Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi -
questa
morte che ci accompagna
dal
mattino alla sera, insonne,
sorda,
come un vecchio rimorso
o
un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno
una vana parola,
un
grido taciuto, un silenzio.
(…)
Per
tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà
come smettere un vizio,
come
vedere nello specchio
riemergere
un viso morto,
come
ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo
nel gorgo muti.
{C.
Pavese}
IX
Un blasfemo
Una volta
avevo
creduto che vivere in città fosse più difficile che nei piccoli
villaggi.
Mi sbagliavo:
nei paesi non campi di espedienti, perché la gente parla, e, se ti
prendono, ti fanno la festa in gruppo; è questione di un attimo.
Dalla
confusione del porto, mi spostai alla rischiosa quiete del bosco.
Rodorio non è
un luogo qualsiasi: per la vicinanza con il Santuario è abitato da
gente capace di combattere e molto poco propensa a farsi mettere nel
sacco.
Io, però, non
potevo lasciarmi sfuggire nessuno: passava troppa poco gente di lì.
La pietà è
una virtù che la miseria non contempla.
Per Blanca ero
già diventato un ladro; sempre per lei mi avrebbero chiamato taglia
gole.
*
Ricordo
bene il primo uomo che uccisi.
Tempo
dopo avrei riconosciuto il suo abbigliamento in quello degli
aspiranti Saint, e avrei accolto quella notizia non senza un certo
compiacimento.
Sono
sempre, sempre stato meglio di tutti gli altri: potevano
disprezzarmi, ma la natura mi aveva generato più forte di loro, la
vita mi aveva temprato più duramente, le stelle amato più
disperatamente – nel bene e nel male -, e mi aveva scelto il più
grande di tutti i maestri.
“E
per questo credi di essere meglio di tutti noi?”, mi disse un
giorno un tizio al quale avevo appena spaccato il naso.
“Oh
no”, risposi. Tirava un vento lento e freddo, indicai le Dodici
Case: “Meglio di tutti loro.”
Certo
che non lo pensavo. Fu però decisamente esilarante: quella volta
l'avevo sparata talmente grossa che nessuno ebbe il coraggio di
rispondermi niente.
Da
allora presi gusto ad affermare scempiaggini del genere piuttosto
regolarmente, tanto la forza mi dava ragione ogni volta e, il giorno
in cui mi fosse mancata, mi sarei concesso una risata.
Avevo un
coltellaccio rugginoso nella manica, lo tenevo più per farmi
coraggio che non altro, perché, per recidere qualsiasi cosa, avrei
dovuto usarlo come un'ascia, tanto la lama era smussata.
Un giorno ero
nascosto tra gli arbusti del sottobosco e mi passò davanti un
ragazzotto dalle spalle larghe, che doveva avere un paio d'anni più
di me. Alla cintura portava una piccola bisaccia, che tintinnava in
maniera assolutamente irresistibile.
Sembrava uno
sprovveduto, pensai che mi stesse porgendo le sue monete su un piatto
d'argento. Ma, come accade sempre in queste cose, chi in realtà
porgeva qualcosa su di un piatto d'argento ero io, e offrivo la mia
testa.
Quando tentai
di assalirlo, balzandogli addosso da dietro, egli riuscì ad
afferrarmi per il polso e a gettarmi a terra.
Ricordo il
sapore metallico del fango e del sangue nella bocca, l'odore di
foglie marce sul terreno, la totale umiliazione. Ancora oggi, quando
mi offendono, mi sembra di sentire quell'aroma boschivo nel naso.
Mi sollevò il
mento con la punta sporca dello stivale: “Ho capito chi sei.”
Non so in che
lingua lo disse né come feci a capirlo. Magari ero troppo
suggestionato dalle mie ansie e capii quello in mezzo ad una lingua
incomprensibile.
All'umiliazione
si unì il terrore puro: erano accadute le uniche due cose che non
dovevano succedere: mi aveva abbattuto e riconosciuto.
Provai una
rabbia feroce verso qualunque cosa di questo mondo: me, lui, Blanca
che mi condannava, verso il fango sui miei vestiti e al vento che
rideva tra le fronte maledette.
Ero già
completamente impotente di fronte alla malattia – non lo sarei
stato davanti ad un uomo.
Con la coda
dell'occhio lo vidi toccarsi la borsa e ridere. Il suo piede mi
comprimeva il torace contro il suolo e il fango mi entrò nei
vestiti. Sentii le costole scricchiolare paurosamente e il fiato
mancare.
Ho ragione
di
pensare che il mio cosmo si fosse destato proprio in quell'occasione,
e che lo avessi impiegato in tutte le uccisioni successive.
Scoprii in me
una forza eccessiva per essere frutto della sola disperazione – se
avessi contato sulle energie fisiche di quel periodo, sarei andato
ben poco lontano.
Ad oggi non
credo che mi avrebbe ucciso, ma al tempo non potevo immaginare
nessun'altra possibilità.
La mia testa
era completamente alienata dalla morte.
Si trattava
della sua vita per la mia.
Spazzatura
per spazzatura.
Nessuna
vita aveva alcun valore. Io, però, avevo qualcuno da salvare e
dovevo ancora vivere quel meglio che ti promettono tutti:
sopravvivere mi spettava di diritto e non potevamo entrambi sfamarci
a quel banchetto.
Sentenziai
proprio così: quest'uomo deve morire.
Le
stelle vennero in mio soccorso.
*
Tra
le Case dello Zodiaco, la costellazione del Cancro è da sempre la
più ambigua.
Il
mito dice che l'armatura sorse dall'Etna,che
fu forgiata da Efesto in persona all'interno della sua fucina nelle
viscere del vulcano.
La
bruttezza del dio è fatto conclamato: egli realizzò la Cloth e la
donò ad Athena per dimostrarle il suo valore, poiché era stanco del
fatto che, sull'Olimpo, si accennasse solo ai suoi difetti fisici e
mai ai suoi talenti.
Scelse
quella forma pensando al granchio quando sguscia fuori dagli scogli e
risale verso la luce: una creatura marina e terrestre, che gioca con
l'onda senza che questa la porti mai via.
Il
granchio dell'acqua che emerge da un vulcano: Efesto voleva dire che
tutte le creazioni gli erano possibili, che anche lui, un giorno,
sarebbe uscito di lì per giocare con l'onda, riprendersi il posto
che gli spettava nell'Olimpo.
La
Cloth è opera del genio e della rabbia amara di un dio, e ha sempre
scelto individui piuttosto bizzarri.*
“Arrabbiati
con la vita”, li definì Sage un giorno.
“Anche
voi, Maestro?”
Scrollò le spalle e guardò lontano.
“Manigoldo, questa armatura è stata ciò che procurò ad
Efesto
l'eterna gratitudine di Athena: ha guarito questa rabbia. È nata per
questo: per guarire.”
Posso
dire di non crederci, perché ho deciso di non credere a nulla. Ma
vedo i fatti, e per questo posso dire: sì, lo credo.
Anche
quel giorno, Cancer si destò in favore di uno di quegli insalvabili.
Estrassi
il coltello dalla manica e riuscii ad alzarmi. Il sorriso sul viso
del mio nemico si era spento e tramutato in un'espressione di puro
orrore.
Vedere
il mutamento fu meraviglioso.
Con
un balzo gli fui addosso e, gettatolo a terra, affondai la lama nella
sua gola.
Una
scossa mi percorse dal polso al capo, guardai gli occhi sgranati di
quel giovane – avevo ucciso un uomo.
*Questa
stupida mitologia l'ho inventata io,
Kurumada
è reo solo di aver collocato la Cloth sull'Etna
*
In
quei giorni di impotenza, ammazzare nel modo più brutale possibile
fu l'unica cosa capace di donarmi entusiasmo.
Mi
sentivo forte come non lo ero stato mai ed ero padrone del limite tra
i due mondi.
Se
sulla vita non avevo alcun potere ed essa continuava a sfuggirmi di
mano, se la morte è quell'ombra che chiude ogni possibilità ad un
uomo, io presiedevo lo squarcio tra i due cieli.
Ero
io ad aprire i cancelli dell'Ade, io ad essere l'unico ad avere la
forza e il diritto di restare in vita.
Ero
travolto dai fatti dei vivi, ma resistevo, mentre qualcuno doveva
stramazzare davanti a me.
Non
mi sono mai pentito di quello che ho fatto.
Credo
fermamente che, se sono arrivato a tanto, un motivo ci fosse. Tanto
mi basta.
Le
mie uccisioni diffusero la voce della presenza di un bandito nella
zona, e fu così che i passi di Sage si mossero verso di me.
Prendevo
le anime sui palmi e le facevo esplodere schiacciandole nel mezzo,
come si fa con le zanzare.
Avevo
realizzato un sogno: veder sbocciare l'anima di un uomo ed esserne il
diretto responsabile.
Fu
l'inizio di un incubo: era la definitiva conferma, aggravata dalla
malattia di Blanca, della leggerezza della vita umana.
Spazzatura
– spazzatura – spazzatura!.
*
Incamminiamoci
verso l'epilogo.
Raccontarlo
non farà male – la vita è solo un atteggiamento.
Non
prendo fiato per paura – sono solo stanco di blaterale.
Anni
dopo l'avrebbero chiamata “la strage di Rodorio” e considerata un
casus
belli.
Un
gruppo di cinque Specters doveva assalire il villaggio più prossimo
al Santuario per far uscire alcuni Cavalieri e permettere ad altri
guerrieri di Hades di penetrare direttamente in territorio nemico.
Era
un piano semplice e suicida: i Cavalieri della Morte dovevano entrare
al Santuario e uccidere più che potessero, fino a che qualcuno non
li avesse uccisi a sua volta, per garantire il massimo dei risultati.
In
cambio sarebbero stati resuscitati dal loro signore quando fosse
tornato, e avrebbero ricevuto grandi onori da parte di tutto
l'esercito.
Nessuna
di queste promesse fu mantenuta, ad ogni modo, ma questo non ha
importanza.
Accadde
in una notte di ottobre inoltrato, l'inverno aveva deciso di bussare
alla porta in anticipo e l'aria era molto fredda.
Stavo
tremando dietro alla finestra di casa e guardavo verso l'alto le
stelle tra le fronde degli alberi.
In
lontananza, dalla piazza centrale, una musica e la luce di un falò
faceva colare riflessi arancioni per le vie vuote.
Pensavo
ai gitani, li immaginai nella fiamma della candela che mi baluginava
accanto. La chioma lunga di Blanca in anni migliori e la gonna viola
con i sonagli, i fianchi al ritmo del tamburello.
La
musica da Rodorio alla Spagna, un ponte dall'alto del quale rivedere
la Sicilia.
Ma
non aveva più importanza – non c'è nulla che ne abbia.
Da
tempo avevo smesso di trovare requie in memoria e in fantasia.
Non
credevo più in nulla: la mia vita era ridotta ad un'unica scia di
morte – il sangue che versavo io e il morbo di Blanca che incalzava
anche me.
Ovunque
mi rivolgessi – nel passato, nel presente o nel futuro -, mi
sembrava che non ci fosse altro, o che, qualora ci fosse stato, fosse
stato fagocitato da quel gorgo nero.
E
la morte mi seguiva, si calò a passo felpato nella tenebra di
Rodorio in quella notte di quiete e di festa.
Mi
ero appena addormentato.
*
Giunsero
entrando dalle porte della città lasciate aperte, di soppiatto, come
gatti in cucina.
Giunsero
come un corteo funebre, in religioso e tragico silenzio; anche i
carnefici camminavano verso il loro funerale, e ne erano consapevoli.
Nessuno
si accorse della loro presenza in città – il cosmo celato, i
mantelli foschi sul capo, il passo leggero degli assassini e dei
condannati a morte.
Il
loro assalto cominciò con discrezione, dovevano richiamare
l'attenzione, ma non volevano fare un gran baccano. Per quel che ne
so, sono stati gli ultimi Specters con un briciolo di classe.
Uccisero
in silenzio nelle case più periferiche, come a cingere la città di
un cordone di sangue.
Sapevano
che ogni istante lì era uno di meno della loro vita, sapevano che
sarebbero arrivati i Gold e che avrebbero dovuto resistere solo per
farsi uccidere.
Avevano
addosso l'acciaio delle Surplici: si erano portati dietro il loro
catafalco.
Avrebbero
appiccato il fuoco, si sarebbero gettati sulla folla in piazza, ormai
circondata, e avrebbero atteso.
*
Un'ombra passò sotto la mia finestra. Uno di loro si limitò a passare il fuoco alla tettoria e ad andarsene, l'altro fu attirato dai colpi di tosse di Blanca e decise di entrare.
Fare
il boia dove qualcuno sta male ha tutto un altro sapore, parola mia.
Uno
si sente così meravigliosamente cattivo che quasi quasi mi viene da
perdonare il mio nemico.
Dopotutto,
aveva anche lui i suoi problemi e la sua storia, e, alla fin fine,
ho fatto praticamente tutto io da solo. Lui si è limitato a
guardarmi basito tutto il tempo e a fare le smorfie un paio di volte
per farmi paura.
Bu!,
ecco
tutto ciò che ha fatto.
Ricordo
ancora oggi il suono agghiacciante dei suoi tacchi contro le assi di
pavimento: lo scricchiolio delle giunture delle Surplici non è di
questo mondo – un grattare roco e basso, come le unghie di un
carcerato contro le pareti di una cella.
Non
aprii subito gli occhi, pensai che fosse solo un topo agonizzante per
le trappole che avevo lasciato sotto al letto.
Credo
che lo Specter avesse visto Blanca mezza moribonda e avesse deciso di
ucciderla – forse era un gesto di pietà, arrivati a quei punti.
Tuttavia,
egli non faceva volontariato ed apparteneva a quella razzaccia di
guerrieri che non uccidono se non sono guardati da qualcuno.
Quel Lord decise dunque di venirmi a svegliare a titolo informativo.
Proprio nel momento in cui mi si fece vicino, cominciò a diffondersi l'odore del fumo all'interno della casa, fu ciò a destarmi.
Non
ebbi nemmeno la forza di urlare per il terrore di quell'apparizione.
Pareva
indossare la tenebra stessa ed emergere da essa, quel viso
bianchissimo che mi trovai di fronte. Due occhi enormi e sgranati,
colpiti dalla luce lunare, le narici dilatate.
Con
le labbra tendeva un sorriso che ho sempre definito “blasfemo”:
un sorriso tirato e indefinibile, che pare una smorfia rigida e
sarcastica. Esso aveva la piega uguale a quella che si impone ai
volti dei cadaveri prima di esporli in camera mortuaria per
mascherare i lineamenti sconvolti dall'agonia.
Il
sorriso di circostanza di chi ferma in gola una bestemmia, ed è
costretto ad ingoiarla per una posa.
Credetti
per un momento di avere il demonio davanti: oggi so che quello era
solo il viso di un uomo che andava a morire, che esorcizzava quel
pensiero infliggendo la morte ad altri.
Un
viso come il mio.
Guardami,
dicevano
quelle iridi.
“Guardami.”,
imperò la sua voce con un sussurro. Aveva un bel timbro, né troppo
acuto, né cavernoso.
Guardalo,
Manigoldo: conta i tuoi ultimi istanti, lotta contro la morte con
tutte le tue forza e poi osserva – osserva bene – come Ella ti
toglie tutto in un istante.
Ed
è una cosa così semplice che pare sia solo uno sgambetto.