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Autore: Nemainn    12/11/2015    6 recensioni
Meritavano, gli umani, quel mondo che stavano distruggendo?
Meritavano quel cielo negato a chi tra loro l'aveva bramato e a cui era stato sottratto?
Stavano uccidendo loro stessi e ciò che li circondava in un'apoteosi di cieco egoismo, inconsapevoli dei loro stessi atti, desiderosi di innalzarsi senza più vedere le conseguenze dei loro gesti, e loro ne erano il risultato.

Hanno creato degli Dei, ma erano solo bambini.
Hanno avuto paura.
Hanno cercato di ucciderli, e questa è la loro storia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- 01 -

 

Con il fiato spezzato i due ragazzi avanzavano tra il fitto fogliame, la stanchezza che rendeva le gambe pesanti.
«Shiva...!» con il respiro ansante Candra chiamò il fratello, avanti a lei di pochi passi. Lo guardò fermarsi, i capelli sporchi e appiccicati di sudore al collo e la faccia piena di terra e polvere. «Non... non ce la faccio ad andare avanti, vai tu. Li depisterò.»
Shiva fece i passi che la separavano dalla sorella, negli occhi castani la furia e la disperazione. «Non dire cazzate!» l'apostrofò «Tu ce la devi fare!» L'afferrò per il polso, ma era impossibile procedere: Candra era troppo stanca. Si erano imbattuti in quella banda in una zona che credevano abbandonata. Stavano depredando delle rovine di quello che pareva essere stato un agglomerato di case per metà sepolte da una valanga o, almeno, quello era ciò che sembrava loro. Sopra quei declivi di terra erano cresciute piante di ogni genere, alberi ormai alti e robusti tanto era il tempo trascorso. Pensavano di essere in una zona sicura, mentre scavano tra quei resti, alla ricerca di tecnologia ancora utilizzabile e che potevano vendere.
Era stato Shiva a sentirli, un suono simile a un sibilo l'aveva messo in allerta e si era lanciato contro la sorella. Al suolo, dietro un cumulo di terra appena smossa, avevano spiato con cautela dalla direzione da cui proveniva il rumore, accucciati. In pochi minuti videro arrivare loro incontro su delle moto a motore gravitazionale, malmesse e a stento funzionanti, un gruppo di predoni. Quei mezzi erano pezzi rari e preziosi, sarebbe stata una grossa fortuna poterne rubare uno, il problema era chi le guidava. Erano meno di una decina di moto e sopra ognuna di esse c'erano almeno due persone, erano chiaramente una banda di Illegali. Senza legge, privi di casta, pericolosi e armati. Rubare a loro era un pensiero suicida, l'unica cosa che potevano fare era scappare, sperando di non essere visti. Avevano strisciato, cercando di andarsene senza farsi scorgere, ma la fortuna non li aveva benedetti. Con un grido d'allarme erano stati indicati e si erano messi a correre tra la fitta foresta.
Lì le moto non potevano avanzare più rapide di un uomo, costrette dalla vegetazione negli spazi stretti e angusti tra i tronchi e il sottobosco robusto e florido. L'inseguimento era così iniziato e, da allora, i due fratelli avevano continuato a correre praticamente senza mai fermarsi e Candra non reggeva più. Era sfinita, così stanca che nulla poteva spingerla ad avanzare ancora, neppure la certezza dello stupro e della morte sembravano in grado di spronarla. Su quelle moto e dandosi il cambio, credendo di aver trovato chissà cosa o chi, gli inseguitori non si davano per vinti e arrendersi a loro era impensabile, voleva dire essere uccisi. Almeno, lei sarebbe sicuramente morta, alla fine, era malata; ma per suo fratello il fato poteva essere perfino peggiore. Ogni tanto giungevano loro i suoni di quella caccia, incitamenti animali, sguaiati, che li terrorizzavano.
In preda alla paura erano fuggiti verso i monti, sperando che tra pietre e alberi perdessero le loro tracce, ma era evidente che possedevano un tracciatore di qualche tipo, che li avrebbero trovati e che era solo questione di tempo. Davanti a loro scorreva un ampio torrente e assetati, ignorando le elementari norme che avevano inculcate dalla nascita, bevvero. Poteva ucciderli con un sorso, farli ammalare, ma la sete era troppa per entrambi per fermarsi e pensare.
Dopo essersi dissetato, Shiva osservò attentamente quello che li circondava. «Andiamo a monte del ruscello, se esce da una grotta possiamo nasconderci.»
«Se ci porta in una gola, invece?» disse Candra con il filo di fiato appena recuperato, seguendo però il fratello quando iniziò ad avviarsi, con i grossi anfibi a mollo in cui entrava l'acqua gelida «In quel caso siamo in trappola, lo sai...»
Ma Shiva la fissò caparbio e lei avanzò ancora, trovando la forza in qualche modo, per lui, al di là della stanchezza e del dolore ai muscoli, di quella specie di ovattato nulla che l'avvolgeva per via dello sfinimento, proseguì. I piedi a mollo nell'acqua gelida risalirono quel torrente, a volte inerpicandosi lungo le piccole cascate, o aggirandole quando erano troppo alte. Passarono le ore, lente, mentre Candra si sentiva animare da un filo di speranza.
«Non li sento da un po'...» Shiva, sentendo le parole della sorella, annuì e lei proseguì con la voce spezzata dalla fatica. «Non vedo quasi più dove metto i piedi, non li sento più inseguirci. Io mi fermo, Shiva.»
«Anche io.» Il ragazzo, nella luce fioca che rimaneva come ultima vestigia del crepuscolo, mise il braccio sul fianco della sorella aiutandola a fare gli ultimi barcollanti passi. A volte l'aveva portata sulle spalle, quando lei crollava, dandole un minimo di riposo a quel mondo. Ma anche lui, ormai, era stremato. Si rifugiarono in un tronco cavo poco lontano, spaventati dai possibili insetti velenosi, senza nulla da mangiare, infreddoliti e stanchi, ma erano ancora vivi e questo, al momento, bastava.
Fu il suono di voci umane a svegliarli, lontane, certo, ma erano sicuri fossero i loro inseguitori e nella luce che le stelle e la luna davano ripresero a seguire il corso del torrente. Man mano che avanzavano, portate dal vento, le voci si facevano più o meno vicine, spronandoli, mentre Candra osservava il fratello, chiedendosi cosa dire per convincerlo a lasciarla indietro: poteva depistarli, salvarlo. Lei, tanto, era già morta.
«Cosa...?» la sorpresa nella voce di Shiva calamitò l'attenzione di lei, distogliendola dai suoi pensieri. Alla loro destra, nella parete rocciosa che costeggiavano, un cerchio di quello che sembrava acciaio si intravedeva tra una cascata di radici e rampicanti. «Aiutami...»
«Non abbiamo tempo per questo!» soffiò stanca, guardandolo. Ma lui non l'ascoltò e con dita frenetiche spostò le radici, strappando i rampicanti e mettendo a nudo quella porzione di roccia.

 

*

 

Un fremito sfiorò la coscienza assopita, un vento che parlava di cambiamento, e lentamente, da un sonno durato un tempo forse incalcolabile, ma che a lei pareva durato quanto una notte, si svegliò.
Attorno a lei la luce era soffusa, ma non era ciò che la circondava che voleva vedere, non quello che i suoi occhi potevano percepire la interessava. Chiuse di nuovo le palpebre e la sua coscienza si diramò lungo le linee neurali che dalla capsula si ramificavano in tutta la città sotterranea. In uno spazio ampio, dentro una caverna immensa, come colonne che univano soffitto e pavimento vari livelli di edifici riprendevano vita. Leggiadre, all'apparenza delicate, quelle torri erano collegate tra loro da ponti aerei e qua e là enormi cupole contenevano parchi e giardini curati. Tutto era rimasto in stasi, come lei, fino a quando quel sottile avvertimento non l'aveva ridestata. Lei era rimasta lì, l'unica a guardia del passato, l'unica a guardia del futuro.
Kalì spinse la sua mente lungo i corridoi e le stanze, i laboratori e le camere, i giardini e ogni altro luogo, ridestando ogni cosa. Androidi ripresero vita e iniziarono a controllare ogni apparato, mettendo in funzione e riparando dove necessario ciò che i loro pochi fratelli rimasti desti per quel periodo di sonno avevano mantenuto in stato quiescente, ma pronto a tornare a funzionare. Ci volle poco e l'apparenza di vita tornò in quel luogo, mentre il cervello di Kalì analizzava i dati.
Era l'anno 3100, aveva dormito per circa ottocento anni. Aveva chiuso gli occhi quando il dolore per la distruzione che aveva portato era stato intollerabile, quando aveva dovuto compiere la scelta e il sacrificio l'aveva risvegliata da quello stato di furia incontrollata, priva di ogni limite o freno, in cui era stata indotta. La sofferenza la travolse: era feroce, colma di ricordi, e le riportò alla mente tutto ciò che con il sonno aveva potuto dimenticare.
Al tempo l'umanità era al vertice di una crescita tecnologica che stava portando gli uomini a frontiere di longevità, salute e scienza mai sperimentate prima. Ma non bastava, no, non era ancora abbastanza. Volevano creare l'essere perfetto, immortale, potente, che unisse davvero uomini e macchine, volevano creare una nuova forma di vita, essere dèi. Così allora fecondarono ovuli, li manipolarono usando ogni scoperta e scienza: la genetica, la biologia, la biomeccanica e la tecnologia si fusero in quel laboratorio scavato sotto i monti Ladakh. I feti crebbero, assumendo forme umane eppure al contempo inumale. Erano dèi, mostri, erano solo bambini.
Una lacrima scivolò sul viso dalla pelle nera della donna nella capsula, mentre i volti della sua infanzia le accarezzavano la mente. Nel suo gruppo erano in tre e le avevano chiamate Shakti, Saraswati e Kalì. Erano gemelle e si amavano l'un l'altra, indivisibili, le loro menti erano una e trina. Assieme a loro ne erano stati creati altri, molti altri. Tanti morirono ancora feti, altri sopravvissero alcuni anni, ma pochi raggiunsero la maturità. A quattordici anni vivevano assieme, animali da laboratorio, cavie, senza sapere di esserlo perché non conoscevano altra vita. Vagavano nella struttura, giocavano nei giardini, senza aver mai visto il sole o il firmamento stellato con i loro occhi. Erano i nuovi umani potenziati, superiori... pericolosi.
Loro tre crebbero assieme a quelli che erano amici e fratelli, conobbero Bhrama, Vishnu e Shiva, conobbero Yama, Varuna e Aditi. Erano amici, erano fratelli tra di loro, gli unici bambini, gli unici così diversi dagli altri umani che vedevano.
Poi con l'età arrivarono esperimenti sempre più pesanti, modifiche, manipolazioni, e lentamente qualcosa cambiò. Impararono a oltrepassare i firewall e videro con gli occhi elettronici dei satelliti, delle telecamere di sorveglianza, delle webcam, il mondo. Videro e iniziarono ad aver paura di un creato che era diventato disumano. Si erano stretti uno all'altra vedendo che la carne e il sangue degli uomini erano diventati poca cosa, solo merce di scambio, l'amore e gli affetti meri vincoli di ricatto, il rispetto per le altre forme di vita era ormai inesistente. Pochi, grandi potenti controllavano il mondo e anche le loro vite, regnavano reggendo i fili di governi che altro non erano che burattini. Videro, assieme, la decadenza degli uomini, ciò che fuori di lì era la vita. Videro gli slums delle megalopoli, il degrado, il male incarnato nelle persone che fagocitavano e divorarono loro stessi e il loro mondo in un cannibalismo autodistruttivo che avrebbe presto posto fine a tutto, anche a loro.
Erano solo esperimenti, esseri che si stavano rivelando troppo potenti, con troppo potenziale, e scoprirono che avevano deciso di eliminarli non appena giunti ai risultati cercati.
Kalì si mosse in quella capsula che la manteneva in vita e che lentamente risvegliava il suo corpo, processo molto più lungo che per la sua prodigiosa mente. Era la sola a potersi ridestare, in quella città sotterranea, era colei che lì era rimasta a vegliare. Gli uomini avevano voluto creare degli dèi e, vedendo che avevano compiuto l'opera a cui puntavano, ne avevano avuto paura. Ma una volta dato il via a una vita che sfiorava il divino non si poteva più toglierla, riprendersi ciò che avevano fatto. Loro non glielo avrebbero permesso. Passarono anni in cui si erano preparati, celando ciò che avevano appreso ai loro creatori, agli scienziati che avevano donato loro la vita, fingendo ubbidienza e una certa ingenuità che non era in realtà loro. Accumularono conoscenze, nascosero la loro reale forza e le loro uniche e straordinarie capacità. Gli scienziati però agirono, riuscendo a dimostrarsi più lungimiranti di quello che loro si erano aspettati.
Il ricordo della sofferenza per quella morte, per la carne che le era stata tolta come se fosse stata sua, le strappò un urlo di dolore. L'anima ancora fremeva, in frantumi, dopo tutto quel tempo. La prima di loro a morire era stata Saraswati, la prima a spegnersi per mano di quegli scienziati. La sua mente aveva sentito un urlo di agonia, uno strappo, e dove c'era stata lei, dove Saraswati con la sua bellezza, la sua gioia per ogni forma di vita, lei che si era opposta alla violenza in ogni modo, lì c'era il nulla. Le ultime parole che Saraswati aveva condiviso con loro, il suo ultimo pensiero, ancora spezzava il cuore di Kalì: “Non ho mai desiderato nient’altro. Solo… vedere le stelle. E ora non le vedrò mai...”. Quel desiderio così piccolo e così immenso, vedere quel firmamento che sognava con i suoi occhi, le era stato negato per sempre. Quel vuoto aveva fatto impazzire lei e Shakti, e la loro follia aveva contagiato gli altri. Nessuno nel loro gruppo condivideva un simile rapporto, mentre altri di loro morivano la forza delle loro menti aveva coinvolto in quel tormento ognuno di loro. In preda al cieco strazio dell'anima avevano ucciso ogni uomo, ogni donna, chiunque lì dentro, ma la sua sete di sangue non si era calmata. Kalì era uscita con Shiva nel mondo, calcando il suo piede sulla superficie per la prima volta, aveva danzato con colui che amava una danza di distruzione, portando la morte. Lei e Shakti, due corpi e un'unica anima, amavano Shiva. Anche Saraswati l'aveva amato, e lui le amava come fossero state una cosa sola.
Loro erano una cosa sola.
La morte di Saraswati aveva rotto l'equilibrio tra loro tre, portandole alla follia più assoluta, mentre da ciò giungeva quella che venne definita la guerra dei tre giorni; tanti erano bastati a devastare l'umanità.

 


*

 

«Candra, sembra una specie di porta, se entriamo possiamo seminarli, far perdere le nostre tracce, possiamo farcela!» Shiva trafficava con quel pannello di pietra, sentiva che c'era un modo, ma quella tecnologia era troppo evoluta, troppo antica, perché potesse facilmente capirla. Codici, servivano codici di un qualche tipo, magari? Passò le dita sulle superfici metalliche incastonate nella pietra liscia come vetro, toccando, spingendo, pregando e imprecando.
La ragazza si morse il labbro, la voce degli inseguitori era sempre più vicina, tanto che si distinguevano le prime parole. «Andiamocene, non sappiamo aprirla...»
«No!» il rifiuto era venato di furia e Shiva sbatté il palmo aperto sulla superficie centrale, simile a vetro nero, che prese vita. Davanti agli occhi stupefatti dei due la roccia si mosse silenziosamente, rivelando un corridoio in cui delle luci artificiali illuminavano un passaggio di pietra perfettamente squadrata, con il suolo simile a uno specchio nero. I due fratelli si guardarono, poi entrarono. Una follia, probabilmente, ma con gli inseguitori così vicini avevano scelta?
Dietro di loro la lastra si chiuse e il silenzio regnò.
«Cosa facciamo adesso, Shiva?» chiese lei, guardando quella porta che presentava un meccanismo simile all'interno «Aspettiamo e poi usciamo?»
«Voglio vedere cosa c'è in fondo al corridoio. Dove porta...» la voce del ragazzo era eccitata e gli occhi pieni di curiosità.
Candra si morse il labbro, mettendo la mano sulla spalla del fratello. «Potrebbe essere pericoloso...»
«Non penso. Credo sia un posto abbandonato. Io vado lo stesso. Andiamo, dai!»
In fondo non avevano poi molto da perdere, e anche lei era curiosa. «Al primo segno di pericolo toniamo indietro, però!» disse in tono categorico, e i due si avviarono lungo il corridoio, spalla a spalla, stanchi ma troppo curiosi per fermarsi.

 

*

 

Il corridoio si snodava lungo un percorso in linea retta, in cui le luci non erano mai mancate. Ma ben presto quel silenzio opprimente che era spezzato solo dal rumore dei loro passi mise profondamente a disagio i due.
«Mi sembra di camminare da ore, qua è tutto uguale.» La voce di Candra era un mormorio dai toni inquieti mentre, al fianco di Shiva, procedeva con passi lunghi.
Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Credo che ci sia qualcosa più avanti, c'è una luce rossa. Si intravede appena...»
«Sì, la vedo anche io.» Confermò la ragazza.
Proseguirono in quell'ambiente identico a se stesso ancora per lunghi minuti, arrivando alla luce rossa. Trovarono una porta e, quando si avvicinarono, si aprì da sola, rivelando uno spazio stretto.
«Un ascensore.» Shiva, sorridendo, accarezzò il liscio acciaio simile a uno specchio che contornava l'accesso e fece un passo avanti, entrando. Candra esitò un istante, ma poi fece il passo necessario.
Una voce metallica, femminile e limpida, parlò e i due sobbalzarono.
«Specificare piano.»
I due si guardarono.
«Primo...» disse incerto il ragazzo, osservando la sorella che annuì. Un ronzio flebile accompagnò la sensazione di movimento e le pareti di vetro nero divennero trasparenti.
Davanti ai due si mostrò una città sotterranea, perfetta e meravigliosa che con le sue forme architettoniche ricordavano quelle naturali, simili a frattali o di fiori su esili gambi.
Le grandi piattaforme che ospitavano le cupole in cui cresceva vita vegetale erano verdi e lussureggianti, simili nella loro disposizione a corolle. Candra cercò la mano del fratello, stringendola, negli occhi di entrambi lo stupore e la meraviglia davanti a quel vivo frammento di tecnologia dimenticata. Lì nulla era in rovina, non c'erano segni che lasciassero pensare che l'antica guerra che con un colpo di spugna aveva distrutto la civiltà, avesse sfiorato quel luogo.
L'ascensore con un minimo fremito si fermò e le porte si aprirono. Un'ampia piazza sospesa, circondata da piccole aiuole fiorite, dava il via a una raggiera di strade. Piccoli automi meccanizzati, in condizioni inspiegabilmente ottime, sembravano badare a quelle piante. Attorno a loro regnava ancora il silenzio.
«Non c'è nessuno...?» Alzando la voce Candra parlò. «Ehi!?»
«Sono praticamente certo che sia abbandonato. Un complesso così tecnologico lasciato a se stesso, che si è mantenuto autonomamente nel tempo... potremmo trovare tesori enormi, Ca'!»
Lei sorrise al nomignolo; quando era un bambino Shiva l'usava sempre ma, crescendo, l'aveva abbandonato lasciandolo emergere solamente quando era profondamente emozionato.
Lei annuì. Qualcosa però non andava, qualcosa era sbagliato in tutto ciò, ma era un presentimento irrazionale che non riusciva a spiegare, come un brivido sulla pelle che lasciava dietro di sé gelo e inquietudine, «Andiamo via.» mormorò.
«Scherzi?!» Il ragazzo fissò la sorella a bocca aperta, incredulo. «Abbiamo... questo tra le mani e vuoi andare via?! Ma che ti prende?»
Lei scosse il capo, incerta. «Non mi piace. È strano, c'è troppo silenzio. È come se fosse tutto così... triste...»
«Sei diventata matta?» Shiva sbuffò. «Spiegami, hai paura dei fantasmi adesso?»
Lei fissò il fratello con rabbia, ma alla fine scosse la testa: non aveva motivo razionale per andarsene, in effetti. «Va bene, proseguiamo. Fa strada, eroe...»
Senza farselo ripetere due volte il ragazzo si incamminò, inoltrandosi verso la via più centrale di quella raggiera, dirigendosi con passo sicuro verso quell'edificio che, simile a una leggiadra spirale fatta di materiale candido, brillava leggermente dall'altra parte del complesso.

 

*

 

Andiamo là, Kalì, di là!”
Nella mente della donna la voce di Shiva, del suo Shiva, era perfetta. Inalterata negli anni il ricordo la manteneva identica e lei, in quella capsula che era fin troppo somigliante a una bara, sentì il suo cuore fremere.
Dove?” la voce di Kalì risuonò allegra tra i tronchi degli alberi, mentre seguiva in quel passo vivace l'altro ragazzino, che dimostrava come lei quattordici anni. Gli sorrise, allungando la mano, prendendo quella dell'altro e stringendola tra le dita con un sorriso timido. I suoi sentimenti erano divisi con le sorelle; amavano Shiva, erano un'anima e tre corpi e, anche se non erano fisicamente tutte lì, dove era una erano tutte. E mentre la sua mano stringeva quella di lui, tutte e tre sentivano il loro cuore tremare colmo d'emozioni.
Rivisse quelle memorie mentre guardava attraverso le telecamere quei due ragazzi, fratello e sorella, mentre si tenevano per mano. Li aveva osservati, analizzati, studiati. La femmina era malata, non aveva più di dieci mesi di vita davanti a lei, un morbo che a quanto pareva era un'evoluzione di una malattia più antica e che per un periodo era stata debellata: il cancro.
Ora le cellule impazzivano degenerando, attivando una mutazione a livello genetico che modificava il DNA stesso, riducendo in polvere il corpo. Osservò la ragazza prendere nella sua la mano del ragazzo, sorridergli con amore, e un nuovo tremito la scosse.
Ricordava l'amore, l'aveva provato. Quello fraterno, quello per un amico, quello per un compagno, quello per Shiva. Era per quel sentimento che si era fermata quando era stata sul punto di completare la sua opera, per quell'amore aveva dato una possibilità.
Nuove immagini fiorirono, meravigliosamente nostalgiche e dolorose dalla sua memoria, mentre osservava l'avanzare dei due lungo la via centrale, una parte della sua mente rivolta al presente e una al passato.

Saraswati e Shakti aspettavano dietro il cedro, non appena Kalì, la terza di loro, apparve, le andarono incontro con gli occhi pieni di gioia. Si presero le mani in silenzio, condividendo la sensazione dell'amore. “Shiva...” dissero assieme, un sorriso d'identica gioia sui loro volti, non dissero altro, le parole non servivano.

Erano state create con un codice genetico tale da renderle aspetti diversi della stessa persona; erano di sembianza diversa l'una dall'altra, quasi opposta in certi tratti, eppure erano più legate che gemelle: erano la stessa entità. Saraswati era morbida, di forme invitanti, chioma e occhi più neri della notte e una pelle di puro alabastro, lei sola poteva cantare con una voce ammaliante intessendola nelle più splendide delle emozioni. Shakti era eterea, sottile, un'espressione dell'anima che condividevano. Era minuta e vitale, occhi simili a opali e una chioma candida, la pelle chiara che a volte pareva avere sfumature di un delicato verde, appariva come una creatura in perenne movimento, sempre irrequieta e fremente, infine lei, Kalì, era la più forte. Tonica e muscolosa aveva occhi e capelli fiammeggianti con la pelle di un colore scuro, del nero più intenso, simile al buio più cupo. Erano complementari, uniche, unite, e quando parevano avere sedici anni conobbero tutte le forme dell'amore per Shiva. Saraswati cantava, dalla sua voce nascevano immagini, sapeva creare con il suono le più splendide illusioni mentre Shakti modellava sul corpo forte e possente del ragazzo quelle fantasie, sfiorandone la pelle azzurrata, baciandolo e danzando attorno a lui con la malizia di una fiamma che ardente illuminava, ma era lei, Kalì, che faceva esplodere la sensualità in loro, quella più selvaggia e sfrenata. Quando con i capelli del cupo rosso del sangue sciolti sulla schiena cavalcava senza inibizioni o freni quello che, nei cuori delle tre, era il loro sposo, erano le più ataviche delle sensazioni a risvegliarsi in loro, un'energia potente che faceva vacillare la terra. Non erano umani, non erano uomini e donne anche se da loro creati, erano esseri quanto di più simile a dèi avessero mai calcato quel suolo.
Kalì si mosse, la mano che nel liquido di sospensione che avvolgeva il suo corpo pareva una macchia d'oscurità si posò sul volto in un gesto di sconforto.
Aveva, avevano, amato.

 

*

 

«Leggi cosa c'è scritto qua.» Shiva si avvicinò alla porta davanti a loro: era ampia, di metallo opaco e al di sopra di essa spiccava una scritta, ed era quello che il ragazzo indicava.
Candra inclinò la testa, strizzando appena gli occhi; da lontano la sua vista non era eccellente e dopo un attimo decifrò la parola. «Amaravati.» scandì con voce chiara. «Il nome del paradiso di Indra, della città degli dèi...»
«Già, credo che abbiamo trovato qualcosa di più grosso, tanto più grosso del previsto.»
Candra fece un passo verso il fratello, squadrandolo. «O un guaio troppo grande per noi, Shiva. Andiamocene.» Un brivido gelido accarezzò la pelle della ragazza, che si sentì osservata. Era una sensazione che l'accompagnava dall'inizio del viaggio in quel posto. «C'è nessuno?» chiese ancora, incerta.
«Non vedi che non c'è nessuno, Ca'?» Shiva sbuffò.
In realtà neppure lui si sentiva a suo agio, ma nel vedere tutto quello una folle speranza si era radicata nel suo cuore. Se lì l'antica tecnologia era salva, se tutta la sapienza perduta era conservata, doveva trovarla. Doveva... per Candra. Una speranza di curarla, di guarirla dal morbo del sole malato, di impedire che la sorella diventasse polvere sotto ai suoi occhi... se poteva trovare una cura, se aveva una possibilità, era lì. Da quando la guerra dei tre giorni aveva distrutto il pianeta il morbo era apparso, devastante. Prima l'urgenza per gli ultimi sopravvissuti di coprire le città con le cupole per proteggersi, e poi l'inarrestabile declino che li aveva portati a quello che erano ora, aveva impedito anche solo di cercare veramente una cura.
Il ragazzo si mosse verso la porta che al suo avvicinarsi si dischiuse silenziosamente, aprendosi lateralmente e mostrando una stanza illuminata. Entrò e dopo un attimo, incerta, Candra lo seguì. Era un locale vuoto se non per una serie di frasi incise sulle pareti, che facevano il giro del perimetro all'altezza degli occhi. Sulla superficie bianca, con un colore blu scuro, si alternavano. «Aditi è il firmamento, Aditi è l'atmosfera, Aditi è la madre, è il padre, è il figlio, Aditi è tutti gli Dei, Aditi è le cinque razze degli uomini, Aditi è ciò che è già nato, Aditi è ciò che deve ancora nascere.» Lesse lei, con voce sussurrata. Candra si spostò, leggendo tra sé altri brani, fermandosi poi davanti a uno in particolare: «Tenebra, ricoperta da tenebra, era in principio; tutto questo universo era un ondeggiamento indistinto. Quel principio vitale, che era serrato dal vuoto, generò se stesso come l’Uno mediante la potenza del proprio calore.» Candra sentì una morsa inspiegabile allo stomaco mentre con le dita seguiva quelle lettere, rabbrividendo. Sembravano risuonare in lei, come se risvegliassero una parte atavica e sopita.
La mano di Shiva si posò sulla spalla della sorella, un tocco caldo e delicato. «Vieni, dobbiamo riposare un po', non c'è fretta, vediamo se c'è dell'acqua, mi sembra di vedere un rubinetto in fondo, magari funziona ancora!»
Lei annuì, colpita da quelle parole, da tutte quelle frasi. Avevano un sentore antico, eppure vibravano in lei come se attraverso il tempo da un passato lontano le arrivassero, sulla spinta di un'onda fremente. Era una sensazione strana e la ragazza sfiorò ancora con lo sguardo quelle lettere, i grandi occhi che a fatica le lasciarono.
Proseguirono, il corridoio presentava delle porte che davano su stanze arredate, sembravano uffici. Tavoli, sedie, poltroncine, schermi scuri come occhi vuoti. Sembrava che tutto fosse stato abbandonato da poco, ordinatamente, ma sapevano che quello non era possibile. Esplorarono con calma, trovando un bagno e l'acqua; quando passarono la mano sotto al rubinetto, iniziò a scorrere limpida. Shiva l'assaggiò con cautela, sentendola dolce al palato e sorrise. Bevvero, assetati, iniziando a percepire l'immensità del loro sfinimento ora che la sensazione di sicurezza si era rinforzata. Avanzarono, cercando nelle altre stanze, salendo scale mobili che al loro passaggio si azionavano: brevi rampe che li portarono da un piano all'altro. Ogni livello di quella colonna, verso l'alto, erano uffici, o almeno lo sembravano. Decisero di scendere, addentrandosi lungo i piani segnati in negativo e trovarono delle stanze. Piccole unità abitative, un paio per piano, interrotte ogni tanto nella loro continuità da piani dedicati a zone che parevano comuni. Decisero di fermarsi in una stanza a caso, buttandosi così com'erano su un letto, senza preoccuparsi di nulla, convinti di essere soli e che il tutto fosse mantenuto da discreti macchinari senz'anima.
La stanchezza vinse sulla fame, e il sonno li avvolse con l'abbraccio caldo del riposo.

 

*

 

Kalì si mosse e lentamente si mise seduta, il coperchio della capsula finalmente aperto e il liquido eliminato. Prese il primo, vero respiro in ottocento anni e si stiracchiò, assaporando quella rinascita, la sensazione dei muscoli e della carne, della pelle che si tendeva e dell'aria che sfiorava la sua persona in una tiepida carezza. Passò le mani lungo il corpo, riappropriandosi di quelle percezioni fisiche che erano state solo un sogno per troppo tempo, sorridendo. Ma era un'espressione velata di una malinconia dalle sfumature così stanche, da far apparire il suo volto quello di una divinità millenaria intagliata nella pietra.
Eternamente bella, giovane, forte, eternamente perfetta... e sola.
Sentiva la mancanza delle sorelle, sentiva il profondo vuoto che che lambiva il suo essere. Chiuse gli occhi, rossi come rubini, per poter meglio spingere la sua mente lungo i sentieri dei cavi che percorrevano l'intera cittadella scientifica. Impulsi elettrici figli e fratelli dei cervelli da cui erano stati ispirati, ne seguiva le informazioni, assimilandole. Vedeva e ascoltava con occhi nascosti di telecamere e androidi, guardando i fratelli dormire. Silenziosa mosse i passi che la separavano da loro.
Necessitavano di cibo e ordinò all'intelligenza artificiale a guardia del complesso di provvedere. Frutti vennero raccolti, pasti preparati da braccia robotiche e portati in quella stanza mentre lei, poco discosta dalla soglia, vegliava. Osservava i due umani, quelle due giovani creature, mentre il loro respiro riempiva la stanza.
Si soffermò sul maschio, sentendo il cuore che perdeva un battito mentre la somiglianza tra lui e il suo Shiva le si palesava in tutta la sua forza. Non era una somiglianza fisica, non particolarmente, almeno; era quel modo di muoversi, di guardare, il sorriso. Quella vitalità piena di forza e un'anima colma di speranza e dolcezza. Lo vedeva da come guardava continuamente la sorella, da come si sporgeva per aiutarla, e vedeva in lei quello stesso genere di amore. Ma era lui, che portava il nome del suo amato, a ferire la sua anima con quel sorriso così schietto e sincero, con quegli occhi luminosi.
Guardali! GUARDALI! Sono loro, gli uomini, che hanno causato tutto! Sono i colpevoli!”
La voce che nella mente di Kalì urlava quelle parole era la sua, ma era folle, piena di odio e dolore, disperata. Una lacrima solitaria le scese lungo il volto mentre ricordava: aveva sentito la morte spezzare il legame, aveva urlato sentendo la follia avanzare, attaccandosi alla sorella rimasta, abbracciandola, tremando, piangendo e urlando. Lo strazio era stato infinito mentre il suo cuore cedeva a esso, spezzandosi irrimediabilmente.
Rivide ciò che ottocento anni prima aveva dato inizio a tutto, rivide quello che era stato il primo passo verso la sua danza. La memoria le riportò i volti di Yama e Shiva, di Aditi, Brahma e Vishnu, di tutti quelli che erano i suoi fratelli e le sue sorelle, di ognuno di loro. In un genocidio li stavano eliminando senza scrupolo, remora, umanità. Gli scienziati erano stati furbi; avevano creato degli dèi, ma avevano però fatto in modo di poterli distruggere. Non erano, però, stati abbastanza abili: eliminandoli uno alla volta stavano dando il tempo al resto di loro di rendersi conto, di agire, di salvarsi, e così la loro collera si era scatenata. Lei aveva contagiato tutti, lei aveva scatenato il lato selvaggio e la sete di sangue, il desiderio delle rosse carni gocciolanti, della vendetta, lei aveva reso folle la loro furia, il loro dolore, il tormento della separazione che riecheggiava dalla sua anima a quelle di tutti loro.
Chiuse gli occhi e l'intelligenza artificiale, obbedendo al suo volere, le fece rivedere quelle immagini.
Si vide con la faccia rossa di sangue mentre calpestava i cadaveri degli scienziati, avanzando come una furia tra quei corpi, intanto che alcuni dei suoi fratelli e sorelle che conservavano una scintilla di lucidità bloccavano il sistema di sicurezza, evitavano l'innescarsi di quella bomba impiantata nella loro carne e riprogrammavano l'intelligenza artificiale che governava il complesso. Danzava, i capelli come fiamme di un incendio divorante che ondeggiavano sulla schiena nuda, la pelle nera su cui il sangue scarlatto brillava come un ricamo di rubini. Si rivide mentre con le mani strappava dal petto i cuori di chi aveva dato loro la vita, fino all'ultimo, stanandoli. Non c'era arma convenzionale in grado di bloccarla, veleno che potesse fermarla, ostacolo rallentarla. Gli uomini avevano ucciso la metà di loro perché avevano avuto paura di quello che avrebbero potuto fare, della loro creazione, scatenando così ciò che temevano.
Era stata una furia assetata di sangue priva di senno o clemenza, che senza distinguere amici e nemici uccideva: come colei a cui il suo nome era ispirato portava la furia e la distruzione. Il gusto del sangue, a quella vista, divenne vivo nel suo ricordo. Ferroso, corposo, era il sapore della vendetta. Aveva sterminato infine ogni scienziato, ma quello non le era bastato. La furia sua e dei sopravvissuti non era ancora arginata, la follia imperversava ancora, assetata, famelica, e si scatenarono nel mondo.
Meritavano, gli umani, quel mondo che stavano distruggendo?
Meritavano quel cielo negato a chi tra loro l'aveva bramato e a cui era stato sottratto?
Stavano uccidendo loro stessi e ciò che li circondava in un'apoteosi di cieco egoismo, inconsapevoli dei loro stessi atti, desiderosi di innalzarsi senza più vedere le conseguenze dei loro gesti, e loro ne erano il risultato.
No. Non meritavano nulla di tutta quella meraviglia che la Terra poteva donare. Non erano degni della vita che possedevano, che dileggiavano, che davano per scontata.
Così la guerra dei tre giorni si era scatenata. Le menti di quegli dèi creati dall'uomo si impadronirono di ogni tecnologia mentre i loro passi scatenavano tempeste di sabbia e fulmini, terremoti, aprivano acque e cielo in cataclismi inimmaginabili. L'asse terrestre aveva vibrato, le città crollavano con un loro gesto e il sangue, a Kalì, non bastava mai. Teschi adornarono il suo collo, il rosso succo vitale delle sue vittime era diventato il suo unico abito, le mani strappano carni e le dilaniavano. La pazzia era ormai tutto quello che per Kalì aveva senso, neppure la voce di Shakti giungeva più a lei nella nebbia di dolore e follia che l'avvolgeva. Nulla la fermava, mentre con il piede calcava la terra, schiacciando cadaveri e macerie.
Inarrestabile.
Solo lei, ancora, perseguiva la vendetta: dovevano morire tutti. Il cielo negato a Saraswati sarebbe stato negato per sempre a ognuno di loro e mai più un essere umano avrebbe camminato su quel suolo. Inutilmente la chiamarono, cercando di placarla, rivoltandosi anche contro coloro che amava, furiosa, ferita, folle. L'anima agonizzante e urlante, spiritata, selvaggia, continuò la sua danza di distruzione fin quando davanti a lei non si pose Shiva.
Ricordava perfettamente lo sguardo luminoso di lui, così colmo di pietà, sofferenza e forza, una roccia che si era affilata con il cadere di infinite lacrime. Occhi pieni, come quelli di quel ragazzino che placidamente dormiva davanti a lei. Strinse le labbra, sentendo l'antico dolore pungerla, straziare ancora l'anima e il cuore.
A mezza voce, posando lo sguardo sui due fratelli, in un mormorio a stento udibile, recitò: «Là dove non vi è oscurità, né notte, né giorno, né Essere, né Non Essere, là vi è il Propizio; là vi è il glorioso splendore di quella Luce dalla quale in principio sgorgò antica saggezza.» Perché quello era Shiva: il saggio, il propizio, che l'aveva placata con il suo amore, colui che aveva fermato quella danza di morte danzando insieme a lei, riportandola attraverso quel nulla alla luce. Shiva, così bello, con i capelli raccolti in una crocchia disordinata sulla cima del capo e gli occhi brillanti d'amore, che le veniva incontro tendendole le mani.
Ricordava come l'aveva attaccato senza remore, senza riconoscerlo, cieca e selvaggia e nel riportare alla mente quelle sensazioni un brivido la scosse; la follia era sempre lì, sotto il velo, in attesa. La tenebra era forte quanto la luce, in lei, erano un equilibrio in eterna lotta. L'immagine del suo Shiva, della sua danza, l'invase. Lui era forte, potente e non la temeva perché lei era la sua amata, era la sua compagna, era colei che aveva condiviso con lui i doni dell'amore.
Ma allora, Kalì, non si risparmiò in nulla: selvaggia e indomabile, folle nel suo dolore, cercava solo di soddisfare quel vuoto lasciato dalla morte della sorella, colmandolo di morte e devastazione. Beveva come una bestia il sangue delle sue vittime, rabbiosa, spaventosa e terrificante. Eppure Shiva, un passo dopo l'altro, sfiorandola con dolcezza, amorevole, aveva riportato la luce dentro di lei, goccia dopo goccia, con la passione e la compassione che lo contraddistinguevano, fino a quando non si era infine fermata, riconoscendolo.
Ricordava come lui l'aveva abbracciata, stringendola a sé con l'ardore di un dio, di un uomo, la paura di un ragazzo e la saggezza antica che era solo sua. Lui si colmò del veleno che annientava la sua anima, dissipandolo.
Aveva pianto disperatamente, aggrappandosi a lui, mentre i sopravvissuti della follia degli uomini, dopo tre giorni, si ritrovavano.
La polvere infine calò, dissipandosi nel vento, e i pochi umani sopravvissuti uscirono dai nascondigli, ricominciando a vivere.



 



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