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Autore: Feynman    14/11/2015    3 recensioni
La Stazione Flaminio, a Roma, dista quattro fermate dalla stazione Termini, il centro nevralgico della mobilità sotterranea e non dell'Urbe. Erica Leone, la prima volta che vi mette piede, a Flaminio, ha dieci anni ed è sempre stata accompagnata da sua madre; ma, quel giorno, è un giorno diverso. Erica, in quel suo primo giorno di scuola, deve diventare grande e fare quelle quattro fermate senza il calore rassicurante di sua madre.
Anche il 17 ottobre di cinque anni dopo sarà ugualmente diverso, per lei.
Nella vita di Erica, entra Michela Morente e niente, da quel giorno, sarà più uguale a qualcosa.
***
Avevi gli occhi verdi.
Li ho ancora, gli occhi verdi.
Ma non verdi come quel giorno.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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II.

 

Gli anni passarono e le domeniche pomeriggio vennero raggiunte dai sabati sera, che si distesero in interi giorni e poi settimane e mesi e infine anni. Il tempo passava, in via Cesare Beccaria numero 23, all’interno 12 e 13 di quel bel palazzo che faceva tanto Torino, e invece era la caotica Roma, appena si girava l’angolo con Via Flaminia, dove fa capolinea il tram – uno dei tre ancora in circolazione.

Erica, quando Michela arrivò a Roma, frequentava il secondo anno del liceo classico, all’Ennio Quirino Visconti come voleva la tradizione della famiglia – non Leone, ma Borghese, quella della madre. Suo padre, ai tempi, aveva fatto un professionale, aveva studiato da tipografo e s’era ritrovato a lavorare dentro un cantiere edile fra le polveri e sopra i ponteggi senza protezioni. Silvio, quando arrivava la sera, faceva fatica a prendere sonno: si alzava dal letto, andava in cucina e scostava le tende della finestra del soggiorno che davano su via Beccaria e respirava in silenzio, per non svegliare la moglie e le figlie. Silvio era sempre stato un uomo ansioso, con l’obiettivo di far vivere bene la sua piccola famiglia, voleva la tranquillità che i suoi genitori non erano mai riusciti ad assicurargli e Silvio era cresciuto ansioso, abituato ad alzarsi dal letto e a respirare in silenzio, per non svegliare i suoi.

Teresa Borghese aveva frequentato il liceo classico, si era laureata in Lettere Antiche ed era diventata insegnante di greco nello stesso liceo. 

Teresa s’era innamorata di Silvio per caso, come si innamorano sempre tutti: in gita di piacere con la sua compagnia universitaria di culi incipriati e palloni gonfiati, in uno di quei paesi al nord della Capitale, dall’aria bucolica e oraziana. Silvio stava al bar, con i compagni di una vita, e il caso volle che non fosse andato all’Olimpico per la partita della Roma. Silvio, da giovane, era bello con il suo metro e novanta d’altezza, i capelli lunghi fino alle spalle e le mani grandi e rovinate. Teresa, nel suo diario del 1987, scrisse che aveva visto Alessandro Magno in un remoto paese e che il suo Efestione aveva passato il pomeriggio a fare il filo a Monica, come solo i “galli ruspanti” sapevano fare.

Monica, l’Efestione di Silvio l’aveva mollato dopo poco, mentre Teresa con il suo Alessandro ci si era sposata – dopo tre anni di fidanzamento a confine tra Roma e Bucolic City.

Nel 1990, Teresa Borghese e Silvio Leone convolavano a nozze nel paese di nascita di Silvio, ma sarebbero andati ad abitare a Roma, nell’appartamento che Gianluigi Borghese aveva comprato alla figlia. Nel 1993 sarebbe Selene e nel 1996 l’avrebbe seguita Erica, un piccolo batuffolo avvolto nel rosa e tremante dal freddo. Erica si era annunciata da sola, con uno dei pianti più poderosi che Silvio ebbe mai la possibilità di sentire. Scalciò incredibilmente quando il dottore la prese in braccio e l’affidò alle cure delle infermiere.

«È normale che faccia così?» chiese preoccupato Silvio già dimentico, dopo soli tre anni, che anche Selene salutò il mondo allo stesso modo.

Il dottore l’aveva guardato con sufficienza, aveva guardato Teresa e le aveva detto, bonariamente: «Tranquillizzi suo marito e gli dica che è così che andrà per i prossimi nove mesi».

Teresa aveva sorriso e aveva preso la mano di Silvio fra le sue.

 

Erica, dopo aver annunciato al mondo la sua presenza, non pianse mai più.

Non pianse quando i suoi nonni morirono, non pianse quando si ritrovò a un passo dalla bocciatura al secondo anno, non pianse quando si accorse che sua madre e suo padre erano in crisi per colpa del lavoro di Silvio. Non pianse quando sua sorella smise di tornare a casa alle due del pomeriggio, né quando non l’aiutò più con i compiti di greco perché aveva altro a cui pensare.

Erica non pianse perché al suo fianco c’era sempre Michela Morente, i gemelli e l’intera famiglia di Michela. Non pianse, Erica perché sapeva che Marianna l’avrebbe sempre accolta a braccia aperte con una tazza di tè pronta per lei, un orecchio amico che sarebbe stato in grado di ascoltare. A casa Morente, nell’interno 13/B, non c’erano urla e piatti lanciati e porte sbattute. Al 13/B c’era la pace, le chiacchiere conviviali, i sorrisi leggeri ed educati. Al 13/B c’era Milano, mentre al 12/B c’era Roma ed Erica l’odiava.

Teresa Borghese accettò il fatto che la figlia minore scappasse da casa sua – così come lo aveva accettato per la maggiore. Teresa strinse i denti e cercò in tutti i modi di mantenere in piedi quella famiglia in cui certe volte non credeva nemmeno lei. Non lo faceva per Erica e Selene; lo faceva per quella ragazza del 1987 che si era innamorata di Alessandro Magno e in nome di quella testardaggine mediterranea che l’aveva fatta sopravvivere a cinque anni di lettere classiche. Teresa combatteva per se stessa, quando Silvio tornava a casa nervoso per il lavoro e stanco morto dopo aver rischiato la morte anche quel giorno. Silvio le rimproverava silenziosamente di essere una borghese con il padre fascista e Teresa gli urlava contro che il padre fascista gli aveva dato un tetto sopra la testa e che, se fosse stato per lui, sarebbero vissuti in quel paese grande quanto il cesso di un russo bolscevico dei soviet. E Silvio s’incazzava e gridava. E Teresa faceva altrettanto. Ed Erica era chiusa in camera sua, con il vocabolario di greco aperto, che faticava a distinguere una lettera dall’altra, una frase dall’altra, una vita dall’altra. Passava quei momenti a chiedersi come si vivesse a Milano, dove tutto era ordinato, educato, preciso e funzionante. Lì, sicuramente, la gente non si urlava addosso e i piatti non volavano e i genitori non si mandavano a farsi fottere uno con l’altro e i vicini non parlavano di loro e lei non veniva adocchiata come la povera vittima in mezzo a due pazzi scriteriati.

Erica odiava Roma e tutto quello che portava.

A Milano c’era il lavoro.

Milano era il Nord.

Il Nord funziona bene, dicono tutti.

Milano non è Roma, si dice, e forse è un bene che non lo sia perché lei sarebbe andata a Milano, sarebbe fuggita da quella Roma che avvelenava gli animi e uccideva suo padre e strozzava sua madre.

 

A Milano non c’è il Teatro Marcello.

A Milano non c’è il Colosseo, il Circo Massimo, piazza di Spagna, Largo Argentina.

A Milano non ce l’hanno Campo de’ Fiori. A Milano non c’è la statua di Giordano Bruno, i gatti randagi fra le rovine, le vecchiette fuori le porte, i vicoli bui e via della Conciliazione.

A Milano non c’è Roma.

 

A Milano non c’era Roma; ed ecco perché Erica non sarebbe mai fuggita. Ecco perché quella quindicenne con gli occhiali spessi, con il libro da leggere nello zaino e i soldi nel portafoglio non avrebbe mai comprato un biglietto per vedere Milano, per fuggire da quel caos sporco e da quel rumore di piatti infranti.

La sua Milano era casa Morente e a lei bastava.

In casa Morente si mangiava il sushi e il kebab, si beveva il tè nero e la coca-cola. Casa Morente era buddhista e cattolica, agnostica e islamica. Si parlava di Marx e si ricordava il Duce, si venerava Newton e si leggeva Nostradamus. Casa Morente era cosmopolita e bucolica.

 

«L’hai fatta la versione di Sallustio?».

Erica sbatté gli occhi e distolse lo sguardo dalla finestra, portandolo su Michela, seduta accanto a lei, nella cucina di casa sua. Teresa era uscita mezz’ora prima, per andare a fare la spesa, di Selene non c’era ombra da quella mattina alle sei.

«Non è per giovedì?».

«E tu vorresti farmi credere che ancora non l’hai fatta?» rispose l’altra, maliziosamente e con il sopracciglio nero arcuato verso l’alto. Erica l’aveva fatta la versione, ma non sapeva se passarla o meno a Michela. La ragazzina c’aveva messo ben poco a capire che la coetanea dirimpettaia, che dimostrava dieci anni per colpa di quegli occhi scuri troppo limpidi, era la classica ragazzina che studiava tanto, che amava farlo perché piangeva dietro alle storie raccontate dai tragediografi greci e rideva di gusto con le commedie dei latini. Michela la sfruttava ed Erica se ne rendeva conto, ma amava la sua voce, il suo naso che puntava all’alto, gli occhi verdi di malizia e le labbra rosa e disegnate. Erica la sognava di notte e si sentiva strana, quando succedeva. Erica si svegliava di soprassalto e respirava in silenzio, per paura che sua madre la potesse sentire – che Michela potesse sentirla, oltre le pareti, oltre le scale, oltre il pianerottolo. Erica sognava le dolci forme di donna di Michela e si scoprì, un po’ alla volta, e si toccò, un po’ alla volta, immaginando che fosse Michela a farlo con le sue mani, che le punte dei capelli che le sfioravano i capezzoli scoperti fossero neri e che le luci che vedeva, alla fine, fossero i suoi occhi.

 

«Perché mi guardi così?».

«Non ti sto guardando in nessun modo» le rispose, in fretta, Erica. Prese il quaderno dallo zaino e glielo passò, con noncuranza. «L’ultima versione è quella del Bellum Iughurtinum. Ti consiglio di cambiare qualche parola, altrimenti è troppo palese».

Michela sbuffò. «Ovviamente lo avrei fatto, Ery. Non è la prima volta che mi faccio passare una versione». E la guardava con malizia, mentre glielo diceva, si scostava i capelli dal collo e continuava a guardarla mentre si umettava le labbra con la punta della lingua. Erica deglutiva la saliva, la gola era carta abrasiva e il fiato era fuoco. Michela sapeva, si diceva in quei momenti. Michela sospettava e la stava punendo, altrimenti non avrebbe mai fatto così. Michela non era amica sua, altrimenti non l’avrebbe torturata con la cosa che desiderava di più.

Michela era una puttana, a soli diciotto anni. Tutti lo sapevano, tutti lo dicevano. Michela aveva aperto le gambe la prima volta che era piombata fra le mura del Quirino Visconti, con i capelli intrecciati e la gonna ad altezza ginocchio. Erica, alle spalle, l’aveva osservata ancheggiare e l’aveva invidiata perché lei non c’era mai riuscita. Erano passati due anni, da quel primo giorno di scuola di metà ottobre ed Erica era cresciuta.

Portava ancora gli occhiali, aveva salutato con gioia l’avvento delle felpe nel suo armadio, dei jeans larghi e sformati, dei capelli rasati sopra l’orecchio sinistro e quel tatuaggio che si è fatta di nascosto con Michela, la scorsa estate.

Erica continuava a stare con Michela per colpa del 13/B e dell’aria che respirava all’interno. Teresa aveva lasciato Silvio, in quei due anni. La casa era la sua e lui era tornato a vivere al suo paese, con la nomina di “cornuto” e tutti lo prendevano per il culo alle spalle, mentre gli aprivano la porta di casa e ascoltavano le sue prediche da troppa birra. Il padre, in quei due anni, s’era lasciato andare ed era completamente sparito dalle loro vite. Selene aveva fatto lo stesso. Teresa non aveva pianto, ma aveva continuato a correggere le sue versioni.

«Cristiano mi ha chiesto di uscire, sabato».

Erica sorrise, alzando amaramente un lato della bocca e stirando le labbra. «Sabato dovevamo andare al cinema».

L’altra sbuffò, come suo solito, mentre raccoglieva le sue cose e le infilava nello zaino. «Ti avevo detto che non ne ero sicura, se ti ricordi».

«Io mi ricordo, Michela. E mi ricordo che mi avevi promesso una serata al cinema, solo io e te».

«Erica!» esclamò duramente Michela, interrompendosi e guardandola negli occhi, «non iniziare a cagare il cazzo con la storia del cinema, del “solo tu ed io” perché, giuro, stavolta mi incazzo».

«Ah, tu ti incazzi?» disse Erica, quasi urlando e puntandole l’indice contro. «Io mi dovrei incazzare, che stai sempre con quella troia di Giada e io vengo usata solo per le versioni, le interrogazioni e qualsiasi altra cosa di poco conto per te!».

«Non osare dirmi una cosa del genere, Erica! Lo sai che è una cazzata! Lo sai anche tu, mentre lo dici». Michela mulinò di nuovo i capelli, che le finirono dietro una spalla.

Erica aveva fatto il giro del tavolo, le stava addosso. Le aveva messo le mani sulle spalle e tentava di guardarla negli occhi, anche se una goccia di sudore freddo le stava facendo bruciare quello destro. Sentiva il cuore battere forte, le ciglia fremere e il respiro accelerato di Michela sulle guance e poi la lingua di Michela che umettava le labbra, quegli occhi pieni di malizia da puttana del Settecento con la voce roca e il seno imbellettato.

Tutti avevano toccato Michela, tutti l’avevano avuta e nessuno l’aveva amata.

Lei, invece, Michela l’aveva venerata da lontano, amata, confortata e aiutata nei momenti di bisogno, quando lo stronzo di turno aveva smesso di giocarci e lei che pensava fosse il vero amore c’era rimasta di merda. Erica c’era sempre per Michela, mentre Michela l’abbandonava sempre solo perché non aveva un pene fra le gambe.

Erica le aveva stretto le spalle e doveva averle fatto male, perché Michela aprì la bocca ed Erica non ci capì più niente se non che l’aveva baciata, che sentiva la sua lingua sul palato e che giocava con la sua. Le mani aperte di Michela sulla sua schiena e una gamba fra le sue, prepotente, a sfregarle il sesso e a costringerla a respirare a bocca aperta.

Michela sapeva farci, che fosse uomo o donna.

Erica non sapeva cosa fosse, ma lo faceva bene.

Michela portò una sua mano sul petto di Erica, lo prese forte, le sfregò il capezzolo già ritto sotto il reggiseno.

Poi, il cellulare suonò forte e la voce di Nicki Minaj si espanse prepotente. Michela si scostò, con ancora un filo di saliva ad unire le loro bocche. I suoi occhi verdi non avevano più malizia, le sue guance erano arrossate, le sue mani ancora strette addosso a Erica e poi tutto le piombò addosso.

«Non toccarmi!».

«Eri tu che stavi…».

«Non osare… lesbica!».

«Se doveva essere un insulto-».

«Mi fai schifo!».

E Michela sputò.

E il mondo finì.

E la porta sbatté.

Ed Erica morì.

Un giorno.

Due giorni.

Un mese.

Sei mesi.

Un anno.

 

Quegli occhi verdi nascondevano il balsamo per eludere i sogni – Luis Sepúlveda, Diario di un killer sentimentale

   
 
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