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Autore: Aleena    18/11/2015    0 recensioni
Dal testo: "Sapevo che non sarei potuta rimanere li. La nave-madre doveva aver ricevuto comunicazione dell’incidente quasi immediatamente dopo che si era verificato: non avrebbero mandato navi di soccorso, perché con un disastro di tali proporzioni non ci sarebbe stato niente da recuperare.
Perfino io lo sapevo.
Ma i figli di Gaia... loro avrebbero sentito e sarebbero accorsi. E se mi avessero trovata...
Correvano voci sulla mania dei terrestri di sezionare tutto quello che arrivava dallo spazio. Io ero disarmata e sola, adesso, ma dopo essere sopravvissuta per puro miracolo non volevo finire su un tavolo operatorio, aperta ed esposta come una rana per il loro divertimento.
"
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2a Classificata contest "Romeo e Giulietta: un amore impossibile" indetto da Aurora_Boreale_ sul forum di EFP
4a Classificata al contest "Una domanda a te e una a me." indetto da grazianaarena sul forum di EFP
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La stirpe di Agena
 
 
 
Just when I'm thinkin it was always you
The sun has gone and let the rain come through
The things I'm hearin I've already heard
But now I'm walkin in a different world
 
Proprio quando sto pensando che eri sempre tu
Il sole se n'è andato e ha lasciato spazio alla pioggia
Le cose che sto sentendo sono cose che ho già sentito
Ma ora sto camminando in un mondo diverso


(Every Day, Planet Funk)
 
 
 
 
 
 
 






Orbita di Achernar, 30° di Veldor,
23/10/2289

 
Salti, di nuovo.
Quanto potrò ancora sopportare questo viaggio?


Periferia di Achernar, 30° di Veldor,
23/10/2289

 
 
Dov’ero rimasta?
Ah, già. La base militare.
Cosa posso dirvi di quel posto? Tranne che per il filo spinato e gli scudi mimetici piantati su strutture metalliche, era terribilmente simile a una delle nostre. Immagino che i luoghi in cui riposa la guerra siano tutti fratelli: file spartane di casermoni tutti ugualmente fragili, facili da sostituire. La sensazione di attesa, il respiro trattenuto di un luogo temporaneo sull’orlo dell’abbandono e l’odio - non va scordato! Odio per gli edifici, per ciò che avviene dentro e fuori – erano le stesse che avevo respirato su Agena, prima.
Così familiare.
Alexei mi fece scivolare attraverso i luoghi che per tanto tempo erano stati il mio solo scopo con una facilità tale che, se avessi potuto, avrei riso per la gioia. Il mio cervello potenziato registrava, interamente concentrato su ogni minimo particolare che avrei potuto usare a nostro vantaggio.
“Nostro”... Era bastato mettere piede in un luogo di guerra per far riemergere la me Hadar. Il soldato.
Individuai il centro di comando in meno di un minuto e vidi che non era quello il nostro obiettivo. Il mezzo meccanico sul quale viaggiavo compì una lunga curva, mantenendosi lungo il perimetro esterno, costeggiando la recinzione verso la zona di riposo degli ufficiali di grado superiore.
Una fila di edifici bassi, in muratura, apparve pian piano fra le costruzioni in cartongesso e le macchine da assedio pronte al contrattacco. La facciata, da cui si staccavano scaglie di vernice colorata, tradiva un passato maestoso che nessuna mano avrebbe mai potuto recuperare interamente, tanto quel luogo era stato violentato.
Ma dentro... oh, dentro l’anima di quel palazzo risplendeva della gloria che le vecchie donne umane ancora cantavano, di tanto in tanto. Le pareti, segnate da crepe e fratture, erano coperte di pitture raffiguranti le più belle scene che avessi mai visto: campagne e alberi, uomini e donne, creature fantastiche e cieli immensi, spazi profondi come nessun umano avrebbe mai potuto vedere. Era il vero volto di Gaia, quello: splendente di colori e segnato dalle rughe dell’età e della sofferenza, ma non per questo meno affascinante.
Avete mai visto un dipinto che non sia impresso su una lastra d’energia? Avete mai guardato un quadro i cui colori non fossero fasci di luce liquida? Se l’avete fatto, se i vostri occhi hanno mai avuto la fortuna di posarsi su un’opera di pittura stesa su superfici solide, allora saprete capirmi quando dico che, per la prima volta, scoprii che un sogno può prendere corpo.
Rimasi a guardare a bocca aperta, sconcertata, per quelle che mi parvero ore. Registrai ogni dettaglio di quell’immagine per poterla vedere ancora e ancora in futuro: per farla vivere in eterno, anche dopo che gli Hadar l’avessero ridotta in polvere.
L’hanno fatto, sapete? Taraz non esiste più e ora solo io posso ammirare quelle pitture, nei miei ricordi.
Unica visitatrice di un museo che nessuno conosce.
Alexei interruppe la mia meraviglia afferrandomi ancora per un braccio e trascinandomi avanti. dLo lasciai fare, tanto ero presa, e registrai solo parzialmente il percorso che stavamo compiendo.
Porte e corridoi e altre meraviglie nascoste nelle ombre.
Non incontrammo nessuno, ma credo che Alexei avesse pianificato così. Non aveva mai avuto il permesso di portarmi lì, ma a chi importava?
Ci fermammo davanti a una porta anonima e ingrigita dal tempo, e con un sussulto mi resi conto che quella era la sua stanza, che mi aveva trascinata nel cuore del suo regno senza che io opponessi resistenza. E cosa avrebbe fatto di me?
Scansai le opzioni e mi preparai a doverlo assecondare, certa che non avrei avuto occasione migliore per portare avanti la mia missione. E cosa poteva essere il sesso con un umano in confronto alla vittoria di Agena?
Un sacrificio accettabile.
Ma avevo lo stesso cominciato a tremare, mentre la sensazione di negazione e orrore mi assaliva a livello dello sterno, lottando contro la ragione.
Alexei spinse la porta e mi sentì tirare un sospiro di sollievo vedendola aprirsi su una stanza medica.
«Non pensavo che l’idea di finire a letto con me fosse tanto tragica per te, ragazzina» disse Alexei. «Rilassati. Non ti avrei mica portata fin qui solo per scopare. Se avessi voluto, mi sarei fatto invitare da te, a casa tua»
«Come sei sicuro di te, soldato» lo schernì io, con una nota di disprezzo ben chiara. D’un tratto ero furiosa: in quella dannata stanza c’erano così tante macchine e medicine! Con quelle avremmo potuto salvare la vita a chissà quante persone, e loro la tenevano chiusa! Come potevano?
«Pensavo mi chiedessi come avevo fatto a capire la tua paura» sorrise Alexei, invitandomi ad entrare. Mi tenne la porta aperta e la chiuse a chiave alle mie spalle, intrappolandomi lì dentro.
«Sudorazione e reticenza. Hai i gradi da Colonnello, quindi penso che tu sia abbastanza addestrato per arrivarci. No, mi interessa più sapere perché l’esercito ha una sala operatoria all’avanguardia nascosta nelle viscere di un palazzo cadente. Puoi spiegarmi?»
«Taraz ospita quasi un milione di persone. Quanto pensi ci metterebbe una “sala all’avanguardia” a diventare obsoleta se dovesse servire a tutta quella gente?»
«E questo dovrebbe voler dire qualcosa?»
«Questo posto c’è costato troppo. Tendiamo a non sprecare le cose preziose» disse Alexei, e poi alzò la mano in un gesto brusco, che gli fece scivolare la giacca dalla spalla. «Zitta adesso! Non ti ho portata qui per discutere delle risorse militari, ma per questo...» e mi tese la memoria metallica, stretta fra indice e medio. Io la presi con rabbia, concentrandomi per non romperla e lanciargli i resti in faccia. «Il pulsante rosso. Non ha la password. Aspetta che abbia caricato la schermata prima di inserire la memoria o mi toccherà chiamare un tecnico» disse, indicando il computer.
Mentre mi spostavo per sedermi davanti allo schermo, Alexei prese a slacciarsi la camicia. Lo fece con gesti rapidi e stizziti, come se ogni bottone lo stesse personalmente insultando. Dal riflesso dello schermo potevo vedere i muscoli del braccio sano tendersi, come se quel gesto semplice fosse una sfida più dura delle battaglie che affrontava per mestiere. Aveva tagliato malamente la manica dalla parte dell’arto sano, lasciandolo scoperto, mentre l’altra era stata annodata con cura appena sotto l’articolazione e pendeva inerte, come in attesa di una parte di lui che non sarebbe mai tornata. Notai che il bottone al polsino era allacciato e che Alexei sorrideva ancora, con rabbia, prima che il computer emettesse un bip sordo, annunciandomi che era pronto.
Inserii la memoria e quella cominciò a girare da sola. Lo schermo, una sottile lastra metallica coperta da un vetro, si riempì di schemi e progetti che si aprirono l’uno sopra all’altro, lottando per la mia attenzione. Allungai una mano, incerta, e cominciai a sfogliare i disegni con meraviglia crescente, la mente che tornava a vagare su terreni che non esploravo da quasi dieci anni.
«Stupefacente, vero?» Alexei mi si avvicinò, nudo dalla cintola in su, e si sporse oltre la mia schiena, premendomi la sua pelle calda addosso, senza riguardo. Pescò un file e lo ingrandì con due dita, facendo sorgere un intrico di linee meccaniche e ingranaggi prima nascosti, mentre io lottavo contro la voglia di allontanarlo, sbatterlo a terra e colpirlo fino a che non avesse capito che doveva starmi lontano. «I miei lavorano da quasi sei anni su questi progetti e mi assicurano che sono realtà. Che possono essere realizzati. Ho messo in produzione due di... di questi...» Alexei scansò tre progetti prima di trovare quello che cercava: il dettaglio di un arto meccanico di metallo, completo della circuiteria necessaria a farlo muovere «... quattro mesi fa. Finiranno di assemblarli in settimana e poi saranno pronti alla fase tre. Sai di cosa parlo, vero?» Scossi la testa, allontanando contemporaneamente la sedia da lui, ma Alexei si attaccò di nuovo a me e sorrise, invitandomi a sfidarlo. «Sperimentazione umana. La fase tre di ogni cosa è sempre la sperimentazione umana, tienilo a mente ragazzina.»
«E hai scelto di usare me come cavia?» domandai, stringendo le labbra. Il braccio fantasma si mosse, ribellandosi all’idea, e spinse contro la faccia di Alexei, frantumandogli il naso mentre lo atterrava; sentii perfino lo scricchiolio delle ossa e il gemito dei nervi rimbalzare lungo i tendini bionici e galvanizzarli, accendendo tutta la forza della tecnologia Hadar... e mi trovai ancora seduta, col cuore che correva per la paura. Se mi avessero operata avrebbero scoperto che, dentro, non ero così umana come sembravo, e allora sarei stata spacciata.
«Ti piacerebbe, vero? No, questa meraviglia costa troppo per regalarla a una civile. Vedi, a questo punto il problema non è verificare che il prototipo funzioni, ma trovare qualcuno a cui valga la pena di lasciare un braccio da quasi tredici milioni di Rubli. Qualcuno che sia nello stesso tempo anche sacrificabile, nel caso le simulazioni a computer fossero sbagliate.»
«Ti hanno...»
«Mi sono offerto volontario. Credo tu possa capirmi quando dico che venderei l’anima per poter tornare a essere un uomo integro.»
Non risposi, limitandomi ad annuire senza convinzione. Come potevo dirgli che no, non lo capivo? Come potevo spiegargli che la sola idea di fondere me stessa con un pezzo di metallo era semplicemente vomitevole? Che avrebbero dovuto sedarmi pesantemente per evitare che, con tutte le mie forze, io mi opponessi a una tale mostruosità?
«Io che c’entro?» domandai invece, girandomi di scatto a fronteggiarlo. Lo trovai ancora sorridente e decisamente più pericoloso, ora.
Più preoccupato, avrei capito poi.
«Per farmelo muovere, bisogna che sia connesso al mio sistema nervoso. O qualcosa del genere, a quanto dicono il cervelloni. Hanno provato a spiegare la procedura ai medici del campo ma tutti si sono rifiutati. Dicono che mi avvelenerà il sangue, che morirò durante l’intervento o... Beh, altre belle cose del genere. Ho smesso di ascoltare dopo le prime minacce di morte e sofferenza, tanto il concetto era chiaro. Il messaggio di fondo è che quei codardi non vogliono rimetterci il loro bel posto di lavoro, in caso andasse male. Qui è piuttosto facile la vita per il personale civile, sai?» Alexei si avvicinò, abbassando la voce a un sussurro complice e spostandosi i capelli di lato. «Non sono motivati. Non sanno che vuol dire essere assegnato all’unità più merdosa dell’esercito perché non possono cacciarti via. Perché sei così fottutamente bravo che hanno bisogno di te, anche se te è un catorcio che fatica a ricaricare la propria arma da solo. O ad allacciarsi la camicia, che è peggio.»
«Ti stai dando molta importanza, per essere una cavia» risposi io, aspra. Ero irritata da tutto, in lui: la sua confidenza, il tono amaro, l’odore della sua pelle, il linguaggio.
«Io voglio tornare in guerra, ragazzina! Voglio uscire da questo palazzo di merda e scendere in campo con i miei soldati. Voglio guardare in faccia quegli alieni del cazzo e fargli vedere che vuol dire mettersi contro i terrestri. Io sono nato per questo!»
«Anche se volessi, come pensi che potrei operarti?» e sollevai il braccio destro, frullandolo in aria con amarezza.
«Ti ho vista ricucire Yegor. Il ragazzo biondo. Hai fatto un bel lavoro, per una che poteva usare solo una mano. Sei stata tenace. E, quando ce l’avevi sotto la mano, non lo guardavi come un medico, ma come un meccanico. Come se quella con cui stavi lavorando non fosse una vita ma un’insieme di circuiti che dovevi riconnettere. È questo che voglio: la freddezza, l’autocontrollo. L’assenza di quel fattore umano che rende quegli altri geni dei codardi miserabili.»
«Resta il fatto che ho una mano sola. Non sarei in grado di...» iniziai a protestare, ma Alexei mi bloccò con un gesto imperioso.
«Quella macchina là è un computer. Basta programmarlo. I cervelloni lo setteranno per te. E poi avrai un’equipe ai tuoi ordini. Tu dovrai solo... Solo controllare che non facciano cazzate» tagliò corto lui, sollevando le spalle.
«Io non sono medico. È bene che tu lo sappia.»
«Sai dove mettere le mani, però. E puoi capire perché sono disposto a fidarmi di te» Alexei allargò il sorriso e mi posò una mano sulla spalla sinistra, in una carezza che scese troppo verso il petto. «Accetta, ragazzina. Fallo e, entro dieci anni, forse sarai diventata abbastanza indispensabile da averne uno anche tu.»
«Dovrò restare qui?» domandai, brusca, facendo un passo indietro e indirizzando un cenno all’angolo di caserma che si intravvedeva dalla finestra chiusa da inferriate.
«Immagino che vorrai familiarizzare con le attrezzature meccaniche e umane. In caso contrario...» Alexei indicò la porta con un mezzo inchino, allungandomi la chiave. Aveva in volto un sorriso freddo che sembrava dirmi che, in fondo in fondo, aveva sempre saputo che non ero all’altezza, ma che quello era solo un errore suo, non mio.
Accettai, e non nego che in quel momento fu solo per cancellargli quell’espressione dalla faccia.
Rimasi.
Finsi reticenza e disprezzo, a volte persino odio, ma non mi mossi. Ero dove volevo, dopotutto.
Scoprì ben presto che la mia inesperienza era secondaria solo per Alexei: il team che lavorava a quel progetto – tre medici con più di trent’anni di esperienza e il doppio fra assistenti e infermiere – mi accettò malvolentieri, condividendo con me solo mezze verità... almeno, fino a quando il paziente non lo venne a sapere.
Da me.
Se Alexei voleva usarmi per tornare intero, io volevo usare lui per far fruttare quel tempo. Avevamo stabilito una tregua singolare: entrambi fingevamo di corteggiarci, di tenere l’uno all’altra, certi che l’idea di un coinvolgimento romantico potesse rafforzare i nostri veri interessi – lui convinto che io l’avrei tenuto in vita con maggiore forza se l’avessi amato, io che mi avrebbe confessato ogni cosa se solo avesse pensato che poteva servire a conquistarmi.
Oh, con questo non intendo che Alexei mi fosse indifferente. Mi avrebbe portata a letto più che volentieri, se glielo avessi permesso. Quella sua mano troppo lunga non perdeva occasione per scivolare su di me – all’attaccatura del collo o nell’incavo fra il braccio sano e il seno, ad esempio. Io lo notavo e contraevo le dita fantasma, lasciandolo fare: finché era solo questo, potevo resistere.
Dovevo.
Lui era insistente in maniera imbarazzante. Si lasciava sfuggire frasi come “Ti sei fatta male cadendo dal paradiso?”. Tremende già per loro natura, diventavano a dir poco squallide quando lui le pronunciava con quella spudorata, lasciva disillusione che sottintendeva il suo totale disinteresse.
Non le tolleravo, non potevo. Cominciai a rispondere con frecciatine tipo “Ho perso un braccio, tu che dici?” o “Gli occhi li ho presi da mia madre, ma non l’ho mai conosciuta e pensare a lei mi ferisce” ma scoprii che era controproducente con lui. Alexei allargava il sorriso e mi cingeva con un braccio, stringendomi a sé e toccando quante più parti del mio corpo poteva mentre mi compativa con una studiata pena, dietro la quale potevo benissimo vedere l’indifferenza e il disprezzo per la mia debolezza.
Mi avrebbe schernita se non gli fossi servita. Così smisi di rivolgergli qualunque frase che non fosse strettamente necessaria al mio scopo.
Come corteggiatore era pessimo, non lo nego, ma come cane da guardia si rivelò ottimo.
Quando mi “lasciai sfuggire” a fior di labbra che gli altri medici non volevano rendermi partecipe, Alexei spostò i capelli di lato, sorrise di più e mi afferrò alla mascella, dolcemente, per un lungo minuto. Poi si alzò come se nulla fosse.
Sentii le grida del capo del team passare attraverso tre porte ma, quando feci di nuovo la mia comparsa, nessuno osò parlarne.
Fu così che scoprii che quei progetti non erano altro che vecchi schemi, salvati da chissà quale perduta biblioteca e studiati per anni, per capirne il significato.
E non era il solo caso.
I figli di Gaia, lo scudo contro cui ci infrangevamo da anni, si difendevano usando una tecnologia vecchia di più di due secoli! Come potevano aver resistito tanto?
Da allora studiai e basta. Procedure mediche, rudimenti di meccanica, principi di anatomia. Lessi informazioni frammezzate su vecchi tomi di carta – carta, per l’Universo! – e cercai di mostrarmi più sapiente che intelligente. Quanti umani potevano vantarsi di essere in grado di leggere e apprendere un intero compendio di fisiologia in un’ora? Il mio cervello potenziato, ancora una volta, era mio rischio e fortuna.
Alla faccia della settimana preventivata da Alexei, il team fu pronto ad operare dopo tre mesi quasi esatti. A quel punto sapevo degli umani tante di quelle cose che avrei già dovuto capire... Ma ero eccitata, sapete? La prospettiva di applicare il campo di studi di tutta una vita a un essere vivente mi elettrizzava.
Operai Alexei.
Collegai i nervi a una piastra e la piastra ai cavi metallici, fondendo il tutto con ordini e gesti. E quanto avrei voluto essere completa anche io, in quel momento! Affondare le dita di entrambe le mani sin nel cuore di quella chimera e sentirla pulsare, viva e interamente mia.
Mi mancava, eccome.
Persi la cognizione del tempo, persi interesse nello scopo della mia missione autoindotta. E poi fui fuori, mentre Alexei veniva portato via e delle voci si congratulavano con noi.
Con me. 

 

 
Piccolo spazio-me: i credits > Zephyrhant (passate a rifarvi gli occhi)

Fatemi sapere che ne pensate della storia: ci tengo!
  
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