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Autore: Fannie Fiffi    12/11/2015    1 recensioni
[Bellarke; Modern!AU]
Clarke Griffin è una diciannovenne alla ricerca di se stessa, ma soprattutto alla ricerca di una verità ancora più grande di lei: quella riguardo la morte del padre.
Costretta a dover abbandonare le proprie ricerche per due anni, il suo mondo verrà nuovamente sconvolto quando conoscerà il suo nuovo vicino di casa, il giovane detective Bellamy Blake.
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Is It Any Wonder?




 
« Colpisci! »

Il pugno arrivò in risposta all’esortazione con precisione e fermezza, come se quello fosse il gesto per cui era nato. Era preciso, concentrato.

« Bene. Colpisci di nuovo, questa volta schivando allo stesso tempo. »

« Non sono sicura che riempirti di botte sia la cosa migliore che io possa fare in questo momento. »

« Non mi stai riempiendo di botte, Octavia. Ti stai allenando e io sono il tuo allenatore. »

« Sei un po’ più del mio allenatore, non credi? »

Rispose maliziosamente la più giovane dei Blake, dimenticando per un attimo di trovarsi in una palestra e gettando le braccia attorno alle spalle forti di Lincoln.

« Sono il tuo allenatore adesso e tu devi concentrarti. »

« Sono sicura che possiamo prenderci una pausa, sai? » Prese di poco le distanze, abbastanza per guardarlo negli occhi, e sorrise di nuovo.

« Le cose potrebbero mettersi male davvero velocemente. Voglio solo che tu sappia come difenderti nel caso in cui- »

« Non ti succederà niente. »

La più giovane riacquistò un’espressione seria e aggrottò lievemente le sopracciglia nel tentativo di risultare convincente. E c’era una cosa di cui poteva giurare di essere convinta: non sarebbe successo niente a Lincoln.

Lei e Bellamy lo avrebbero protetto.

« Ho bisogno di sapere che tu sarai al sicuro anche se dovesse accadermi qualcosa. »

L’altro sembrava fermo nella sua convinzione e lei non lo contraddisse ulteriormente.

Si limitò a guardarlo, ad osservare quel volto che per tutte quelle notti era stata l’ultima cosa ad accarezzare i suoi occhi.

Quel volto che aveva pian piano scavato un angolo dentro di sé che non poteva essere articolato a parole, che ogni giorno portava più luce di quanto lei non avesse mai visto.

Il calore di sentirsi al sicuro, due braccia sempre aperte, una solidità che Octavia Blake non aveva mai provato lontana da suo fratello.
Una persona che era anche un posto: la sua casa. Tutto quello che lei sarebbe potuta diventare. Tutto ciò che somigliava di più a quello che lei voleva essere.
Lincoln era ancora più di queste cose, eppure allo stesso tempo era così semplice, tutto così chiaro.

Fu per quel motivo che a quel punto sorrise, e non poteva dirsi certa che si trattasse di una vera e propria scelta.

Forse era proprio così: lei non aveva avuto alcuna scelta in quella faccenda.

Lo aveva conosciuto perché desiderava perdere il controllo e si era innamorata di lui perché non c’era altro modo in cui sarebbe potuta andare la cosa.

E, alla fine, ogni cosa aveva ironicamente preso posizione.

Il caos si era fermato e un dolce silenzio aveva messo a tacere tutta la confusione nella sua mente, lasciando al centro di tutto un'unica persona, che era anche il principio di senso di ogni cosa che lei avesse mai fatto.

Nulla fu più facile che guardarlo per un altro attimo, solamente uno, per accertarsi che anche quel ricordo più semplice venisse riposto in quella parte della sua mente che non avrebbe mai dimenticato che quella era la prima persona che l’avesse mai fatta sentire come se ci fosse qualcosa – qualcuno – a cui lei appartenesse senza catene o limiti.

E poi lo baciò. Teneramente, come una melodia scambiata in silenzio senza il bisogno di essere riprodotta. Come una danza immobile, invisibile all’occhio meno attento. Lentamente, come se quello fosse l’ultimo momento in cui avrebbe mai provato quella sensazione, solo per meravigliarsi ancora quando si fosse ripetuto.

E le sembrò quasi disgustosa la dolcezza con cui pensò che lei doveva probabilmente essere nata per quello.

Per baciare Lincoln e per farla sembrare l’emozione più unica al mondo, più meravigliosa ed inebriante di qualsiasi altra sostanza con cui avrebbe mai potuto entrare in contatto.

« Dovranno fare molto di più per portarti via da me. Molto, molto di più. Adesso su quelle protezioni, sono pronta a farti il culo. »





 
*
 
 
 
 
 
« Doppia tequila. »
Il barista del Givin’ and Takin’, un uomo di mezza età sotto la cui barba lunga pulsavano pigramente le vene del collo, avvicinò il mezzo bicchierino all’ultimo arrivato dei suoi clienti senza troppe cerimonie.

Era abituato, ormai, a vedere persone iniziare a bere alle undici del mattino, e i trent’anni che aveva trascorso in quel bar gli avevano insegnato a non interferire mai con un uomo con quell’espressione dipinta sul volto.

Bellamy Blake lo ringraziò con un cenno del capo che non lasciava trasparire nulla.

E non c’era altro modo in cui sarebbe stato in grado di spiegare cos’era che stava provando in quel momento: il vuoto.

Il vuoto nella gola, sulla bocca dello stomaco, fra i pensieri.

Non ricordava quanto tempo fosse passato dall’ultima che aveva mangiato o perfino dormito. Forse una decina d’ore prima di scoprire che il suo migliore amico non solo aveva tentato di incastrarlo con dei soldi sporchi, ma che probabilmente era invischiato in un giro di furti ed omicidi in grado di far impallidire il circolo di Lexa Heda, con cui stava attualmente dividendo il bancone sporco di un bar qualunque.

Certo, quale momento migliore per portare avanti la sua copertura. La parte più sarcastica della sua mente quasi ringraziò Atom, perché aveva davvero preso due piccioni con una fava.

Poteva lavorare sul campo e cogliere l’opportunità per cercare di bere fino a dimenticare gli ultimi tre mesi della sua vita. Forse anche di più, pensandoci attentamente.

Quindi Bellamy buttò giù velocemente il bicchiere senza la possibilità di sentire altro se non il fuoco dell’alcol che bruciava la sua via attraverso il petto stanco.

E poi ne buttò giù un altro, e un altro ancora, e spese venticinque dollari per comprarsi la metà della bottiglia che restava.

E, quando la bottiglia finì, gli sembrò la cosa migliore lanciarsi un’occhiata in giro, giusto per accertarsi di chi fossero gli inconsapevoli testimoni del suo tentativo di autodistruzione.

La corretta mossa successiva, poi, gli sembrò necessariamente quella di provare qualcosa. Perché non importava quanto fosse ubriaco, o scioccato, o terrorizzato, lui rimaneva Bellamy Blake e aveva bisogno di sentire qualcosa, anche se fino a quel momento aveva cercato di fare esattamente l’opposto.

Qual era, dunque, il modo migliore per sentirsi umano? Per sentirsi vivo, per sapere di essere davvero lì. Per rendersi conto che quello non era un sogno e che lui non poteva svegliarsi?

Pensò stupidamente al sesso, ma non c’erano donne, in quel bar. Non a quell’ora. Non quando fuori il mondo si muoveva velocemente, e viveva, e continuava a girare anche se lui non se ne accorgeva. Anche se per lui si era fermato tutto.

A quel punto si rese conto che c’era così poco che potesse fare, se non qualcosa di potenzialmente pericoloso.

Ma lui in quel momento non era un agente federale. Non era un fratello, né un uomo responsabile.

Non era niente se non qualcuno che cercava di trovare un senso a quello che gli stava accadendo e che gli scivolava fra le mani senza controllo, quindi immaginò che per una volta potesse abbracciare il pericolo. Attirarlo a sé.

Prima che il suo cervello potesse trasformare in azioni quel pensiero, il suo corpo si mosse quasi automaticamente.

Si diresse verso la prima persona che vide, in quel caso un ragazzo poco più giovane che sembrava almeno perso quanto lo fosse lui.

Quando fu abbastanza vicino da distinguerne i dintorni – non che ne avrebbe ricordato qualcuno – e l’altro si voltò verso di lui, non esitò.

Le sue dita si chiusero e il suo braccio prese slancio e il suo pugnò atterrò su quel viso sconosciuto con tutta la violenza di cui fosse capace.

Il ragazzo non era stato in grado di prevedere quello che sarebbe successo, perciò cadde a terra immediatamente, più stordito e confuso di quanto non lo fosse il suo assalitore.

E fu in quel momento che Bellamy non riuscì a fermarsi.

Scattò sopra di lui e lo colpì di nuovo, in pieno volto, con la cruda e fredda indifferenza che lottava per emergere dal centro del suo petto.

Purtroppo per lui, però, quell’insolita beatitudine durò meno del previsto. Qualcuno intervenne, spietato e forte com’era stato il maggiore dei Blake, e lo afferrò per le spalle.

La schiena del moro atterrò contro il tavolino da biliardo lì vicino, lasciandolo stordito per il tempo sufficiente agli altri due di colpirlo di rimando altrettante volte.

E dovevano averlo colpito proprio forte, perché non passò poco prima che la sua vista si oscurasse da un occhio e il sangue invadesse la bocca, mischiandosi al sapore dell’alcol che aveva bevuto fino a quel momento.

Eppure Bellamy sembrò accogliere quel dolore quasi con serenità. Lo aveva voluto. Lo aveva cercato e ora che lo otteneva si sentiva quasi bene. Quasi era la parola chiave.

Prima che i due uomini, di cui ovviamente nemmeno scorgeva i lineamenti, lo colpissero di nuovo, una voce arrivò forte e chiara dalla sua sinistra, senza però scomporsi.

« Basta! » Lui e gli altri due si voltarono di poco, come se quell’unica parola fosse stata così violenta da impedirgli qualsiasi ulteriore movimento.

Come se bastasse un semplice comando perché tutto quello si fermasse improvvisamente.

Il maggiore dei Blake riuscì a vederla anche da quella distanza, due tavoli più in là.

Era seduta da sola.

La prima cosa che pensò la sua mente offuscata era che era bellissima.

La seconda, che aveva già incontrato quello sguardo prima d’ora.

La terza, che era Lexa.

Non appena si alzò, le due paia di mani che si erano strette attorno al suo collo sparirono.

I due uomini fecero alcuni passi indietro senza distogliere l’attenzione da lei nemmeno per un attimo.

Quando gli fu di fianco, bastò un cenno del capo perché gli voltassero le spalle e se ne andassero.

Loro rimasero da soli.

Il moro si sollevò dal tavolino e si passò il dorso della mano sulla bocca, cercando di ripulirsi dal sangue che ancora usciva dal suo labbro inferiore.

Una parte della sua mente, quella che era rimasta lucida e cosciente – quella che sarebbe sempre rimasta lucida e cosciente, nonostante qualsiasi cosa gli accadesse – lavorò velocemente per trovare una spiegazione alla sua presenza nel territorio dei Grounders. Sapeva che nessuno, turista o meno, si trovasse da quelle parti per caso.

« Non dovresti bere a quest’ora. » Lexa interruppe i suoi pensieri prima che lui potesse sforzarsi di connettere il cervello alla bocca.

Reclinò il capo di lato e lo osservò attentamente, e non fu difficile per l’agente Blake capire perché tutti sembrassero quasi aggiogati da quella donna.

« Non è mai l’ora sbagliata per bere. »

Heda accennò un sorriso lieve e controllato, come se non potesse concedersi né concedergli di più.

« Allora non dovresti rovinarti la faccia così. » Propose subito dopo, alzando con sicurezza una mano e portandola ad accarezzargli la guancia sinistra.

Tutto di lei, dai suoi occhi al suo tocco, era fermo e deciso. Come se avesse fisicamente bisogno di mantenere il controllo. Bellamy sbatté le palpebre un paio di volte, poi si lasciò andare ad una risata bassa.

« Vorrei fosse la prima volta. » Quando riportò lo sguardo in quello della ragazza – che era tutto tranne una semplice ragazza – iniziò a guardarla davvero: i suoi occhi verdi sembravano fluorescenti e felini sotto il trucco pesante, e i suoi capelli erano organizzati secondo uno schema complesso.

Gli dava l’impressione di trovarsi in una stanza di cristallo ad ogni attimo in cui continuava a scrutarlo.

Alla prima mossa sbagliata, al primo movimento fuori posto, tutto si sarebbe distrutto.

E Lexa non sembrava di certo qualcuno pronto a perdere.

« Sono ubriaco. Sto sanguinando. Forse dovrei andare. »

« Dall’altro lato della strada c’è una tavola calda. È di un mio amico, puoi dirgli che ti manda Gona. Mangia qualcosa, prima. »

« Grazie… » Si interruppe per darle la possibilità di suggerirgli il proprio nome, fingendosi il più incerto possibile.

« Lexa. »

« Lexa. Mi chiamo Bellamy. »

« A presto, Bellamy. »

Non c’erano dubbi nella sua voce. Sembrava perfettamente sicura che si sarebbero rivisti, e l’agente Blake non poté trattenersi dal pensare lo stesso. Lei era il suo bersaglio numero uno, dopotutto.




« Allora, avrò bisogno di un doppio cheeseburger, patatine fritte e una soda. »

Il maggiore dei Blake ordinò senza nemmeno guardare in faccia la giovane cameriera che gli si era appena avvicinata, troppo concentrato a smaltire la sbronza, ad evitare il dolore al volto e a scrutare la strada fuori dalla finestra.

Una parte della sua mente non riusciva ancora a spiegarsi che ci facesse ubriaco e sporco di sangue ancora prima di pranzo, ma immaginò che quella fosse la cosa meno strana di tutte quelle che gli stavano accadendo in quei giorni.

Sicuramente meno strana del suo migliore amico scoperto a far parte di una qualche associazione a delinquere pronta senza la minima esitazione ad ammazzare qualcuno. Sicuramente meno strana del fatto che quello fosse il tempo più lungo in cui si allontanava dal Dipartimento e ignorava il cellulare.

Ed era dilaniato dall’incertezza che da qualche parte dentro la sua mente gli gridava che forse tutto quello che avrebbe dovuto fare era salire in macchina e guidare il più velocemente possibile verso la cella in cui era rinchiuso in quel momento Atom.

Come se guardarlo negli occhi potesse cambiare almeno una delle cose che erano successe in quei mesi. Come se in quegli occhi che pensava di conoscere così bene potesse trovarsi la risposta al perché di tutto quello.

Perché Jake Griffin e i soldi sporchi e il suo ritorno e Clarke, oh Clarke, che l’aveva guardato con più rancore di quanto avrebbe mai potuto immaginare lì, fuori da quel motel, quando lui gli aveva portavo via la vera prima occasione di scoprire la verità dopo anni.

Mentre aspettava il suo stupido cibo – come se avesse qualche senso mangiare cibo spazzatura in una situazione del genere – Bellamy si domandò se avesse avuto anche la minima scelta in tutta quell’intricata condizione che ora sembrava sfuggire a qualsiasi controllo o regola logica.

Se tutto quello che aveva vissuto fino a quell’attimo preciso non fosse stato deciso già in partenza da qualcuno con un pessimo senso dell’umorismo.

Si ritrovò a pensare come diavolo fosse successo che avesse incontrato proprio quella ragazza e che da quel giorno ogni più piccola azione l’avesse portato proprio lì, proprio in quel momento.

Come potevano coesistere tutte queste varianti e probabilità quando ogni razionalità sembrava ormai solamente uno scherzo di cattivo gusto. Come poteva essere successa qualcosa del genere e lui non se ne fosse accorto prima.

« Ecco qui. Doppio cheeseburger, patatine fritte e una soda. Ho sentito che ti ha mandato Gona. »

La cameriera lo interruppe prima che potesse inoltrarsi in un luogo troppo oscuro.

« Ahm, » il moro chiuse per un attimo gli occhi, cercando le parole giuste per non destare sospetti, e poi riportò lo sguardo in quello della ragazza.

Doveva essere poco più giovane di Octavia.

« Sì, me lo ha suggerito lei. »

« Allora questo lo offre la casa. » Gli sorrise e, senza attendere una risposta, gli diede le spalle e se ne andò.

Non pensò più a niente. Forse quell’alcol era davvero servito a qualcosa. Forse c’era poco che potesse fare. Bellamy rimase seduto a quel tavolo ancora per un po’.

La superficie ora era vuota e il sole si era spostato, filtrando i suoi raggi all’altezza dei suoi ricci scuri.

Quello era l’ultimo posto in cui forse avrebbe dovuto trovarsi – in un fast food nel territorio dei Grounders – eppure non c’era in lui nemmeno il minimo interesse ad alzarsi e tornare alla centrale.

Vedere i suoi colleghi. Vedere Atom. Vedere Clarke.

No, in quel momento Bellamy non era forte. Non era un leader. Era quanto di più lontano dal coraggio potesse esserci.

In quel momento Bellamy non era più sé e non aveva intenzione di tornare ad esserlo presto. L’illusione di un qualche tipo di solitudine rigeneratrice però durò ben poco, data l’insistenza con cui il suo telefono vibrava nella tasca destra dei jeans.

Quando, stanco, decise di rispondere, il numero del Capitano Sidney gli balzò agli occhi con tempestività e urgenza.

« Ci sono, ci sono. Era proprio necessario chiamare così tanto? » Fece a mo’ di saluto.

« Bellamy. » Lo rimproverò immediatamente il suo superiore.

« Credevo venissi qui appena sveglio. Ti stavo aspettando. Devi interrog- »

« Non interrogherò proprio nessuno, capo. Sono fuori. » Sbuffò le parole prima che queste si realizzassero del tutto nella sua mente, e fu sorpreso di non esserne sorpreso affatto.

« Fuori? Che vuoi dire? »

« Non posso parlarne ora. Sono, mh, occupato. Più o meno. »

Dall’altra parte del telefono ci fu un rumore sordo, come un cambio d’aria, e non ebbe tempo di attaccare ché una voce diversa da quella del suo responsabile lo raggiunse, rotta e flebile come mai prima d’allora l’aveva sentita.

« Ho bisogno che tu venga qui, Bellamy. Adesso. » Era Clarke.
 





 
Il maggiore dei Blake si guardò negli occhi attraverso lo specchietto retrovisore della sua automobile, immobile nel parcheggio del Dipartimento.

Il suo occhio sinistro era circondato da un prepotente livido violaceo e sotto di esso lo zigomo si era gonfiato significativamente nell’ultima mezz’ora.

Non riusciva a vedersi la bocca, ma, se il fastidio e l’odore del sangue potevano esserne indicatori, immaginò che le sue labbra dovessero essere altrettanto gonfie e rosse. Ottimo. La testa gli girava ancora, probabilmente sia per la rissa che per la bottiglia che aveva trangugiato senza remore, e trovò quantomeno ironico che proprio un rappresentante delle autorità si fosse messo alla guida in quelle condizioni.

Come pensava di poter proteggere gli altri quando non voleva nemmeno proteggere se stesso?

Con un ultimo sospiro affranto, come se si stesse avvicinando al patibolo – e forse quello sarebbe stato anche meglio – scese dalla sua automobile, si aggiustò la cintura a cui erano appesi distintivo e pistola e camminò svogliatamente verso l’interno dell’edificio.

Quando raggiunse il suo piano e le porte dell’ascensore si aprirono sulla sua divisione, tirò l’ennesimo respiro profondo.

Non era pronto a tutto quello, né all’improvvisa violenza con cui ne era venuto a conoscenza.

L’unica cosa che percepì con chiarezza erano i suoi anfibi pesanti che strisciavano sul pavimento con passo regolare ma indolente.

Anche quando i suoi occhi stanchi incontrarono quelli di Clarke, seduta alla scrivania. Anche quando lei si alzò, tempestiva e visibilmente esausta e inarrestabile.

L’unica cosa a cui Bellamy si aggrappò fu il suono dei propri passi, il rumore che gli rimbombava nelle orecchie al ritmo del cuore, come se si trovasse sott’acqua.

« Bell- » Non la ascoltò.

Distolse lo sguardo e sentì la durezza dell’indifferenza appesantirgli il volto. Il vuoto che si andava ad incastrare nei contorni delle labbra.

E odiò se stesso, perché nonostante quello tutto ciò che voleva fare era prenderla per mano e portarla via.

Iniziare a guidare e non fermarsi finché non avesse capito cosa diamine fosse quella pressione che lo spingeva verso di lei ogni volta che incontrava il suo sguardo. Ma non poteva.

Il suo migliore amico era con ogni probabilità un assassino e con ogni probabilità fino a quel momento non aveva fatto altro che spiarlo. Delle persone erano state uccise. Ad alcune era stato fatto del male, lei compresa.

E lui non avrebbe potuto fare niente fino a quando non avesse scoperto la verità. Ogni aspetto di essa.

Perciò distolse gli occhi dai suoi, si mise le mani nelle tasche del giubbotto e si dileguò nell’ufficio del suo capo.

« Che diavolo ti è successo? » Alzò subito la voce lei, non appena prese coscienza delle sue condizioni fisiche.

« Ho fatto una piccola gita, oggi. »

Il Capitano Sidney lo scrutò per qualche istante. Poi, lentamente, gli si avvicinò.

« Sei ubriaco, agente Blake? » Gli domandò, stupita e sconcertata.

Bellamy scrollò le spalle e spalancò le braccia, appoggiandosi con il busto alla porta di vetro. Non riusciva a liberarsi dalla sensazione degli occhi di Clarke su di lui, proprio in quel momento, che lo osservavano da fuori.

« Ero sotto copertura. » Rispose lui tranquillamente, come se quella fosse la spiegazione più normale e plausibile che potesse fornirle.

« Non è così che si fanno le cose, Bellamy! E tu dovresti saperlo meglio di tutti! E se ti avessero seguito? »

« Non mi ha seguito nessuno, Diana. Si rilassi. »

« Qui dentro per te sono il Capitano Sidney, va bene? » Lo riprese, puntandogli l’indice contro, e proseguì con il suo rimprovero.

« Ci sono ancora tante cose che dobbiamo stabilire e calcolare. Non puoi semplicemente entrare nel territorio dei Grounders così! »

« Ho incontrato Lexa. » Propose il moro, staccandosi dalla porta e passandosi una mano fra i capelli.

« Forse potrei portarmela a letto, che ne dice? » E accennò una risata amara.

« Non continuerò una conversazione sull’argomento mentre sei in queste condizioni. Bevi un caffè, agente Blake, e riprenditi. Fra venti minuti ti voglio in sala interrogatori con Atom Ward. »

Senza attendere un’ulteriore risposta sarcastica o amareggiata, il superiore lo oltrepassò e uscì dall’ufficio, lasciandolo solo.
 



 
 
Bellamy giunse davanti la porta della sala interrogatori senza nemmeno un minuto di ritardo.

Era in conflitto fra l’impazienza di sapere tutto e subito – chi era davvero Atom Ward e come aveva fatto a trasformarsi dal ragazzino insicuro che lui ricordava ad un potenziale assassino, cos’era accaduto davvero a Jake Griffin e perché a sua figlia non fosse concesso il minimo di pace che tanto cercava – e l’adrenalina del salto nel vuoto, del buio e totale sconosciuto.

Passarono solo alcuni secondi, il tempo di vagliare velocemente tutte le possibilità, e poi non esitò.

Entrò nella stanza con sicurezza e con quel tipo di spavalderia che per tanto tempo aveva contaminato i suoi atteggiamenti, e la prima cosa su cui puntò lo sguardo fu il vetro riflettente che collegava quelle mura alla stanza adiacente, dalla quale, ne era sicuro, il suo capo lo stava osservando proprio in quel momento.

Una parte di sé si sentiva come se fosse lui l’incriminato.

Poi, senza rimandare troppo l’inevitabile, si concentrò sulla persona che era seduta dall’altra parte del tavolo che aveva conosciuto confessioni, cedimenti e lacrime di tanti innocenti quanti colpevoli.

Non riusciva nemmeno ad identificarlo con il suo migliore amico. Il suo viso, prima di quella scoperta così familiare e irreprensibile, ora gli sembrava un enigma a cui non si sarebbe mai potuto avvicinare abbastanza.

Era il volto di uno sconosciuto.

E proprio come uno sconosciuto l’avrebbe trattato.

L’agente Blake – che ora non era altro che questo: un agente federale seduto davanti ad un criminale – spostò pesantemente la sedia dalla sua parte, facendola strisciare fastidiosamente contro il pavimento, e si accomodò senza poche cerimonie.

Sapeva quanto fosse importante il modo in cui presentava. Era una delle cose che gli avevano insegnato all’Accademia e che di più lo avevano affascinato: il linguaggio del corpo, il movimento delle braccia, l’altezza del mento e lo sguardo. 

Lo sguardo non doveva mai essere distolto. Lo sguardo doveva intimorire, lasciar scoperta ogni minima debolezza della persona davanti a sé. Lo sguardo doveva comunicare più di tutto il resto.

E Bellamy immaginò che in quel momento il suo sguardo stesse comunicando forse troppo, dato che Atom non fu in grado di reggerlo per più di qualche secondo.

Non aveva con sé né un fascicolo né alcun altro documento cartaceo di cui potesse servirsi per padroneggiare l’interrogatorio, ma sapeva di non averne bisogno.

Sapeva che il suo sospettato gli avrebbe detto tutto quello che voleva sapere.

« Parla. » Sputò fra i denti, e la durezza di quell’unica parola fu sufficiente ad attirare nuovamente l’attenzione dell’altro.

I loro occhi si incontrarono nel più profondo silenzio per qualche attimo, il tempo che intercorse fra la poco gentile esortazione del moro e la risposta di quella che era stata la persona di cui si era fidato di più dopo sua sorella. 

« Non mi aspettavo che lasciassero fare a te l’interrogatorio. » Replicò sagacemente il giovane Ward, come ignaro dell’assai delicata situazione in cui si trovava in quel momento.

« Che c’è, hai paura che possa farti male? »

« Non sarebbe corretto da parte tua. » Gli fece notare, alzando entrambe le mani tenute ferme dalle manette. « E poi, vedo che per oggi ne hai già avute abbastanza. » Continuò, alludendo al suo volto livido e contuso.

« Ironico che sia proprio tu a parlare di correttezza. Smettila con le cazzate. Parla. »

« Cosa vuoi sapere? »

Il maggiore dei Blake alzò gli occhi al cielo e staccò la schiena dalla sedia, sporgendosi in avanti e poggiando entrambe le braccia sulla superficie fredda del tavolo che li divideva.

« Voglio sapere tutto. Voglio sapere cosa hai fatto quando ti sei trasferito da Portland, i dettagli dei soldi sporchi che mi hai rifilato. Voglio sapere cosa hai a che fare con l’omicidio di Jake Griffin e il rapimento di sua figlia. »

Ognuna delle sue richieste fu accompagnata da un colpo secco della mano sul tavolo.

« Voglio sapere cosa ci facevate tu e Clarke Griffin in un motel fuori Los Angeles e da chi stavi scappando. »

Atom aveva mantenuto lo sguardo nel suo per tutta la durata della sua requisitoria e fu strano per lui accorgersi che non era l’elenco di tutto quello che aveva fatto a dargli quella sensazione di disprezzo verso se stesso che stava provando in quel momento.

Era il disprezzo che Bellamy provava per lui. Il rifiuto, la vergogna, l’imbarazzo che trapelava da ogni sua parola e da ogni suo gesto più inconsapevole.

Fu proprio allora che prese veramente conoscenza di aver per sempre perso ogni più piccola quantità di stima e affetto che la persona davanti a sé aveva mai provato per lui.

Che quella persona così arrabbiata e furiosa e frustrata non sarebbe mai più stato il migliore amico che aveva mai avuto e che nessuno era mai stato in grado di rimpiazzare.

Immaginò che a quel punto valeva dire tutto e subito, far finire il prima possibile quello che probabilmente sarebbe stato il loro ultimo incontro. Pronunciare le ultime parole che si sarebbero mai rivolti.

« Ho commesso io quella rapina. Ho rubato io quei soldi. Ho partecipato al rapimento di Clarke Griffin. Non ho preso parte né sono al corrente di informazioni riguardo l’omicidio di suo padre. 

Stavo scappando da te perché sapevo che prima o poi mi avresti trovato. »

Buttò tutto fuori velocemente, trascinando una parola dietro l’altra in un vortice da cui non sarebbe mai uscito. 

E mentì. Mentì su una sola cosa, l’unica che non avrebbe mai potuto ammettere ad alta voce. Sapeva chi aveva ucciso Jake Griffin. Lo sapeva perché era la stessa persona che da due anni a quella parte aveva iniziato a ricattarlo a costo della vita di sua madre.

La stessa che gli aveva inviato foto della sua famiglia, di suo padre. L’uomo che l’aveva disconosciuto ma che non avrebbe mai smesso di amare. 

La stessa persona che aveva in mano tutto il resto della sua vita e di cui non avrebbe mai potuto fare il nome.

Avrebbe accettato il carcere e che gli portassero via la libertà e perfino che il suo migliore amico lo disprezzasse con ogni parte di sé, ma non avrebbe messo in pericolo la sua famiglia.

Sarebbe dovuto morire, prima. L’avrebbero dovuto uccidere.

Bellamy arretrò con il busto impercettibilmente, forse sorpreso dalla velocità con cui aveva ammesso tutti i suoi crimini, e non riuscì a impedirsi di spalancare di poco gli occhi, giusto il necessario per palesare il suo stupore.

Questa spontaneità durò solamente per poco, però, perché tornò immediatamente ad indossare la sua maschera di imperturbabilità.

Aggrottò lievemente le sopracciglia e un muscolo vibrò contro la sua mascella prima di rivolgergli l’ennesima domanda.

« Sei davvero così stupido da usare del denaro sporco con un poliziotto? »

Atom accennò un ghigno amaro, affatto divertito o rallegrato, e puntò gli occhi sul vetro riflettente, guardando allo stesso tempo se stesso e chiunque ci fosse dall’altra parte della superficie.

« Volevo che mi trovaste. » Confessò lentamente, come a dar tempo ai suoi interlocutori di assimilare perfettamente quell’ammissione.

« Ehi, sono qui. » Lo riprese con astio Bellamy, schioccando medio e pollice davanti alla sua faccia. « Perché mai vorresti essere messo in carcere? »

Almeno non sarò più costretto a fuggire, pensò lui.

« Stava diventando noioso vedervi girare intorno senza arrivare mai ad una vera e propria conclusione. »

A quel punto il moro rimase immobile. Lo osservò per alcuni secondi, un’espressione indecifrabile dipinta sul volto, e l’unico movimento che si permise fu quello di stringere i pugni.

Poi, all’improvviso, nell’apice della tensione che era andata sempre più crescendo in quella stanza, Bellamy scattò.

E, per la seconda volta in quel giorno, assaporò il dolce gusto della violenza che gli si scioglieva in bocca e mandava in tilt ogni suo sistema.

« Figlio di putt- »

Non riuscì mai a colpirlo, però, perché nello stesso momento il Capitano Sidney fece irruzione nella stanza.

« Basta! » Li ammonì con tono di voce fermo e sicuro, abbastanza autoritario da immobilizzare l’agente Blake sul posto.

« Tu, » e puntò l’indice su Atom, « questo non è uno scherzo. Tu andrai in prigione. Me ne assicurerò personalmente. »

« E tu, » rivolgendosi al moro, « nel mio ufficio. Adesso. »

Detto questo, gli diede le spalle, lasciando la porta aperta.

Bellamy, il respiro ansimante che gli agitava il petto e i pugni stretti lungo i fianchi, si voltò verso quell’estraneo che si era preso gioco di lui.

« Non finisce qui. » Gli assicurò con tono minatorio, squadrandolo con tutto l’astio e la furia di cui fosse capace,  prima di dargli le spalle e sbattere con violenza l’uscio dietro di sé.




 
 
 
« Andava tutto bene! » Esordì il maggiore dei Blake, precipitandosi per l’ennesima volta nell’ufficio del suo capo e guardandola con occhi stralunati.

« Non andava affatto bene! Se l’avessi anche solo sfiorato avrebbe potuto farci causa. Avremmo potuto perdere credibilità e avremmo potuto rischiare di farlo uscire. Ti stava provocando, Bellamy. E non possiamo permettercelo. »

Il moro sbuffò, ma non fu in grado di controbattere. In fondo, nella parte della sua mente che era riuscita a rimanere imparziale, sapeva che il Capitano aveva ragione. Sapeva che non poteva permettersi il minimo errore, non se avesse significato perdere l’unica pista concreta che avevano avuto fino a quel momento.

Eppure questo non fece altro che infastidirlo ancora di più, perché gli riportò alla mente le parole di Atom. Gli riportò alla mente che forse era vero, senza di lui non sapeva se né quando avrebbero mai raggiunto una reale prova.

E questo lo faceva impazzire.

« Non reagirò più in quel modo. Mi dispiace. È solo che- »

« Lo so. So quanto tutto questo sia difficile per te. So che ti ho chiesto tanto, ma se l’ho fatto è solo perché sono ben consapevole che tu possa farcela. Puoi farcela, è l’unica cosa di cui sono sempre stata sicura. »

Non capitava molto spesso che una donna forte e disciplinata come il Capitano Sidney si rivolgesse in quel modo a qualcuno dei suoi, e Bellamy lo sapeva bene.

Proprio per quel motivo sapeva che quella era la verità.

« Ho paura. » Ammise finalmente lui, togliendosi per un attimo, solo uno, la maschera che per tutto il giorno aveva indossato con fatica. Quella maschera di indifferenza e arroganza e presunzione che aveva costruito intorno alla tristezza e alla rabbia che aveva provato fin dal momento in cui si era accorto di come stessero veramente le cose.

Ed era ironico, dannatamente ironico, come la prima persona di cui si fosse sforzato di fidarsi, la prima persona a cui avesse concesso davvero di avvicinarsi, si fosse rivelata nient’altro che un mucchio di bugie e tradimenti.

« Ho paura perché  ho lasciato che il mio giudizio venisse oscurato con così tanta facilità e ho paura perché ho lasciato che quello si avvicinasse ad Octavia e a Clarke e io non me ne sono reso conto. E se- »

« Ti fidavi di lui. Non c’è niente di sbagliato in questo. Siamo poliziotti, ma ancor prima siamo essere umani. Abbiamo bisogno di credere che non tutti siano come i criminali di cui ci occupiamo. Abbiamo bisogno di tornare a casa e abbassare la guardia e smettere per un attimo di guardarci le spalle ogni secondo della nostra vita. Non devi aver paura di questo, Bellamy. Non devi lasciare che questo ti definisca. »

Il più giovane non rispose. Aggrottò le sopracciglia, com’era solito fare quando era confuso o troppo concentrato per esprimersi verbalmente, e lasciò vagare il proprio sguardo attorno alla stanza.

Dopo qualche secondo di silenzio, trascorso da entrambi a riflettere su quello che era appena stato detto, si riprese.

« Dobbiamo chiudere questo caso il presto possibile, torno lì dentro. »

La donna accennò un sorriso incoraggiante, e lui chinò il capo a mo’ di ringraziamento.

« Grazie, Capitano. »
 
 


Forte di quello che il suo capo gli aveva appena detto e del bisogno di risposte che ormai era impellente ed impaziente, Bellamy entrò per la seconda volta nella sala interrogatori, richiudendosi pacatamente la porta alle spalle e dirigendosi con calma verso il cavalletto su cui era appoggiata la videocamera per gli interrogatori.

Puntando lo sguardo in quello di Atom, che lo osservava da quando era rientrato, la spense.

« Se provi in qualsiasi modo a contattare mia sorella, ti ammazzo. Se ti avvicini a lei o lo fai fare a qualcun altro per te, ti ammazzo. Se posi ancora un’altra volta lo sguardo su Clarke, io ti ammazzo. »

Detto quello, riaccese la videocamera e la puntò meglio su di lui.

« Voglio sapere tutto quello che sai. Mi servono indirizzi, nomi, qualsiasi cosa. »
 





 
 
Il maggiore dei Blake parcheggiò la sua automobile nel vialetto di casa sua quando ormai il sole era calato e il crepuscolo si avviava a lasciare spazio al calare della notte.

Era esausto.

La sua mente sembrava così piena da essere troppo pesante perché lui potesse tenerla dritta ancora per molto. Il suo corpo sembrava tremare, tant’era la pressione e la tensione che si era accumulata al centro della schiena e lungo tutte le gambe.

Era talmente stremato da non riuscire nemmeno a sentire i pugni e i segni che avevano lasciato sul suo volto.

Non seppe come, ma scese dalla macchina e arrivò alla porta di casa senza nemmeno accorgersene.

Non appena entrò, sua sorella svoltò l’angolo della cucina e lo raggiunse.

La prima cosa che fece fu spalancare gli occhi, sorpresa e impaurita dal suo aspetto. La seconda fu corrergli incontro e abbracciarlo.

Bellamy immaginò che niente sarebbe stato più vicino alla definizione di casa di quello. Di Octavia fra le sue braccia e il profumo familiare dei suoi capelli e il suo piccolo corpo stretto attorno al proprio.

Il moro chiuse gli occhi e si accoccolò contro di lei come un bambino, senza parlare.

La più piccola fece correre la mano fra i suoi ricci, accarezzandoli e sfiorandoli con una delicatezza che non sarebbe mai assomigliata a nessun altro tipo di dolcezza.

« Dov’è Lincoln? » Domandò lui a bassa voce contro la sua spalla, senza allontanarsi di un millimetro.

« Pensava che avessimo bisogno di stare da soli. Che diavolo ti è successo alla faccia? »

« Gli imprevisti del mestiere. »

« Hai mangiato? Vuoi che ti prepari qualcosa? »

Solo in quel momento Bellamy si allontanò da lei, lasciando scorrere le mani lungo i suoi fianchi e aggiustandole la maglietta sulla vita, coprendola un po’ di più.

« Sono a posto. Ho solo bisogno di una doccia. »

« Certo. Allora io vado nella mia stanza, sai dove trovarmi. »

La più piccola dei Blake gli sfiorò la guancia che non era livida e tentò di regalargli un sorriso.

Lui si limitò ad annuire e a dirigersi verso la sua stanza.

Sapeva che sua sorella sarebbe stata lì nell’esatto istante in cui lui avesse deciso di parlarne. Né prima, né dopo. Lei avrebbe semplicemente saputo quando e lui non avrebbe avuto bisogno di spiegazioni ulteriori.

Ad ogni passo in cui si avvicinava alla sua camera, il moro si sentiva un centimetro più vicino al momento in cui avrebbe dovuto affrontare seriamente tutto quello che gli era accaduto in quegli ultimi giorni. Il momento in cui si sarebbe sdraiato da solo, al buio, e ogni sua paura, ogni sua tristezza si sarebbe materializzata davanti ai suoi occhi nella più totale e terrificante concretezza.

Quando, però, aprì la porta ed entrò nella stanza, immaginò che quel momento fosse più vicino di quanto avesse pensato.

Clarke, seduta a gambe incrociate sul suo letto, lo stava aspettando lì.
  
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