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Autore: Aleena    06/11/2015    2 recensioni
Dal testo: "Sapevo che non sarei potuta rimanere li. La nave-madre doveva aver ricevuto comunicazione dell’incidente quasi immediatamente dopo che si era verificato: non avrebbero mandato navi di soccorso, perché con un disastro di tali proporzioni non ci sarebbe stato niente da recuperare.
Perfino io lo sapevo.
Ma i figli di Gaia... loro avrebbero sentito e sarebbero accorsi. E se mi avessero trovata...
Correvano voci sulla mania dei terrestri di sezionare tutto quello che arrivava dallo spazio. Io ero disarmata e sola, adesso, ma dopo essere sopravvissuta per puro miracolo non volevo finire su un tavolo operatorio, aperta ed esposta come una rana per il loro divertimento.
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2a Classificata contest "Romeo e Giulietta: un amore impossibile" indetto da Aurora_Boreale_ sul forum di EFP
4a Classificata al contest "Una domanda a te e una a me." indetto da grazianaarena sul forum di EFP
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La stirpe di Agena
 
 
 
Is this the morning we've been waitin for
You think you're walkin through a shinin door
You wait for nothin and it never comes
At least you know you're not the only one
 
Questa è la mattina che noi stavamo aspettando
Tu pensi che stiamo camminando attraverso una porta luccicante
Tu aspetti il nulla e questo non arriva mai
Almeno sai che non sei l'unica

(Every Day, Planet Funk)
 
 
 
 
 
 
Orbita di Alcor, 27° di Veldor,
23/10/2289
 
 
Dire che non mi ero mai resa conto del potenziale che un singolo essere umano più sviluppare sminuirebbe la mia intelligenza, sopratutto se aggiungessi che me ne resi conto dopo ben tre anni dal mio arruolamento.
Eppure è così, e vergognarsene non cambia la realtà dei fatti.
La verità è che, forse,  non mi piace ricordare quel periodo, la persona che ero: pensare a quanto fossi ingenua e fiduciosa mi fa male all’anima, e di dolore ne ho patito troppo.
No, grazie.
Mi piacerebbe molto più ricordare il presente.
Gli anni della gloria.
Gli anni felici.
Dovrei andare con ordine, lo so: seguire il metronomo del tempo dal principio alla fine, finché tutto non vi sarà così chiaro che vorrete smettere di ascoltare. Che vorrete non aver mai saputo. Ma il cuore batte forte, troppo... Come ho fatto a non sentirlo mai?
No. Con ordine, dicevo. E la prima cosa che devo mettere in chiaro è il perché.
Il motivo di questo racconto.
Una volta un ragazzo mi disse che un segreto è pericoloso solo finché rimane tale, che il mistero è la sua unica forza. Me lo disse mente nel cielo le onde elettriche delle navi degli invasori squarciavano l’aria della notte come se fosse fatta di metallo sottile. E mentre lo diceva la sua mano accarezzava il mio collo e scendeva, lenta e tiepida, fino al seno. Non abbiamo fatto l’amore, quella notte, e credetemi se vi dico che è il mio rimpianto più grande.
Vi sembra strano che, con la prospettiva della morte così vicina, due giovani potessero pensare di darsi piacere a vicenda? Siatene felici. Vuol dire che non avete mai vissuto con la paura costante che una forza oscura e lontana calasse su di voi e vi sottraesse la vita. Siete i figli puri di questo mondo nuovo e pacifico, e qualcosa in me vi invidia tanto da darmi altra vergogna.
A quel tempo le note metalliche delle navi spaziali che squarciavano l’aria erano un suono tanto normale quanto il canto di un uccello. Ne eravamo abituati, e dovevamo esserlo. Avete idea di quanti sono stati i morti suicidi all’inizio della guerra? I molti, quelli per cui quel suono era un peso del cuore e della mente, perirono di loro mano nei primi venti anni di conflitto. Furono i più deboli, i più audaci: scelsero di non lottare e, così facendo, non dovettero scegliere. Ironico, non è vero?
Com’era quel vecchio adagio? “Pochi ridono, pochi piangono, la maggior parte sta zitta1”. Ecco, solo i pochi rimasero – quelli che avevano troppa paura o che sentivano di non poter subire più nient’altro. Noi eravamo i secondi: non avevamo niente da perdere perché tutto quello che ci era rimasto era in quella stanza, stretto fra le nostre braccia. Quando vivi nel costante terrore che un’arma nucleare spazzi via il mondo che conosci, il pensiero di una morte romantica non è poi tanto amaro.
Io lo trovavo dolce, in effetti. Ma io avevo lavorato per sette anni in un’ospedale da campo, dove avevo visto morire da soli tanti ragazzi più giovani di me, e sapevo bene di cosa parlavo quando dicevo che non volevo andarmene da sola.
Divago. È ancora non vi ho detto niente, niente di me.
Mi chiamo Taissa e sono un soldato. Lo ero, perlomeno.
Dicono che della divisa non ci si liberi mai davvero, che quel senso di cameratismo e unione ti resti attaccato alla pelle come la puzza dell’aglio, per giorni. Non so se è vero, ma di certo io non ho mai trovato una sicurezza maggiore di quella che avevo fra i miei commilitoni.
Mai, neppure fra le braccia di Alexei.
Lo incontrai all’ospedale militare, dopo poco meno di sedici mesi da quando avevo iniziato a prestare servizio come volontaria. Arrivò nel modo che avrei imparato a distinguere come suo: giacca sulle spalle, camicia bianca appena slacciata e i capelli neri e lunghi spostati su un lato, come se fosse appena uscito da una doccia – tutto il contrario di quel che mi sarei aspettata da un ufficiale. Scortava quelli che, di lì a mezz’ora, sarebbero stati i cadaveri dei suoi secondi, ma sorrideva. Lo faceva sempre quando era in uniforme.
Una parte di me – la parte romantica e ingenua – ancora vuole pensare che fosse stato proprio il suo sorriso a conquistarmi, ma so che furono l’uniforme e gli occhi. La manica vuota della giacca e il blu chiaro e irridente, per la precisione.
A quel tempo io avevo già perso il braccio sinistro. Mi davo da fare con quel che mi era rimasto, ma la mia mano dominante era rimasta sotto le pareti della nave-laboratorio, assieme all’ultimo dito della destra e alla mia storia.
Ripensando al mio braccio, credo che perderlo sia stato un colpo di fortuna. Non avrei potuto vivere la mia seconda vita – la vita umana –  con i marchi della mia diversità sotto gli occhi di tutti.
Vedete, ora gli interventi di bioingegneria sono routine, la base della chirurgia estetica; allora erano riservati ai ricchi e al personale militare della genia Hadar2. Io non avevo soldi – la mia famiglia, già modesta, aveva perso tutto quando ero bambina, nell’attacco che aveva distrutto la nostra colonia e i miei genitori, lasciandomi a crescere con mio nonno fra le macerie di una città fiorente – ma ero un militare, e a noi era fatto obbligo di essere al massimo della forma fisica. Potevamo solo scegliere cosa potenziare.
Io ero un membro del Genio, il corpo militare addetto alle armi d’assedio: lavoravo come ingegnere meccanico in un battaglione di trecento anime, uno dei più piccoli ed efficienti. Ricordo che possedevo una bella uniforme blu, da Capitano, che non avevo mai smesso d’indossare da quando avevo ricevuto i gradi; e, come tutte le divise formali degli Ufficiali, alla vita aveva una cintura e una spada, di taglio classico e tanto più pesante quanto maggiore era l’importanza di chi la possedeva. Ovviamente, nessuno la usava: il metallo allora era un bene raro e, comunque, pensare di combattere con un’arma primitiva come la spada era ridicolo per i più.
Io non l’ho mai pensata così: se possiedi qualcosa, mi dicevo, devi saperla usare.
Tutto, nella mia vita, ha da sempre dovuto avere un senso.
Avevo cominciato a prendere lezioni di scherma e avevo scoperto, con piacere, che le sessioni in palestra mi distendevano, aiutandomi a pensare. Perciò, quando vennero da me chiedendomi quale fosse il potenziamento che desideravo, chiesi un intervento a testa e braccio. Il cervello, perché più sinapsi voleva dire più trasmissione di dati, e il braccio sinistro, quello con cui impugnavo le armi.
Assecondando una necessità di allora che adesso è diventata una moda, avevano tatuato sulla mia pelle le direzioni che avevano preso gli impianti, per poterne fare regolare manutenzione.
Capite ora? Capite perché era un tormento e una fortuna aver perso proprio quel braccio?
Non so quanti di voi abbiano mai visto un essere umano puro. Sono una razza in via d’estinzione, ormai: una genia schiacciata dalla loro stessa capacità di adattamento. Loro sono diversi da noi, anche se non sembra: tanto per cominciare, soccombono ai veleni e non riescono a vedere al buio. Il
loro cuore batte dalla parte sbagliata del petto, a sinistra, e hanno cinque dita invece che sei. Poi, non hanno mai imparato a potenziare il loro corpo: la loro dipendenza da polimeri inorganici e metalli li aveva resi troppo ottusi per capire le potenzialità dei composti plastici biologici. Non tatuavano il loro corpo da secoli, ormai: ogni linea sulla pelle era una condanna a morte e una vergogna, perché gli ricordava noi.
Gli esseri alieni a loro così simili che avevano osato sfidare Gaia.
Potevo celare sotto i capelli neri i segni sulla testa, ma non avrei mai potuto tenere nascosti gli impianti grigiastri che dalla spalla arrivavano alla punta delle dita.
Dita... Già. Quello più piccolo della mano destra ho dovuto tagliarlo io per riuscire a sopravvivere.
Per passare inosservata.
L’ho già detto che sarei andata con ordine, vero? Dovete perdonarmi, ma è difficile. La nave su cui viaggio compie balzi nell’iperspazio con la frequenza di uno ogni trentotto minuti-standard, e io non sono più tanto giovane.
Non che abbia mai sopportato bene i salti – in effetti mi hanno sempre dato i capogiri e una tremenda nausea. Immagino che saprete capire la mia confusione e mi scuserete, perché è l’unica cosa che potete fare se volete sapere la verità su di noi.
Anche il giorno dell’incidente stavo male. Avevo appena concluso il terzo dei miei viaggio quotidiani alla nave madre, ancorata a qualcosa come trenta anni-luce da Gaia, una distanza che già sembrava ridicolmente prudente. Il balzo dalla stazione di ancoraggio all’ammiraglia era una routine che dovevo compiere: la nostra missione primaria era quella di raccogliere campioni per stabilire se il giacimento che avevamo trovato era ricco di materiale radioattivo, indispensabile per completare le armi e, di conseguenza, l’assedio. Ci serviva anche del rame, ovviamente, ma quelle miniere erano sorvegliate ancora troppo strettamente.
Stavo male, e non solo per il viaggio – anche se, lo ammetto, quello non aveva aiutato granché. Non ero la sola, ma ancora credevamo che la tosse e il malumore fossero una conseguenza della polvere sabbiosa nell’aria.
Noi non abbiamo deserti su Agena, e io non posso spiegarvi cosa voglia dire non riuscire a respirare per il pulviscolo e l’aria cocente: non capireste, come non capivamo noi allora.
Fu la mia debolezza a salvarmi. Stavo così male, quel giorno, che corsi nella nave-laboratorio e mi sedetti, aspettando che il Drez passasse in infusione. Era l’unica bevanda che rescisse a darmi sollievo: un rimedio rurale a cui mio nonno mi aveva indottrinata quando ero ancora una bambina.
La trivella esplose mentre sollevavo la ciotola bollente, trasformando in polvere del deserto la mia intera squadra in poco meno di due secondi terrestri. La nave-laboratorio, una capsula ovoidale di trecento quintali di peso, venne scagliata in aria come una palla e ricadde su sé stessa, accartocciandosi e fondendosi nel tessuto molle che è alla base della Cjera. Venni scagliata contro un muro e mi ustionai una gamba, poi l’urto mi fece ricadere addosso lastre taglienti di silicati proteici, affilate come lame. Gridai, e il mio lamento era quello della struttura che si disintegrava e mi inghiottiva, portandomi con sé.
Avete mai provato dolore? Io ne patì talmente tanto, quel giorno, che credevo di esserne diventata immune.
Il cuore batteva come se volesse spaccare le costole e lacerarmi il petto per fuggire da quell’orrore, da quello strazio. Poi il cervello si arrese, e con un sibilo assordante la mia coscienza cadde nel nulla, lasciandomi in balia del destino.
Quando mi svegliai, il calore del deserto e i microrganismi di Gaia avevano gia iniziato a trasformare i resti della capsula in rocce bianche e spolpate, che la sabbia avrebbe presto nascosto. Nessun segno del nostro passaggio sarebbe rimasto, così come volevamo. Perché avremmo usato quel materiale, altrimenti?
Io non stavo bene: la ferita al braccio era stata cauterizzata dalla Cjera incandescente, ma nuove ustioni erano sorte mentre ero priva di sensi.
Sapevo che non sarei potuta rimanere li. La nave-madre doveva aver ricevuto comunicazione dell’incidente quasi immediatamente dopo che si era verificato: non avrebbero mandato navi di soccorso, perché con un disastro di tali proporzioni non ci sarebbe stato niente da recuperare.
Perfino io lo sapevo.
Ma i figli di Gaia... loro avrebbero sentito e sarebbero accorsi. E se mi avessero trovata...
Correvano voci sulla mania dei terrestri di sezionare tutto quello che arrivava dallo spazio. Io ero disarmata e sola, adesso, ma dopo essere sopravvissuta per puro miracolo non volevo finire su un tavolo operatorio, aperta ed esposta come una rana per il loro divertimento.
Ero addestrata.
La lingua è la maggiore barriera, sapete? La prima cosa che avevo fatto, dopo l’impianto al cervello, era stata mandare a mente i principali dialetti di Gaia. Potevo far credere loro di essere una terrestre, se solo avessi eliminato le differenze che correvano tra noi.
La decisione di tagliare il sesto dito richiese solo un attimo: il tempo di guardarmi intorno e cercare un pezzo di Cjera abbastanza affilato e uno ancora caldo. Poi premetti con forza e seppellì quella parte della me Hadar sotto la sabbia, scavando come un animale. Cauterizzai la ferita il prima possibile, ma già sentivo di essere andata oltre. Poggiai tutto l’avambraccio sulla lastra calda, sapendo che il segno sarebbe stato cancellato completamente solo se l’intera area fosse sembrata tutta danneggiata dall’attacco.
Che era l’unico modo perché la mia storia fosse coerente.
Quindi iniziai a camminare verso il sole al tramonto.
Mi trovarono a notte fonda, con le labbra secche e gli occhi sporchi. Parlarono in una lingua veloce e dura, un idioma impastato del gelo che li aveva creati. Io risposi nella lingua del deserto, sapendo che non si sarebbero aspettati altrimenti dai miei occhi allungati e verdi o dalla mia pelle olivastra per il sole.
Viaggiai per quasi tre ore su un veicolo metallico di terra, pregando l’universo che non cercassero di controllarmi il cuore o la testa. Provai a parlare in quella stentata maniera che gli stranieri dovrebbero avere, ma quella gente non mi volle ascoltare. Non si fidavano, e potevo capirli.
Scorsi la città da lontano, ma finsi di non riuscire a vederla: era un’ombra scura nella notte, silenziosa e pronta a inghiottirmi. I suoi palazzi, che un tempo sfidavano l’universo da altezze vertiginose, ora erano rovine al suolo, cumuli di roccia strana e lamine contorte.
La trovai bellissima sin dal primo istante, come un’opera d’arte grezza e visionaria. E così reale da spaventarmi.
All’ingresso le guardie ci fermarono e mi chiesero le generalità. Dissi che ero Taissa Shaaren, in fuga verso il nord con la mia famiglia. Dissi che avevamo incontrato un’avanguardia aliena e che ci avevano massacrati. Piansi, perfino, tanta era la paura che non credessero alla mia storia.
Mi portarono in un edificio e mi puntarono il fucile alla testa, intimandomi di spogliarmi. Controllarono il mio corpo e io mi resi conto immediatamente che sarei stata salva perché, quando mi liberai dei resti della tuta da lavoro, ormai irriconoscibile, vidi sul volto dell’uomo al comando l’espressione della pietà. Fece il suo dovere, ma fu un esame sbrigativo e a suo modo dolce. Stampò un lasciapassare e me lo consegnò con mano tremante, intimando agli uomini di portarmi da un medico.
Scoprii allora quanto sopravvalutavamo i terrestri.
I loro ospedali, pieni da scoppiare e sporchi, offrivano il minimo delle cure possibili a chi era in grado di alzarsi e parlare. Due uomini disinfettarono le ferite alla spalla sinistra e bendarono tutti i tagli, dicendomi di liberare il letto entro un’ora.
Da lì fui per strada, nell’oscurità amica che tanto mi ricordava Agena. Sentivo le pupille dilatarsi, alla famelica ricerca degli arbusti luminescenti del Drez, e la mano fantasma scivolare al fianco sinistro, dove fino a quel momento aveva giaciuto la spada. Nessuna delle due trovò l’altra: quelle due vecchie amiche riposavano nel deserto, ora. Contrassi dita che non avevo e mi spinsi oltre, pensando a cosa avrei fatto.
Ero addestrata, ve l’ho detto, e come tutti i soldati di stanza ai pianeti assediati avevo delle direttive per situazioni del genere. Ora il mio scopo sarebbe stato sopravvivere e raccogliere informazioni, nell’attesa di una buona occasione per fare rapporto.
Salto la parte dell’adattamento: è noiosa e non è quello che avete bisogno di sapere.
Il potere di rigenerazione rapida tipico della mia genia mi fece recuperare le forze in fretta e fu un bene, perché adattarsi fu più difficile di quanto avessi immaginato. Sopravvissi con ogni metodo che mi fu possibile e cercai per anni di infiltrarmi nell’esercito, senza riuscirci.
A cosa poteva servire un soldato menomato?
Passai al freddo più inverni di quelli che avrei voluto, cercando invano prima un lavoro e poi la forza di farmi toccare per soldi. C’erano giorni in cui avrei potuto vendere la mia stessa anima per del cibo, ma non riuscivo a commerciare il mio corpo; in parte perché i figli di Gaia mi ripugnavano – la loro pelle sembrava voler rimanere sporca e maleodorante nonostante la cura che, almeno alcuni, avevano – in parte perché non volevo farmi vedere com’ero. Ogni volta che un maschio mi si avvicinava – e avveniva anche troppo spesso, data la mia menomazione – il braccio fantasma si contraeva, annaspando in cerca dell’arma, di quella sublime, perfetta eleganza e della calma che il mio corpo sapeva trovare solo quando mi allenavo.
O quando lavoravo.
Alla fine del mio terzo anno su Gaia i miei attaccarono. Fu una ricognizione rapida e pulita, pienamente nel nostro stile: tre navi leggere apparvero per un istante in cielo, calando sulla città umana onde di luce ustionanti. Bruciarono vivi almeno quattrocento terrestri e due quartieri prima che gli scudi di difesa potessero intercettare le armi e rimandarle indietro, senza successo.
Le navi erano scomparse. Agena aveva già avuto tutti i dati che le servivano.
Io mi trovavo vicino alla zona dell’attacco. Con lo stridore delle sirene che ancora mi assordava e il sogno di casa nell’anima, corsi a vedere.
Non trovai alcun Hadar, ma inciampai su Ivan.
Lo ricordo come se fosse ieri, perché fu quel ragazzo a segnare indelebilmente il mio futuro.
Durante l’attacco Ivan si trovava nella sua macchina, stracarica di materiale elettrico: l’onda d’urto delle armi aveva innescato un singolare processo, attivando simultaneamente tutti i conduttori che trasportava. La scossa elettrica, veloce e ad alta frequenza, aveva bloccato i circuiti dell’auto e folgorato Ivan. Io lo trovai attaccato al volante, con le mani ancora contratte e il respiro intermittente.
Avrei dovuto abbandonarlo lì e continuare la mia ricerca. Aveva l’età per essere un soldato – anzi, probabilmente già lo era, dato il materiale che trasportava – e un nemico, ma gli occhi! Gli occhi erano marroni e carichi di quella paura che non ha genia.
Non sono mai stata di cuore duro – nessuno che abbia davvero perso tutto lo è, ne sono convinta. E nel caos nessuno si domandò come una ragazza senza un braccio avesse potuto trasportare un ragazzo più alto di lei per due chilometri, o perché non mostrassi segni di stanchezza.
Nell’ospedale c’era il finimondo. Ricordo che qualcuno mi chiese di dare una mano, e poi il sangue troppo rosso di una donna che mi scorreva caldo fra le dita. La faccia contratta di una bambina. Il lamento di un ragazzo che mi chiese di poter affondare la faccia nel mio seno, perché non voleva morire senza sapere che sapore avesse una donna.
Entrai nell’ospedale con Ivan e non ne uscì. Rimasi finché quelli che avevano bisogno di me non furono dimessi o morti – e poi ne arrivarono altri, e io chiusi gli occhi e pregai Agena di perdonarmi del piccolo tradimento che compivo. Ma non riuscivo, oh, non ero in grado di lasciare che tutto questo succedesse.
Non ero mai scesa in guerra. Io riparavo macchine e costruivo accampamenti, per l’Universo! Non avevo mai, mai visto qualcuno morire.
Rimasi nell’ospedale. Pian piano, dagli impianti d’assedio Hadar passai agli umani, e scoprii che fra un essere vivente e una macchina non correva poi molta differenza – solo, noi eravamo fatti di caldi ingranaggi organici e le nostre creature di tiepido biomateriale.
Ed eccoci ad Alexei, di nuovo.
Finalmente.
Mi manca così tanto che, certe volte, mi sembra che potrebbe scoppiarmi il cuore. Ne sento l’assenza ancora, pesante come se gli avessi detto addio ieri. Ottant’anni: nemmeno io, nella mia più fulgida innocenza, avrei mai pensato che l’amore potesse durare così a lungo.
Che potesse far male per così tanto tempo.
Avevo rinunciato all’idea di infiltrarmi e stavo venendo a patti con la possibilità di dover vivere la mia vita così, aiutando le creature che avrei dovuto combattere – non potete non vedere la poesia, la dolce ironia in tutto questo! – quando arrivò Alexei.
Un segno dell’universo.
La prima conversazione che avemmo riguardava i suoi sottoposti. Gli dissi che non eravamo stati in grado di salvarli e lui scrollò le spalle e sorrise, spostandosi i capelli sul lato sinistro del volto – poi allungò il braccio destro e afferrò il mio, trattenendomi.
«Che hai fatto all’altro?» mi chiese, stringendo il polso come a sottolineare il soggetto.
«Alieni» risposi semplicemente, sapendo che non sarebbe servito altro. «Lasciami!»
«Non volevo offenderti» disse Alexei, e sollevò la mano in un gesto di scuse. La giacca scivolò indietro e io potei vedere il segno rosso e irregolare dell’amputazione, poco sotto all’ascella. Lui sorrise di nuovo e scrollò la spalla sinistra, lasciando che la giacca mostrasse il moncherino. «Pensavi di essere l’unica? La guerra ha toccato tutti noi in maniere molto simili.»
Non gli risposi. La mia pelle bruciava dove l’aveva toccata, come se il contatto con lui fosse stato urticante. Avevo voglia di lavarmi, sciacquare via il sangue dei soldati e il calore della pelle dell’umano come facevo a ogni istante libero, ma non potevo. Lui si alzò, avvicinandosi mentre sollevava la giacca con un gesto esperto che sottolineava l’abitudine alla sua menomazione. Io bramavo a mio modo riparo: lo spettro della me Hadar contraeva le mani, cercando l’arma che avrebbe tolto di mezzo quel fastidio, liberandomi dalla necessità di doverlo ancora assecondare. E forse avrei anche potuto avere la meglio con la destra, se avessi provato: se c’era una nota positiva nella mia permanenza su Gaia era che avevo dovuto imparare a usare il mio braccio debole.
Non feci nulla, in realtà. Rimasi immobile mentre Alexei mi si avvicinava e slacciava il nodo al collo della mia divisa blu da medico, lasciando che osservasse le cicatrici da ustione che correvano dalla scapola fino a quel che restava della spalla. Tremai quando le sue dita sfiorarono la mia pelle, e lui se ne accorse.
«Che spreco. Dovevi essere stata una vera bellezza, prima» commentò, lasciando andare il bavero della maglia. «Non preoccuparti, non ti toccherò più. Ora siamo pari.»
E se ne andò. Senza una parola, senza voltarsi indietro una volta. Io rimasi ad osservarlo, odiandomi: ero troppo intelligente per non rendermi conto di aver appena sprecato l’occasione che rincorrevo dal giorno in cui avevo messo piede a Taraz3.
Potrei descrivere ogni parola, ogni gesto, ogni più piccola esitazione: la mia mente potenziata ricorda tutto con una chiarezza disarmante e graffiante. Ricordo la temperatura dell’acqua quando corsi nei bagni, a sciacquare viso e collo – calda da bruciare – e le volute di vapore dietro le quali nascondevo la mia debolezza, per non doverla osservare allo specchio. Avrei voluto gridare, tanta era la frustrazione.
Mi imposi la calma. Respirai, cercando di ragionare, di rimediare al mio errore – e poi seguii a ritroso la chiazza rossa che si allargava con il calore e mi allontanai di scatto, amareggiata da tutto in quel pianeta dimenticato dall’Universo – me compresa.
Sentivo il bisogno di qualcosa di antico, di mio. Cercai la spada e sentii in bocca il sapore del Drez, aromatico e carico proprio come quello che bevevo da piccola. Chiusi gli occhi per trovare il buio familiare del mio pianeta natale, e assaporai per un lungo istante l’illusione che tutto questo non fosse mai accaduto, che fossi ancora una bambina innocente e integra, lontana da tutto il dolore della guerra.
Poi aprii gli occhi e mi ritrovai davanti ad uno specchio senza condensa, sul quale la mia immagine si rifletteva sempre più nitida e chiara, sempre più desolante.
Non ero altro che un essere a metà.
Tre settimane dopo Alexei tornò.
Si presentò da solo e piombò nella camerata dell’ospedale come se fosse suo diritto stare lì. Ricordo che mi afferrò per l’avambraccio e prese a trascinarmi via dalla ragazza che stavo assistendo, senza alcun riguardo per me o per lei. Forse si aspettava che lo seguissi docilmente, o magari era solo abituato a trattare tutti come suoi sottoposti, non so; fatto sta che io piantai le gambe e feci resistenza, strattonandolo anche col braccio. Lui si bloccò e ruotò appena su sé stesso, l’espressione del volto che passava dal sorriso strafottente alla sorpresa e poi, per appena un secondo, alla collera. Io ne approfittai per far scivolare via il braccio dalla sua presa e presi a massaggiarmelo, più infastidita che ferita.
«Se mi tocchi ancora ti amputo anche l’altro, da sveglio. È una promessa» gli dissi. E l’avrei fatto: mi spostavo di un passo alla volta verso il carrello con gli attrezzi, ben attenta a non perderlo di vista.
«Siamo d’accordo. Volevo solo darti questo» Alexei mi allungò una tessera metallica. «È una memoria. Va in un pc» precisò poi, in risposta al mio sguardo interrogativo.
«Ti sembra che questo posto possa anche solo pensare di permettersi un computer?» gli feci notare, indicando la camerata spartana attorno a noi.
«Merda» il suo sorriso si allargò ancora, mentre stazionava su di me senza nessun vero disappunto. Sollevò la mano e fece un cenno verso la porta, invitando qualcuno ad avvicinarsi. «Aspetta qui» ordinò passandomi accanto. Io mi girai solo per vederlo parlottare con Dima, il medico alle cui dipendenze lavoravo.
Mezz’ora dopo ero seduta su una macchina, accanto ad Alexei, diretta alla base militare di Taraz.
 
 
1 https://it.m.wikiquote.org/wiki/Robert_Oppenheimer
2 Hadar, altro nome di Agena, una stella; il significato è “la terra stabile”. Tenetelo a mente!
3 Città del Kazakistan (scelta col nobile criterio del dito puntato a caso sulla parte di mondo che mi interessava)
 
 
Piccolo spazio-me: due parole veloci, in realtà, dato che il commento che vorrei fare è infestato da spoiler (lo leggerete all'ultimo capitolo, qui di vedete di arrivarci :D). 
Innanzitutto, il link al contest > per chi volesse dare un'occhiata al pacchetto da cui è nata la storia (Spoiler!)
Poi, i credits: Zephyrhant & Las-t (amo questi artisti *_* passate a rifarvi gli occhi)

Fatemi sapere che ne pensate della storia: ci tengo!
  
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