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Autore: Martin Eden    07/11/2015    3 recensioni
Seguito de "Lo scrigno del potere" (pensavate di esservi liberati di me? :P)
Sono passati sei lunghi anni da quando Will Turner è ritornato nella sua Port Royal, sei lunghi anni a pensare che cosa farne della sua vita. Niente è andato secondo i suoi piani. Elodie Melody Sparrow è libera per mare, ma non gli è mai capitato di rivederla. Nè lei nè il suo squinternato fratello Jack Sparrow.
Ma se i loro destini si incrociassero di nuovo? E non certo per caso...
Storia scritta con l'aiuto di Fanny Jumping Sparrow, fedele compagna di avventure :)
Genere: Avventura, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Jack Sparrow, Nuovo Personaggio, Will Turner
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pirati dei Caraibi - Avventure per mare'
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CAP. 3 – ONORA IL PADRE

 
 
   Will Turner arrivò in ritardo e con il sudore che gli colava freddo ai lati della fronte, mentre ripensava alle parole della vecchia vicina di casa e a ciò che significavano per lui. Con William sempre stretto tra le sue mani, come se fosse l’ultimo baluardo contro il caos che regnava in quella piccola fetta di mondo, giunse alla fucina con un incredibile fiatone, ma senza aver corso.
   I suoi compagni fabbri, già al lavoro, lo salutarono senza ombra di rimprovero nella voce:
- Ben trovato!- esclamò uno – Avevamo giusto bisogno di te per l’elsa di un paio di spade. Questa settimana comincia con un guadagno piuttosto facile!-
   Will non aveva orecchie per quella pochezza. Era solo per abitudine che ora si infilava il consunto grembiule di cuoio, si legava di capelli in uno stretto codino e ricercava i suoi arnesi. Non aveva ancora proferito una sola parola da quando era entrato nella fucina, tutto indaffarato a cercare di ristabilirsi dopo i recenti avvenimenti.
   Nella mente, un solo nome: Lord Bellamy.
   Nel cuore, un solo grido: aiuto.
   Chi l’avesse guardato in quel preciso istante, avrebbe potuto facilmente indovinare i suoi pensieri sotto la polvere del quotidiano. In particolare, il piccolo William lo fissava con gli occhi sgranati, come se si trattasse di una splendida creatura marina. A Will non sfuggì lo sguardo indagatore del bambino, ma di fronte a quella ingenua curiosità non seppe come rispondere. Che cosa dire, che cosa raccontargli? Aveva ben altri problemi per la testa.
   Per esempio: dove sistemare l’inatteso ospite, ora che lui era al lavoro?
- William...- si avvicinò, parlando a bassa voce – Tu sai che cosa fa un bravo bambino?-
   Come se fosse suonato improvvisamente un campanello d’allarme, il piccolo pestò i piedi:
- No! Non ci voglio stare qui! Qui fa tanto rumore!- lo precedette.
   Will sospirò: non aveva fatto in tempo nemmeno a pensarlo, ma il piccolo era stato più veloce di lui.
- William, non posso accompagnarti da nessuna parte tu voglia andare, adesso. Io lavoro.- lo rabbonì.
- Cos’è un lavoro?-
   Will lo guardò sbalordito. Non poteva credere che gli avesse fatto sul serio quella domanda:
- Lavoro...lavoro per vivere. Guadagno i soldini e poi puoi comprare da mangiare!- gli venne un dubbio – Hai mai visto delle monete, William?-
- Sì!- asserì il piccolo – Noi sulla barca ne abbiamo tante.-
- Ecco, è perché...-
- La barca le fa per noi.- lo interruppe l’altro –Io le vado a prendere nel forziere della camera di mamma e loro sono già lì. La nostra barca ce li dà.-
   Will si chiese che razza di storie di mare dovevano avergli propinato, a suo figlio, per indurlo a credere a simili assurdità. Aveva solo sei anni, ma gli era sembrato molto sveglio. Tuttavia, non lo era abbastanza per non credere più alla fiabe. Da quelle non era ancora stato svezzato.
- Oppure chiediamo.- aggiunse il piccolo.
- A chi?- Will era piuttosto perplesso.
- Alle persone. Ogni tanto, quando scendiamo a terra, ci travestiamo, andiamo in piazza e le chiediamo. E le persone ce le danno.-
   Will faticò non poco a immaginare Jack e Élodie che mendicavano per le strade, invece di rubare. Immaginò, ciononostante, che fosse un’altra delle allegre bugie che avevano confezionato apposta per William, perché non facesse troppe domande. Per distrarlo dalle loro rapine e, perché no?, concedergli una piccola parte. Gli vennero i brividi.
   Chiuse gli occhi per un secondo, cercando di riordinare le idee prima che queste sfuggissero al suo controllo. Anche quel giorno, c’erano andate pericolosamente vicino. Ed era solo mattina!
- Bene, William. Oggi non faremo niente di tutto questo.- stabilì – Oggi tu sei con me. Puoi...giocare, se ti va. Ma non puoi uscire di qui.-
- Perché?!- strepitò il bambino.
- Perché è pericoloso. Quando non avrò più da fare, andremo un po’ in giro insieme.-
   Poi si rese conto dell’enormità che aveva detto. Non poteva uscire. Non poteva fiatare. Se qualcuno, qualcuno tipo quel Bellamy, adesso lo stesse cercando?
   William era piuttosto imbronciato. Incrociò le braccia sul petto, e la stizza in quel gesto comunicò a Will che la tempesta si stava avvicinando. Ma che cosa poteva fare?
   L’occhio gli cadde sul petto di William, che si alzava e abbassava sempre più precipitosamente. Notò quel laccio al collo, poi la cordicella e infine un curioso rigonfiamento proprio sopra le braccia del piccolo. Per un momento, non capì. Poi, mettendo bene a fuoco, riconobbe sotto le mentite spoglie quell’oggetto, tanto amato: probabilmente, si trattava di una vecchia bambolina di pezza, con un vestitino sgualcito attorno. Anzi, molto più che probabilmente. Quella forma, l’avrebbe saputa distinguere tra mille altre.
   Quella bambolina apparteneva un tempo a Élodie Melody Sparrow. Era il suo portafortuna, la sua ancora contro le acque burrascose che portava dentro; era un segno di affetto che la legava al fratello Jack Sparrow, il quale gliel’aveva donata. Ora, era diventata il regalo di una madre al proprio figlio.
   Will sospirò. Chiuse gli occhi, che già gli facevano male. Ogni cosa gli faceva male, in verità. Si impose di calmarsi, altrimenti non avrebbe potuto combinare niente di buono, né per lui, né per William. Lui era la sola speranza a cui il piccolo poteva aggrapparsi, adesso. Non poteva permettersi di crollare, o anche di mostrarsi solo lontanamente indeciso.
   Cinse le spalle del bambino con un braccio e lo condusse in un cantuccio della fucina, dove c’era un vecchio pilone scheggiato da innumerevoli colpi di spada. Quello era un luogo di allenamento, dove Will spesso saggiava la durezza delle spade che fabbricava e intanto ne approfittava anche per allenarsi. Era un discreto spadaccino, e sperò che William avesse preso da lui.
   Diede al piccolo un bastone dimenticato lì intorno: anche quello di solito serviva per gli allenamenti. Ma ora bastava si rivelasse un buon passatempo per un bambino di sei anni.
- Sai giocare alle spade?- gli chiese Will, inginocchiandosi di fronte a lui.
- Sì!- esclamò il piccolo, maneggiando il bastone – Ma questa non è una spada vera!-
- Lo so.- Will cercò di mostrarsi accondiscendente – Questo è solo un bastone di legno. Ho delle cose da sbrigare ora, ma se sarai così bravo da restare qui a riscaldarti un po’ con questo, dopo ti prometto che giocheremo insieme alle spade. Quelle vere.-
   Sorrise. Ovviamente, gli tenne celato un piccolo dettaglio: ovvero, che le spade “vere” che lui intendeva altro non sarebbero stati che logori arnesi di legno anch’essi. Ma ogni parola che promettesse divertimento poteva rappresentare un valido diversivo, ora.
   Il bambino soppesò attentamente la proposta, eppure non pareva pienamente convinto. Saggiò il bastone con qualche rapido movimento, ma era troppo pesante per lui. Immaginò che si sarebbe annoiato un sacco, lì dentro.
   Prima che potesse rispondere qualsiasi cosa, però, Will si era già alzato, gli aveva arruffato giocosamente i capelli e si era allontanato per andare a fare il suo mestiere. Cercava di essere affettuoso, un po’ come zio Jack; ma, indubbiamente, lo zio Jack sapeva essere molto più spassoso. E non l’aveva mai lasciato giocare da solo. Quella era la mamma. La mamma ogni tanto sì, lo metteva in un angolo a giocare da solo, perché magari non aveva il tempo di stargli dietro. Difatti, era spesso occupata a parlare con i marinai, a tracciare disegni sulle mappe o a riaggiustare qualche parte della nave. William ormai c’era abituato. Bastava che avesse solo un po’ di pazienza, tanto prima o poi arrivava sempre suo zio a portarlo in giro.
   Con Will era tutto diverso. Soprattutto, non era sulla nave, nemmeno nelle sue vicinanze, e questo metteva molto a disagio il bambino. Si trovava in un ambiente sconosciuto e potenzialmente ostile, e intorno non aveva persone che potessero aiutarlo, poiché sconosciute anch’esse. Quello doveva essere uno di quei momenti che sua madre definiva come “le volte in cui dovrai fare tutto da solo”. William si sentiva molto solo, ora. Ma non intendeva rimanerci a lungo.
   Aveva ancora quel bastone tra le mani. Lo gettò via subito: non sapeva che cosa farsene. L’idea di tirarlo contro l’alto pilastro non lo attirava. Quello non era una vera spada, e il pilone non era un vero avversario. Aveva solo sei anni, ma non era stupido. Soprattutto, non era piccolo.
   Si voltò e si mise a studiare i movimenti di Will, affaccendato presso la fucina. Aveva appena acceso un altro fuoco, sul quale batteva il ferro di una nuova spada; smartellava con foga su quel pezzo di metallo, i rivoli di sudore che già colavano ai lati delle tempie. Aveva un viso sofferente, notò William. Ma a lui che gliene poteva importare? Non avrebbe mai potuto essere più sofferente del suo.
   Un altro uomo si avvicinò a Will per chiedergli qualcosa. Per un attimo si girarono verso il bambino, ma poi ripresero a parlare vivacemente tra di loro, testa a testa. William se ne stava ancora nel suo angolino, lontano da tutto e da tutti, dove non potesse correre pericoli e dove non potesse disturbare nessuno. Tuttavia, era sua intenzione togliersi d’impiccio molto presto. Anche se ancora nessuno lo sapeva.
   Osservò i dintorni. La fucina era una vecchia costruzione fatta di mattoni, tra le cui pareti si aprivano diverse porte di legno, sostenute da trame di ferro. Queste erano tutte chiuse, si accorse William, con un sospiro. Avrebbe dovuto inventarsi qualcosa di meglio per fuggire.
   Perché di fuggire si trattava.
   Mentre Will era occupato, il piccolo fece un rapido giro. Ora che ci ripensava, quelle porte erano troppo malconce per essere nuove. Probabilmente anche i cardini e le serrature non erano proprio freschi di fabbrica. Forse poteva ancora trovare una soluzione.
   Si avvicinò ad una di esse. La parte in ferro era arrugginita dal tempo e non c’erano chiavistelli o catene a sorreggerla. Appariva chiusa, ma non inespugnabile. William sentì rifiorire in petto la speranza. Se fosse stato bravo, non sarebbe più stato prigioniero di lì a poco.
   Raccolse da terra una lamina di ferro che luccicava nel sole. Quello era un oggetto pericoloso, come la mamma gli aveva insegnato, ma ormai lui aveva imparato a maneggiarlo con cura, senza farsi del male. Con quello avrebbe potuto facilmente scassinare la porta e l’avrebbe fatto, altrochè se l’avrebbe fatto.
   Dopo aver controllato ancora una volta Will, troppo occupato per dargli retta, il bambino inserì lo strumento nel buco della serratura e cominciò ad armeggiare. Cercò di ricordarsi come faceva sua madre. Sua madre era molto brava, quando qualcosa si incastrava chiamavano sempre lei. Lei sapeva come fare e un giorno glielo aveva mostrato. Quelle lezioni tornavano utili ora, anche se William aveva scalciato non poco per essere stato costretto, in passato, a prestare attenzione a cose che non lo riguardavano. Ma ora, a un clic della porta, si rendeva conto che quell’arte non era stata travasata in lui invano.
   La porta cigolò sui vecchi cardini, ma William si oppose con tutto il suo peso, per non farla troppo stridere. Qualcuno poteva accorgersi di lui e non era certo il momento giusto. Con il fiato sospeso, il piccolo sbirciò fuori. C’era un gran viavai di persone, incuranti di lui, con cestini, cavalli, galletti e signore con gli ombrellini. Un allegro cicaleccio fatto di nulla, che si stagliava contro il cielo azzurro e il caldo di quell’ora. Da qualche parte, si era svegliato un mercato. William pensò che era proprio la giornata migliore per scappare.
   Sgusciò nel varco aperto della porta, dopo un ultimo sguardo a Will. Sudava, batteva il ferro e aveva un’aria avvilita, come se avesse sentore di quello che stava per succedere. Probabilmente sarebbe stato male, ma erano forse affari suoi? William voleva solo rivedere la sua mamma e zio Jack. Il resto del mondo poteva anche attendere.
   Uscì, lasciando che la porta sbattesse contro lo stipite. Troppa la foga, troppa la voglia di lasciarsi tutto alle spalle e di spingersi lontano, dove nessuno avrebbe potuto prenderlo. Finalmente libero. Finalmente sulla strada di casa, anche se non sapeva qual era, in verità.
   Nel dubbio, iniziò a correre.
 
   Come la porta tremò contro l’uscio, Will si svegliò come da una specie di torpore, non aspettandosi affatto di udire quel suono. Tutte le vecchie entrate alla fucina erano state sigillate per impedire ai soliti curiosi di entrare non visti e ai ladri di rubare indisturbati dietro le loro schiene; quindi, perché una di loro avrebbe dovuto sbattere?
   Si voltò. Vide il corpo del reato, il chiavistello fatto saltare, la porta mezza aperta e rimase letteralmente senza fiato. Cosa ancora più importante, fu quello che non vide più: William era scomparso.
   Will sentì il cuore montargli in gola, quando credette di intuire:
- William?!- chiamò, senza ricevere risposta.
   Mollò da parte il lavoro immediatamente e si mise a cercare il bambino lì intorno. Non lo trovò. Non trovò niente che potesse fargli sperare al meglio. Anzi. La certezza che stava velocemente espandendosi dentro di lui quasi lo soffocava, più del calore del forno e la fatica del martello.
- William!- gridò, sempre più forte, al punto che anche gli altri lo sentirono.
- Che c’è?- gracchiò uno, ma Will non gli diede retta. Ormai era completamente alla mercè dell’angoscia.
   Si affacciò a una finestrella, con un groppo in gola. Proprio in quel momento William gli sfrecciò davanti, diretto verso la piazza centrale. Correva a perdifiato, facendo slalom tra le persone e gli animali, spintonando e tirandosi dietro ben più di una bestemmia.
   Will sentì il cuore che faceva il giro del suo corpo, arrivava ai piedi e poi tornava indietro: le pulsazioni rimbombavano in ogni vena. Il sangue gli dava alla testa, si vedeva. Ancora prima che potesse realizzare l’effettiva opportunità di quello che stava facendo, si era già tolto il grembiule di cuoio, aveva gettato il martello, aveva aperto la finestrella e aveva scavalcato il davanzale.
- WILLIAM!!!- urlava al vento, tirandosi dietro sguardi ben lungi dall’essere impietositi.
   Una volta fuori, pompò più ossigeno nelle arterie e il suo corpo rispose con una prontezza che non si aspettava di avere ancora, non dopo tutti quegli anni. Saltò lo steccato che separava la fucina dalla strada e cominciò a correre più forte che poteva, sotto gli sguardi attoniti dei suoi colleghi. Qualcuno si affacciò e gli gridò dietro di smetterla, di lasciare andare il bambino dove voleva, ma Will non lo sentì. In ogni caso, non lo avrebbe ascoltato.
   Loro non potevano capire.
   William correva più forte di lui e cercava di confondersi tra i colori e le persone che, lentamente, pellegrinavano verso il mercato che si teneva poco più in là. Sperava di dileguarsi presto nella folla e farla franca, in barba a quell’uomo alto e distinto che ora gli stava alle calcagna come un segugio. Avere lo stesso nome non bastava per essere legati insieme in un unico destino, anzi. William non ne voleva sapere, di dividere quei giorni con Will. Il suo spirito era come il mare, dal quale era stato cresciuto fino dal primo momento, e al mare voleva ritornare, come un’onda chiamata indietro dalla risacca.
   Per questo ora schiumava di voglia, si faceva spazio tra gonnelloni e cestini di vimini, tra serve e signore. Giunse alla piazza con un ansimo che avrebbe fatto invidia a un fuggiasco.
   Ma lui era un fuggiasco. Fuggiva all’ingiustizia di quelle ore, si ribellava a ciò che altri avevano già predisposto per lui. Fuggiva da suo zio e da quell’altro, quell’uomo che lo accudiva. Un perfetto estraneo.
 “Con gli estranei, non ci devi mai parlare”, gli aveva sempre raccomandato sua madre.
   Will gli stava addosso:
- Fermatelo!- strillava – Fermatelo, è mio figlio! E’ mio figlio!-
   Vecchiette e giovani signore si voltarono verso di lui, che continuava a correre e gridare, scostando chiunque gli sbarrasse il passo. Ormai aveva quasi perso di vista William: per lui era troppo veloce, e c’erano troppe persone!
- WILLIAM!!!-
   Gli sembrava di non avere più voce, o che intorno a lui ci fosse uno spesso strato di ovatta, per cui nessuno lo stesse realmente ascoltando. Nessuno pareva curarsi della sua disperazione, del suo cuore che scoppiava; lo degnavano solo di occhiatacce infastidite, perché non dipendeva da loro, certo, non dipendeva da loro quel complicato legame familiare, e non dipendeva da loro se si sarebbe presto spezzato o meno. Will si accorse di odiarli tutti, anche se non aveva tempo di odiarli come si deve.
   Perciò, si limitò a farsi spazio nella calca, mentre vedeva le sue speranze farsi sottili come un fil di fumo.
 
   Poco più in là, una tranquilla Elizabeth Swann soppesava con incredibile fiuto per gli affari un carico di mele appena arrivate al porto. Vista la sua incresciosa condizione di giovane sposata ma di ritorno alla casa del padre, cercava di tenere la mente invasa da ogni sorta di pensieri. Di solito, se ne stava chiusa in camera e usciva solo per qualche passeggiata. Ogni tanto aiutava suo padre con le carte, o si interessava al commercio del porto, oppure intratteneva gli illustri ospiti che passavano a trovarli per pura cortesia. Accettava i regali e il lunedì si concedeva un giro al mercato, nonostante sapesse che tutti la bollavano come “quella”. Difficile tenersi stretta un po’ di segretezza, quando si è la figlia del governatore Swann.
   Inoltre, non esisteva posto più infame, per i pettegolezzi, che Port Royal.
   La sua vita era stata un saliscendi di piccole sfortune, capitate tutte nel momento sbagliato, ovviamente. La più grande e la più dolorosa, quella che deteneva il primato nella sua personalissima lista, era stata il suo matrimonio con Will Turner. L’avevano celebrato con la consapevolezza di non poter fare altrimenti. Se l’erano letto negli occhi di fronte all’altare e questa era stata la loro vera promessa: continuare a struggersi per qualcosa che avevano perduto, ma sperando che la vicinanza dell’altro avrebbe alleviato un po’ quel peso.
   A loro modo, ci avevano creduto entrambi. In particolare, Elizabeth Swann ci aveva creduto più di ogni altro. Quando da noi nascerà un bambino, aveva meditato, in ogni caso sarò troppo impegnata per pensare ad altro che non sia la nostra famiglia. Avrebbe dimenticato il mare e quanto le sarebbe piaciuto tornare tra le sue braccia azzurre. Sarebbe stata una brava moglie e una brava donna, anche se forse non era proprio quello che aveva sempre sognato.
   Ma quei desideri non si erano avverati. Tutt’altro: la vicinanza con Will le era pesata più del previsto. Certamente, quel sentimento era ricambiato, anche se lui non lo voleva ammettere. Si volevano bene, ma non era più la stessa cosa. Non dopo Élodie Melody Sparrow. L’unica che avesse fatto capire a Will quanto potesse essere meschina la vita, eppure così terribilmente affascinante. L’unica che l’avesse smosso nella sua incrollabile fedeltà.
   Elizabeth non la odiava, però. Era consapevole, in fin dei conti, che l’altra donna aveva preso un posto che era già vuoto. Non c’era di che biasimarla. In fondo, lei, Elizabeth, non era più con Will Turner da molto tempo. Forse questo si era percepito, tutto qui. L’anello che ancora portava al dito era solo un proforma che, per di più, non le piaceva. Quello sì, lo odiava, con la forza e l’arroganza di chi non riesce a sopportare che la sua libertà venga limitata dalle circostanze. Quindi, forse come punizione per quell’alterigia di cui si era macchiata, ora si sarebbe occupata di mele e argenteria a vita, ma almeno l’avrebbe fatto con molta, molta classe.
   Rapita dalla lucentezza delle bucce, non si era accorta di tutto quel baccano che improvvisamente stava prendendo vita intorno a lei. Per questo trasalì quando sentì una voce potente, che si levava sopra ogni altra. Qualcuno che urlava:
- Fermatelo! E’ mio figlio! Fermatelo!!!- a squarciagola, come se lo stessero sgozzando.
   Elizabeth reagì guardandosi nervosamente attorno. Quella voce sembrava riecheggiare ovunque, ora. Qualcuno era in difficoltà, anche se non capiva bene come e perché. Né chi. Quel grido la turbava
(fermatelo è mio figlio!)
perché rispecchiava un’infelicità autentica, spossata, tremenda, come la sua. Inoltre, era sempre più vicino a lei. Indovinò che di lì a poco sarebbe successo qualcosa che sicuramente l’avrebbe catapultata fuori del suo laconico programma di routine.
   Si tenne pronta. Qualsiasi cosa stesse per succedere, l’avrebbe vista protagonista in prima persona. A giudicare dal tipo di soccorso richiesto, immaginò che un ragazzino in fuga sarebbe spuntato presto tra la folla, e che sarebbe stato suo compito fermarlo. Anzi no, non suo. Non era sicura di farcela contro le forze soverchianti di un nanerottolo.
   Guardò allusivamente il corpulento servitore che l’accompagnava. Lui abbassò gli occhi, in segno di rispetto, ma fece anche un rapido cenno con la testa. Elizabeth sorrise: ecco, alcune volte essere una ricca signora tornava utile.
   Finalmente, due ali di persone si spostarono per far spazio a un bambino che correva a gambe levate, senza guardarsi indietro. Spintonava e ansimava come un cavallo imbizzarrito. Lei vide subito quanto doveva essere spaventato, e capì che era lui che doveva bloccare, prima che accadesse qualcosa che non si sarebbe perdonata.
   Ordinò al suo servitore di agguantare il bambino che stava arrivando verso di loro a tutta birra. L’uomo si mise in posizione, giusto in tempo per riuscire ad acciuffare il pivellino che capitò tra le sue mani grandi. Lo afferrò per la collottola e per le brache, quasi sollevandolo da terra. Il piccolo scalciò infuriato, e si lamentò con tutto il fiato che ancora gli rimaneva in corpo:
- Mettimi giù! Mettimi giù!!!- frignava, digrignando i denti.
   Era veramente una belva. Elizabeth si avvicinò cautamente, facendo il giro per guardarlo in faccia. Quando entrò nel suo campo visivo, il bambino la fissò da sotto in su, non si sapeva bene se più risentito o incuriosito dalla sua intromissione. Era veramente piccolo.
- Io non so chi sei, ma non si schiamazza così in mezzo alla gente.- Elizabeth raffazzonò quel rimbrotto gentilmente, anche se sapeva di non aver alcun diritto di giudicarlo. Lei era stata anche peggio di così, troppo tempo prima, ricordò amaramente.
   William si ribellò:
- Mettimi giù! Signora, devo scappare! Per favore, per favore!- e seguitò a piagnucolare, come faceva di solito quando era molto stizzito.
   A Elizabeth fece una grande tenerezza, nonostante tutto. Quella scenetta le rammentava dolorosamente il suo fallimento familiare, ma in fondo capiva quel bambino come pochi altri a quel mondo:
- Quando arriverà il tuo papà, che ti sta chiamando, chiederemo a lui.- gli disse in tono sempre più amorevole.
- Noooo! Lasciami!!!- gridò il piccolo, dimenandosi.
   Mentre erano lì che discutevano, sopraggiunse qualcun altro, di corsa. Elizabeth lo intravide con la coda dell’occhio, si alzò e si voltò. La sua espressione, da indulgente, mutò in costernato quando vide spuntare Will Turner da dietro un gruppetto di marinai.
   Non ci poteva credere. Era allibita.
(qualcuno mi dica che non è stato lui a gridare)
   La bocca le si spalancò in un urlo muto.
   Will rallentò, gli occhi fissi sul bambino, senza nemmeno degnarla di uno sguardo. Si chinò per afferrare saldamente il frugoletto, imprigionato nelle mani del servitore di Elizabeth:
- Ti ho preso!- quasi ruggì, ma si trattenne appena in tempo. Non aveva senso sgridarlo, e neanche arrabbiarsi. Rischiava solo che sarebbe fuggito di nuovo da lui, e stavolta a ragione. Inoltre, rischiava di richiamare troppo l’attenzione, più attenzione di quanta non ne avesse già addosso.
   Non gli sembrò affatto igienico.
   Quando si tirò su, con William ben stretto addosso, incrociò gli occhi che conosceva praticamente da una vita intera. Non se l’aspettava per nulla: arrossì violentemente. Sentì d’improvviso le gambe cedere e per poco William non gli scappò di nuovo. Ma si riebbe appena in tempo, appena sentì strattonare.
   Eppure, non riusciva ancora a spiaccicare una sola parola.
- William?- esalò Elizabeth, mentre il cuore pareva scoppiarle in petto. Il bambino si voltò ma lei non ci fece caso.
   Will Turner rimase immobile a guardarla. Era ancora bella e portava quel vestito e quel cappello con la stessa vanità di un tempo, forse di più. Il corpetto che le strizzava le curve, le chiazze rosse in faccia, sembrava una ragazzina forse solo un po’ cresciuta e un po’ più disincantata delle altre. Ma non abbastanza per non guardarlo più con quegli occhi, dove si leggeva il rimprovero e un po’ di sano disprezzo, specialmente ora che aveva capito.
   Era lui che aveva gridato, senza ombra di dubbio.
- Tuo...tuo figlio.- balbettò Elizabeth. Le sembrava di aver perso l’uso della parola, di essere regredita fino ad aver di nuovo bisogno di un precettore, per giunta molto severo. In effetti, avrebbe avuto bisogno di un frustino che le raddrizzasse la vita, ora.
   Will abbassò gli occhi. Non c’era motivo di mentirle:
- Sì.-
   Avvertì una lacrima che pungeva tra le ciglia. Non era il momento, forse non era mai stato il momento per piangere sul latte versato, ma ora più che mai avrebbe voluto non incarnare la ragione del dispiacere di Elizabeth.
   Aveva fatto una promessa a se stesso, quando erano tornati a Port Royal: che non le avrebbe mai fatto del male. Ma poi, forse involontariamente, gliene aveva fatto assai e se ne sarebbe rammaricato per sempre. William era solo l’ultimo colpo ingrato a un corpo di donna già martoriato dalle delusioni. Mai e poi mai avrebbe voluto esserlo.
   Aggiunse, molto piano:
- Mi dispiace.- ed era sincero, mentre lo diceva.
   Elizabeth diventò ancora più rossa. Non era dato sapere se si trattasse di rabbia o di altro, che cosa potesse passarle per la testa in quel momento. Probabilmente, nemmeno lei lo sapeva. Forse erano troppe, le cose che le turbinavano in testa. Eppure, il suo cielo non pareva affatto sereno: segno che aveva già deciso da che parte stare, nonostante tutto.
- Ci credo, che ti dispiace.- lo azzannò.
   Ma in fondo gli credeva. Non sapeva perché, ma intravedeva il dolore di Will in fondo ai suoi occhi. Il problema era che a lei non era rimasto niente, niente a cui aggrapparsi per riuscire a perdonargli anche quell’ultimo affronto. Il bambino. Il frutto del suo ventre e del ventre di un’altra donna, senza dubbio. A giudicare dall’età che poteva avere il piccolo, doveva essere stato parecchio tempo prima; quindi, quando erano sposini, o comunque stavano cercando di ricostruire il loro rapporto. Non era piacevole dover prendere coscienza che l’uomo con cui aveva consumato la sua gioventù, con cui aveva condiviso così tante cose, si fosse lanciato tra le braccia di un’altra alle prime difficoltà.
   Elizabeth si accorse di odiarlo profondamente: un odio incontrollabile e così forte che le pareva quasi di poterlo stringere tra le dita, per scagliarlo contro di lui, contro chi non era stato al suo fianco nel momento del bisogno.
   Strinse forte l’impugnatura del suo ombrellino, le labbra contratte che si screpolavano al sole. Erano riarse, secche, brutte. Ma che importava. Non avrebbe mai voluto baciare quella bocca infida e piena di menzogne. Dalla prima all’ultima. Elizabeth ormai tremava di rancore represso.
- Grazie che l’hai fermato.- sussurrò Will, senza osare guardarla in viso.
   Elizabeth distolse sdegnosamente lo sguardo da lui. Quella che sembrava una piacevole sorpresa di quella mattina si era trasformata in una pozzanghera di sentimenti fin troppo penosi.
- Tanti saluti...papà.- lo congedò con un tono tagliente, che lacerò fin nel profondo il cuore di Will.
   Chiuse gli occhi, mentre lei girava i tacchi e se ne andava, con il corpulento servitore al seguito. Si stava solo immaginando un finale diverso; oppure, molto più semplicemente, sognava di non essere più lì.
   Non c’era. Neanche l’eco di quei passi che si allontanavano, non c’era: era già stato inghiottito dal mercato. Elizabeth non c’era più
(c’è mai stata?)
e immediatamente ne sentì la mancanza. Non sapeva se l’avrebbe rivista.
   Il piccolo William la osservò allontanarsi, impietrito dalla curiosità per quella strana signora. Ne aveva viste diverse, ma questa aveva un certo non so che: lo attirava e lo ripugnava allo stesso tempo, così come era attirato e ripugnato dal porridge.
   Aveva assistito alla scena con gli occhi sgranati dallo stupore. Non aveva compreso fino a fondo la situazione forse, e nemmeno aveva afferrato il senso di tutte le parole. In particolare, di una parola. Quella parola, lui non la conosceva.
   Ba-ba.
 
   Tornati alla fucina, Will ansimava ancora per lo sforzo di trascinare il piccolo recalcitrante giovincello, almeno due volte più forte di lui. Si presentarono impolverati e incolleriti, ognuno a modo suo, di fronte a un pubblico piuttosto sorpreso: la loro entrata ben poco trionfale, in particolare quella di Will Turner, fece alzare i volti dei lavoratori dai mastici e strappò loro qualche risata.
   Will rideva molto meno di loro
(dio, perdonali perché non sanno)
perché se quello era solo l’inizio della giornata, già partita piuttosto male, l’unica speranza che gli restava era pregare quanto più fervidamente fosse in suo potere. Oppure, piantarla di compiangersi come una donnetta qualunque e darsi da fare. Inventarsi qualcosa prima che William la distruggesse, ad esempio.
   Il bambino sembrava avere un diavolo per capello. Scalciava e sbraitava come un animale; Will era costretto a trascinarlo quasi di peso.
- Lasciami!!!-
   Non ce la faceva più a sentirlo protestare come un ossesso. Al tempo stesso, non poteva permettersi che succedesse un’altra volta, un’altra fuga, non quel giorno. Ne aveva già avute abbastanza; in più, il viso di Elizabeth galleggiava ancora nella sua mente sovreccitata, come la carcassa di un uccello marino abbattuto. Sentiva il peso e i graffi di quello sguardo in tutto il corpo.
   William, di certo, non lo stava aiutando.
   Prima di poter avere qualsiasi ripensamento, afferrò William e lo posizionò dove, per il momento, non avrebbe potuto nuocere: ovvero, in una cassa piuttosto robusta, alta pochi centimetri in meno di lui. Il bambino tentò di colpirlo con i piedi, ma fu inutile, o Will troppo veloce. Alla fine il bambino si ritrovò di nuovo prigioniero fra le assi, che cominciò a battere sempre più furiosamente:
- Fammi uscire!!!- piangeva, ormai, a dirotto – Brutto, cattivo...!!!-
   Will fece un bel respiro e si impegnò ad ignorarlo. Mentre era momentaneamente fuori gioco, poiché la cassa era troppo alta da scavalcare, fabbricò velocemente una specie di imbragatura con vecchie strisce di cuoio trovate in magazzino e legò William come un salame. Poi lo allacciò a sè, saldamente, assicurandolo così a se stesso. Qualsiasi movimento strano, qualsiasi strattone avrebbe destato ora il suo sospetto, e il bambino non sarebbe riuscito a muoversi senza che Will gli fosse già addosso.
   Lo tirò fuori dalla cassa. Le fasce erano abbastanza robuste ma anche abbastanza elastiche da non soffocare il piccolo. Aveva un certo agio nei movimenti, ma non poi così tanto. Prima o poi avrebbe dovuto arrendersi, per forza.
   All’inizio, William strattonò non poco e tentò di liberarsi, ma fu sempre fermato in tempo. Era troppo piccolo per riuscire ad avere la meglio, ma troppo grande per riuscire facilmente a svignarsela da solo. Infine, aveva trovato la sua prigione.
   Dopo un po’, si mise a piangere e a pestare i piedi. Will ne aveva già abbastanza di quel baccano, ma decise ciononostante di ignorarlo con tutta la convinzione di cui era capace. Prima di tutto, doveva fargli capire chi era il capo, lì. Non ne sarebbe uscito, altrimenti. Anche se questo sarebbe costato un mare di lacrime.
   Will ricordò quante volte aveva pianto per i castighi che gli aveva inflitto sua madre. Anche lui da piccolo era stato un birbantello, come tutti i bambini; quelle punizioni l’avevano fatto crescere e ragionare ancora meglio di un padre. Era staro un duro allenamento, ma era quello che era anche grazie ai tutti quei “no” che aveva ricevuto.
   Quello era il suo primo “no” a William. Al solo pensiero, sentì una vertigine. Non era esattamente ciò che aveva immaginato come approccio con il bambino, però non poteva fare altrimenti. Aveva bisogno di tranquillità per ripensare a quella bizzarra situazione e ad organizzarsi di conseguenza. Non poteva essere ovunque nello stesso momento. Lui non era Dio, e per i miracoli non si era ancora attrezzato.
   Quindi, cercando di ignorare gli urli e gli strepiti, riprese a lavorare. Lavorare lo rilassava, dopotutto: agiva come in automatico, non aveva nemmeno più bisogno di concentrarsi. Gli strattoni alle strisce di cuoio, ogni tentativo di William di scappare, lo disturbavano un poco, ma decise che l’impegno da parte sua era d’obbligo. Era solo un bambino, in fondo. Non poteva pretendere che fosse già adulto.
   Lo avrebbe imparato con il tempo.
 
   Quando fu ora di andare a casa, William si era già arreso da molto tempo. Alla fine si era accontentato di giocare sul pavimento, a tracciare disegni nella sottile polvere di legno che si era depositata tutt’intorno.
   Aveva pianto quasi tutto il pomeriggio. Dopo aver finito le lacrime, si era accucciato da una parte, trattenendo faticosamente i singulti e si era messo a tracciare strani segni per terra.
   Will aveva tirato un sospiro di sollievo. Quell’improvvisa calma lo disorientava, ma era una manna dal cielo, niente da dire. O forse era solo la quiete prima di una nuova tempesta, come tante ce ne sarebbero state, a voler essere pessimisti. Sperò che intervenisse una sorta di destino a risollevare le sorti, perché lui ora si sentiva veramente spossato.
   Quando fu ora di andare a casa, Will si decise finalmente a respirare. Gli sembrava di aver tenuto la testa sott’acqua tutto il pomeriggio, affogato nell’impossibilità di fare qualcosa. Di trattenere William, ad esempio, nonostante le corde che lo tenevano legato.
   Si tolse di dosso l’imbragatura di cuoio, poi corse a toglierla anche a William. Il bambino restò immobile, senza guardarlo, senza nemmeno mostrare di essersi accorto di lui. A Will sembrò molto strano. Mentre lentamente lo slegava, si chiese se per caso non avrebbe tentato la fuga proprio in quel momento, approfittando di un attimo di distrazione o di bontà d’animo da parte sua; per questo, si tenne pronto a scattare, i muscoli di nuovo tesi.
   Ma non successe nulla. Sciolto dai lacci, il bambino continuò a muoversi con quella specie di apatia negli occhi, tanto che Will ebbe il timore che si stesse sentendo male. Lo scosse un po’, gli rivolse la parola nel modo più dolce che riuscisse a trovare, date le circostanze, ma non ottenne risposta. Al contrario: il piccolo William affondò il viso nei suoi vestiti senza emettere un suono.
   Will rimase interdetto. A dire il vero si aspettava una reazione diversa da un tipetto come lui. Una reazione degna della grintosa madre, forse. Invece il piccolo era fastidiosamente calmo ed immobile come una statua.
   Lo scostò un poco e cercò di guardarlo in viso. Il bambino abbassò la testa in segno di rispetto e William se ne sorprese. Era stata una dura punizione, la sua, lo ammetteva, ma la situazione era troppo delicata, non aveva potuto fare altro. Doveva ancora capire perché si ritrovavano insieme nello stesso lembo di terra, dopo sei anni e non essersi mai visti prima.
   Non era bravo a fare il padre. Non lo era per niente.
   Prese per mano William e lo aiutò ad alzarsi da terra. Il piccolo, però, incredibilmente, si scostò. Eccolo ritornare dello stesso spirito combattivo con il quale l’aveva conosciuto. Will fu lesto ad afferrarlo per la collottola, prima che potesse sfuggirgli con una mossa da Jack Sparrow (gliele aveva sicuramente insegnate). Dall’avversario non ci fu risposta, solo un incrollabile silenzio e il muso imbronciato, seminascosto dalle ciocche brune.
   Will, appena ripreso il controllo della situazione, si congedò dai colleghi con un saluto:
- Bella mossa!- gli fece notare qualcuno, accennando con pochi gesti alla sua performance di quella mattina. La sua corsa pazza al mercato sarebbe stata tramandata nei secoli dei secoli, a quanto pareva.
   Will non rispose. Cercò di ignorarli. Probabilmente, avrebbe avuto tempo di sistemare le cose più avanti, ammesso che Jack fosse realmente tornato a riprendersi il pezzo mancante della sua famiglia. La domanda era: se ne sarebbe ricordato?
- Signore...- lo chiamò ad un tratto il bambino.
   Will riemerse da quella che sembrava una tempesta di sabbia. Si sentiva come se i suoi pensieri si fossero mescolati tutti, come le biglie di una tombola. Ogni tanto ne estraeva uno a caso, non necessariamente collegato con gli altri. Stava giocando contro se stesso ma in quella partita non era stato messo in palio nessuno premio. Al contrario: la posta era la sua sanità mentale.
   Quando William attirò la sua attenzione, gli sembrò di riemergere per prendere una boccata d’aria fresca. Ma quell’aria era stata rotta da un vezzeggiativo che non gli apparteneva.
   Non gli piaceva, essere chiamato “signore”. “Signore” lo faceva pensare ai grandi latifondisti che si rivolgevano alle persone come se fossero stati tutti loro schiavi. “Signore” era sinonimo di potere, di superiorità. Will si era sempre considerato un normalissimo cittadino, credente per quanto possibile negli ideali di libertà e uguaglianza, benché non se ne vedesse parecchia in giro. Nessuno l’aveva mai chiamato “signore”, e lui non voleva che suo figlio fosse il primo a farlo, nonostante la distanza incolmabile che li separava.
- “Papà”, William. Puoi chiamarmi “papà”, ora.- lo rassicurò, sovrappensiero.
   Il bambino storse la bocca. Ancora quella strana parola: la stessa che la signora al mercato aveva detto con tanta rabbia, l’aveva come spiaccicata in faccia a quell’uomo di nome William, come se fosse frutta marcia.
- Baba...- pronunciò il bambino, piano.
   Aveva un suono sconosciuto, eppure dolce. Perché non gliel’avevano mai insegnata? Che cosa significava esattamente?
   Si riscosse. Ormai era una decina di minuti che camminava a fianco di quell’uomo. Alla fine, aveva accettato la sua mano, sebbene riluttante. Era scivolata dentro la sua in un attimo, quasi non se n’era reso conto. Non era ancora pronto per essere felice di quel contatto, ma era stata una giornata lunga e dura; gli sembrò di capire che entrambi avevano bisogno di un po’ di calore.
   Non si sentiva più così spaventato da Will, anzi. La sua andatura sicura lo spingeva a seguirlo con voglia e decisione: un po’ come quando camminava di fianco a zio Jack. Le due figure apparivano ugualmente alte a William, ugualmente capaci. Entrambe gettavano una lunga ombra dietro di loro, un’ombra in cui lui si trovava bene, vi si accoccolava come se fosse il suo unico e ultimo rifugio. Solo una cosa li differenziava. Quel “baba”.
   Più curioso che mai, finalmente trovò il coraggio di esternare quella domanda che gli premeva sulle labbra già da un po’.
- Che cos’è un baba?-
   Will rimase per un attimo interdetto. Non solo per l’errore nella pronuncia, ma ancora di più se pensava che suo figlio non aveva la minima idea di che cosa fosse un genitore, una delle due colonne portanti della sua vita.
   Al contempo, si rise conto che gli serviva una risposta plausibile. William aveva tutto il diritto di sapere di che si trattava, a maggior ragione se nessuno scriteriato non gliel’aveva spiegato prima di allora; ma si accorse che era lui a non sapere la risposta. In verità, non aveva avuto molte occasioni in cui aveva potuto usare quella parola. Nemmeno lui aveva mai potuto godere della figura paterna, non come chiunque altro. Al massimo, se l’era immaginata, dipinta a modo suo, come più gli piaceva. Ma erano proiezioni di un ragazzino alle prese con le prime domande veramente importanti dell’età adulta. Nonostante tutta la sua esperienza, si accorse che a quelle domande non aveva ancora trovato una valida spiegazione.
   Doveva inventarsi qualcosa.
   Dopo qualche minuto, si decise a riaprire bocca:
- Un papà è come una mamma...tutti ce l’hanno.- azzardò, incerto.
   Teneva lo sguardo fisso di fronte a sé, ma sentì lo sguardo pungente di William che lo squadrava. Continuò a camminare, trascinandoselo dietro. Non voleva dargli la soddisfazione di vederlo in difficoltà, per quanto fosse faticoso sfuggire al suo interrogatorio.
   Ci fu un altro lungo silenzio. Will seppe che non ci si sarebbe mai abituato abbastanza: era come combattere un nemico di cui non si conosce il volto e che potrebbe assalirti da ogni parte. C’era ancora qualcosa da dire.
   Alla fine cedette alla tentazione di guardare. Un’occhiata, solo un’occhiata, non certo abbastanza per iniziare una discussione, sperava, non avrebbe avuto le forze per affrontarla ora.
- Allora anche tu mi sgriderai come la mamma?- chiese il piccolo, preoccupato, appena vide un cenno di resa da parte sua.
   Will intuì di aver toccato un tasto delicato, specie dopo la poco credibile dimostrazione di tenerezza che gli aveva dato quel giorno. Per questo, nonostante tutto, si affrettò a tranquillizzarlo:
- Ma no, William...dipende.- spiegò al piccolo – Dipende se rispetti le regole oppure fai il monello come oggi, suppongo...-
   Questa volta abbassò completamente lo sguardo su di lui. Incontrò altre mille domande ad attenderlo, disegnate su quel volto a lui già caro. Al solo pensiero, a Will venne il mal di mare. Tuttavia, non ebbe tempo per crogiolarsi un attimo in più in quella piacevole nausea. William era già pronto con una nuova domanda:
- Cos’è una “regola”?-
   Will rimase per un attimo sbalordito. Poi si rese conto.
   Aveva dimenticato che per alcuni loschi individui, in particolare i pirati, le regole non erano altro che parole vergate sulla carta; e sulla carta, la maggior parte delle volte, quelle rimanevano. Non c’era posto per loro, nella vita nuda e cruda di un lupo di mare. Figuriamoci nella vita dei loro figli! E William era prima di tutto figlio di una piratessa. Infatti.
   Così, la patata bollente passava a lui. Will cercò affannosamente le parole:
- Una regola è qualcosa che devi fare...- cominciò, sperando in qualche idea migliore e magari più fantasiosa.
- E perché lo devo fare?- insistette William.
   Will trasse un sospiro. Tutto sommato, avrebbe preferito spicconare i suoi ferri per altre otto ore piuttosto che scervellarsi dietro a simili arcani.
- Perché sì.- tagliò corto, onde evitare di cadere in errori grossolani – Lo fai perché devi, perché così è e tu non ci puoi fare niente.-
- E chi lo dice? Chi mi dice cosa devo fare?-
   Will ci pensò per qualche secondo. Non era così facile spiegare il mondo a un bambino di sei anni. Aveva decisamente sopravvalutato le sue forze:
- Lo dice qualcuno che ne sa più di te.- affermò, sforzandosi di apparire convincente.
- Anche se non mi conosce?-
- Anche se non ti conosce, sì.-
   Il bambino ci rimuginò sopra per un secondo. Mosse le labbra in quella tipica smorfia di chi non è mai completamente persuaso, ma aspettò di avere un altro tiro in canna prima di riprendere. Ora gli frullavano mille idee per la testa e chi gli stava a fianco dava l’idea di saper parare bene i colpi. Quindi, ovviò:
- A che cosa serve una “regola”?-
   Questo sembrò a Will un quesito più accessibile:
- Le regole servono per vivere in pace con gli altri uomini.- lo guardò con affetto, poi fece un ampio gesto con la mano - Non vedi quanti siamo, su questa terra? Se non ci fossero regole, litigheremmo sempre.-
   Il piccolo lo guardò, aggrottando le sopracciglia. Will, a sua volta, corrugò la fronte: che c’era che non andava nel suo ragionamento? Perché il bambino lo stava studiando a quel modo?
- Tu sei un uomo della terra.- precisò William - Io sto su una barca. Su una grande barca, che si chiama “nave”. Io, la mia mamma e zio Jack, insieme ad altri. Noi non siamo uomini della terra.-
   Will si fermò, e il piccolo con lui. Non sapeva bene come giudicare quell’obiezione, perché si rendeva conto che in misura nemmeno tanto profonda William aveva ragione. Aveva pronunciato un’incontrovertibile verità, nulla da eccepire. C’era un abisso di incalcolabili leghe fra gli uomini “della terra” e gli uomini “del mare” e, probabilmente, non sarebbero bastati secoli per colmare quella lacuna.  
- Capisco...- potè dire solo questo.
   William tornò alla carica:
- Perché tu non stai su una barca?-
   Will sospirò
(già perché non ci vivo anche io su una barca?)
- Non tutti gli uomini vivono sulle barche. Tuo zio te l’avrà detto...-
   Al nominare suo zio, William si illuminò:
- Sì!- trillò – Zio Jack ha detto che quelli come noi sono nati liberi. Gli altri, non tanto.-
   Will sentì un groppo catapultarsi in gola. Non era pronto ad ascoltare una simile definizione di uomini normali, come lui credeva di essere. Ma zio Jack Sparrow non avrebbe mai potuto salvarlo da quell’aspra critica, né smentirsi nella sua totale avversione per tutto ciò che avrebbe potuto tenerlo ancorato a uno sputo di roccia. Nemmeno per fargli un favore. Chissà che cosa aveva raccontato al caro nipote, quindi, in quei sei lunghi anni. Niente di buono, evidentemente. Niente di buono per lui.
- Tu sai che cosa significa essere libero, William?-
   Il bambino ci rifletté per un momento. Sembrava molto concentrato. Ripensò agli insegnamenti di sua madre e di zio Jack, ma non gli venne in mente nulla di preciso, a tal proposito. La “libertà” spuntava raramente nei discorsi, forse perché era un concetto fin troppo scontato. Anzi, la libertà era tutto, la base di tutto, aleggiava tutt’intorno come una nebbiolina che non puoi vedere ma che respiri in ogni momento della tua esistenza.
   William non aveva ancora imparato a distinguere il peso delle parole, né a collegarle alla realtà. Alcune idee restavano semplicemente nella sua testa, in attesa di trovare corrispondenza nelle cose. La loro libertà incarnava perfettamente quel sentire.
- No.- rispose, mestamente.
   Will lo guardò. Gli accarezzò la testolina bruna. Aveva molti più anni, ma anche lui si sentiva ingenuo come William, ugualmente ignorante in fatto di cose da adulti. In particolare, davanti ad argomenti dibattuti come quello.
- Nemmeno io.- disse.
   Continuarono a camminare in silenzio. Will non teneva più la mano di William, ma procedevano l’uno accanto all’altro, tranquilli. Il piccolo sembrava immerso nei suoi pensieri; il grande, finalmente aveva il cuore in pace e, sperava, anche la sua povera testa dolente avrebbe smesso di girare per lidi vuoti.
   Stava giusto assaporando quel momento magico, quando il bambino improvvisamente se ne venne fuori con un’altra domanda:
- Mi rimboccherai le coperte come la mamma?-
   Will incurvò le labbra in un sorriso. Poi si mise a ridere. Di nuovo, accarezzò la testa del piccolo:
- Sì, William. Questo lo posso fare, per te.- accondiscese.
- Un baba fa questo?-
- Certo, William.-
- Che bello! Mi piace avere un baba!-
   Se ne saltellò via tutto gioioso, e Will fu costretto a corrergli dietro per non perderlo. Il bambino rideva come se non fosse mai stato così felice in vita sua. E poi, chissà che razza di vita aveva avuto.
   Will non ne sapeva nulla. Chiedere sarebbe stato imbarazzante. Era già tanto sentirlo pronunciare quella parola, baba, per quanto malamente potesse risuonare ad orecchie sconosciute e istruite. Ma per Will aveva un suono meraviglioso. Avrebbe voluto che gliela ripetesse all’infinito, fino alla fine dei suoi giorni.  
   William si voltò ancora, colpito improvvisamente da un altro dubbio:
- Ma un baba è anche come uno zio?- chiese, incerto.
   Will considerò la profonda, invalicabile differenza che lo separava dallo “zio” Jack Sparrow. Senza darsi nemmeno il tempo di formulare un pensiero decentemente coerente, subito rispose:
- Non c’è paragone. Il papà è molto di più di uno zio.-
   Il bambino sorrise e trotterellò via:
- Allora quando viene a trovarmi gli dico!-
   Will sentì un brivido freddo lungo la schiena, mentre accelerava il passo. Discutere con Jack a proposito di questioni parentali non gli sembrava proprio il caso, tutto il contrario: avesse potuto fare a meno di pensarci!
- Ehm...forse questo è meglio di no.- fece notare, con una certa vergogna. Ora capiva come il suo pensiero a voce alta fosse stato fuori luogo, per non dire abbastanza offensivo. Almeno, nel senso che lui aveva voluto dare a quella frase.
- Perché no?- balbettò William, confuso.
- William...non è necessario sapere tutto, nella vita.- Will cercò di rappezzare – A volte è meglio non sapere, addirittura.-
- Davvero?-
- Davvero.- concluse solennemente l’altro – Lo imparerai anche tu.-
   William gli si avvicinò. Nonostante l’avesse castigato non poco, quel giorno, pareva non avere molta paura di lui:
- Tu hai imparato, baba?-
(mai abbastanza bene purtroppo)
- In un certo senso...- biascicò Will.
   Il piccolo alzò le spalle:
- Te l’ha insegnato il tuo baba?- indagò.
- Il...il mio baba?- ripetè Will, come istupidito. Non si aspettava una simile domanda. Non ci stava proprio pensando, a dire il vero.
- Se un baba è come una mamma...- ragionò il piccolo, calciando un sassolino per terra – E tutti hanno una mamma...come dice zio Jack...e tutti hanno un baba, come dici tu...allora anche tu hai una mamma e hai anche un baba.-
   Will rimase a bocca aperta. Si era rovinato con le sue stesse mani. Il piccolo William era troppo attento e troppo intelligente per non aver ascoltato tutti i particolari di quella conversazione.
   Come fare adesso a spiegargli che in verità esistono anche gli orfani e lui era fra quelli?
   Si voltò verso il molo, che ora stavano costeggiando. Aveva il fiato corto. Non sapeva da dove iniziare, né dove sarebbe andato a finire. La sua smania di mostrarsi perfetto lo aveva tradito e ora gli sembrava di soffocare. Si morse le labbra.
   Poi, d’un tratto, venne folgorato da un pensiero. Quindi prese William di nuovo per mano e lo trascinò con sé verso le barche ormeggiate:
- Dove andiamo?- chiese il bambino.
- Ti faccio vedere una cosa!- Will sorrise nel tramonto.
   Poco più in là, appena superata una collinetta di sabbia, si fermò. William gli stava appresso, con il fiato grosso. Will lo incitò a raggiungerlo sulla cima della duna e il bambino fece un ultimo sforzo.
   Appena fu lì, ebbe una delle sorprese più grandi. L’avrebbe ricordata per tutta la vita. E così si dimenticò della spinosa questione che aveva sollevato.
   A pochi metri da lui, più vicino di quanto avesse mai potuto immaginare, c’era un’immensa distesa di gabbiani.
- Oh...- si lasciò sfuggire il bambino.
   Le loro piume sembravano nuvole di raggi di sole. Planavano e atterravano con grazia divina, la stessa che William invidiava loro da quanto era nato: gli sarebbe piaciuto volare, più di qualsiasi altra cosa. Guardare le cose dall’alto, poterle abbracciare tra le sue ali. Forse, da grande, avrebbe potuto farlo, ma ora si sentiva solo un timido pulcino alle prese con il vento. Per questo, quando sentiva uno stridio di gabbiani, anche lontano, correva incontro a quel sogno con tutto il fiato che poteva incamerare nei polmoni. Non potendo seguirli, si limitava ad ammirarli, come un bravo allievo.
   Ora, di fronte a quello spettacolo baluginante nel tramonto, William capiva di aver ricevuto un grande regalo. I gabbiani erano più vicini e più grandi di quanto avesse mai potuto vedere in vita sua. Era estasiato, a bocca aperta.
   Will gli accarezzò di nuovo la testa. Arrivava giusta giusta nell’incavo della sua mano: un’unione senza imperfezioni e senza fine.
- Che ne pensi, piccolo?- gli chiese.
   William afferrò saldamente quella mano, come se fosse l’unica cosa in grado di tenerlo ancorato a quel mondo. Probabilmente, se non lo avesse fatto avrebbe rischiato di volare via anche lui con i gabbiani, quella sera. Gli ultimi avvenimenti sembravano essere stati cancellati dalla sua memoria: punto e a capo, attaccato a quella mano.
   Tornarono a casa e sembrò che fosse un giorno migliore. Will teneva ancora le dita sulla nuca di William, per fargli sentire come il suo calore non l’avrebbe mai abbandonato; e un po’ per tenerlo d’occhio.
   Sulla strada, il bambino allungò timidamente una mano per afferrare il suo soprabito.
  
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