Liam
Il lieve russare del mio
vicino di poltrona, le gentili parole sussurrate dalla hostess ad un
anziano
signore che voleva un'altra tazza di caffè, il rombo in
sottofondo del motore
dell'aereo che stava sorvolando la costa orientale in quella notte
limpida e
serena.
Questa era la colonna sonora
dei miei pensieri. Non viaggiavo in economy class da almeno dieci anni
e mi
sentivo oppresso dalla vicinanza dei sedili, dalla mancanza di spazio e
dal
servizio approssimativo e casereccio.
Per cena mi avevano offerto
delle polpette con sugo. Non mangiavo polpette dai tempi della mia
infanzia,
quando Nonna May ne cucinava a montagne per la gioia dei suoi mille
nipotini.
Avevo tentato ogni strada per
riuscire ad accaparrarmi un biglietto in business class: dalla voce
grossa alla
seduzione, dalle minacce all'abbindolamento.
Nulla.
Ero stato schiaffato su un
sedile consunto della seconda classe, posto senza finestrino, tra un
uomo obeso
di cinquant'anni che tendeva a invadere il mio spazio vitale con la sua
ciccia
e una petulante bambina di sei anni che aveva passato un'ora intera a
darmi del
deficiente quando avevo commesso l'errore di rivelarle che non ero un
fan della
sua beniamina, Taylor Swift.
Solitamente Diana prenotava
con largo anticipo i miei voli, organizzando ogni mio trasferimento con
estrema
cura, assicurandosi che la mia attesa nella vip lounge fosse piacevole
e
confortevole e che ci fosse sempre un'auto ad aspettarmi appena
atterrato.
Questa volta però la mia efficiente segretaria non aveva
potuto fare molto dal
momento che quello strambo invito mi era giunto solo la sera precedente.
Mr. Montgomery Van Houten
sarebbe lieto di godere della Sua compagnia in occasione della piccola
riunione
di amici che si terrà Venerdì 23 Maggio alle ore
20.00 presso la sua abitazione
di Tampa per la ricorrenza del suo sessantesimo compleanno.
Mr. Liam Carter Wright (+1)
È richiesto abbigliamento da
sera.
Ero rimasto alquanto sorpreso
da quell'invito. Due settimane prima avevo passato una piacevole serata
in
compagnia dei coniugi Van Houten ma la nostra conoscenza reciproca si
fermava a
ciò. Nonostante il fatto di essere allo stesso tavolo con il
mio maestro
ispiratore e la presenza di Felicity che era stata un brontolio unico
per tutta
la cena e aveva passato tutto il tempo a battibeccare con la madre
perché
quest'ultima riteneva fuori luogo ed inappropriato il suo abbigliamento
composto da jeans e maglia scura con maniche a tre quarti, mi ero
divertito e
non mi ero mai sentito a disagio o in soggezione.
Ma stavamo pur sempre
parlando di Montgomery Van Houten e pur di partecipare alla sua festa
sarei
stato disposto a farmi Boston-Tampa sul retro di un camion che
trasportava
profumati maialini.
Avevo pensato a lungo alla
possibilità di farmi accompagnare da una delle donne che
frequentavo
saltuariamente e senza impegno ma alla fine mi ero deciso ad andare da
solo.
Sapevo dalle interviste e
dagli articoli a lui dedicati che il padre di Felicity sosteneva che la
maggior
parte del suo successo fosse dovuto alla presenza costante della moglie
al suo
fianco. Felicity mi aveva accennato sommariamente alla storia sbocciata
ai
tempi del college tra i suoi genitori. Sebbene, come lei sosteneva,
inizialmente sua mamma fosse solo una snob fissata con il cinema
d'essai in
lingua francese e non calcolasse minimamente il giovane tutto studio e
codice
civile che era suo padre.
Questa storia mi ricordava
molto quella tra Mildred e Matthew nonostante, mentre la prima era
anche lei
dedita allo snobismo nella sua forma più altezzosa e ricca
di boria, il mio
amico invece che tutto libri di diritto e nottate di studio era dedito
a
faccende più...ricreative che coinvolgevano giovani e
sciocchine donzelle.
Io ai tempi del college avevo
sperimentato di ogni, avevo studiato tantissimo ma non avevo trovato di
certo
trovato la mia compagna di vita.
Sbuffai, stanco di quei
pensieri velati di malinconico rimpianto che mi tormentavano
ultimamente, e
tornai a concentrarmi sul documento aperto sul mio iPad sperando che
quel
viaggio infernale finisse nel più breve tempo possibile.
«Tra dieci minuti atterriamo.
Dovrebbe spegnere ogni dispositivo elettronico ora», mi
ricordò l'assistente di
volo sorridendomi.
Colsi lo sguardo attento che
dedicò alla mia intera persona così come la sua
mano posata sulla mia spalla
più a lungo del tempo necessario a richiamare la mia
attenzione. E sarei
un'ipocrita se negassi di non aver ampiamente apprezzato la visuale
offertami
dal suo decolté messo in bella mostra grazie alla posizione
leggermente
ricurva, necessaria per raggiungere me al di là dell'iceberg
di adipe che era
il mio vicino.
Non ero assolutamente
dell'umore giusto per civetterie e sguardi maliziosi, volevo solo
arrivare in
albergo il prima possibile e levarmi di dosso quell'odore stagnante di
aereo di
bassa lega che mi sentivo adeso ai vestiti e alla pelle.
Le rivolsi un brusco cenno
del capo, spegnendo il tablet e riponendolo nella mia ventiquattr'ore,
cogliendo l'occasione per sottrarmi al suo tocco.
La ragazza si allontanò di
fretta, un'espressione accigliata stampata sul viso e una camminata
più
sculettante di prima, chiaro messaggio dedicato al sottoscritto, come a
dire
'Stolto, guarda che ti perdi'. Era carina, nulla di eccezionale, ma era
snella
ed atletica e aveva davvero delle belle gambe abbronzate. Fino all'anno
scorso
probabilmente le avrei dato corda ma negli ultimi tempi conducevo una
vita
sociale più ritirata di quella di una suora di clausura.
Stavo invecchiando. E stavo
invecchiando male.
Il signore al mio fianco,
finalmente sveglio dopo cinque ore di sonno beato, era il tipico tizio
fastidioso che inizia a trafficare con armi e bagagli e ad alzarsi dal
suo
posto per cominciare ad intasare lo stretto corridoio ancora prima che
l'aereo
abbia toccato l'asfalto della pista. La bambina invece, Shake
it off
sparata a duemila decibel nei timpani, stava masticando una Big Bubble
non
curandosi del fatto che il suo ruminare poteva non interessare l'intero
gruppo
passeggeri.
Mi misi a fissare le
istruzioni con i comportamenti da tenere in caso d'emergenza stampate
sulla
parte superiore del sedile davanti a me.
Mi ero sempre domandato come
fosse possibile mantenere la calma necessaria a trovare quel benedetto
giubbotto, indossarlo, trovare la levetta da tirare o il tubicino in
cui
soffiare per gonfiarlo quando il tuo aereo stava precipitando in
picchiata.
«Benvenuti a Tampa, Florida.
Sono le 2.57 di mattina e il tempo è sereno. A breve
avrà inizio lo sbarco;
fino ad allora siete pregati di restare seduti ai vostri posti.
L'equipaggio di
bordo vi ringrazia per aver scelto di volare con noi e vi augura una
buona
permanenza. Arrivederci!», annunciò la voce di uno
steward dagli altoparlanti
gracchianti.
Tolsi la modalità aereo al
mio iPhone e avviai la sincronizzazione della mia casella di posta
elettronica.
Avere clienti sparsi per tutti gli States, divisi dai fusi orari, mi
assicurava
un flusso continuo di email ad ogni ora del giorno e della notte.
«Si muova, mi scappa la
pipì!». Una vocetta lagnosa mi fece distogliere
l'attenzione dallo schermo del
telefono.
Seguii il consiglio della
bimbetta e, approfittando dell'ingorgo creato da una coppia giapponese
alle
prese con una gabbia con tanto di pappagallo, afferrai la
ventiquattr'ore,
acciuffai il mio trolley super leggero di ultima generazione in
policarbonato e
me la filai.
Appena entrato in aeroporto
mi diressi all'uscita principale di questo e richiamai un taxi.
«Grand Hyatt Tampa Bay»,
informai l'autista mentre gli lasciavo il mio bagaglio e prendevo posto
sul
sedile posteriore.
L'oceano correva scuro e
liscio come una grande chiazza di liquido petrolio al lato della strada
ma ero
davvero troppo stanco per poterlo ammirare veramente.
Probabilmente mi appisolai
perché quando mi svegliai l'autista aveva già
affidato il mio bagaglio al
portiere notturno dell'albergo e aveva aperto la portiera, pronto a
richiamare
la mia attenzione.
Saldai il conto e mi
incamminai attraverso l'imponente atrio, diretto verso il lucido
bancone della
reception dove una ragazza afroamericana mi aspettava sorridente.
«Benvenuto Mr. Carter Wright.
Spero abbia fatto un buon viaggio. La sua stanza è la 793,
settimo piano, vista
mare. Vladimir la accompagnerà e si prenderà cura
del suo bagaglio. Le serve
altro?». Nel bel mezzo di questo cortese soliloquio una magra
figura pallida
dai tristi capelli biondo stinto aveva fatto la sua comparsa alle
spalle di
Jackie, nome che avevo appreso leggendo la targhetta spillata al bavero
del
gilet della receptionist.
Distolsi lo sguardo da quelle
lettere incise sulla piccola placca metallica e tornai a rivolgere la
mia
attenzione alla signorina. «Per ora nulla, grazie»,
le risposi allungando la
mano per prendere la tessera magnetica che mi porgeva.
«Allora le auguro un buon
riposo», concluse lei.
***
E un buon riposo avevo senza
dubbio avuto quella notte pensai rotolando sul dorso tra quelle candide
lenzuola.
Erano le undici di mattina
circa, come il mio telefono e soprattutto i brontolii insistenti del
mio
stomaco mi avevano avvisato, e la stanza era letteralmente inondata
dalla luce
che entrava prepotente dalle finestre, che la notte precedente mi ero
scordato
di oscurare.
Mi stiracchiai beandomi di
quella sensazione di piacevole intorpidimento che uno prova solo dopo
una bella
dormita. O una bella scopata. Ma questo era un altro discorso. Anche se
quella
Jackie...
Un martellante bussare alla
porta distolse la mia mente da quei lascivi pensieri mattutini.
«La colazione!», mi
annunciò
una voce attutita dalla pesante porta in legno.
Colazione? Come avevo fatto
ad ordinare la colazione se appena arrivato ero crollato sul letto per
risvegliarmi solo un paio di minuti prima?
Mi alzai svogliatamente e,
cercando di non inciampare nelle scarpe che quella notte avevo
abbandonato al
centro del grande tappeto che ricopriva il pavimento chiaro, mi recai
fino alla
soglia dove spalancai la porta, curioso di sapere se quel servizio
scocciatore
era un omaggio che l'hotel riservava ai suoi clienti più
affezionati.
Davanti a me trovai un
vassoio enorme, ricco di ogni leccornia: da morbidi croissant a succhi
di
frutta dai mille colori, da un caffè nero fumante a uova
all'occhio di bue
profumatissime. Non appena la mia fame accecante lasciò
spazio anche al resto
del quadro mi accorsi a chi appartenessero quel nasino tutto lentiggini
e quei
vispi occhietti dallo sguardo canzonatorio.
Senza aspettare che la
invitassi ad entrare, l'uragano Felicity mi spinse di lato grazie ad
una
gentile gomitata e marciò sicura verso il mio letto, dove
abbandonò il vassoio
sul vicino comodino prima di voltarsi a fronteggiarmi.
«Ora che ho compiuto il mio
dovere finalmente smetterò di vivere sotto ad un tetto a
scolapasta. Susu,
mangia, Mr. Liam, che dobbiamo andare! Che ci fai ancora vestito da
noioso
avvocatuccio? Siamo in Florida! Qui costume da bagno e occhiali da sole
sono
obbligatori!», snocciolò, afferrando poi una
fettina di pane di segale
ricoperto da un leggero velo di burro e portandoselo alla bocca.
«Mi sono appena alzato. E
quella è la mia colazione», puntualizzai
osservando la mia porzione di yogurt e
muesli sparire tra le fauci affamate della mia folle giardiniera.
«Oddio, scusa! È solo che
le
brioches ai cinque cereali sono le mie preferite...»,
mugugnò leccando un
cucchiaino e fissando con sguardo bramoso l'invitante croissant posato
su un
piattino.
Dieci minuti più tardi, nello
stomaco le uova e i due biscotti che ero riuscito a sottrarre a
Felicity e alla
sua furia divoratrice, ero chiuso nel bagno principesco della mia
stanza mentre
la tiranna mi urlava di sbrigarmi dall'altra camera.
Interrogarmi sul come e il
perché fosse finito in una situazione simile era inutile. Le
donne riuscivano
sempre, in un modo o nell'altro, a metterci un bel guinzaglio
tempestato di
paillettes attorno al collo e a fare in modo che non sfuggissimo mai al
loro
occhio scrutatore.
Avevo portato con me il mio
smoking nero dal taglio classico e un paio di camicie con pantaloni
abbinati.
Niente bermuda dalle stampe hawaiane o canottiere sbracciate dai colori
improbabili.
Capii di aver commesso un
errore nell'esatto istante in cui aprii la porta e incontrai un limpido
sguardo
chiaramente contrariato fisso sui miei calzoni color sabbia e la mia
camicia
azzurra.
Mi scrutava accigliata dal
grande letto matrimoniale, dove si era installata a gambe incrociate,
dopo aver
abbandonato le infradito sulla moquette.
«Porta con te la carta di
credito», mi ordinò prima di balzare in piedi,
recuperare la sua ampia sacca di
tela e dirigersi verso la soglia.
Infilai portafogli e telefono
nella tasca posteriore dei pantaloni, recuperai il badge magnetico
della camera
e chiusi la porta alla mie spalle.
Se c'era una cosa che mai
avrei immaginato...bè, era proprio quella. Passeggiare sulla
battigia, costume
da bagno e t-shirt comprate al mercatino dell'usato, occhiali da sole
pescati
al lato di una cassa di un supermercato tra caramelle e preservativi, e
un
aquilone legato al polso.
«Mi rendo conto di quanto mi
manchi tutto ciò solo quando torno a casa...»
Viso leggermente arrossato
illuminato dal sole fiammeggiante dell'una di pomeriggio, occhi celati
dalle
lenti verdi scuro di un paio di occhiali dalla forma tondeggiante e
camiciola
leggera di candido cotone a svolazzarle attorno.
Bellissima.
Per un attimo rimasi quasi
accecato dalla consapevolezza di quanta bellezza ci fosse in quella
ragazza
conosciuta grazie a nonno Tobias e alle apine svolazzanti del suo sito.
«Mr. Liam! Non ti ho mai
chiesto dove sei nato e cresciuto. Ho sempre dato per scontato che
fossi di
Boston ma hai negli occhi lo stesso velo di nostalgia che ho io quando
sono
lontana da questo mare dove ho imparato a nuotare e dove ho perso la
verginità...»
«Hai perso la verginità in
mare?!», domandai sconcertato.
Lei sbuffò e si sistemò
dietro l'orecchio una ciocca di capelli sfuggita dallo chignon
disordinato che
teneva imprigionata la sua chioma color girasole.
«Ovviamente tu hai colto solo
quello!», sbottò prima di chinarsi e immergere le
mani, palme aperte, nella
sabbia bagnata.
«Bè, è una cosa
insolita...»,
cercai di difendermi, nonostante volessi solo saperne di più
riguardo a quella
faccenda.
«Ero giovane, era estate, lui
era qui in vacanza...», commentò vaga guardando
l'acqua coprire e poi ritirarsi
dal dorso delle sue mani. «Dov'è casa
tua?»
«A Boston»
Sì, un freddo e vuoto attico
dal valore di migliaia e migliaia di dollari.
«La tua vera casa. Non quella
che ti ostini a chiamare tale ma quella che lo è davvero,
quella a cui pensi
quando ti senti solo e non sai più dove stai
andando...», precisò rialzandosi,
appoggiando una mano bagnata di acqua salata sul mio avambraccio e
alzando il
viso verso di me.
Quello che vidi in quegli
occhi mi fece quasi tremare.
Casa.
Non avevo più chiamato casa
nessun luogo da quando avevo lasciato i miei genitori a diciassette
anni.
E al tempo l'unica cosa che
volevo era proprio fuggire da lì. Dalle attenzioni esagerate
della mia
apprensiva madre. Dall'espressione esausta e gli occhi sempre tristi di
mio
padre, costretto a fare orari disumani in fabbrica per permetterci di
finire il
liceo. Dai commenti cattivi dei miei compagni di classe rivolti al mio
giubbino
vecchio di una decina di anni e ai sussidi familiari con cui tiravamo
avanti.
Avevo studiato senza sosta.
Notte e giorno. Nessuna vacanza, nessun ballo di fine anno, nessuna
distrazione
per Liam Carter Wright.
E poi avevo vinto la borsa di
studio tanto agognata e tanto sudata e me ne ero andato a Harvard,
senza mai
guardarmi indietro.
Non ero più tornato. Non
avevo più visto la crepa che attraversava diagonalmente il
soffitto chiazzato
di umidità della mia stanzetta. Non ero più stato
nel mio posto segreto, gambe
a penzoloni, a fissare per ore intere i treni fermarsi e ripartire in
un ciclo
senza sosta, sognando di scappare da lì. Non mi ero
più seduto al tavolo,
decorato dal lavoro di mille tarli, nel nostro buio cucinotto, che
senza una
moneta da un quarto di dollaro sotto una gamba traballava.
Casa.
«Non ricordo neanche più
quale sia...», sussurrai fissando le onde infrangersi sugli
scogli in
lontananza.
Una pressione improvvisa mi
fece voltare il capo e fissare lo sguardo sulla mia mano racchiusa da
quella
più piccola e costellata di efelidi di Felicity.
«Vieni con me»
La seguii senza far domande,
sfilando davanti ai bagnanti impegnati a prendere il sole e a godersi
quella meravigliosa
giornata sotto quel cielo limpido.
Percorremmo tutta la spiaggia
prima di allontanarci dall'acqua, abbandonare il pavimento sabbioso e
rimetterci le infradito.
Felicity regalò l'aquilone ad
un bambino, che la ringraziò con un abbraccio che la fece
illuminare come un
albero di natale e poi, sempre senza lasciare la mia mano, mi fece da
guida
attraverso una serie di vicolini in discesa che, mano a mano che
procedevamo,
si lasciavano alle spalle i resort di lusso e gli edifici di
scintillante vetro
e cromature per far posto a casette dall'aspetto più vissuto
e peculiare.
Ci stavamo avvicinando alla
zona più portuale e meno turistica della città.
Il mare spumeggiante cominciava
a popolarsi di imbarcazioni e l'acqua diventava leggermente
più torbida a causa
del traffico di barche che ma attraversavano.
Felicity procedeva spedita,
senza indugio, era chiaro che avesse bene in mente dove voleva arrivare.
Quando un paio di minuti più
tardi ci fermammo di fronte ad un capannone malmesso e all'apparenza
abbandonato, preso in contropiede da quel brusco stop finii per
travolgere la
mia compagna di avventure.
«Perdonami...»,
mormorai, indietreggiando
di un passo e
cercando di districare le mie dita dalla presa ferrea delle sue.
Non me lo permise. Rafforzò
la stretta e riprese a camminare, come se si fosse ricordata quale
fosse la
direzione da seguire dopo essersi persa un attimo a fissare quelle
pareti in
mattoni e la foresta di erbacce che le decorava.
Girammo attorno alla
costruzione, che rivelò avere una porta sul retro oltre al
portellone a
serranda che si trovava sulla facciata anteriore della struttura.
Ma non era la porta il vero
obiettivo di Felicity, bensì la finestra, priva di vetro e
coperta solo da un
pannello di compensato logoro e spezzato in corrispondenza dell'angolo
in basso
a sinistra.
Lasciò la mia mano e diede un
calcio potente e ben assestato al pannello facendo venire allo scoperto
la buia
cavità che una volta era stata sede dell'intelaiatura di una
finestra.
Dopodiché, ancora prima che
potessi realizzare cosa stesse accadendo, vidi la sua sagoma sparire al
di là
del muro, come inghiottita dall'oscurità che faceva da
padrona all'interno
dell'edificio.
Quella ragazza doveva amare
proprio tanto il cacciarsi continuamente nei pasticci.
Un'aureola di capelli biondi
fece capolino dal rettangolo buio che segnava il confine dell'infisso.
«Che
stai aspettando? Vieni!», mi incitò prima di
scomparire nuovamente all'interno.
Facendo attenzione a non
perdere per strada le infradito feci passare prima una poi l'altra
delle mie
lunghe gambe dall'altro lato del muro, ritrovandomi in un'ampia stanza,
fiocamente illuminata da spiragli di luce provenienti da fori e parti
mancanti dei
pannelli che ricoprivano la lunga serie di finestre schierate lungo la
parete.
Delle ciabatte modello
flip-flop in plastica turchese erano proprio quello che ci voleva per
esplorare
un posto disabitato da tempo e probabile rifugio di insetti, roditori e
probabilmente senzatetto e tossici occasionali.
«Benvenuto a casa Van
Houten!», mi annunciò la voce di Felicity.
Se ne stava ferma al centro
della stanza, gli occhi chiusi e le braccia avvolte attorno al busto
come a
volere cercare calore in un abbraccio.
«Tu abitavi qui?», domandai
sconcertato, lo sguardo sugli intrecci di ragnatele che adornavano ogni
angolo
libero della stanza e il pavimento in crudo cemento.
Montgomery Van Houten aveva
sì dato inizio alla sua carriera nel mondo legale
all'interno di un capannone
ma non avrei mai pensato che questo sottintendesse che anche la sua
famiglia
aveva dovuto muovere i primi passi all'interno di quelle quattro mura
scrostate.
«All'inizio le cose andavano
proprio male. Papà ce la metteva tutta ma sembrava davvero
che la sorte remasse
contro la nostra famiglia. Entrambi i miei genitori rifiutavano
categoricamente
di essere finanziati dai miei nonni. Non so se per orgoglio o per la
volontà di
non tornare ad essere dipendenti da loro. Abbiamo vissuto qui fino al
mio
settimo compleanno, poi lo studio legale iniziò ad ottenere
i primi successi,
poi si espanse, inglobando nuovi dipendenti ed infine, mattoncino dopo
mattoncino, Papà costruì un impero. E fu naturale
trasferirsi. Per un paio
d'anni in una villetta a schiera e infine, alla vigilia del mio decimo
compleanno, nella casa che vedrai stasera alla festa. Vieni, voglio
mostrarti
la mia camera».
Salimmo delle strette scale
di legno scricchiolante e ci ritrovammo in un corridoietto
claustrofobico su
cui si affacciavano tre aperture, senza porta.
«Qui dormivamo io e Zoe, mia
sorella. Ricordo che quando i rumori notturni del porto e delle azioni
di
scarico e carico delle navi mi spaventava, mi accucciavo vicina vicina
alla
figura addormentata di mia sorella e fissavo per ore le ombre sul
soffitto»,
spiegò sottovoce sfiorando con la mano una porzione di muro
dove si intravedeva
la sagoma lasciata dalla testata di un letto. «E la cosa
curiosa sai qual è?
Dopo tutti questi anni, dopo tutto quello che è cambiato,
migliorato o giunto a
termine nella mia
vita, questo posto
rimane quello che sento più...casa,
insieme al mio giardino a Plymouth.
Qui sono stata felice. Siamo stati felici, nonostante il poco che
avevamo.
Anzi, forse lo siamo stati proprio grazie a quel poco che possedevamo.
Ci torno
sempre quando vengo in Florida. Ci torno per ricordarmi che le cose
semplici
sono sempre le più belle ed autentiche. E so che anche
Papà a volte torna
perché ho trovato le cicche delle sue sigarette sparse nel
cortile...»,
concluse ridacchiando tra sé.
«Non torno a casa da quando
l'ho lasciata a diciassette anni...», confessai ad alta voce
quasi senza
rendermene conto.
Lei rivolse lo sguardo a me e
mi sorrise, «Credo proprio che dovresti farci ritorno. Fa
sempre bene tornare
indietro, alle proprie radici. Ti aiuta a capire i passi fatti fino a
quel
momento e quelli ancora da compiere. È illuminante e al
tempo stesso
terribilmente disorientante. Torna a casa, Mr. Liam».
Come ci riusciva? Come poteva
parlarmi così sinceramente e saggiamente la stessa persona
che si chiudeva
quotidianamente da sola le dita nella portiera del pick-up e litigava
furiosamente con il commesso del supermarket che faceva il furbo sul
numero
delle caramelle che le serviva e impacchettava?
Annuii, non sapendo come
ribattere. Nel mio intimo ero terribilmente indispettito. Come si
permetteva di
farsi gli affari miei e dirmi come comportarmi? Lei, con una vita
così
ingarbugliata da non riuscire a venirne a capo neanche se fosse stata
Arianna
nel labirinto e avesse avuto il filo da seguire!
«Dobbiamo andare. Ho promesso
a Mamma di dare un'occhiata alla disposizione degli ospiti, lei ha una
memoria
a scolapasta e tende a dimenticare litigi, odi sanguinari e minacce di
morte
intercorse tra vari parenti, amici e conoscenti. Ti prometto che
proverò a
metterti al tavolo delle mie cugine. Sono ricche, sono viziate, sono
fatte per
metà di plastica e per l'altra metà di seta
cinese con stampe Hermes, e
ovviamente sono single e a caccia di marito», mi prese in
giro mentre
ridiscendevamo al piano inferiore.
Dopo essere tornati alla
spiaggia e all'ingresso del mio albergo ci salutammo. Poco prima di
inforcare
la sua bicicletta color confetto si fermò, fece scivolare
leggermente in basso
sul naso gli occhiali da sole e mi fissò da sopra la
montatura.
«Mi raccomando, stasera
comportati bene e non farti impressionare troppo da quello che vedrai,
è solo
uno scintillio», detto ciò mi sorrise e
partì pedalando verso il sole infuocato
all'orizzonte.
***
Dietro il bancone della
reception non c'era più quella bellezza esotica che era
Jackie ma un certo
Kyle, occhi di ghiaccio e testa rasata.
Probabilmente dovevano
soddisfare i gusti di tutti i clienti e non solamente i miei, pensai
deluso.
Il muscoloso e troppo
mascolino per i miei gusti Kyle mi informò che l'auto da me
prenotata era
arrivata e che l'autista mi attendeva all'ingresso.
Gli feci un cenno del capo e
mi avvicinai contrariato alle porte scorrevoli in vetro della hall.
Avevo
specificatamente richiesto di non usufruire del servizio autista.
Guidare mi piaceva, farmi
scarrozzare sul retro di un macchinone dai finestrini oscurati come se
fossi
un'appariscente stella di Hollywood no.
Dopo vari minuti di
discussione, una mancia di cinquanta verdoni e un taxi a mie spese per
rispedire l'autista al mittente, potei finalmente appoggiare il mio
didietro al
sedile in pelle nera della Mercedes a noleggio e partire alla volta
della villa
di Mr. Montgomery Van Houten.
Ero veramente pronto a tutto.
Mi sarei aspettato draghi che sputavano fuoco usati come animali da
guardia e
famiglie di fenicotteri libere di scorrazzare nella piscina a forma di
fiore di
loto.
L'elegante sobrietà di casa
Van Houten mi sorprese. Non mi aspettavo una manifestazione pacchiana e
sfacciata
di lusso e gingilli scintillanti dal valore milionario.
Nessun parcheggiatore, le
auto venivano posteggiate dai legittimi proprietari lungo il viale
ricoperto di
ghiaia. Nessuna cameriera vestita da coniglietta a servire stuzzichini,
sobri
camerieri si aggiravano impeccabili nella loro divisa scura per la
sala. Nessun
soffitto dorato o pavimento di specchi, graziosi affreschi dalle tinte
pastello
adornavano in modo discreto le pareti e una superficie di solido ma
raffinato
marmo grigio scuro sfilava sotto le suole delle scarpe delle decine di
invitati.
La festa si svolgeva nell'ala
ovest del piano terra e nel giardino posteriore che si affacciava
direttamente
sull'oceano, rischiarato dagli ultimi raggi rosati del sole calante.
Parure di splendenti diamanti,
sorrisi contornati da rossetti sgargianti, abiti principeschi dai
lunghi
strascichi, immacolati colletti inamidati, acconciature fantasiose e
perfette,
papillon annodati ad arte.
La ricchezza e l'ostentazione
che non avevo trovato nella cosa la potei osservare negli ospiti.
«Carter Wright, ce l'ha fatta
a venire! Ora devo davvero un tetto nuovo alla mia scellerata
figliola», mi
accolse giovialmente con una poderosa stretta di mano il padrone di
casa.
«È un piacere averla qui.
Mi
scuso a nome di quella povera donna esaurita dopo anni di lavoro alle
dipendenze di mio marito che è Miss Lydia per il ritardo nel
recapitarle
l'invito alla festa. Non ha portato nessuna fanciulla con
sé?», e nel
domandarmi ciò, conoscendo benissimo la risposta data
l'evidente mancanza di
un'accompagnatrice, mi fece l'occhiolino civettuola.
Perché interrogarsi a lungo
sull'origine dei comportamenti psicotici di Felicity? Non bisognava
ricercare
molto per scoprire che il detto 'tale madre tale figlia' spiegava
già
ampiamente tutto.
«Alla fine non avevamo più
avuto occasione di parlare del perché della mia telefonata,
sa quella della mia
segretaria, volevo...oh no! Cara, tuo zio Larry si sta avvicinando
troppo alla
zona bar e sai cosa succede quando esagera con il gin. Riprendiamo
dopo», e mi
abbandonò lasciandomi con una pacca sulla spalla.
Mrs. Van Houten, fasciata in
un elegante abito di seta color crema, che riusciva ad illuminare il
suo
incarnato e a non farla apparire come un enorme bignè alla
crema, mi rivolse un
sorriso di scuse e, dopo
aver borbottato
qualcosa riguardo a 'quella benedetta figliola di Felicity' e al piano
di
sopra, mi lasciò a sua volta seguendo il marito nella vana
impresa di separare
l'anziano signore dal quinto Martini.
Non conoscendo nessuno decisi
di rompere il ghiaccio seguendo l'esempio del buon vecchio Zio Larry e
mi
avvicinai all'angolo bar, chiedendo
al
barman di servirmi un Gin Tonic.
La signora accanto a me stava
spiegando ad un'amica la colonia di calli che aveva preso possesso dei
suoi
piedi, mentre il ragazzo dall'altro lato sembrava impegnato a scrutare
il suo
Shirley Temple come se fosse una sfera di cristallo, da cui poter
decifrare il
futuro.
Ruotai annoiato sull'alto
sgabello e feci vagare lo sguardo per la stanza, osservando tutti quei
visi
sconosciuti che mi circondavano.
Anziani signori dai capelli
brizzolati impomatati intenti a fare presentazioni e stringere mani.
Donne più
agghindate di un albero di natale impegnate a fare capannello per poter
spettegolare in libertà sull'abito di quella e
l'accompagnatore di questa.
Bambini che tiravano le maniche dei genitori per attirare la loro
attenzione,
gli occhi pieni di sonno e i piedi stanchi per le corse in giardino.
Mancava qualcosa.
Mancava qualcuno.
E fu in quel momento che la
vidi.
Una nuvola di tulle rosa. Le
guance arrossate. I capelli luminosi intrecciati. La mano saldamente
attaccata
al corrimano della scalinata per non perdere l'equilibrio. Lo sguardo
spaesato
a scrutare i presenti.
Senza rendermene conto avevo
già appoggiato il bicchiere, lasciato la mia postazione e mi
stavo dirigendo
verso di lei, come attirato dal polo opposto di una calamita.
I suoi occhi si ingrandirono
quando si focalizzarono sulla mia persona e un'ampia espressione
incredula si
dipinse sul suo volto.
«Mr. Liam, che schianto!»,
commentò fischiando in segno di approvazione.
Perché nonostante l'aspetto
fatato, sotto quelle vesti fiabesche si celava la solita Miss Felicity,
sempre
svitata e poco intenzionata a comportarsi bene.
Mi venne da arrossire, quasi
come se fosse avvenuto uno scambio di ruoli e io fossi la donzella
imbarazzata
dall'apprezzamento sfacciato di un uomo.
«Anche tu non sei male...»,
borbottai porgendole il braccio, che lei prontamente afferrò
prima di lasciarsi
alle spalle l'ultimo gradino con un saltello.
Bugiardo. Bugiardo. Bugiardo.
E avevo mentito in modo così
sfacciato da temere che i suoi occhi potessero leggere e smascherare la
mia
menzogna semplicemente guardandomi negli occhi.
Fortunatamente lei sembrava
impegnata a camminare sui suoi sandali dal tacco vertiginoso senza
sembrare una
giraffa ubriaca e ciò pareva un'azione in grado di
assorbirla completamente.
«Mamma ha schierato il suo
intero esercito di torturatrici per ottenere ciò.
Sarà felice che almeno una
persona abbia notato lo sforzo fatto da loro e il dolore sopportato
dalla
sottoscritta...», mugugnò trascinandomi attraverso
il salone in direzione del
bancone da me lasciato pochi minuti prima.
Si sbagliava invece, gli
occhi dei due terzi degli uomini presenti nella stanza erano puntati su
di lei,
ovviamente troppo distratta per accorgersene, e il terzo restante aveva
smesso
di fissarla solo dopo essere stati prontamente rimproverati da consorti
e
accompagnatrici.
Per non parlare dei commenti
concitati e sussurrati che percorrevano la stanza, rimbalzando di donna
in
donna, e gli sguardi invidiosi dedicati al vestito della ragazza il cui
braccio
era saldamente allacciato al mio.
«Un Margarita alla fragola
per me», trillò non appena raggiungemmo il lucido
piano del bancone. «Per te?»,
mi domandò ruotando il capo nella mia direzione.
Nel compiere quel movimento
l'acconciatura semi raccolta le lasciò scoperta una spalla e
il lato destro del
collo. Distratto da quella porzione di pelle appena dorata e cosparsa
di
sparute efelidi tardai nel risponderle e così la vidi
tornare a rivolgere la
sua attenzione al barista e chiedergli di preparare un Margarita anche
per me.
Tempo di riacquistare il
controllo e un alto bicchiere dal collo sottile veniva sospinto
gentilmente
verso di me.
«Ti vedo distratto stasera.
Qualcosa non va?»
Alzai lo sguardo e la vidi
guardarmi con sguardo preoccupato mentre si sporgeva nella mia
direzione.
Sì, mi sto completamente
rincitrullendo. Sarà l'alcool, sarà l'euforia
generale, sarà l'atmosfera
leggera e festaiola. Sarai tu con quel vestito di un colore così
etereo e infantile che
eppure su di te risulta maledettamente seducente. O quel tuo profumo
che emani
ogni volta che ti muovi, e tu sei irrequieta e ferma non ci stai mai, e
a me
pare di stare in Provenza in un immenso campo di lavanda color indaco.
Sarà
la tua mano poggiata quasi per caso sul mio ginocchio o il tuo
respiro
troppo vicino ora che mi stai guardando apprensiva. Sarà
tutto ciò ma io
stasera mi sento come uno sciocco adolescente alla prima cotta. Gli
ormoni a
mille, le mani sudate, la conversazione impacciata. E i tuoi occhi.
Potresti
smetterla di rivolgermi quello sguardo? Per favore. Se tu mi guardi in
quel
modo è come se assorbissi tutto l'ossigeno presente e io
dovessi andare in
apnea. Per favore.
«Nulla, assolutamente
nulla».
Fine della discussione.
Tutto va in modo meraviglioso
no?
«Quella donna ti fissa con lo
stesso sguardo affamato che io dedico ai pancakes con lo sciroppo
d'acero e i
mirtilli», mi informò placidamente lei,
sorseggiando il suo cocktail della
stessa tinta del suo abito.
Feci per voltarmi a cercare
il soggetto in questione quando la sua mano corse ad afferrarmi
saldamente il
mento per impedirmi qualsiasi movimento che non fosse abbassare lo
sguardo per
fissarlo nel suo.
«Nonchalance, Mr. Liam! Fai
finta di volermi gentilmente prendere un tovagliolino - che tra
parentesi mi
serve davvero - e voltati manifestando naturalezza e non sembrando un
guardone
maniaco». Mollò la presa e tornò a
sedere con la schiena ritta.
Seguii le sue istruzioni alla
lettera, ruotando con calma sullo sgabello, camminando fino all'angolo
del
bancone dove si trovava il piccolo porta tovaglioli argentato e solo
allora mi
concessi di alzare lo sguardo per poter finalmente scovare la mia
ammiratrice segreta.
Per un attimo rimasi senza
fiato. Gambe incrociate, spacco furbetto, abito aderente rosso fuoco
come il
rossetto, occhi scuri come l'onice. Mi fissava sfacciatamente, l'angolo
della
bocca leggermente piegato in un sorrisetto ammiccante e un sopracciglio
sollevato come a dire: Che stai aspettando?
Avrà avuto sicuramente più
di quarant'anni ma li portava egregiamente, come il viso luminoso e la
scollatura generosa testimoniavano. Era una predatrice, una leonessa
abituata
alla caccia grossa, annoiata probabilmente dalla vita di tutti i giorni
e da un
marito sovrappeso e petulante.
Recuperai un paio di
tovaglioli e tornai da Felicity, la quale mi attendeva con una buffa
espressione di shock stampata in volto.
«Mi sbagliavo: è senza
dubbio
lei la guardona maniaca! Santo cielo, pare voglia ripassarti per bene
solo
guardandoti!», esclamò concitata.
«Oh oh, che fine ha fatto la
Felicity romanticona che usava le tende di casa per confezionare abiti
nuziali?
Ripassare per bene? Che fine hanno fatto i discorsi su cuore, sole e
amore?»,
mi burlai di lei.
Lei ovviamente si inviperì
proprio come mi aspettavo. «Dubito voglia fare l'amore,
infilarti un anello al
dito e adottare tre gemellini etiopi con te! E non dire romanticona
come se
fosse un insulto!»
Ridacchiai di fronte alla sua
espressione sostenuta e al suo sguardo vagamente minaccioso rivolto
alla donna
alle mie spalle.
«Mi fai fare un tour della
casa?», tentai per smorzare l'atmosfera pesante che si era
venuta a creare.
«No»
«Vuoi ballare?»
«No»
Porsi il mio bicchiere vuoto
al barista e feci per alzarmi, «Va bene, messaggio recepito.
Andrò a conoscere
la bella panter-»
Non riuscii a terminare
perché Felicity, come sempre nel suo modo molto prepotente,
mi afferrò per il
risvolto della giacca e mi trascinò al centro della sala.
«Oh no, cari. Qui si balla
musica per vecchi!», si precipitò su di noi Mamma
Van Houten iniziando a
spingerci in direzione del giardino e del gazebo illuminato da mille
lucine
bianche nascoste tra le rose del pergolato. «Qui stanno i
giovani! Buona
serata!», e ci mollò tra le varie coppiette
intente a danzare strette strette
sulle note di una ballad strappalacrime.
«Ma mamma...», la sua
protesta venne smorzata dall'annuncio del cantante della band che la
prossima
canzone era dedicata a tutti gli amori non ancora nati ma prossimi alla
fioritura.
«Che stupidaggine»,
borbottò
a mezza voce facendo per allontanarsi da me e dalla pista da ballo.
Afferrai la sua mano e
facendola piroettare su sé stessa la feci atterrare
precisamente dove volevo
che fosse: vicino a me, le mani sul mio petto per mantenere la distanza
di un
soffio che ci divideva e non oltrepassare un limite invisibile ma
chiaramente
percepibile.
«Esibizionista», mi
rimbrottò
appoggiando con ostentata malagrazia una mano sulla mia spalla e
lasciando che
le cingessi la vita.
La musica cominciò e noi
iniziammo a piroettare come dei moderni Cenerentola e relativo principe
azzurro. Ok, magari Felicity, con la sua famiglia dal patrimonio
miliardario,
non era proprio un buon esempio di sguattera maltrattata. Sicuramente
però
avrebbe adorato avere dei topini come amici.
«Sai anche ballare bene»,
constatò, una nota di delusione nella voce.
«Lo dici come se fosse una
colpa», le feci presente, guidandola tra le varie coppie e
tenendola saldamente
tra le mie braccia.
Lei sembrò pensarci un attimo
su prima di sbuffare e ammettere, «Vorrei che lo fosse. Sei
quasi perfetto. E a
me le cose perfette spaventano, forse perché io sono tutto
tranne che
perfetta».
E lì, calda e morbida,
stretta a me, mi veniva in mente solo una parola per definirla:
perfetta.
«Non hai mai pensato che
forse è proprio questo il bello? Smettere di cercare di
essere perfetti e
provare a fare delle proprie imperfezioni delle peculiarità,
dei punti di
forza», la feci ruotare su sé stessa, l'abito
vaporoso che si sollevava
spumeggiante attorno a lei, per poi tornare a scendere in onde sinuose.
«Fosse facile...»
Le sorrisi, capivo benissimo.
Dietro quella facciata di impeccabile rispettabilità che
offrivo al mondo mi
ponevo le sue stesse domande, mi agitavano i medesimi dubbi.
Quotidianamente.
«E poi hai quello sguardo.
Come se capissi sempre più cose di quelle che
riveli...»
La band finì di suonare le
ultime note e annunciò una pausa per il taglio della torta,
pausa riempita da
basi musicali registrate, e lasciò il pubblico con la
promessa di rivedersi
dopo il breve intervallo.
«Cosa pensi che non abbia
detto ora?», la interrogai curioso, senza accennare ad
allontanarla e a seguire
dentro casa le altre coppie, intente a sciamare all'interno a
congratularsi con
il festeggiato.
Lei sembrò non accorgersi
dell'improvvisa assenza di ballerini attorno a noi. «Credo tu
stia pensando a
quanto io sia patetica e negata per il ballo!»,
esclamò ridendo argentina.
E lo rifece. Scosse la testa,
i capelli le scivolarono sulla schiena e il collo si scoprì
completamente. Solo
che questa volta era molto più vicino e il suo profumo molto
più intenso ed
inebriante.
«Penso tu sia tutt'altro che
patetica...», sussurrai avvicinandomi impercettibilmente a
lei. In quel momento
lei alzò lo sguardo e ci ritrovammo così vicini
che sarebbe bastato un minimo
movimento per far sì che le nostre labbra si toccassero.
Nessuno dei due si scostò e
nessuno dei due si mosse. Sospesi in un limbo tanto bello quanto
frustrante. Lo
volevamo tutti e due ma allo stesso tempo nessuno voleva sbilanciarsi e
fare il
primo passo. Avrebbe voluto dire cedere, ammettere per primo qualcosa
che
avevamo cercato di ignorare. Un paio di centimetri ci separavano, un
oceano ai
nostri occhi spaventati.
Presi coraggio. Lo volevo, ne
ero certo. «A dire il vero io penso tu sia s-»
«Felicity! Ti ho cercata
dappertutto, cara. Tuo padre mi aveva avvertito che probabilmente ti
eri
smarrita come sempre in qualche cespuglio mentre sognavi di puffbacche
e
puffole pigmee». Silenzio. «Ho interrotto
qualcosa?»
Era bastato quel primo nome
esclamato da una voce maschile per mettere fine a quel momento sospeso
nel
tempo.
Felicity si allontanò di
scatto, scuotendo il capo come per riprendersi e tornare in
sé. Dopodiché si
affrettò a raggiungere il nuovo arrivato. «Theo!
Sono così felice che tu sia
qui. Entriamo dai, credo di essermi persa Papà e il suo
discorso dettato da troppo
champagne...». Gli cinse un braccio e assistetti come
spettatore ad un bacio a
quello che immaginai essere il famoso fidanzato di Felicity.
Voltai loro le spalle e mi
incamminai verso il viale d'ingresso. Non avevo nessuna voglia di
stringere la
mano a quello scialbo Theo che si era preso qualcosa che avrebbe dovuto
essere mio.
Che pensassero pure che fossi un gran cafone. Rientrai in
casa, una
direzione ben precisa in mente, una direzione che indossava un abito
rosso come
il peccato.
Chiedo scusa
per il ritardo nel postare il nuovo capitolo. Ricominciare
l’università è stato
più impegnativo del previsto considerate che in gioco in
questo periodo ho
anche la ricerca di una casetta e il dover iniziare di nuovo da zero.
Risponderò
immediatamente alle recensioni super gentili che mi avete lasciato e ne
approfitto per ringraziarvi tutti. Potrei promettervi mari e monti qui
ma preferisco essere sincera e dirvi che i tempi di attesa saranno
più lunghi rispetto agli inizi causa sveglia odiosa all'alba
e giornate pienissime. Cercherò comunque di compattare i
tempi e cercare di non far passare un ulteriore mese.
S.