoro?».
  Xante s’irrigidì: accadeva raramente, ma l’atteggiamento di Elisio poteva spaventare persino lui, che gli era così vicino. Abbassò il viso in segno di scusa e si congedò in silenzio. Richiuse lentamente la porta osservando il capo in modo diffidente. Di cosa si trattava quel progetto segreto per cui si stava impegnando così tanto? Perché tenerlo così nascosto? Gliel’avrebbe mai rivelato, un giorno?
  Si allontanò senza fare rumore, percorrendo a passi pesanti il lungo corridoio che portava all’uscita dalle stanze. Passò accanto alla sala delle opere d’arte, le luci erano spente. Oltrepassò il vistoso portone sulla cui cima campeggiava il simbolo araldico del giglio e si diresse verso i dormitori: quel giorno aveva faticato abbastanza, di certo un bel sonno ristoratore non avrebbe guastato.

 
  
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