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Autore: r_clarisse    11/11/2015    1 recensioni
Africa, 148.000 aC.
Due ragazzi innamorati, David e Steven, contemplano la bellezza del loro nuovo mondo dopo quattro anni di esodo nella Flotta Coloniale.
Il loro viaggio è terminato e ricominceranno da capo, a partire da quel momento, insieme.
David racconta in prima persona la loro storia, la loro vita insieme nelle Dodici Colonie e la corsa disperata per la sopravvivenza dopo la loro distruzione per mano dei Cyloni.
Non ha la pretesa di essere un grande racconto, ne un'opera di fantascienza, ma spero possa far trasparire in qualche modo quella che è la semplicità dell'amore che può unire due persone, attraverso lo spazio e il tempo.
"Eravamo finalmente a casa, la nostra nuova casa, e non dovevamo più scappare.
Certo, avremmo dovuto ricominciare da zero in un nuovo mondo, ma questo non mi spaventava; non mi spaventava la mancanza di cibo, il doverci arrangiare, il costruire tutto da capo.
Dopo quello che avevamo passato sarebbe stato sciocco preoccuparsi per il futuro.
Sapevo che ce l’avremmo fatta."
Genere: Drammatico, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi Tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 2 - Pezzetti

2.1 – “Un destino speciale”
Quando avevo otto anni, Jennifer mi disse che per ognuno di noi ci fosse un disegno, un progetto, un piano;
ogni essere umano nasce per un motivo ed ha di fronte a se un destino  da compiere, non inteso come una linea retta, come una serie di inevitabili eventi impossibili da variare, ma come meta.
“Penso che tu vedrai grandi cose, David.” Esordì quel pomeriggio mentre mi riaccompagnava a casa da scuola in auto
“Grandi cose? Cosa sono?” Le chiesi con tutta la curiosità che un bambino possa avere dopo aver udito una frase simile
“Non lo so tesoro, non so cosa, ma so che è così” sterzò velocemente all’incrocio per non beccare il semaforo rosso “ L’ho capito nel momento in cui ti ho tenuto in braccio la prima volta.”
Io- a bocca aperta- guardai fuori dal finestrino appannato e bagnato dalla pioggia e con tono solenne esordì con uno sbigottito “Oh..”
“Ho come avuto un flash di te da grande, davanti ad una prateria.” Disse a voce molto bassa mentre attendevamo fermi in mezzo alla coda
“Una prateria?” Chiesi
“Si, e sentivo che eri felice. “ mi guardò un momento ed aggrottò le sopracciglia “Oh Dei.. sto straparlando, forse non mi capisci nemmeno –infatti era così- ma nulla…. Vedendoti la prima volta l’ho capito, ho capito che un giorno tu farai parte di qualcosa di stupefacente.”
Il mio Oh era adesso ancora più solenne
“E ci sarai anche tu nella cosa stupefacente?”
“Non credo David. Riguardava te, non me. “ Disse mentre parcheggiava l’auto
“Ma io non voglio essere stupefacente da solo!”
“Non sarai solo, fidati.” E mi sorrise prima di slacciarmi la cintura “E ora andiamo a prenderci un gelato, non importa se piove, ti va?”
Lascio immaginare la mia risposta.


Qualcosa nelle sue parole mi risuonò nella mente per anni, senza che io vi dessi particolare importanza ne ci pensassi se non ogni tanto; parlai di questa cosa soltanto due volte in tutta la mia vita e con due persone totalmente diverse: la prima volta, all’inizio delle scuole medie.
Evelyn Tunner, al tempo mia compagna di scuola, era una ragazzina molto chiusa e schiva, la classica bambina con gli occhiali che prende il massimo dei voti ma che non parla con nessuno, un po’ per timidezza propria e un po’ perché viene emarginata dagli altri.
Nemmeno lei era originaria di Canceron, come gran parte delle persone che conoscevo: i  suoi genitori erano due avvocati dello staff del tribunale intercoloniale di Libran che dopo una serie di cause legate al nostro pianeta avevano deciso di stabilirvisi a tempo indeterminato, per lavorare con più calma e non dover continuare a viaggiare nello spazio, lasciandosi alle spalle il loro mondo paludoso.
Me la ricordo molto bene: aveva dei lunghi capelli biondi che divideva in due trecce, gli occhi castani e l’apparecchio ai denti, leggermente storti.
Portava un paio di occhiali quadrati, a fondo di bottiglia, come andavano di moda anni fa, e per questo molti degli altri bambini la prendevano in giro chiamandola quattrocchi o dottoressa, con tono dispregiativo.
Io ero forse l’unico che le parlava, non per pena o compassione, perché a mio avviso non aveva nulla da invidiare a tutti gli altri compagni; io volevo essere suo amico e basta, per davvero.
Durante il laboratorio di educazione artistica, un giorno, lei mi chiese a cosa stessi pensavo mentre con un’espressione persa modellavo una massa informe di creta.
“A cosa pensi David?”
“A quello che mi ha detto una volta Jennifer” “E cosa?”
“Che ho un destino speciale”
Mi guardò sbalordita
“Wow! E come fa a saperlo?” “Non lo so – risposi – ma dice che ho un destino speciale e che vedrò una prateria.” “Oh… wow!”
Sarebbero dovuti  trascorrere tredici anni prima che ne parlassi nuovamente con qualcun altro…
 
2.2 “Pallida e sensibile”
Fu iscrivendomi ad un sito in rete che conobbie Cassie: avevo diciotto anni e cercavo qualcuno che come me fosse appassionato di musica e cantanti, tanto da cercare dal computer diverse fan page dedicate ai miei artisti preferiti; parlammo la prima volta dopo un mese, alla fine dell’estate.
Il nostro rapporto naque a distanza, a grande distanza in realtà: lei viveva in un piccolo sobborgo nella periferia della capitale di Sagittarian, uno dei mondi più poveri colonizzati dall’uomo.
Il padre e la madre, come gran parte della gente del pianeta, erano due fondamentalisti religiosi, incalliti nell’interpretare letteralmente ogni singola parola delle Sacre Pergamene; erano così attenti a rispettare ogni singolo precetto che non si rendevano conto di soffocare la figlia, che – al tempo sedicenne- voleva soltanto vivere la sua vita come qualunque ragazza ai mondi.
Occhi azzurri – i più azzurri che abbia mai visto-, sempre truccati pesantemente; capelli castano chiaro, lunghi e lisci e una pelle incredibilmente pallida, come la mia.
Era una patita del rock e molto spesso ci inviavamo messaggi vocali in cui canticchiavamo i pezzi più famosi, sognando un giorno di incontrarci, in qualche modo, su uno dei nostri mondi.
Più volte lo programmammo e più volte dovemmo disdire: i suoi genitori, all’antica com’erano, non l’avrebbero mai lasciata partire per un weekend fuori pianeta, ed io non avevo abbastanza soldi per attraversare due sistemi solari con un volo di linea –visto quanto erano alti i costi per un viaggio anche solo in economica!-.
Riuscì a trovare dopo due anni –neo ventenne- una promozione per un volo Canceron-Sagittarian a centocinquanta cubiti, già al massimo del mio badget, ma dovetti disdire poiché ero nel pieno dell’esame per il mio diploma, e non potevo assentarmi in quel momento.
Fu una delusione per entrambi, ma soprattutto per lei; mi sentì di averla illusa, messa da parte e data per scontata, anche se non era nelle mie intenzioni.


 “Non pensare di avermi tradito, non è stata colpa tua” –Cassie Talbot; 9:31 PM
 “Mi dispiace davvero tanto, avrei voluto vederti davvero” –R.David Jenkins ; 9:32 PM
 “Ci rifaremo, vedrai. Un giorno ci ubriacheremo insieme, te lo prometto!” –Cassie Talbot; 9:32 PM

Fu lei a consolare me e rincuorarmi per qualcosa che in fondo era una mia responsabilità: io lo avevo proposto e io lo avevo disdetto, avevo lanciato il sasso nel laghetto e poi avevo ritratto la mano.
Continuammo a sentirci ininterrottamente ogni giorno, più volte al giorno, nonostante la notevole differenza del fuso orario tra di noi. Iniziammo ad intuire che forse il nostro rapporto sarebbe rimasto relegato nel limbo della distanza, del non-contatto reale.
Al tempo, non potevamo immaginare minimamente come sarebbero andate le cose da lì a pochi anni…
Fu una delle mia amiche più care.
Anzi, è.

2.3 “Piacere di conoscerti”
Quella stessa estate fu quella che cambiò radicalmente la mia vita, quella in cui vidi nascere ciò che di più caro posso dire di aver mai avuto.
Iniziò in un pomeriggio di metà Luglio, nel più inaspettato dei modi.
Uscì di casa in automobile, fresco di patente, per raggiungere i miei amici nella cittadina vicina e passare un tranquillo pomeriggio insieme.
Il cielo era nuvoloso e bianco, tuttavia faceva quasi caldo e non accennava per niente a piovere, come aveva fatto per quasi tutta la settimana; la luce del sole filtrava tra le nubi e andava a riflettersi sulla carrozzeria azzurra della mia piccola auto a gas; in realtà non era mia, ma di Jennifer che me la prestava spesso e volentieri poichè che lavorava poco lontano da casa.
Il vento entrava dal finestrino abbassato e mi spettinava i capelli –al tempo tinti di un biondo chiarissimo- tant’è che continuavo a passarmi una mano nel ciuffo per sistemarli, inutilmente.
Alla radio passavano una canzone di Ashley Reynolds, una famosa cantautrice country di Aerilon che andava veramente a mille in quegli anni; ricordo i frizzanti accordi di chitarra acustica accostati ai vocalizzi con la sua stessa voce in sottofondo, ma soprattutto le parole del ritornello che mi sono rimaste impresse in modo indelebile


“I won’t forget, I won’t forget these days,
I will remember the shining lights of his eyes,
I won’t forget the warmth of what he says,
I’ll keep forever in my skyes”


Chi avrebbe detto che sarebbero state tanto azzeccate per quel giorno?

Parcheggiai nello spiazzo accanto alla stazione dei treni, ai piedi della nuova statua di Icaro, commissionata dal sindaco cinque anni prima; personalmente non l’ho mai apprezzata, la trovavo ridondante e superflua nella posizione in cui stava, in un angolo accanto ad un parcheggio anziché in un parco, difficilmente qualcuno si sarebbe fermato ad ammirarla.
La stazione aveva cinque binari sui quali transitavano a tutte le ore decine di treni a levitazione magnetica ad altissima velocità, provenienti dalla capitale e diretti nelle zone di campagna come la nostra o viceversa; l’edificio era tinteggiato di rosa e aveva delle ampie vetrate elettroniche accanto alla porta principale sulle quali venivano spesso proiettati spot pubblicitari o notiziari.
Il treno arrivò giusto mentre attraversavo la porta di vetro sul binario uno e si fermò silenziosamente di fronte a me; il suo muso stondato e massiccio conferiva al veicolo un aspetto maestoso ed importante e mi faceva quasi sentire schiacciato.
Alex e Julie scesero dal secondo vagone e mi vennero incontro tra gli altri passeggeri; Julie, tenera e volitiva ragazza di bassa statura, era stata una delle mie migliori amiche ai tempi del liceo. Avevamo condiviso moltissimi momenti ed esperienze nel corso degli anni e dentro di me ero molto felice che facesse ancora parte della mia vita. Venendomi incontro, mi sorrise e mi abbracciò.
“Stavo per dimenticarmi di portarti questa!” Estrasse una piccola spilla verde e tonda dalla tasca e me la diede
“Oh… te la sei ricordata!”
Quel piccolo oggetto aveva una storia, una lunga e contorta storia, ma non ne parlerò adesso.
Alex mi abbracciò ed esordì ridendo
“Dobbiamo aspettare Cammy davanti alla stazione, mi ha chiamato poco fa ed indovina un po’… è in ritardo!”
Credo di non aver mai conosciuto davvero Alex.
Era un mio caro amico, ma forse il nostro rapporto si fermava in superficie; ci confidavamo, parlavamo, ma credo non abbiamo mai superato un certo limite. Mi manca adesso e mi pento di non averlo conosciuto quando ancora potevo.
Ci sedemmo sulla panchina in marmo di fronte alla fontana nel piazzale della stazione aspettando che Cammy arrivasse in bicicletta ed iniziammo a chiacchierare a proposito delle nostre settimane.
Alex era stato per tre giorni ad Helia, una piccola città di mare dove ogni anno si teneva un festival cinematografico noto in tutte le Dodici Colonie ed al quale partecipavano moltissime star
“Eravamo in prima fila dietro la transenna –raccontava Alex- ed è passata Kayla Fox, ad un metro da noi! E’ stato fantastico!” era davvero emozionato nonostante fossero passate due settimane.
“Sono riuscito a farmi autografare un piccolo poster con il suo viso! Si è avvicinata perché ha visto che glielo sventolavo davanti..
“Cos’è che le sventolavi davanti?” Disse a gran voce Julie singhiozzando dalle risate
“…Il poster, il poster ho detto! Che ho detto?”
Mi coprì gli occhi con la mano ridendo.
Quando alzai lo sguardo vidi che un gruppo di ragazzi appena uscito dall’edificio della stazione si stava dirigendo verso di noi guardando Alex che tuttavia non se n’era ancora accorto.
Erano quattro ragazzi e cinque ragazze; una di loro, Susan, prese l’iniziativa e gli diede una pacca sulla spalla
“Hey hey!” Aveva dei capelli castani lunghi fino alla vita con numerosissime ciocche tinte di blu ed azzurro; indossava una maglietta bianco panna con una sola spallina e degli strettissimi jeans grigi.
Ricordo che la prima cosa che pensai non appena la vidi fu “Wow! Che bella ragazza!”
Alex si voltò di scatto per esordire a gran voce “Susan! Hey!” Si abbracciarono e si scambiarono due parole mentre tutti gli altri del gruppo si avvicinavano vedendo che io e Julie eravamo seduti a guardarli.
Un ragazzo alto e dai capelli scuri si avvicinò a me e, sorridendo mi tese timidamente la mano
“Ciao, io sono Steven, piacere!”
Non credo che potrò mai scordare quel momento; risposi alla stretta di mano e nell’istante in cui incrociai il suo sguardo avvertì una strana sensazione, come se il mio cuore si fosse fermato per un momento.
Non avevo mai provato niente del genere, mi sentì come se fosse un déjà-vu, come se i suoi stessi occhi scuri mi stessero chiedendo “Ci siamo già incontrati?”, come se fosse una sorta di sogno in pieno giorno, un’illusione. Lui era bellissimo, il più bel ragazzo che avessi mai visto: era alto, aveva i capelli corti di un castano scurissimo che terminavano con un ciuffetto che scendeva sulla sinistra; le spalle larghe, tipiche di chi fa molto movimento aerobico; un viso che emanava calore nel vero senso della parola, e che era contornato da una barbetta corta ed ispida, perfettamente curata nei suoi dettagli.
Portava un orecchino nero al lembo dell’orecchio sinistro e, più avanti, mi sarei reso conto di adorare quel piccolo aggeggio nonostante fosse un pezzo di plastica.
La mia mente si soffermò ad analizzare tutti quei dettagli non rendendosi conto che mi ero letteralmente pietrificato ed ancora non gli avevo risposto; Julie notò la mia faccia e, per aiutarmi ad evitare una figuraccia, mi diede una leggera spinta al braccio destro: al chè mi ripresi e, dopo essermi voltato mezzo secondo verso di lei, lo guardai dritto negli occhi ed improvvisai
Si! Certo, David!” mi voltai di nuovo e mi accorsi che sudavo freddo “Cioè, sono David! Piacere! Ehm, come va?” e mi grattai nervosamente la guancia; al chè lui accennò un sorriso e –trattenendo una risata per non mettermi ulteriormente in imbarazzo- si sedette accanto a me.
Mi voltai un’ultima volta verso Julie che mi sorrise e mi mostrò il pollice in segno di approvazione.
“Sei di qui?”
“Cos.. che cosa?” risposi incrociando di nuovo il suo sguardo
“Vivi qui a Lewdan? Non ti ho mai visto!” disse chinando leggermente la testa
Io incrociai le braccia “No, qui ci studiavo fino a pochi mesi fa, sono di Eneris, giusto a venti minuti in auto da qui!”
Alex si avvicinò a noi e notò con piacere che avevo conosciuto Steven, suo amico di vecchia data dai tempi delle scuole medie; avevano condiviso molto insieme da allora e vedere che in quel momento stavamo parlando gli accese un sorriso.
Non frequentavano più la stessa compagnia da ormai un annetto e per una lunga serie di motivi si erano allontanati sempre di più, fino a perdersi di vista.
“Vedo che fraternizzate!” Disse mentre io ridevo
“Hai una coccinella sul braccio!” Allungai il dito ponendolo sulla mezza manica della sua t-shirt a strisce bianche e blu per portare in salvo la piccola bestia. Dicono tutti che le coccinelle portino fortuna ma non ho mai saputo se crederci, anche se forse quel momento dovrebbe esserne la conferma.
Steven sorrideva e guardava a terra in silenzio, tormentandosi le mani nella ricerca di qualcosa da dire; infondo non è mai stato molto abile con le parole e mi rendo conto che per lui non sia stato facile rompere il ghiaccio, dev’essersi sforzato parecchio per andare a presentarsi ad uno sconosciuto di cui non sapeva nemmeno il nome.
Quando ripenso a quel momento mi si scalda letteralmente il cuore.
“Beh… mi piace molto il colore dei tuoi capelli, ti sta bene!” disse con un filo di voce mentre si grattava la nuca imbarazzato “E’ naturale? Sei davvero così biondo?” ed accennò un sorriso
“Grazie, beh no non è per niente naturale, credo di essere più scuro di te in realtà!” Risposi incurvando le spalle e ridendo; ora mi sentivo quasi a mio agio nella situazione e sentivo di voler proseguire la conversazione.
“Oh, interessante. Beh…ti sta davvero bene… ma te l’ho già detto..”
“Si lo hai già detto, ma ti ringrazio, tutti mi dicono che stavo meglio prima ma finalmente qualcuno lo apprezza” mi voltai verso di lui “era ora!”
Alex e Julie stavano ormai chiacchierando animatamente con gli altri ragazzi presenti, perciò approfittai per fargli qualche domanda anche io; nemmeno io lo avevo mai visto, eppure era un piccolo centro, quindi probabilmente ci saremo incrociati chissà quante decine di volte in passato, ma senza vederci.
“E tu invece sei di qui?” gli chiesi con aria interessata appoggiando il mento sulle ginocchia
“Dipende da cosa intendi, si sono cresciuto in questa zona ma in realtà sono nato su Leonis.”
“Oh, wow!” esclamai spalancando gli occhi “Dicono che sia uno dei pianeti più belli delle Colonie!”
A quel punto i suoi occhi assunsero un espressione lontana e nostalgica e mentre un sorriso spontaneo gli pervadeva la curva della bocca mentre parlava
“Si, è così, non dimenticherò mai quei tramonti in riva al mare e quel clima sempre caldo tutto l’anno… beh ad ogni modo io e mia madre ci siamo trasferiti qui quando avevo otto anni dopo che lei e papà divorziarono.” “Oh, mi dispiace molto..”
“Non è nulla, lui lavora nella Flotta Coloniale, non era mai a casa neanche prima. Sono stato abituato a stare senza.” Non c’era dispiacere nella sua voce; forse non gli pesò più di tanto crescere senza un padre, o forse semplicemente era bravo a nascondere le sue emozioni.
Il rumore assordante dei razzi di manovra di una navetta che stava atterrando a cento metri da noi ci zittì per qualche secondo in cui ci scambiammo un sorriso, timido ma diretto ed in qualche modo esplicito.
“Steve noi andiamo, che fai vieni?” Disse –anzi gridò Susan- a gran voce per farsi sentire nonostante il baccano che andava sfumando
“Oh… d’accordo arrivo!” Ci alzammo in piedi e lui si mise le mani in tasca per poi dirmi “Beh.. è stato un vero piacere conoscerti, spero di vederti ancora!”
“Anche io..” Incrociai nuovamente le braccia; guardai a destra e vidi, oltre il parcheggio, un’equipe di giornalisti scendere dalla navetta appena atterrata trasportare varie attrezzature. Rimasi distratto per un mezzo secondo e quando mi voltai vidi che Steven e gli altri se ne stavano già andando.
Chiesi a Julie se avesse di che scrivere e lei estrasse prontamente un block notes e una penna dalla borsa – se non ci fosse stata lei!-; strappai un pezzo di carta e ci scrissi il mio numero per poi correre come un idiota, sventolandolo per aria e rischiando di farmi investire da un furgone della Gazzetta di Aerilon che sfrecciò sulla strada un attimo dopo che l’avessi attraversata.
Non potevo non dargli quel foglietto, non conoscevo il suo cognome e non sapevo se e quando lo avrei rivisto.
“ASPETTA!” Arrivai con il fiatone e mi piegai per un istante sulle ginocchia.
Steven si girò immediatamente verso di me

“Questo è il mio numero” dissi a bassa voce “chiamami magari!”

Continua...
   
 
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