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Autore: Feynman    31/10/2015    4 recensioni
La Stazione Flaminio, a Roma, dista quattro fermate dalla stazione Termini, il centro nevralgico della mobilità sotterranea e non dell'Urbe. Erica Leone, la prima volta che vi mette piede, a Flaminio, ha dieci anni ed è sempre stata accompagnata da sua madre; ma, quel giorno, è un giorno diverso. Erica, in quel suo primo giorno di scuola, deve diventare grande e fare quelle quattro fermate senza il calore rassicurante di sua madre.
Anche il 17 ottobre di cinque anni dopo sarà ugualmente diverso, per lei.
Nella vita di Erica, entra Michela Morente e niente, da quel giorno, sarà più uguale a qualcosa.
***
Avevi gli occhi verdi.
Li ho ancora, gli occhi verdi.
Ma non verdi come quel giorno.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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1

I.

 

 

Roma è distorta, quando piove.

Le pozzanghere, a terra, si accumulano ai lati delle strade trafficate, sopra i marciapiedi, sulle soglie dei negozi, alle uscite della metropolitana. Roma, quando piove è triste perché si vede nera e non si ama, perché i suoi amanti non la possono ammirare, coperti dagli ombrelli e con lo sguardo basso. Roma, con il sole, è una donna piacente, vanitosa, egocentrica; ma con la pioggia, si mostra per quella che è davvero: caotica, disorganizzata, capricciosa, distorta.

Roma non vuole bene ai suoi amanti quando piove, ecco perché si concede le ottobrate, l’estate di San Martino, la fredda tramontana che porta il sole e pulisce il cielo, le tiepide giornate di febbraio e la primavera anticipata – ogni anno sempre un po’ di più.

Il nove ottobre del duemilaquindici, a Roma pioveva e i vagoni della metropolitana erano stati presi d’assalto dai turisti, dai lavoratori che rientravano a casa, dagli adolescenti che avevano deciso di rimanere in giro, a cazzeggiare, per godersi quella bella giornata.

 La banchina della stazione Termini, centro nevralgico e nodo importantissimo – vitale – per la viabilità romana sotterranea, era gremita di persone come suo solito. Persone che, dall’alto del loro qualunquismo che le indentifica come “massa”, ignorano il concetto di curva gaussiana e distribuzione uniforme che permetterebbe loro di viaggiare più comodi e senza sovraccaricarsi di stress inutili.

Erica deve fare solo quattro fermate di metro A – direzione Battistini – prima di affermare con sicurezza di stare tornando a casa. Erica era pendolare dal lontano 2005, quando il mondo era ancora normale, aveva meno cicatrici e il venerdì non era giorno di sciopero. Erica se li ricorda bene quei tempi, quando sua madre la mise, per la prima volta, su un vagone della metropolitana e le disse di scendere dopo quattro fermate, che la strada la conosceva perché l’avevano fatta tante di quelle volte assieme che è impossibile, Erica, che non te la ricordi e non piangere – ti prego – perché ormai sei grande ed è quello che le ragazze grandi fanno: viaggiare da sole, fare attenzione ai pazzi che parlano al cielo, agli uomini – tutti, qualsiasi età abbiano, Erica, non avvicinarti mai ad un uomo – e ai disegnatori sui marciapiedi, quelli che incontra mentre corre su Via del Corso, per tornare a casa.

Sono passati dieci anni, ormai ed Erica ha visto l’espansione della linea della metro B, gli scioperi degli autisti, i controsoffitti crollati delle stazioni, gli incidenti e l’intera metropolitana bloccata. Erica, ormai, viaggia da dieci anni e il suo sguardo è appannato, spento dalla consuetudine del percorso, dalla mono-tonicità della gente. Vaccinata alla calca dei turisti, alla lentezza dei turisti, all’impiccio per la viabilità pedonale dei trolley; Erica non guarda più in viso nessuno ma osserva il suo cellulare, mentre digita messaggi alla velocità della luce – no, mai così veloce perché è impossibile – o legge febbrilmente sul suo e-reader. Erica, la metropolitana, quelle quattro fermate, le persone su quei cinque vagoni le conosce a memoria perché sono le stesse da dieci anni. I turisti cambiano, ma Roma è sempre quella – la metropolitana, la curva di Gauss e la distribuzione uniforme sono sempre loro.

Erica non si stupisce più se viene rubato il portafoglio a una signora innocente, non si indigna se il vigilante le risponde che non può farci niente lui perché mica c’ha l’occhi sulla capoccia, eccheccazzo.

Non fa più caso agli sguardi ambigui del cinquantenne con la moglie a casa, che lo aspetta, tre figlie di buona famiglia sedute su un sofà di pelle bianco e un iPad fra le mani, a guardare Peppa Pig. Erica non si chiede a quale fermata sia arrivata perché sa che, dopo otto minuti e venticinque secondi è il suo turno di scendere dalla metropolitana. Si avvicina alla porta, scosta i turisti aggrappati al pilone centrale, evita la signora in tailleur e tacco alto dall’equilibrio precario e si avvicina alla porta scorrevole.

Erica, però, fa il Grande Sbaglio.

Erica si pente solo quando si renderà conto di essere arrivata a Ottaviano e di aver mancato la sua fermata.

Erica si darà della stupida.

Erica ha alzato la testa e ha incontrato due laghi verdi, come quello della serie che sua nonna segue in televisione – quella con il prete che nel tempo libero fa la guardia forestale.

Erica alza lo sguardo dal pavimento in linoleum, tra Spagna e Flaminio e la sua vita cambia improvvisamente – per la seconda volta –, a quasi vent’anni, quando pensava che tutto quello che doveva vedere lo aveva visto in quei dieci anni trascorsi in bilico fra metro A e metro B, fra autobus in ritardo, tram datati e strade affollate di turisti affamati di pseudo-storia.

Erica, quello sguardo lo conosce perché c’ha vissuto insieme un terzo della vita. Davanti a quegli occhi le sembra di sentire il ritorno della sua parte mancante, quella che prude sempre se ripensa al passato, quella che le fa riempire la bocca di bile acida, quella che le urla nelle orecchie che è ancora troppo giovane per avere gli occhi appannati e la noia sulle spalle. Dopo tutti quegli anni, Erica si era sempre detta fortunata di non averla incontrata sullo stesso tragitto che, a quindici anni, erano solite fare assieme, quasi mano nella mano, quasi una con la testa sulla spalla dell’altra. Quasi.

Michela aveva gli stessi occhi verdi che Erica ricordava, i capelli – adesso molto più lunghi – le ciglia nere e arcuate verso l’alto, le mani sottili e i polsi gentili. Michela teneva le gambe accavallate, seduta nel vagone della metropolitana e in procinto di alzarsi, e teneva gli occhi puntati su di lei.

Erica deglutì il vuoto. La lingua schioccò, nel silenzio della sua bocca, contro il palato e il corpo ebbe il riflesso di agganciarsi al supporto accanto alla porta, per non cadere a terra. Michela la guarda e gli occhi di Erica cercavano, febbrili, i dettagli di quell’adolescenza perduta, sregolata, distorta che le aveva accomunate alla loro città, quando amavano viverla quasi mano nella mano. Quasi testa contro spalla.

La metropolitana si ferma, Michela le passa accanto e non alza la testa. Erica si scuote quando un uomo, alle sue spalle, le dice di muoversi a scendere o di levarsi di mezzo, che non ha tempo da perdere ed Erica scende e quasi cade in avanti, contro una signora che riesce a sostenerla e le chiede se va tutto bene.

Gentile, pensa Erica e vede la sottile figura di Michela sparire tra la gente. La vede svoltare a destra, verso l’uscita e la immagina prendere l’uscita a un passo da Piazza del Popolo, fuori tra le persone, con la camminata ancheggiante farsi spazio, attraversare la strada e sparire.

Erica si scosta, prende la borsa da terra, ringrazia la signora e si rende conto che il tempo, con Michela di nuovo al fianco, si è dilatato. Erica vorrebbe piangere, vorrebbe rincorrerla e sperare che non sia troppo tardi. Erica vorrebbe tante cose, perché è passato un solo anno e anche se Michela le ha detto di no, anche se Michela è fuggita spaventata da casa sua, anche se Michela la odia, da quel giorno – da quel maledetto giorno in cui…

Anche Erica si odia.

Erica si odia da 363 giorni, 5 ore e 22 minuti. Erica si odia, mentre la metropolitana scappa via nell’oscurità del tunnel. Erica piange, quando alza lo sguardo e legge “Ottaviano”, invece che Flaminio. Erica bestemmia contro Michela, contro quella ragazza che le assomigliava così tanto ma che non era lei, perché Michela sarebbe scesa a Flaminio e avrebbe attraversato il piazzale e poi costeggiato via Flaminia e poi svoltato per via Cesare Beccaria e poi…

La odia perché non aveva gli occhi di Michela, ma lei se li era immaginati. Erica piange e si chiede quando smetterà di fare male, con i pugni chiusi contro il rivestimento in marmo della fermata, le lacrime a terra e quelle due spesse righe di matita e rimmel a rigarle il volto, realizza che non smetterà mai di fare male perché Michela le ha tenuto la mano. Perché Erica ha poggiato la testa sulla spalla di Michela. Perché Erica l’ha baciata e Michela le ha sputato sul viso e non ha potuto far altro che pensare a quanto Michela fosse bella anche mentre la uccideva.

 

 

 

 

Il primo concerto al quale andarono assieme, fu uno di Fedez, perché a Michela piaceva. Michela ascoltava di tutto e quel suo mp3 scassato era pieno di quella particolare musica che Erica classificava come immondizia. Michela ascoltava solo ciò che la stimolava a scrivere, solo quello che le permetteva di esprimersi e, incredibilmente, annoverava anche il rapper, o Nicki Minaj che all’altra sembrava solo casino controllato da un paio di sintetizzatori.

Erica amava la musica classica, l’ordine matematico di note una dietro l’altra, in un pentagramma calibrato. Erica era di Bach, mentre Michela era dell’elettronica, disco music anni ’80 e tanta pazzia incoerente con se stessa. Michela amava andare in discoteca e ballare in mezzo alla pista, scuotere il sedere contro il bacino di qualche sconosciuto e schiaffeggiarlo, poi, quando quest’ultimo le avrebbe messo le mani sui fianchi e chiamata “troia”, perché Michela voleva solo ballare e divertirsi, non farsi ingravidare nel bagno qualunque di una qualunque discoteca in un sabato qualunque – un sabato italiano.

 

Erica, mentre Michela ballava, stava di lato, seduta ai divanetti, stretta in un vestito che non era il suo e si arrotolava, agitata, le punte dei capelli e li mordeva non sapendo cosa altro fare. Erica s’annoiava nelle discoteche, ne usciva con il mal di testa e per passare il tempo fumava sempre troppo e vomitava la pizza, perché le Marlboro le avevano dato alla testa troppo in fretta.

 

 Fretta di cosa, poi? Fretta di crescere e di farsi vedere dagli altri – dagli altri chi? – dal mondo, dalla vita che era una bastarda perché le aveva fatto spuntare un brufolo proprio quando Matteo l’aveva salutata.

 

Erica lo aveva capito subito che Michela sarebbe stata il suo grande problema, quando l’aveva vista la prima volta. Erica l’aveva capito, nel lontano 2010, quando Michela era arrivata con la macchina dei suoi – una Mercedes, ma allora lo ignorava – ed era scesa con il suo bel vestitino a fiori che le nascondeva le prime forme da adolescente, con due trecce che le scendevano lungo il busto e le davano quell’aria di finta innocenza che le dava ai nervi. Michela aveva i capelli neri e gli occhi verdi. Michela sembrava uscita da un libro di favole dei fratelli Grimm ed era uno di quei personaggi belli che, alla fine della storia, avrebbe ucciso tutti quanti, con il sorriso sulle labbra rosa e morbide.

Nonostante abitasse a Roma, nel quasi centro, in via Cesare Beccaria, a due passi dalla stazione di piazzale Flaminio, ogni condominio era un piccolo paese a sé stante e tutti vociferavano dell’arrivo dei nuovi inquilini del terzo piano, di Milano, lui banchiere e lei giornalista, coi due figli piccoli e una figlia di quattordici/quindici anni. L’amministratore del condominio, il dott. Greschi, era così contento del fatto che avrebbero ospitato un nuovo nucleo famigliare unito e sano e cattolicamente eterosessuale – non come gli inquilini del quinto piano. Michela era fintamente innocente, Claudio Morente era ignotamente bisessuale, Marianna Cresciulo era paranoica e nevrotica, i gemelli erano completamente diversi dai genitori e dalla sorella. Erano come la città in cui si stavano trasferendo; erano come Roma perché erano imbarazzanti, scostanti, allegri e solari. Erano irriverenti e avevano solo dodici anni. Erano l’incubo di tutti e il sogno di Erica.

I Morente arrivarono di domenica, a Roma. Il giorno peggiore in cui potessero arrivare. Erano abituati all’ordine metodico di Milano, al traffico intelligente, alla vita tranquilla di una metropoli nordica ed elegante. Giunsero a Roma e Michela capì che non era mai stata fatta per l’ordine e che Roma, in quaranta minuti di traffico, le era già entrata nel cuore con quel suo sole caldo e il venticello gentile che proveniva dal Tevere.

Erica era convinta che Milano le sarebbe piaciuta. Erica era sempre stata diversa dai suoi genitori tipicamente romani, da sua sorella così espansiva e libera. Erica era una sinfonia di Bach: noiosa per i più, sublime per gli intenditori e vecchia per i ribelli. Erica era vecchia già appena nata, nonostante fosse nata il 29 febbraio del 1996. Era sempre stata piccola, confronto ai suoi compagni di classe. Capelli rossicci e marroncini, occhi piccoli e coperti da un paio di occhiali da vista troppo grandi per il suo viso, bocca dalle labbra troppo carnose e una pelle troppo pallida per risultare affascinante. Aveva sempre avuto il profilo perfetto per la ragazzina rapita e la madre, a dieci anni, decise di farla salire da sola sulla metropolitana ed Erica ha sempre pensato che desiderasse che la rapissero, per sbarazzarsi di lei e di quella sua diversità scomoda, troppo intelligente, troppo appariscente per una ragazzina di dieci anni che avrebbe dovuto correre dietro le foglie rosse degli ippocastani.

 

Raccontami una storia.

 

Il dottor Greschi, assieme alla sua famiglia, era sulla soglia del palazzo ad attendere la nuova famiglia. Indossava un maglioncino color carta da zucchero, sotto aveva una camicia bianca con il colletto perfettamente stirato e la riga dei capelli neri tendeva verso sinistra, sopra le rughe d’espressione della fronte. Sua moglie, Maria Greschi, aveva passato l’ultima ora a lisciarsi la gonna di ciniglia color verde bottiglia, lunga fino al ginocchio e si era sistemata il maglioncino color crema e il filo di pelle agganciato al collo. I suoi due figli – Augusto e Cesare – sostavano dietro le sue spalle, uno a destra e uno a sinistra, con i capelli ben pettinati, le scarpe lucide e le camicie stirate. I Greschi, erano una di quelle famiglie appena arrivate con una DeLorean dal 1960. Erano atterrati in via Cesare Beccaria giusto per un inconveniente tecnico ma tutti sapevano che non sarebbero ripartiti così presto.

Claudio era bello, ma Erica quando lo vide pensò che fosse una cosa sul momento, causata dalla novità che rappresentava, ma anche Marianna, quando scese dalla macchina, era bella come l’estate e Michela sembrava gelida e ingannatrice come l’inverno, i gemelli erano le rappresentazioni umane di Febo.

I Morente, nonostante il cognome, erano belli ed Erica s’innamorò di tutti loro, quando li vide sul suo stesso pianerottolo, davanti all’appartamento 13/B, mentre scaricavano le valigie dall’ascensore.

Il padre di Michela, aveva luminosi occhi azzurri ed il colore dei capelli era molto simile al suo – forse più ramato, che marrone – mentre Marianna aveva i capelli neri e lunghi, come quelli della ragazzina dietro di lei, alta e longilinea, con gli occhi verdi e le labbra strette in un’espressione di fastidio.

Era domenica e la madre di Erica l’aveva mandata a comprare le paste, come sempre. Il sole di inizio autunno entrava dalle finestre sulla tromba delle scale e mitigava il classico freddo che faceva sui pianerottoli. Il civico 23 di via Cesare Beccaria, era stato costruito nel classico stile della tarda Art Noveau, che accomunava quel quartiere con i Parioli, con Viale Buenos Aires e tanti altri sparsi per l’intera città. Il dottor Greschi arrivò, ansimando, dalle scale e si accorse solo dopo della muta presenza di Erica sul pianerottolo.

«Buongiorno, Erica. La mamma ti manda a comprare i bignè anche oggi?».

L’altro gruppo, dal lato opposto del pianerottolo, aveva iniziato a osservarla con sguardi di curiosità. Marianna le sorrideva e i gemelli avevano smesso di rincorrersi e di farsi i dispetti. Claudio stava solo aspettando il Greschi per aprire il loro nuovo appartamento, mentre Michela se ne stava lì, appoggiata all’intonaco immacolato e la fissava.

 

Avevi gli occhi verdi.

Li ho ancora, gli occhi verdi.

Ma non verdi come quel giorno.

 

Sua madre, Teresa, aprì la porta del loro appartamento e fece perdere l’equilibrio alla piccola e occhialuta Erica che, per miracolo, riuscì a non cadere dalle scale.

«Erica ancora non…- buongiorno Tommaso! Come mai sei salito ai piani alti?».

Teresa, una donna tipicamente mediterranea, dai capelli castano scuro e gli occhi color castagna, con una presenza solare e per il dottor Greschi estremamente molesta, dato il suo modo sempre fantasioso di imprecare, varcò la soglia dell’appartamento e calamitò l’attenzione di tutti, ai danni del Greschi che tentava di svicolare.

«Piacere, Teresa Borghese. Sono la madre di Erica e – Silvio?! Silvio vieni: ci sono i nuovi vicini!» urlò all’interno dell’appartamento, battendo contemporaneamente sulla porta. «Scusate tanto ma, sapete, c’è la partita della Roma» si giustificò, portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro.

L’uomo, dopo un paio d’imprecazioni non sufficientemente ingoiate, raggiunse il corridoio e l’uscita, ponendosi alle spalle della moglie che sovrastava di una ventina di centimetri.

«Silvio Leoni» si presentò, uscendo dall’appartamento e invadendo con il suo metro e novanta, il pianerottolo del quarto piano. «Spero che vi… - cazzo, goooool!». Silvio rientrò, di corsa, nell’appartamento. Teresa si voltò imbarazzata, ridacchiò nervosamente, fece gli ultimi saluti e rientrò violentemente in casa. Si sentì un rumore di porcellana rotta.

Erica, intanto, era rimasta bloccata sul pianerottolo non sapendo bene cosa ci si aspettasse da lei. La madre, al suo rientro, non avrebbe mangiato i bignè perché sarebbe stata incazzata con suo marito. Suo padre lo avrebbe ritrovato ancora sul divano a guardare la partita e lei si sarebbe ritrovata fra i due, senza nemmeno sua sorella come supporto, visto che era andata a Bomarzo, con il “fidanzato dell’inverno”.

«Bene» disse Tommaso Greschi, sbattendo le mani fra loro. «Credo che possiamo entrare, per vedere se è tutto a posto».

L’amministratore del condominio, però, venne interrotto di nuovo dal rumore della porta del 12/B, da cui ne uscirono Silvio Leone con la testa china e una battagliera Teresa Borghese, con le mani sui fianchi.

«Saremo felici» iniziò Silvio, «se poi, nel pomeriggio, voleste passare per un caffè, un tè, un amaro, una birra…».

«Non devi fare l’elenco delle cose che abbiamo, cretino» gli bisbigliò Teresa, alle spalle.

«Sì, insomma… qualsiasi cosa» e sorrise, per farlo sembrare un invito più allettante.

Marianna attraversò il lato neutro del pianerottolo e tese la mano verso Teresa: «Anche mio marito fa le stesse cose, non si preoccupi. Saremo più che felici di passare, più tardi».

Claudio portò una mano dietro la nuca e si grattò la testa, colpevole. «Anche se non con il calcio, ma con il rugby. Una birra me la farei volentieri, dopo tutte queste valigie».

Silvio gli sorrise, di rimando e batté il pugno sul palmo aperto dell’altra mano: «Verso le cinque?».

«Sarà ottimo» gli rispose Morente.

«Erica, fa’ in fretta con quelle paste, mi raccomando».

 

Ancora non ci credevi.

Non ci ho mai creduto: è diverso.

 

Erica riprese il controllo di sé, annuì con forza e prese a scendere, di corsa, le scale reggendosi al corrimano di ferro che le grattava la pelle del palmo.

 

   
 
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