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Autore: Katie Who    04/11/2015    2 recensioni
[Seguito di: Promise me you'll come back]
La storia è ambientata nel post 4x10 di TVD e si sviluppa prendendo spunto dagli eventi di The Originals pur non seguendone esattamente l'ordine temporale.
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"L’ultima cosa che Kol vide prima di sentirsi andare in fiamme il cuore e tutto il resto, fu la faccia di suo fratello Nik, attonito, appena arrivato davanti alla porta dei Gilbert, ma ormai troppo tardi. Si chiese se suoi fratelli avrebbero sentito la sua mancanza o se lui avrebbe sentito la loro. In quanti atroci modi avrebbero distrutto le vite di Elena e Jeremy vendicando quello che gli avevano fatto?"
E se invece ci si trovasse costretti a guardare i propri fratelli vivere perfino meglio di prima? Chi può soccorrerti quando è il tuo stesso sangue a ripudiarti?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Elijah, Klaus, Kol Mikaelson, Nuovo personaggio, Rebekah Mikaelson
Note: Cross-over, OOC, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Family Don't End With Blood.'
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Capitolo 32 – Hangover
 
 
 




 
«Non abbiamo nemmeno una macchina…» - sbuffò mentre Mia chiudeva a chiave la loro stanza.
«Per essere un vampiro dalle super abilità sei veramente viziato.» - uscirono, lei aveva passato la giornata a studiare il servizio pubblico della città ed ora conosceva ogni linea di autobus possibile ed immaginabile.
«Per essere una miliardaria stai fin troppo attenta a come spenderli.» - le fece il verso e lei lo ignorò. La luna era già ben visibile nel cielo, Mia sentiva il fremito della trasformazione, dovevano muoversi. Il luogo che gli era stato indicato era un’immensa distesa di alberi, con alcuni sentieri fra la vegetazione. Entrarono nel parco illuminato dai lampioni, constatandone la surreale calma. - «Come li troviamo?» - Kol si era seduto su una delle panchine buttando indietro la testa.
«Tra poco ti fiuteranno e saranno loro a venire da noi.» - rispose lei sedendosi nella panchina davanti alla sua.
«Sono l’esca?» - domandò stizzito. - «Sai almeno quanti sono?»
«Se è solo il branco di Bran, non molti.»
- la sua era più una speranza che una vera ipotesi. Così come il gruppo di lupi che avevano incontrato, anche altri potevano essere accorsi. - «Fa quello che devi per restare tutto intero, ma Bran…»
«Tutto tuo tesoro.»
- concluse lui.
«E’ il momento.» - aveva sentito un odore familiare, qualcosa, o qualcuno non era molto lontano da loro.
«Li sento.» - disse Kol. Riusciva a sentire il rumore di quelle bestie correre in gruppo dirette verso di loro. - «Vedi di trovare il tuo uomo prima che lo faccia io.» - disse sorridendole e poi svanendo fra gli alberi. Sarebbe stato meglio se fosse rimasto con lei, ma a Kol non piaceva aspettare che qualcuno lo cacciasse, era troppo abituato ad essere il predatore per fingersi un’indifesa preda. Anche lei li sentiva, percepiva il loro odore, le ricordava com’era correre con Eric ed il loro branco. Da quanto tempo non sentiva e vedeva Robert? Troppo, avrebbe dovuto andarlo a trovare un giorno di questi, magari portando anche i bambini. La loro gente aveva il diritto di conoscerli, Eric lo avrebbe voluto. Improvvisamente in quell’assurda situazione sentiva al mancanza del branco, di quell’armonia, di quel senso di appartenenza, di quelle serate passate a sentire gli anziani raccontare storie sui vampiri.
Arrivò in prossimità dello slargo sterrato dove erano state parcheggiate le roulotte, i camper e le auto. Non c’era rimasto nessuno, ma era impossibile che avessero lasciato i bambini incustoditi. Uscì dalla vegetazione, avanzando verso uno dei camper, dal quale sentiva una televisione.
«Bran.» - lo riconobbe ancor prima del ringhio che fece tremare la terra sotto i suoi piedi. Prima perfino che il suo odore le raggiungesse le narici. Sapeva di averlo alle spalle, perché istintivamente si era sentita tesa, il brivido della vendetta. Bran era un lupo più grosso della media, in quanto a stazza competeva alla pari con Eric. Anche in forma umana, si presentava come una figura alquanto minacciosa, di sicuro il genere di uomo con cui si evita di avere un diverbio. Ringhiava con il muso abbassato quasi a sfiorare il terreno sabbioso con le fauci. I denti bianchissimi, brillavano riflettendo il bagliore della luna e finendo con l’assomigliare a delle sciabole. Aveva il pelo grigio, striato da alcune venature più scure, quasi nere. Era pronto ad attaccarla, perché si era introdotta nel loro campo, proprio durante la loro notte sacra. - «Sei piombato anche alle sue spalle!?» - gli urlò rovesciando uno dei tavoli da campeggio e riuscendo quasi a colpirlo. Era veloce ed agile, la stazza non lo rallentava minimamente, aveva schivato il tavolo con un balzo, di diversi metri. - «Ha sempre cercato di venirti incontro, anche quando osavi contestare il suo legittimo comando!» - tutte le luci dei lampioni scoppiarono facendoli piombare quasi nella totale oscurità. Bastava la luna, non avevano bisogno di altro per vedersi, per sentirsi. - «Lo odiavi per ciò che era, così come odi me per ciò che sono diventata, solo perché non puoi accettare la tua mediocrità.» - giravano in tondo. Non si staccavano gli occhi di dosso. Proprio come lei aveva riconosciuto lui, lui aveva riconosciuto lei. Di solito mentre gli altri suoi familiari facevano un primo giro per sgranchirsi le gambe lui restava a guardia dei più giovani, di coloro che ancora non avevano innescato la maledizione. L’aveva sentita arrivare, nonostante le dovesse riconoscere una certa abilità nel rendere quasi impercettibili i suoi movimenti, pur avendo ancora forma umana. Si era nascosto, non per paura,  ma per essere certo che quella sciocca ragazzina intendesse davvero affrontarlo, aveva aspettato fino a che non le aveva visto compiere dei decisi passi verso una delle roulotte. Se lei fosse stata un semplice lupo a quell’ora le avrebbe già squarciato la gola, ma doveva essere cauto per via della magia. Una pericolosa commistione quella del lupo con i poteri di una strega, un mix interessante che se solo fosse stato controllabile avrebbe giovato alla loro intera razza. Ma a questo proposito lui aveva già in mente un paio di idee. Ai lupi serviva ciò che Mia era diventata grazie al morso di Eric, era il prossimo stadio nella loro evoluzione, l’occasione per essere perfino superiori ai loro diretti antagonisti. Se Sebastian avesse tenuto fede alla sua metà dell’accordo a quell’ora quella ragazza sarebbe stata una cavia da laboratorio ed i suoi preziosi figli, l’arma perfetta per ricattarla. Ora invece toccava a lui ammansirla, addomesticarla ed usarla. Non aveva perso le speranze dopo il fallimento di Milic, gli era arrivata voce che i branchi del Centro America erano riusciti a rompere la maledizione della luna piena grazie alla celebrazione di un matrimonio, osservando gli antichi riti.  Il puzzle tornava a comporsi diventando perfino più bello di come lo aveva inizialmente immaginato. Non avrebbe avuto bisogno dei vampiri, i lupi si sarebbero guadagnati la loro libertà e delle nuove capacità da soli.
Più lo guardava e più si rendeva conto di quanto dovesse essere potente in quella forma. Non aveva mai visto un lupo così maestoso, seppur decisamente rivoltante. Sapeva cosa stava pensando, la stava aspettando per paura della sua magia, perché Bran sicuramente non la temeva come lupo. Lui che non aveva temuto neppure Eric di sicuro non sarebbe tremato alla sua presenza, ma esitava perché non erano alla pari. La magia era l’unica cosa che le permetteva di essere ancora lì in piedi ed incolume. Con essa avrebbe potuto facilmente disfarsi di Bran, eppure aveva già deciso che non l’avrebbe usata. Forse era la parte di lupo che stava prevaricando, ma moriva dalla voglia di fronteggiarlo solo come due lupi, solo come lui aveva affrontato Eric. Voleva vederlo sconfitto così, proprio da ciò che non lo intimoriva. Lasciò prendere il sopravvento alla sua parte animale, diventando identica a lui, smettendo di comunicare verbalmente per iniziare a farlo a morsi. A paragone Mia e Bran sembravano un mastino napoletano ed un volpino, non c’era confronto. Lui aveva alle spalle decenni di combattimenti fra lupi, aveva vissuto esiliato in quelle terre fredde, si era battuto con i suoi simili e con i vampiri per rimanere in vita e per far prosperare la sua famiglia. Lei aveva vissuto al caldo, nella culla della cultura occidentale, protetta e difesa non solo dalla sua famiglia, ma da un’intera comunità di esseri sovrannaturali. Sfidare in uno scontro fisico un uomo del genere era firmare la propria sconfitta oltre che la propria morte.  Eppure ogni volta che quelle zanne perforavano una parte di lei, non era il dolore ciò che sentiva, ma una crescente e bruciante vendetta. Le tornavano in mente le ferite sul corpo di Eric, lui, la sua assenza, il modo in cui la accarezzava, come aveva sempre badato a lei. E finché avrebbe avuto un pezzo di sé ancora intero nessuna di quelle ferite l’avrebbe fermata. Era rossa ormai la terra su cui poggiavano le loro zampe, bagnata dal sangue di lei, ed anche un po’ da quello di lui. Ferite superficiali le sue, profonde, forse addirittura mortali, quelle di lei.
Tornò umana, quasi al confine con la perdita di sensi ormai. Non era più padrona dei cambiamenti nel suo corpo, perché a quel punto è l’istinto di autoconservazione a prendere il sopravvento. In quella forma quei graffi facevano ancora più paura, non importava quanto velocemente potesse guarire, non sarebbe mai stato abbastanza da salvarla dal prossimo affondo. Se lei non avesse avuto un motivo così valido per odiarlo, lui avrebbe vinto e lei sarebbe morta. - «Tu non lo hai affrontato alla pari.» - disse mentre un forte vento impediva al lupo di avvicinarsi a lei. Ironico come lo avesse realizzato solo ad un passo dalla disfatta. Se Bran avesse affrontato Eric esattamente come lei aveva deciso di affrontare lui, non lo avrebbe mai battuto. Gli anni di esperienza li avrebbe pagati come vecchiaia, la forza, la velocità, la ferocia, poteva essere il più straordinario fra i lupi, ma sarebbe sempre stato costretto in ritirata contro un Alfa.  - «In quanti lo hanno ferito prima che tu potessi dargli il colpo di grazia? Quanto poco onore hai messo in quel combattimento?» - urlava e piangeva, mentre si teneva una mano sul fianco a trattenere il sangue che continuava a perdere. Lei era sempre più debole e così la sua magia. Bran riuscì ad addentarle una gamba trascinandola per diversi metri fra le sue urla. Strusciava sulla terra, si alzava in aria un fumo di polvere bianca, mentre lei cercava un qualunque appiglio e ciò che trovò fu un pezzo di alluminio, forse la gamba del tavolo con cui aveva cercato di colpirlo all’inizio. Quando sentì le fauci del lupo liberare la sua gamba maciullata, sapeva a che cosa avrebbe puntato dopo. Ferisci la preda ed uccidi la preda. Un concetto semplice, basilare, le si sarebbe avventato sul collo, strappandole il respiro. Lo guardò negli occhi l'attimo prima che quei denti aguzzi le azzannassero la gola, un secondo in ritardo rispetto al palo di alluminio che gli perforò il corpo. Il morso non si strinse mai, la graffiò superficialmente, per poi definitivamente allentarsi mano a mano che la gravità spingeva il corpo del lupo facendo penetrare sempre più in profondità la gamba del tavolo. La bestia le si accasciò addosso con tutto il peso, imbrattandola di sangue ed interiora, in un abbraccio di morte calda. Respirava ancora impercettibilmente, quando tornò ad essere umano e lei se lo scrollò di dosso in un gesto pieno dell’infinito schifo che provava per lui. Bran non aveva intenzione di ucciderla, avrebbe stretto le fauci intorno al suo collo senza strapparle la vita. Le serviva viva e come spesso accade in uno scontro di quel genere, chi non vuole la vita dell’avversario è destinato a perdere la propria.
Mia guardò nuovamente il corpo dell’uomo ed in quel momento la colpì un pensiero, quella era la sua prima vittima. Sino a quel momento non aveva mai ucciso nessuno, nessuno che sarebbe effettivamente rimasto morto almeno. Era ufficialmente un’assassina e non era un pensiero né bello né brutto, semplicemente era.
«Confesso che per un attimo ho creduto che saresti davvero morta.» - disse Kol finalmente uscendo fuori dal suo nascondiglio. Mia lo aveva fiutato poco prima di tornare umana. Era rimasto lì ad osservarli, anche quando Bran l’aveva ferita e trascinata. - «Proprio un bello spettacolo.» - si era accucciato davanti a lei, le copriva la vista sul corpo di Bran dal quale lentamente scivolava via la vita. Non le faceva vedere ciò che aveva commesso, attirava su di sé il suo sguardo e la sua mente.
«L’ho ucciso.» - disse. Era un’ammissione, ma non c’era alcun rimpianto, alcun senso di colpa, alcun rimorso. Era solo una semplice ammissione. Un dato di fatto.
«Si e ti posso assicurare che chiaramente non è il genere di cosa che fa per te.» - le aveva passato un dito sulla ferita, la assaggiava come se fosse della panna. - «Oh, avevi pubblico.» - Kol sparì entrando in una delle roulotte tirandone fuori un bambino piangente ed evidentemente terrorizzato.
«No-Nonno!» - disse fra le lacrime ed allora Mia iniziò di nuovo a far girare le rotelle nel cervello. Ricordò che Bran aveva una figlia di qualche anno più piccola di lei, ma nel fascicolo di Andrev non c’era alcuna menzione su eventuali nipoti. Comunque se Kol era lì a tenere per i capelli il bambino, la madre doveva essere da qualche parte nel bosco, o forse da più parti. Ciò che era certo, era che non sarebbe stata viva. Nessuno di quel branco lo era più ormai, forse solo qualche superstite fuggito ormai così lontano da non permetterle nemmeno di fiutarne l'odore. Kol lasciò andare il ragazzino aspettando di vedere se sarebbe corso da Bran o nel bosco, per cercare di salvarsi la vita.
«Che vuoi fare? Vai da lui o scappi?» - gli domandò sadico, mentre quello tremava di paura.
«Lascialo stare.» - disse lei riuscendo ad alzarsi a fatica. - «Mi dispiace per quello che hai dovuto vedere…» - disse facendo qualche passo nella loro direzione. Erano scuse vuote, perché sapeva che non sarebbero mai state abbastanza che quel bambino sarebbe rimasto segnato a vita da quella notte. - «Ti aiuterò a trovare un’altra casa.» - aveva allungato una mano quasi arrivando a sfiorargli i capelli, ma Kol lo aveva di nuovo preso e strattonato fino a farlo cadere a terra.
«Perché trovarne una nuova quando puoi raggiungere la vecchia all’altro mondo?» - dritto al petto, senza alcuna esitazione. Tirò via il cuore pulsante del piccolo a mani nude.  Mia vide gli occhi del bambino spegnersi della luce della vita, le braccia rigide che teneva intrecciate sciogliersi e cadere senza vita lungo i fianchi di quel corpo ormai vuoto.
«No!» - urlò lei perdendo l’equilibrio e cadendo a sua volta. - «Oh mio dio no, no, no, no!» - strisciò verso di lui sperando in non si sa che cosa. Nessuno poteva sopravvivere se gli veniva strappato il cuore dal petto, di sicuro non un bambino. - «Perché?! Non c’entrava niente!» - era su quel piccolo corpicino ancora caldo. Gli occhi spalancati con impresso tutto il terrore del mondo. Aveva ripreso da terra l’organo che Kol gli aveva sottratto e lo aveva inserito nuovamente nella cassa toracica. Nemmeno nella peggiore serie medical si era mai vista una scena così orribile. Usava la poca magia che le era rimasta per cercare di fermare le emorragie ricucire i vasi e le arterie. Ma un trapianto di cuore era ben oltre la sua capacità. Il suo corpo era debole, stava a malapena riuscendo a curare le sue di ferite. Il bambino era morto.
«Perché era quello che doveva essere fatto.» - rispose lui pulendosi la mano sui pantaloni del bambino.
«Era solo un bambino…» - piangeva piegata e sanguinante su quel corpo senza vita. Piangeva e lentamente guariva, mentre intorno a lei non c’era altro che morte. Mia era la cosa più viva che Kol avesse mai visto in vita sua. Lei viveva dove qualunque altra cosa moriva, viveva nonostante lui, contro di lui ed accanto a lui.
«Si me ne ero accorto.» - rispose secco.
«No, Kol. Mi hai sentito?! ERA SOLO UN BAMBINO!!!» - ed era ipocrita prendersela con lui quando poco prima lei stessa aveva privato della vita un altro essere vivente. Ma è proprio quando ci si macchia delle peggiori colpe che si ha bisogno di trovare qualcuno peggiore di noi, per poterci assolvere. E quando accanto si ha un uomo in grado di prendersi la vita di un bambino innocente, la cosa risulta piuttosto semplice. - «Non ti perdonerò mai per questo.» - non era certa che fosse riferita veramente a lui quella frase.
«Mi hai mai perdonato qualcosa?» - era sarcastico ed ironico come se stessero discutendo se fosse più buona la marmellata di albicocche o quella di ciliegie. Mia si lasciò cadere a terra, stanca e sopraffatta.
«Perché?» - chiese ancora con gli occhi che si specchiavano nella luna. - «Perché l’hai fatto?» - e lui non lo faceva di proposito a ridere, solo che la trovava veramente ridicola. Quel giovane lupo avrà avuto all'incirca sei anni, se fosse sopravvissuto a quella notte avrebbe trascorso la vita ricordandone l’orrore, infondo gli aveva fatto un favore.
«Per la stessa ragione per cui ho ucciso la donna che hai lasciato andare l’altro giorno.» - confessò e vide Mia portarsi una mano sugli occhi. - «Non ti viene in mente nemmeno un motivo per cui potrei averlo fatto?» - aveva sentito muoversi l’aria e sentiva di averlo vicino. Quando tolse la mano dagli occhi infatti lo trovò lì davanti a lei. - «Sei davvero una stupida.» - e poi ci fu il buio, ma non era spaventoso perché sapeva di pace, di sospensione dalle colpe e dagli orrori. L’incoscienza era meravigliosa.
Quando si risvegliò era di nuovo a letto nella stanza del B&B. Le ferite erano state fasciate ed ormai quasi del tutto guarite. Kol doveva essersene andato già da un po’, aveva perso i sensi o l’aveva stordita lui? Era inutile chiederselo, ma voleva a tutti i costi raggiungere la doccia prima che i ricordi di quanto accaduto la raggiungessero.
«Perché non mi hai chiamato?!» - le disse Robert in vivavoce dal telefono che aveva appoggiato sul comodino mentre lei si frizionava i capelli.
«Non ero molto in me.» - ammise sedendosi sul letto avvolta nell’accappatoio.
«Stai bene? Vengo a prenderti?» - con Bran ed il suo branco fuori dai giochi per Robert la situazione si semplificava notevolmente. Si sforzava di pensarla così e di non concentrarsi sul ricordo di quel bambino. Dei suoi occhi spaventati e speranzosi mentre si dirigeva verso di lei.
«Vengo io.» - aveva voglia di Eric, aveva bisogno di lui. Necessitava di sentirselo vicino, per quanto fosse possibile sentirlo vicino sotto due metri di terra.
 

Il volo durò poco più di un’ora e mezza e all’aeroporto di Buxelles trovò subito Robert.
«Vieni qui!» - le ordinò stringendola in un abbraccio soffocante. Era venuto da solo, in moto, proprio come quando andava a scovare lei ed Eric  nei posti più impensabili. - «Sicura di stare bene?» - le fasciature al braccio sbucavano dalla maglietta e probabilmente aveva anche sentito l’odore del sangue.
«Guarirò in fretta.» - disse lei prendendo uno dei caschi salendo sulla moto. - «Portami da lui.» -  Robert avrebbe potuto farla ad occhi chiusi la strada per il cimitero, quante gomme ci aveva consumato su quell’asfalto? Quante volte aveva percorso quei metri e metri di lapidi per arrivare a quella del suo amico? Un’infinità, ma sempre troppo poche, perché ogni giorno se lo sentiva più lontano. Simon era in giro per l’Europa probabilmente ubriaco in qualche bettola e pronto a fare  a botte, mentre lui cercava di tenere insieme i pezzi di quello che Eric aveva costruito.  - «Come va con il branco?»
«Male.»
- rispose lui. - «Abbiamo perso molti membri e non ci sono più alleanze.» - i lupi erano tornati a farsi la guerra fra di loro, ogni famiglia contro l’altra. Senza un leader non erano altro che singoli individui che lottavano per la sopravvivenza.
«Fatti aiutare da Andrev, lui sa meglio di chiunque altro cosa significhi dover prendere un posto di potere…» - ci era passato dopo la morte di Tom e se allora Kol lo avesse aiutato, probabilmente tante difficoltà, tante perdite sarebbero state evitate.
«Non avremmo mai dovuto allearci con i vampiri. Guarda quanto bene hanno difeso Eric!» - Robert passeggiava con lei fra quelle tombe di persone comuni, schivandole senza nemmeno il bisogno di guardarle. - «Se tu non…» - si interruppe da solo. Ma Mia sapeva cosa voleva dire. Se solo lei non avesse tanto insistito, se lei non avesse creduto nella possibilità di una reale coesistenza, se non lo avesse sempre supportato, Eric sarebbe rimasto fedele alla sua gente. Nel senso più severo del termine, non avrebbe mai sfidato i capi branco e Bran non si sarebbe mai alleato con Sebastian per ucciderlo.
«Hai ragione…» - disse lei. - «Se non me ne fossi mai innamorata-»
«Non era quello che intendevo.»
- la sovrastò lui. - «Ho perso un amico. Anzi ho perso l’amico e a volte ho solo bisogno di dare la colpa a qualcuno. Ma quello che mi ha lasciato... beh per quello non ci sono parole.» - lo disse con un sorriso sincero sul viso, come se affettivamente fosse fiero ed orgoglioso di lei e dei suoi bambini.
«Entrambi gli uomini che me lo hanno sottratto sono morti.» - disse quando ormai erano arrivati in prossimità della tomba.
«Avrei voluto aiutarti, ma il branco-» -  Mia lo interruppe, perché l’ultima persona sul pianeta che doveva scusarsi con lei era proprio Robert.
«Il branco viene prima di tutto.» - Eric lo diceva sempre. - «E’ morto per dargli un mondo più sicuro, un modo dove non avrebbero sempre dovuto guardarsi le spalle.»
«Un mondo che è riuscito a vedere ed in cui è riuscito a credere veramente solo grazie a te.»
- ed era stata quella la sua condanna, la colpa che lei avrebbe portato con sé finché avrebbe avuto vita.
«Sono parte del branco Rob, voglio aiutarti come posso.» - gli disse prendendogli la grande mano nella sua.
«Resta viva. Cresci i suoi figli…» - si era voltato a guardare verso la lapide bianca. - «E quando saranno grandi abbastanza, ricordagli che questa è la loro gente.» - l’eredità di Eric. Liam e  Cloé erano gli eredi diretti di Eric i legittimi eredi alla guida del suo Branco.  Un giorno avrebbero conosciuto quelle persone, le avrebbero avute al loro fianco, avrebbero provato cosa significa far parte di un branco, la lealtà, la fedeltà, la comunione.
Robert si allontanò per regalarle un po’ di privacy con i suoi pensieri e con Eric, tornando ad aspettarla alla moto.
«L’hai sentito? Parla proprio come te.» - disse ridacchiando inginocchiandosi sull’erba verde e fresca. Era lì, sotto di lei, a separarli due metri di terra, pietre, insetti, una bara, ma infondo era come se potesse toccarlo. - «Non lo so se puoi vedermi o sentirmi, credo di no dato che il Limbo è impenetrabile…» - accarezzò il terreno sotto di lei. - «Vorrei davvero che ci fosse un modo per parlare.» - le mancava la sua voce. - «Non puoi immaginarlo quanto vorrei stare con te.» - non era proprio rispettoso del protocollo di quel luogo stendersi a terra in prossimità di una tomba, ma a lei non importava. - «Ho ucciso Bran.» - Eric sarebbe rimasto stupito, una volta superato il limite che separa un essere umano da un essere umano in grado di uccidere un proprio simile, si entra in una zona pericolosa. - «Kol ha ucciso un bambino.» - adesso lui l’avrebbe abbracciata, le avrebbe baciato la testa sussurrandole qualcosa di rassicurante. - «Mi manchi, anzi… Ci manchi.» - quanto le sarebbe piaciuto vederlo adesso con i bambini, vedere la faccia che avrebbe fatto sentendoli chiamarlo papà. Sarebbe stato il ritratto della gioia. Perché doveva essere così? Perché riuscivano solo a venirle in mente tutte le cose che non avrebbe mai visto e fatto con lui, invece che quelle che avevano condiviso?
Perché la nostalgia di qualcuno ti consuma tanto quanto il suo desiderio.
«Ho sentito che ora sei miliardaria.» - le disse Robert mentre la portava al campo dove c’era tutto il branco. Erano ancora tutti lì, il solito bosco nel quale andavano a correre insieme ad Eric.
«Si, sono cose che succedono!» - rispose lei ridendo mentre l’aria fresca di Bruxelles le accarezzava il viso sotto il casco. Sapeva di casa, di conosciuto, di bello. - «Gen!» - fu la prima che vide appena scese dalla moto.
«Mia? Oddio!» - correva verso di lei per abbracciarla.
«Mamma?» - non la vedeva da anni, ed era impressionante quanto fosse cresciuta. La piccola dei Guerin ormai doveva avere all’incirca due anni, ed era adorabile. Sporca di terra fino alla punta più estrema dei capelli, ma bellissima. Teneva per mano un bambino più piccolo, con un caschetto castano, che lo faceva sembrare un piccolo fungo.
«Andate dentro, arrivo subito.» - disse Genevieve. - «Non l’avevi mai visto il più piccolo, vero?»
«No, decisamente credo di essermelo perso.»
- fra la gravidanza e tutto il resto non ricordava nemmeno che Eric le avesse detto che aspettavano. - «Dov’è David?»
«Da qualche parte a non fare niente come al solito.»
- le disse la donna. - «Ci sei mancata.» - la abbracciò. Era morbida, sapeva di crema. I capelli lunghi e castani le cadevano sul vestito verde smeraldo. Sembrava venire da un’altra epoca, una lontana, una di pace e tranquillità.
«Sarei dovuta venire prima.» - si guardò intorno e riconobbe i visi familiari del branco. Quelle persone che in passato aveva osservato con così tanta curiosità e con cui aveva imparato a convivere. Giovani, bambini, adulti, anziani, ce n’era di ogni tipo, eppure in molti mancavano. - «Dove sono gli altri?»
«Siamo rimasti solo noi.»
- la morte di Eric li aveva divisi, dispersi alla ricerca di qualche altro branco in grado di offrire protezione.
«Vieni a bere qualcosa con me gnappetta!» - Robert era poco distante da loro, circondati da alcuni ragazzini.
«Vai, io devo andare a pulire quei due.» - Genevive entrò nella roulotte mentre lei si appoggiò ad uno dei tronchi posizionati intorno ad un rudimentale fuoco.
«Sicuro che non sia pericoloso?» - chiese allungando le mani per scaldarsele.
«Quei ragazzi vivono fra i boschi da tutta la loro vita, penso che se la sappiano cavare con un semplice fuoco.» - il suo sguardo volava lontano, ai ragazzi che si rincorrevano fra gli alberi. Probabilmente, e fortunatamente, nessuno di loro doveva aver ancora sbloccato la mutazione. - «Bran ti ha detto qualcosa prima di morire?»
«Non ne ha avuto l’occasione.»
- rispose lei mandando giù il suo primo sorso di alcool, da almeno un anno e mezzo. Eric e Robert erano molto diversi per tante cose, ma l’essere amici così profondamente come lo erano loro li aveva portati a sviluppare un simile linguaggio del corpo. Ed in quel momento Robert stava facendo una cosa con le mani, che Eric era solito fare quando nascondeva qualcosa. - «Non c’era poi tanto che potesse dirmi, no?» - la presa sulla birra divenne più solida.
«Già…» - mentiva e la sua testa stava già vagliando le centinaia di ipotesi che potevano portarlo a fare ciò.
«Cosa non mi stai dicendo?» - e lei non era tipo da evitare i discorsi scomodi.
«Una vecchia storia, che ora credo abbia trovato il suo definitivo punto.» - Robert non era tipo da parlare per enigmi, anzi più volte lui ed Eric avevano discusso per il brutto vizio del ragazzo a non saper mai temperare le proprie opinioni, positive o negative che fossero.
«Abbiamo un falò, delle birre ed un rilassante chiacchiericcio in sottofondo, quale migliore occasione per raccontare una storia?» - sbatté la sua birra contro quella del ragazzo che sembrava volersi bruciare gli occhi per l’intensità con cui guardava il fuoco.
«Eric…» - le faceva male sentirglielo nominare, un male dovuto all’idea inconscia del dolore che avrebbe provato lei se avesse perso una delle sue migliori amiche. - «Ti ha mai parlato di Malia?» - Mia riportò alla mente tutte le donne di cui Eric le aveva mai fatto il nome, ma no, non ricordava alcuna Malia.
«No, chi è?» - non che fosse strano non averla mai sentita, infondo nemmeno lei gli aveva mai elencato tutti i ragazzi che conosceva.
«Lei…» - un attimo, un ritardo impercettibile nel far fuoriuscire quel pronome, un respiro più profondo e caldo. Era strana la comunicazione, magica come poche altre cose al mondo. Bastava poco per rendere una parola portatrice di mille altre ed in quel “lei” Robert aveva messo così tanto, che Mia adesso quasi iniziava a temerla questa Malia. - «Lei era... Il quarto membro del gruppo.» - fu come l’esplosione del Big Bang, o sicuramente molto simile, ma le sue sinapsi iniziarono a girare impazzite nel suo cervello alla ricerca di un qualunque tipo di riferimento a questa ragazza. Il quarto membro del gruppo, significava che era una delle persone più importanti nella vita di Eric. Importante quanto per lei lo erano Francesca, Momo o River. Era un pezzo di lui, era uno dei suoi Horcrux. - «Te ne ha parlato di sicuro, forse però non ti aveva mai detto il suo nome.» - Robert ora aveva sollevato lo sguardo dal fuoco e l’aveva posato sulla luna, non più piena. E ci arrivò.
«La ragazza che ha morso?» - domandò in un sibilo. E lui annuì, ora era chiaro perché non ne avesse mai sentito parlare, perché Eric odiava ricordare quegli eventi. Odiava parlare delle persone a cui aveva passato quella maledizione, probabilmente proprio perché Malia non era sopravvissuta.
«Entrò a far parte della nostra classe al penultimo anno di liceo. Si presentò con una maglietta rosa ed una scritta nera “i’m a virgin”, scoppiammo tutti a ridere.» - lo ascoltava attenta e le sembrò di venir catapultata in quell’aula di liceo, in uno dei banchi vicini a questi tre ragazzi. - «Scommettemmo su chi sarebbe riuscito a toglierle quella maglietta per primo…» - la guardò con un mezzo sorriso e lei pensò di nuovo che quelle parole in realtà dicessero molto di più. - «Ci mandò tutti in bianco.»
«Ha fatto bene!»
- disse lei ridendo.
«Eravamo proprio dei coglioni!» - e butto giù un altro sorso di birra.
«E lei era speciale.» - aveva colpito e stavolta fu lei a bere mentre il ragazzo accanto a lei sorrideva colpevole.
«Eric se ne innamorò…» - e lei aveva la netta sensazione che non fosse solo lui ad averlo fatto, ma restò in silenzio ad ascoltare. Non era giusto essere gelose, ma non poteva fermare ciò che inconsciamente era nato. Malia era morta da almeno un decennio ormai e lei si ritrovava lì a bere della birra e a chiedersi se all’inizio le fosse piaciuta più lei o quella ragazza. - «E lui è un po’ come te, non ha mai amato i segreti. Le disse la verità su di noi e lei ci accettò senza la minima paura.» - una reazione ben diversa dalla sua quando aveva scoperto dell’esistenza dei vampiri, ma lei era mezza ubriaca quella sera. - «Abbiamo passato interi anni con lei, con la sua umanità a sostenerci ad aiutarci nel nostro percorso. Così quando chiese ad Eric di renderla una di noi, sia io che Simon appoggiammo subito l’idea.» - la bottiglia era finita e ne aveva già iniziata un’altra. Poteva avvicinarsi al fuoco quanto voleva, non c’era calore che avrebbe asciugato quelle lacrime che gli inumidivano gli occhi. - «Al suo funerale capimmo perché non fosse stupita di conoscere dei licantropi.»
«In che senso?»
- domandò.
«Era figlia di Bran. Lui l’aveva abbandonata con la madre per seguire il suo branco. Per uno strano scherzo della genetica non aveva ereditato il gene. Malia credeva che se fosse diventata un lupo come lui, forse le avrebbe permesso di far parte della sua famiglia.» - gli erano bastati si e no due sorsi per finire l’ennesima birra e mandarla con un calcio a fare compagnia alle altre bottiglie vuote. - «Ecco perché Bran ci odiava.»
«Eric… Quanto l’amava?»
- era tipico di lei fare domande stupide. Ma non riusciva a farne a meno. Era la competizione, la paura, l’insicurezza. Doveva sapere quanto aveva amato Malia, se era per il ricordo di lei che Eric non aveva mai staccato la testa a quello stronzo di Bran, nonostante lei non avesse fatto altro che consigliarglielo.
«Non lo so…» - e quella risposta significava che Robert non poteva dire quanto Eric avesse amato Malia, ma solo quanto l’avesse amata lui ed anche mettendo a paragone i due sentimenti, quello di Eric per la ragazza non soccombeva. - «Sei arrivata tu.» - e quella risposta la spiazzava. La portava a voler riguardare al rallentatore i primi incontri con Eric, a guardarlo cercando in lui le resistenze di chi ha il cuore altrove. Capire se forse lei non era stata altro che una fuga, non che avesse cambiato qualcosa, perché per un uomo come lui lei avrebbe accettato di essere la seconda scelta, il ripiego, il chiodo scaccia chiodo. Forse la verità era che entrambi erano stati la seconda scelta l’uno dell’altro e si erano amati così tanto e così completamente perché solo un’anima ferita sa come curarne un’altra.
«Qualcuno arriverà, Robert.» - lo disse poco convinta, perché non era nella sua natura essere fiduciosa ed ottimista. Perché credeva nell’amore meno di quanto avrebbe dovuto e di quanto si poteva immaginare facesse. Era pur sempre una cinica, nel profondo. Forse avrebbe dovuto sentirsi ferita dal fatto che Eric non le avesse mai veramente parlato di Malia, forse poteva perfino sentirsi tradita. Se si fosse trattato di Kol ci si sarebbe sentita eccome, probabilmente l’avrebbe insultato, d’altra parte non faceva poi molto altro. Due pesi e due misure, non c’era niente di più sbagliato al mondo.
Bere con Robert per l’intera notte, tenere svegli degli adolescenti fino alle prime luci dell’alba, essere molesti con gli sportivi che facevano jogging, la vendetta non le aveva restituito l’uomo che amava, ma almeno le aveva alleggerito l’animo. Era tornata a fare tutte quelle inutili sciocchezze che faceva insieme a lui.
«Vedi di non impiegarci una vita per tornare a trovarci» - le disse David salutandola prima che lasciasse il campo con Robert.
«Sicuri di voler già andare? Avete almeno smaltito la sbronza?» - Genevieve li vedeva che non erano affatto sobri, probabilmente la maglietta di Robert al contrario la aiutava nelle sue deduzioni.
«Stiamo benissimo! E poi ce la caveremo!» - rideva, rideva come una bimba di otto anni il giorno di Natale.
«Si ce la caviamo!» - ribadì Robert. - «Ho guidato in stati molto peggiori.» - ma per fortuna David e Genevieve non si arresero costringendoli a prendere un taxi fino all’aeroporto. - «E comunque potevo davvero guidare!» - disse Robert sbattendo al portiera del taxi.
«Io non sono sicura di riuscire a salire sull’aereo.» - le veniva da vomitare.
«Ti ci porto in braccio se vuoi!» - ed era detto fatto, si sentì sollevare da terra e tutto cominciò a girare. Non era stata una buona idea passare la notte a bere. Rimise pure l’anima e Robert fu fortunato ad essere in prossimità di un bagno o la doccia l’avrebbe fatta a lui.
«Oddio muoio.» - disse Mia uscendo appoggiandosi al muro.
«Chi viene a prenderti?» - non aveva parlato con nessuno. Non aveva né chiamato né risposto. Nessuno sapeva dove fosse o cosa stava facendo, quindi di sicuro nessuno l’avrebbe aspettata in aeroporto.
«Troverò qualcuno.» - disse quando sentì chiamare il suo volo.
«Lo spero.» - Robert la salutò dandole un bacio sulla fronte, ed aspettò fino a quando non la vide entrare nel corridoio che l’avrebbe portata all’aereo. Venne aiutata da una delle hostess a raggiungere il suo posto, e per sua immensa fortuna le fece anche la gentilezza di un bicchiere d’acqua.
Quando atterrò a Roma dopo oltre due ore di volo,  quasi voleva baciare il pavimento lurido dell’aeroporto. Il post sbronza su un aereo di linea poteva tranquillamente classificarlo sotto il capitolo: Peggiori esperienze nella vita. Ogni vuoto d’aria era un conato. Fiumicino ero un conato, la gente era un conato. Rimise di nuovo, stavolta però non nel bagno, ma in uno dei secchi messi sul marciapiede a ridosso della strada. La gente la guardava con disagio, forse si chiedevano se fosse una barbona, oppure una prostituta. Agitò il braccio cercando di attirare l’attenzione di qualche tassista, tre passarono senza minimamente filarsela, osservò il punto dal quale partivano e vide l’interminabile coda d’attesa.

►Lo so che sono una stronza, ma qualcuno mi viene a recuperare in aeroporto? Mi viene da piangere…

L’alcool le aveva fatto decisamente un brutto effetto.
River: Sei tornata? Ti ho chiamata tipo mille volte!!!! Arrivo!
Momo: Mollo tutto e vengo!
Bekah: Quel cafone di mio fratello non può riaccompagnarti? Vedo se Luca può tenermi Hope e vengo.
Frappé: Sto per strada!


Erano le solite meraviglie del mondo.
►Mi basta solo una di voi.
Momo: Chi scegli?

Era una domanda stupida, messa lì solo per scherzare, ma l’alcool la faceva essere superficiale sulle cose importanti e seria su quelle sceme, quindi si mise lì a pensare.
Frappé: Non ha diritto di scegliere niente. Fra una mezz’ora sto lì la prendo e la ammazzo.
Francesca era arrabbiata ed aveva ragione di esserlo. Non rispondeva alle loro chiamate e ai loro messaggi da giorni. Controllava solo che sua madre non avesse problemi con i bambini.
Si mise sul marciapiede a fissare il traffico di macchine che arrivavano, si fermavano e ripartivano, come se seguissero una qualche coreografia. La piccola Smart blu di Francesca l’avrebbe riconosciuta in mezzo a mille esemplari identici. Aveva un’aria esaurita come la sua proprietaria. Si accostò al marciapiede con lo sportello già aperto, sembrava non avere nemmeno l’intenzione di fermarsi, come se volesse caricarla così al volo.
«Comincia con un “Mi dispiace” e continua con un “Non succederà mai più, lo giuro” perché non ho voglia di sentirti dire altro.» - le ci erano voluti solo una ventina di secondi per mettere in chiaro il suo livello di incazzatura.
«Mi dispiace…» - disse lei. - «Non succederà mai più, lo giuro.» - baciò l’anello che tutte loro avevano, quello che permetteva sia a Monica che a Lisa di girare durante il giorno.
«Ti costava tanto farci sapere che stavi bene? Abbiamo dovuto mandarti dietro quel pazzo esaltato di Kol, ti rendi conto???» - forse era la macchina, o più probabilmente il fatto che Fra stesse premendo il pedale dell’acceleratore così tanto quasi da farlo incastonare nel cofano, ma sbandavano.
«Lo sai come sono…» - disse cercando di reprimere il suo istinto ad ingaggiare una discussione, perché con chiunque altro sarebbe finita ad urli e schiaffi, ma non con lei, non con la sua Francesca.
«Sei fatta male! Santo dio!» - non la guardava, fissava le macchine che stava superando e la strada ancora da percorrere. - «Se la stessa cosa l’avessi fatta io, non mi rivolgeresti più la parola!» - aveva ragione, lei si sarebbe incazzata a livelli disumani se una di loro fosse sparita senza dare notizie.
«Lo so.» - sospirò. - «Ma voi mi perdonerete.» - ancora una volta due pesi e due misure. Le conosceva troppo bene per non sapere che le avrebbero tirato due o tre insulti per poi dimenticare tutto.
«E’ tutto finito adesso?» - domandò l’amica dopo diversi minuti di silenzio.
«E’ tutto finito.» - basta vendette, basta missioni segrete, basta uccisioni, basta tutto. Adesso potevano tornare alla loro vita di sempre. O meglio, a quella che avrebbe dovuto essere la loro normalità.
«Perché Kol non è tornato con te?» - le chiese parcheggiata sotto casa dei genitori di Mia.
«Abbiamo litigato.» - ammise. Sentiva l’odore dei suoi bambini anche da lì sotto. Erano irresistibili, avrebbe scalato la facciata a mani nude pur di raggiungerli subito.
«Lui viene ad aiutarti e litigate a morte, beh direi un classico!» - ironizzò la ragazza. - «D’accordo mamma lupa, vai dai tuoi piccoli prima che ti sbuchino le zanne!» - gliela leggeva in faccia l’impazienza.
«Ci vediamo in questi giorni!» - la rassicurò correndo al portone e poi su dritta per le scale senza aspettare di rivedere Francesca che partiva. Si gettò sulla porta di peso, come se avesse potuto sfondarla ed invece che bussare la spingeva più che altro.
«Arrivo!» - urlò sua madre evidentemente inquietata da tutto quel frastuono. Dovette attendere che la riconoscesse dallo spioncino prima di aprire finalmente la porta. - «Non mi avevi detto che saresti arrivata oggi!» - le disse la donna a cui lei regalò un abbraccio veloce correndo poi nella stanza dove c’erano i bambini.
«Dio mio quanto mi siete mancati!» - era buttata a terra con loro. Li abbracciava tutti e due, mentre quelli si dimenavano quasi arrivando a piangere. Gli aveva distrutto le costruzioni, si era sdraiata sui loro giochi, li aveva buttati giù. Era davvero una pessima mamma, ma voleva solo toccarli ed averli vicini, andava bene anche se la prendevano a calci.
«Oh mamma mia quante scene! Sei stata via meno di una settimana! Quando partiranno per andare a resuscitare un pericoloso vampiro dall’altra parte del mondo, cosa farai?» - sua madre era una stronza, proprio come lei, ma le voleva bene anche per questo.
«Li incatenerò al muro.» - rispose ridendo.
«Buona idea, avrei dovuto averla io!» - le disse quella aiutandola ad alzarsi. - «Hai bevuto?»
«Con Robert… Ma solo un po’!»
- si giustificò in fretta.
«Uhm… Vatti a fare una doccia.» - la tirò fuori a forza dalla stanza dei bambini, che altro non era che quella di suo fratello. L’acqua calda della doccia lavò via il lascito della sbronza, lasciandola lentamente tornare completamente lucida. Si prese tempo, senza fretta, asciugò i capelli mettendoli in piega come se avesse dovuto partecipare ad una cerimonia degli Oscar quella sera. Invece sarebbero state solo lei, sua madre ed i bambini, perché suo padre era in Sardegna ad un convegno. - «Come pensi di gestire questa storia dell’essere la proprietaria della NIRVA?»
«Andrev ha affidato il tutto a qualcuno del Consiglio, io non devo occuparmi di nulla.»
- rispose mentre sua madre si ostinava a metterle nel piatto l’insalata di finocchi che lei tanto detestava.
«Mia!» - gridò. - «Possibile che tu debba essere sempre così superficiale?» - la stava rimproverando e non era una cosa che succedeva spesso. - «Andrev è un tuo amico, quindi capisco la fiducia e l’affetto, ma gli affari sono affari e questi sono i tuoi! Cerca di rendertene conto prima che sia troppo tardi.»
«Che dovrei fare? Mettermi a fare l’imprenditrice? Non ne so nulla! E se dovessi commettere un errore, ad occhio a croce potrebbero perdere il lavoro centinaia di persone!»
- rispose lei allontanando il piatto dei finocchi. Dio come la nauseavano. Quando era piccola le piacevano così tanto che ne aveva fatto indigestione e da allora non riusciva più a mangiarli.
«Pensi che si nasca imparati? Non ti sto dicendo di cominciare subito, ma nemmeno di disinteressarti totalmente della faccenda!» - sua madre aveva ragione, nel bene o nel male adesso tutte le imprese sotto il marchio NIRVA e quelle che questo possedeva facevano capo a lei, ed erano una sua responsabilità.
«Ok, me ne occuperò, lo prometto.» - si arrese. - «Piuttosto vi è arrivato il bonifico?»
«Si, ma non accetteremo i tuoi soldi fino a quando non li avrai guadagnati!»
- donna testarda e cocciuta che non era altro. Le aveva perfino riavvicinato il piatto dell’insalata.
«Mamma!» - esclamò stressata lei.
«Mia.» - rispose decisa la donna fissando gli occhi color nocciola nei suoi. - «Come sta Robert?» - le domandò poi cambiando discorso.
«Bene… Penso che ora che Bran-» - si bloccò. Le risalì tutto d’un tratto il ricordo di lei che lo trafiggeva prendendosi la vita dell’uomo e poi quel bambino.
«Mia?» - la madre cercò di ridestarla dai suoi pensieri da quelle orribili immagini che si formavano davanti ai suoi occhi come se stesse guardando un 3D.
«Si… Scusa…» - prese un respiro profondo e continuò mentre la madre istintivamente le accarezzò i capelli. - «Penso che Robert rappresenterà i licantropi da ora in poi, sempre che riesca a ristabilire la pace fra i diversi branchi…» - mandò giù un finocchio, nauseandosi del sapore. Si stava facendo del male da sola e nemmeno sapeva il perché.
«Mi sembra un’ottima notizia.» - disse sua madre tornando a lavare i piatti. - «Con Andrev al Consiglio e Robert ad evitare che i lupi siano un problema, se tu prendessi il posto della Reggente, l’Accordo potrebbe ancora avere qualche speranza di sopravvivere.» - l’Accordo, quell’idea così utopica a cui erano corsi dietro lei ed Eric.
«Mamma sai che a volte mi viene il sospetto che tu mi creda incredibilmente più capace di quello che in realtà sono?» - disse ironica facendo levitare i ari i finocchi ed indirizzandoli verso il secchio.
«Perché?» - le domandò la donna.
«CEO della NIRVA, madre single, strega e pure Reggente? E poi cosa? Mi compro un costume ed entro negli Avengers?» - riuscì a far cadere nel secchio i finocchi senza che sua madre lo realizzasse e si sentì veramente molto fiera.
«I cosa?» - sua madre non conosceva gli Avengers, era un’onta che non avrebbe mai lavato dalla loro famiglia, perché era impossibile costringerla a vedere anche solo uno dei film. Suo padre se li era guardati tutti, ma con sua mamma non c’era speranza.
«Nel senso che mi manca solo il mettermi una tutina e fare Superman che salva il mondo!» - un esempio più alla sua portata.
«Esagerata, le fai sembrare chissà cosa, ma ci sono donne che fanno molto di più e non si lamentano nemmeno un decimo di quanto non faccia tu.» - ecco se lo stesso discorso lo avesse fatto Mattia la risposta sarebbe stata “Hai ragione, fai già tante cose, devi pensare un po’ a te stesso”, ma no, quando parlava a lei tendeva sempre a minimizzare.  - «Infondo si tratta solo di fare una cosa.»
«Cioè?»
- domandò incuriosita.
«Prendersi le proprie responsabilità.» - disse la donna. - «E la ragazza che ho cresciuto, sa farlo. Quindi no, non ti sto affatto sopravvalutando.» - le sorrideva e Mia era confusa, non sapeva se le avesse appena fatto un complimento oppure no. Ma se non era un complimento lo aveva comunque fatto suonare molto bene, perché improvvisamente non la spaventava più l’idea. Non ci fu modo che sua madre riuscisse a convincerla a dormire nella sua stanza, no, si sistemò alla bene e meglio nella ex stanza di Mattia insieme ai bambini, e si svegliava ad ogni loro movimento. Le sembravano cresciuti, ed ebbe paura di essersi persa qualche cambiamento irripetibile.
«Non vi lascerò più.» - disse ai due piccoli addormentati. Liam aveva l’abitudine di dormire stringendo con la mano un pezzetto di stoffa, era un elemento indispensabile per farlo addormentare. Eric lo aveva ricavato da una sua vecchia camicia, lo aveva strappato per farcelo giocare e si era trasformato in un oggetto dal valore incalcolabile. Cloé invece teneva i pugni chiusi e stretti, ed ogni tanto si agitava nel sonno, scalciando.
Nei giorni seguenti organizzò una cena con le ragazze ed andò al cinema con Mattia per farsi raccontare qualcosa che sembrava volerle dire, ma non averne mai il coraggio. Cercò anche di seguire il consiglio di sua madre, informandosi su quali fossero le reali responsabilità del posto che ora ricopriva alla NIRVA.
«Non vincerò mai.» - le disse Stefania mentre se ne stavano sedute al parco con i bambini appoggiati sull’erba.
«Certo che vincerai!» - nella comunità delle streghe si era dato il via ad una sorta di campagna elettorale, così che i diversi candidati a prendere il posto di Reggente potessero farsi conoscere. In realtà aveva un valore puramente formale, perché in sostanza si conoscevano già tutti e sicuramente tutti sapevano già per chi votare. Sua madre avrebbe voluto che si candidasse anche lei, ma a quella responsabilità abdicò più che volentieri in favore di sua cugina, che in quegli anni si era fatta decisamente notare. Nonostante la Reggente avesse sempre affidato a lei i compiti rappresentativi durante la stesura dell’Accordo con i licantropi ed i vampiri e questo avesse lasciato pochi dubbi su chi dovesse essere il suo successore, Stefania aveva fatto da intermediaria con un’altra congrega di streghe. Erano secoli che la loro comunità viveva nel segreto e nell’anonimato, impossibilitata ad instaurare rapporti con altri stregoni, questo perché dovevano proteggere la famiglia di Mia, aprirsi alle altre congreghe era qualcosa di eccezionale tanto quanto far firmare un fallimentare Accordo.
«Elisabeth è nel circolo ristretto da quando aveva vent’anni, ed Enrico… Ha fatto di tutto per la comunità, dall’occuparsi di noi al salvare le foche dai bracconieri. E vengono da due delle famiglie più rispettate, dai ammettiamolo, non ho speranze!» - continuò ancora al ragazza.
«Ti sei dimenticata di dire che Elisabeth è nel circolo ristretto da quando ha vent’anni quindi più o meno da mezzo secolo e che Enrico si occupa già della sicurezza.» - le ricordò lei. - «Che senso avrebbe eleggere qualcuno che è già avanti con l’età o si occupa già splendidamente di un elemento fondamentale per la nostra sopravvivenza?»
«Potrebbero pensare che io sono troppo giovane per venir eletta!»
- aveva il panico.
«Avrebbero eletto me che ho un anno meno di te! Che discorso è! E poi anche tu vieni da una delle famiglie più radicate. Anzi dal momento che questa comunità si è formata intorno a noi, oserei dire che provieni da quella più radicata in assoluto!» - il loro cognome era difficile da portare, da quando avevano scoperto l’esistenza delle creature sovrannaturali, lo pronunciavano con molta attenzione.
«Ma io non ho la magia…» - le diede una leggera spallata.
«Ce l’hai eccome, solo che ancora non è venuta fuori del tutto.» - a volte Stefania aveva avuto delle visioni ed ultimamente aveva dato fuoco alla tende della sua stanza, con immenso disappunto della madre. Aveva la magia, ma era per lo più involontaria. - «Il Reggente che c’era nei primi del novecento, nemmeno lui aveva la magia eppure è durato fino al suo ultimo giorno!» - aveva avuto modo di consultare i registri della comunità che venivano gelosamente conservati in un’ala della biblioteca nazionale occultata da un potente incantesimo. Nessuno poteva consultarli senza l’autorizzazione della Reggente, autorizzazione che consisteva in una piccola donazione di sangue, per sciogliere l’incantesimo.
Cloé e Liam giocavano a pochi passi da loro, strappando margherite e fili d’erba, era bellissimo quando gattonavano verso di loro con quei grandi sorrisi. Liam voleva essere preso in braccio, forse si era stufato di tutto quel movimento. Cloé si accontentò di un po’ d’acqua per poi riprendere il suo disboscamento.
«Quando cominceranno a camminare?» - le domandò Stefania seduta a terra con la bambina.
«Non lo so, sono dei pigroni.» - Liam assomigliava ad Eric, o forse lei voleva a tutti i costi vedercelo. Aveva i capelli scuri, almeno per il momento e doveva averli ereditati da lei. Un connubio perfetto fra lei ed Eric. Mentre Cloé sembrava aver preso tutto dalla famiglia del padre, capelli chiari, occhi chiari, carnagione lattea, le labbra pronunciate a forma di cuore, ed il naso indubbiamente di suo padre. - «Dovrai prenderti cura di lei quando sarà grande e saranno gran bei problemi.» - disse baciando le braccine paffute del bambino. Lo appoggiò a terra tenendolo in piedi e lui mantenne la posizione sostenendosi a lei. Riusciva a sentire la fatica nella stretta di quelle piccole mani intorno alle sue dita.

 
   
 
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