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Autore: HannibalLecter    15/11/2015    4 recensioni
Liam Carter Wright è un giovane avvocato esperto in divorzi e furiosi litigi, tipico topo di città la cui unica idea di contatto con la natura comprende un dissetante cocktail servito in una noce di cocco, calda sabbia bianca e donne dalla pelle dorata dal sole.
Felicity Van Houten, testa tra le nuvole e lentiggini, invece lavora quotidianamente immersa nel verde e ogni sera si rifugia nella sua casetta di campagna alquanto malandata, circondata da un vero e proprio paradiso fiorito, che la tiene impegnata a tal punto da farle scordare di fare la spesa o pagare le bollette.
Il sole stava calando e tutto il giardino aveva assunto una deliziosa sfumatura aranciata. Diressi il getto dell'acqua verso il cespuglio di azalee e mi misi a canticchiare tutta allegra:
«Le rose sono rosse
le viole sono blu
Liam Carter Wright è una testa di cactus
e presto lo scoprirai anche tu!»
Passai al rododendro che tenevo in un bellissimo vaso di terracotta decorata e innaffiai abbondantemente anche lui.
«Miss Van Houten, lei è una poetessa sublime»
Mi voltai di scatto e mi trovai di fronte in tutto il suo splendore Mr. Testa di Cactus meglio conosciuto come Liam Carter Wright.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Liam

 

Il lieve russare del mio vicino di poltrona, le gentili parole sussurrate dalla hostess ad un anziano signore che voleva un'altra tazza di caffè, il rombo in sottofondo del motore dell'aereo che stava sorvolando la costa orientale in quella notte limpida e serena.

Questa era la colonna sonora dei miei pensieri. Non viaggiavo in economy class da almeno dieci anni e mi sentivo oppresso dalla vicinanza dei sedili, dalla mancanza di spazio e dal servizio approssimativo e casereccio.

Per cena mi avevano offerto delle polpette con sugo. Non mangiavo polpette dai tempi della mia infanzia, quando Nonna May ne cucinava a montagne per la gioia dei suoi mille nipotini.

Avevo tentato ogni strada per riuscire ad accaparrarmi un biglietto in business class: dalla voce grossa alla seduzione, dalle minacce all'abbindolamento.

Nulla.

Ero stato schiaffato su un sedile consunto della seconda classe, posto senza finestrino, tra un uomo obeso di cinquant'anni che tendeva a invadere il mio spazio vitale con la sua ciccia e una petulante bambina di sei anni che aveva passato un'ora intera a darmi del deficiente quando avevo commesso l'errore di rivelarle che non ero un fan della sua beniamina, Taylor Swift.

Solitamente Diana prenotava con largo anticipo i miei voli, organizzando ogni mio trasferimento con estrema cura, assicurandosi che la mia attesa nella vip lounge fosse piacevole e confortevole e che ci fosse sempre un'auto ad aspettarmi appena atterrato. Questa volta però la mia efficiente segretaria non aveva potuto fare molto dal momento che quello strambo invito mi era giunto solo la sera precedente.

Mr. Montgomery Van Houten sarebbe lieto di godere della Sua compagnia in occasione della piccola riunione di amici che si terrà Venerdì 23 Maggio alle ore 20.00 presso la sua abitazione di Tampa per la ricorrenza del suo sessantesimo compleanno.

Mr. Liam Carter Wright (+1)

È richiesto abbigliamento da sera.

Ero rimasto alquanto sorpreso da quell'invito. Due settimane prima avevo passato una piacevole serata in compagnia dei coniugi Van Houten ma la nostra conoscenza reciproca si fermava a ciò. Nonostante il fatto di essere allo stesso tavolo con il mio maestro ispiratore e la presenza di Felicity che era stata un brontolio unico per tutta la cena e aveva passato tutto il tempo a battibeccare con la madre perché quest'ultima riteneva fuori luogo ed inappropriato il suo abbigliamento composto da jeans e maglia scura con maniche a tre quarti, mi ero divertito e non mi ero mai sentito a disagio o in soggezione.

Ma stavamo pur sempre parlando di Montgomery Van Houten e pur di partecipare alla sua festa sarei stato disposto a farmi Boston-Tampa sul retro di un camion che trasportava profumati maialini.

Avevo pensato a lungo alla possibilità di farmi accompagnare da una delle donne che frequentavo saltuariamente e senza impegno ma alla fine mi ero deciso ad andare da solo.

Sapevo dalle interviste e dagli articoli a lui dedicati che il padre di Felicity sosteneva che la maggior parte del suo successo fosse dovuto alla presenza costante della moglie al suo fianco. Felicity mi aveva accennato sommariamente alla storia sbocciata ai tempi del college tra i suoi genitori. Sebbene, come lei sosteneva, inizialmente sua mamma fosse solo una snob fissata con il cinema d'essai in lingua francese e non calcolasse minimamente il giovane tutto studio e codice civile che era suo padre.

Questa storia mi ricordava molto quella tra Mildred e Matthew nonostante, mentre la prima era anche lei dedita allo snobismo nella sua forma più altezzosa e ricca di boria, il mio amico invece che tutto libri di diritto e nottate di studio era dedito a faccende più...ricreative che coinvolgevano giovani e sciocchine donzelle.

Io ai tempi del college avevo sperimentato di ogni, avevo studiato tantissimo ma non avevo trovato di certo trovato la mia compagna di vita.

Sbuffai, stanco di quei pensieri velati di malinconico rimpianto che mi tormentavano ultimamente, e tornai a concentrarmi sul documento aperto sul mio iPad sperando che quel viaggio infernale finisse nel più breve tempo possibile.

«Tra dieci minuti atterriamo. Dovrebbe spegnere ogni dispositivo elettronico ora», mi ricordò l'assistente di volo sorridendomi.

Colsi lo sguardo attento che dedicò alla mia intera persona così come la sua mano posata sulla mia spalla più a lungo del tempo necessario a richiamare la mia attenzione. E sarei un'ipocrita se negassi di non aver ampiamente apprezzato la visuale offertami dal suo decolté messo in bella mostra grazie alla posizione leggermente ricurva, necessaria per raggiungere me al di là dell'iceberg di adipe che era il mio vicino.

Non ero assolutamente dell'umore giusto per civetterie e sguardi maliziosi, volevo solo arrivare in albergo il prima possibile e levarmi di dosso quell'odore stagnante di aereo di bassa lega che mi sentivo adeso ai vestiti e alla pelle.

Le rivolsi un brusco cenno del capo, spegnendo il tablet e riponendolo nella mia ventiquattr'ore, cogliendo l'occasione per sottrarmi al suo tocco.

La ragazza si allontanò di fretta, un'espressione accigliata stampata sul viso e una camminata più sculettante di prima, chiaro messaggio dedicato al sottoscritto, come a dire 'Stolto, guarda che ti perdi'. Era carina, nulla di eccezionale, ma era snella ed atletica e aveva davvero delle belle gambe abbronzate. Fino all'anno scorso probabilmente le avrei dato corda ma negli ultimi tempi conducevo una vita sociale più ritirata di quella di una suora di clausura.

Stavo invecchiando. E stavo invecchiando male.

Il signore al mio fianco, finalmente sveglio dopo cinque ore di sonno beato, era il tipico tizio fastidioso che inizia a trafficare con armi e bagagli e ad alzarsi dal suo posto per cominciare ad intasare lo stretto corridoio ancora prima che l'aereo abbia toccato l'asfalto della pista. La bambina invece, Shake it off sparata a duemila decibel nei timpani, stava masticando una Big Bubble non curandosi del fatto che il suo ruminare poteva non interessare l'intero gruppo passeggeri.

Mi misi a fissare le istruzioni con i comportamenti da tenere in caso d'emergenza stampate sulla parte superiore del sedile davanti a me.

Mi ero sempre domandato come fosse possibile mantenere la calma necessaria a trovare quel benedetto giubbotto, indossarlo, trovare la levetta da tirare o il tubicino in cui soffiare per gonfiarlo quando il tuo aereo stava precipitando in picchiata.

«Benvenuti a Tampa, Florida. Sono le 2.57 di mattina e il tempo è sereno. A breve avrà inizio lo sbarco; fino ad allora siete pregati di restare seduti ai vostri posti. L'equipaggio di bordo vi ringrazia per aver scelto di volare con noi e vi augura una buona permanenza. Arrivederci!», annunciò la voce di uno steward dagli altoparlanti gracchianti.

Tolsi la modalità aereo al mio iPhone e avviai la sincronizzazione della mia casella di posta elettronica. Avere clienti sparsi per tutti gli States, divisi dai fusi orari, mi assicurava un flusso continuo di email ad ogni ora del giorno e della notte.

«Si muova, mi scappa la pipì!». Una vocetta lagnosa mi fece distogliere l'attenzione dallo schermo del telefono.

Seguii il consiglio della bimbetta e, approfittando dell'ingorgo creato da una coppia giapponese alle prese con una gabbia con tanto di pappagallo, afferrai la ventiquattr'ore, acciuffai il mio trolley super leggero di ultima generazione in policarbonato e me la filai.

Appena entrato in aeroporto mi diressi all'uscita principale di questo e richiamai un taxi.

«Grand Hyatt Tampa Bay», informai l'autista mentre gli lasciavo il mio bagaglio e prendevo posto sul sedile posteriore.

L'oceano correva scuro e liscio come una grande chiazza di liquido petrolio al lato della strada ma ero davvero troppo stanco per poterlo ammirare veramente.

Probabilmente mi appisolai perché quando mi svegliai l'autista aveva già affidato il mio bagaglio al portiere notturno dell'albergo e aveva aperto la portiera, pronto a richiamare la mia attenzione.

Saldai il conto e mi incamminai attraverso l'imponente atrio, diretto verso il lucido bancone della reception dove una ragazza afroamericana mi aspettava sorridente.

«Benvenuto Mr. Carter Wright. Spero abbia fatto un buon viaggio. La sua stanza è la 793, settimo piano, vista mare. Vladimir la accompagnerà e si prenderà cura del suo bagaglio. Le serve altro?». Nel bel mezzo di questo cortese soliloquio una magra figura pallida dai tristi capelli biondo stinto aveva fatto la sua comparsa alle spalle di Jackie, nome che avevo appreso leggendo la targhetta spillata al bavero del gilet della receptionist.

Distolsi lo sguardo da quelle lettere incise sulla piccola placca metallica e tornai a rivolgere la mia attenzione alla signorina. «Per ora nulla, grazie», le risposi allungando la mano per prendere la tessera magnetica che mi porgeva.

«Allora le auguro un buon riposo», concluse lei.

 

***

 

E un buon riposo avevo senza dubbio avuto quella notte pensai rotolando sul dorso tra quelle candide lenzuola.

Erano le undici di mattina circa, come il mio telefono e soprattutto i brontolii insistenti del mio stomaco mi avevano avvisato, e la stanza era letteralmente inondata dalla luce che entrava prepotente dalle finestre, che la notte precedente mi ero scordato di oscurare.

Mi stiracchiai beandomi di quella sensazione di piacevole intorpidimento che uno prova solo dopo una bella dormita. O una bella scopata. Ma questo era un altro discorso. Anche se quella Jackie...

Un martellante bussare alla porta distolse la mia mente da quei lascivi pensieri mattutini.

«La colazione!», mi annunciò una voce attutita dalla pesante porta in legno.

Colazione? Come avevo fatto ad ordinare la colazione se appena arrivato ero crollato sul letto per risvegliarmi solo un paio di minuti prima?

Mi alzai svogliatamente e, cercando di non inciampare nelle scarpe che quella notte avevo abbandonato al centro del grande tappeto che ricopriva il pavimento chiaro, mi recai fino alla soglia dove spalancai la porta, curioso di sapere se quel servizio scocciatore era un omaggio che l'hotel riservava ai suoi clienti più affezionati.

Davanti a me trovai un vassoio enorme, ricco di ogni leccornia: da morbidi croissant a succhi di frutta dai mille colori, da un caffè nero fumante a uova all'occhio di bue profumatissime. Non appena la mia fame accecante lasciò spazio anche al resto del quadro mi accorsi a chi appartenessero quel nasino tutto lentiggini e quei vispi occhietti dallo sguardo canzonatorio.

Senza aspettare che la invitassi ad entrare, l'uragano Felicity mi spinse di lato grazie ad una gentile gomitata e marciò sicura verso il mio letto, dove abbandonò il vassoio sul vicino comodino prima di voltarsi a fronteggiarmi.

«Ora che ho compiuto il mio dovere finalmente smetterò di vivere sotto ad un tetto a scolapasta. Susu, mangia, Mr. Liam, che dobbiamo andare! Che ci fai ancora vestito da noioso avvocatuccio? Siamo in Florida! Qui costume da bagno e occhiali da sole sono obbligatori!», snocciolò, afferrando poi una fettina di pane di segale ricoperto da un leggero velo di burro e portandoselo alla bocca.

«Mi sono appena alzato. E quella è la mia colazione», puntualizzai osservando la mia porzione di yogurt e muesli sparire tra le fauci affamate della mia folle giardiniera.

«Oddio, scusa! È solo che le brioches ai cinque cereali sono le mie preferite...», mugugnò leccando un cucchiaino e fissando con sguardo bramoso l'invitante croissant posato su un piattino.

Dieci minuti più tardi, nello stomaco le uova e i due biscotti che ero riuscito a sottrarre a Felicity e alla sua furia divoratrice, ero chiuso nel bagno principesco della mia stanza mentre la tiranna mi urlava di sbrigarmi dall'altra camera.

Interrogarmi sul come e il perché fosse finito in una situazione simile era inutile. Le donne riuscivano sempre, in un modo o nell'altro, a metterci un bel guinzaglio tempestato di paillettes attorno al collo e a fare in modo che non sfuggissimo mai al loro occhio scrutatore.

Avevo portato con me il mio smoking nero dal taglio classico e un paio di camicie con pantaloni abbinati. Niente bermuda dalle stampe hawaiane o canottiere sbracciate dai colori improbabili.

Capii di aver commesso un errore nell'esatto istante in cui aprii la porta e incontrai un limpido sguardo chiaramente contrariato fisso sui miei calzoni color sabbia e la mia camicia azzurra.

Mi scrutava accigliata dal grande letto matrimoniale, dove si era installata a gambe incrociate, dopo aver abbandonato le infradito sulla moquette.

«Porta con te la carta di credito», mi ordinò prima di balzare in piedi, recuperare la sua ampia sacca di tela e dirigersi verso la soglia.

Infilai portafogli e telefono nella tasca posteriore dei pantaloni, recuperai il badge magnetico della camera e chiusi la porta alla mie spalle.

Se c'era una cosa che mai avrei immaginato...bè, era proprio quella. Passeggiare sulla battigia, costume da bagno e t-shirt comprate al mercatino dell'usato, occhiali da sole pescati al lato di una cassa di un supermercato tra caramelle e preservativi, e un aquilone legato al polso.

«Mi rendo conto di quanto mi manchi tutto ciò solo quando torno a casa...»

Viso leggermente arrossato illuminato dal sole fiammeggiante dell'una di pomeriggio, occhi celati dalle lenti verdi scuro di un paio di occhiali dalla forma tondeggiante e camiciola leggera di candido cotone a svolazzarle attorno.

Bellissima.

Per un attimo rimasi quasi accecato dalla consapevolezza di quanta bellezza ci fosse in quella ragazza conosciuta grazie a nonno Tobias e alle apine svolazzanti del suo sito.

«Mr. Liam! Non ti ho mai chiesto dove sei nato e cresciuto. Ho sempre dato per scontato che fossi di Boston ma hai negli occhi lo stesso velo di nostalgia che ho io quando sono lontana da questo mare dove ho imparato a nuotare e dove ho perso la verginità...»

«Hai perso la verginità in mare?!», domandai sconcertato.

Lei sbuffò e si sistemò dietro l'orecchio una ciocca di capelli sfuggita dallo chignon disordinato che teneva imprigionata la sua chioma color girasole.

«Ovviamente tu hai colto solo quello!», sbottò prima di chinarsi e immergere le mani, palme aperte, nella sabbia bagnata.

«Bè, è una cosa insolita...», cercai di difendermi, nonostante volessi solo saperne di più riguardo a quella faccenda.

«Ero giovane, era estate, lui era qui in vacanza...», commentò vaga guardando l'acqua coprire e poi ritirarsi dal dorso delle sue mani. «Dov'è casa tua?»

«A Boston»

Sì, un freddo e vuoto attico dal valore di migliaia e migliaia di dollari.

«La tua vera casa. Non quella che ti ostini a chiamare tale ma quella che lo è davvero, quella a cui pensi quando ti senti solo e non sai più dove stai andando...», precisò rialzandosi, appoggiando una mano bagnata di acqua salata sul mio avambraccio e alzando il viso verso di me.

Quello che vidi in quegli occhi mi fece quasi tremare.

Casa.

Non avevo più chiamato casa nessun luogo da quando avevo lasciato i miei genitori a diciassette anni.

E al tempo l'unica cosa che volevo era proprio fuggire da lì. Dalle attenzioni esagerate della mia apprensiva madre. Dall'espressione esausta e gli occhi sempre tristi di mio padre, costretto a fare orari disumani in fabbrica per permetterci di finire il liceo. Dai commenti cattivi dei miei compagni di classe rivolti al mio giubbino vecchio di una decina di anni e ai sussidi familiari con cui tiravamo avanti.

Avevo studiato senza sosta. Notte e giorno. Nessuna vacanza, nessun ballo di fine anno, nessuna distrazione per Liam Carter Wright.

E poi avevo vinto la borsa di studio tanto agognata e tanto sudata e me ne ero andato a Harvard, senza mai guardarmi indietro.

Non ero più tornato. Non avevo più visto la crepa che attraversava diagonalmente il soffitto chiazzato di umidità della mia stanzetta. Non ero più stato nel mio posto segreto, gambe a penzoloni, a fissare per ore intere i treni fermarsi e ripartire in un ciclo senza sosta, sognando di scappare da lì. Non mi ero più seduto al tavolo, decorato dal lavoro di mille tarli, nel nostro buio cucinotto, che senza una moneta da un quarto di dollaro sotto una gamba traballava.

Casa.

«Non ricordo neanche più quale sia...», sussurrai fissando le onde infrangersi sugli scogli in lontananza.

Una pressione improvvisa mi fece voltare il capo e fissare lo sguardo sulla mia mano racchiusa da quella più piccola e costellata di efelidi di Felicity.

«Vieni con me»

La seguii senza far domande, sfilando davanti ai bagnanti impegnati a prendere il sole e a godersi quella meravigliosa giornata sotto quel cielo limpido.

Percorremmo tutta la spiaggia prima di allontanarci dall'acqua, abbandonare il pavimento sabbioso e rimetterci le infradito.

Felicity regalò l'aquilone ad un bambino, che la ringraziò con un abbraccio che la fece illuminare come un albero di natale e poi, sempre senza lasciare la mia mano, mi fece da guida attraverso una serie di vicolini in discesa che, mano a mano che procedevamo, si lasciavano alle spalle i resort di lusso e gli edifici di scintillante vetro e cromature per far posto a casette dall'aspetto più vissuto e peculiare.

Ci stavamo avvicinando alla zona più portuale e meno turistica della città. Il mare spumeggiante cominciava a popolarsi di imbarcazioni e l'acqua diventava leggermente più torbida a causa del traffico di barche che ma attraversavano.

Felicity procedeva spedita, senza indugio, era chiaro che avesse bene in mente dove voleva arrivare.

Quando un paio di minuti più tardi ci fermammo di fronte ad un capannone malmesso e all'apparenza abbandonato, preso in contropiede da quel brusco stop finii per travolgere la mia compagna di avventure.

«Perdonami...», mormorai,  indietreggiando di un passo e cercando di districare le mie dita dalla presa ferrea delle sue.

Non me lo permise. Rafforzò la stretta e riprese a camminare, come se si fosse ricordata quale fosse la direzione da seguire dopo essersi persa un attimo a fissare quelle pareti in mattoni e la foresta di erbacce che le decorava.

Girammo attorno alla costruzione, che rivelò avere una porta sul retro oltre al portellone a serranda che si trovava sulla facciata anteriore della struttura.

Ma non era la porta il vero obiettivo di Felicity, bensì la finestra, priva di vetro e coperta solo da un pannello di compensato logoro e spezzato in corrispondenza dell'angolo in basso a sinistra.

Lasciò la mia mano e diede un calcio potente e ben assestato al pannello facendo venire allo scoperto la buia cavità che una volta era stata sede dell'intelaiatura di una finestra.

Dopodiché, ancora prima che potessi realizzare cosa stesse accadendo, vidi la sua sagoma sparire al di là del muro, come inghiottita dall'oscurità che faceva da padrona all'interno dell'edificio.

Quella ragazza doveva amare proprio tanto il cacciarsi continuamente nei pasticci.

Un'aureola di capelli biondi fece capolino dal rettangolo buio che segnava il confine dell'infisso. «Che stai aspettando? Vieni!», mi incitò prima di scomparire nuovamente all'interno.

Facendo attenzione a non perdere per strada le infradito feci passare prima una poi l'altra delle mie lunghe gambe dall'altro lato del muro, ritrovandomi in un'ampia stanza, fiocamente illuminata da spiragli di luce provenienti da fori e parti mancanti dei pannelli che ricoprivano la lunga serie di finestre schierate lungo la parete.

Delle ciabatte modello flip-flop in plastica turchese erano proprio quello che ci voleva per esplorare un posto disabitato da tempo e probabile rifugio di insetti, roditori e probabilmente senzatetto e tossici occasionali.

«Benvenuto a casa Van Houten!», mi annunciò la voce di Felicity.

Se ne stava ferma al centro della stanza, gli occhi chiusi e le braccia avvolte attorno al busto come a volere cercare calore in un abbraccio.

«Tu abitavi qui?», domandai sconcertato, lo sguardo sugli intrecci di ragnatele che adornavano ogni angolo libero della stanza e il pavimento in crudo cemento.

Montgomery Van Houten aveva sì dato inizio alla sua carriera nel mondo legale all'interno di un capannone ma non avrei mai pensato che questo sottintendesse che anche la sua famiglia aveva dovuto muovere i primi passi all'interno di quelle quattro mura scrostate.

«All'inizio le cose andavano proprio male. Papà ce la metteva tutta ma sembrava davvero che la sorte remasse contro la nostra famiglia. Entrambi i miei genitori rifiutavano categoricamente di essere finanziati dai miei nonni. Non so se per orgoglio o per la volontà di non tornare ad essere dipendenti da loro. Abbiamo vissuto qui fino al mio settimo compleanno, poi lo studio legale iniziò ad ottenere i primi successi, poi si espanse, inglobando nuovi dipendenti ed infine, mattoncino dopo mattoncino, Papà costruì un impero. E fu naturale trasferirsi. Per un paio d'anni in una villetta a schiera e infine, alla vigilia del mio decimo compleanno, nella casa che vedrai stasera alla festa. Vieni, voglio mostrarti la mia camera».

Salimmo delle strette scale di legno scricchiolante e ci ritrovammo in un corridoietto claustrofobico su cui si affacciavano tre aperture, senza porta.

«Qui dormivamo io e Zoe, mia sorella. Ricordo che quando i rumori notturni del porto e delle azioni di scarico e carico delle navi mi spaventava, mi accucciavo vicina vicina alla figura addormentata di mia sorella e fissavo per ore le ombre sul soffitto», spiegò sottovoce sfiorando con la mano una porzione di muro dove si intravedeva la sagoma lasciata dalla testata di un letto. «E la cosa curiosa sai qual è? Dopo tutti questi anni, dopo tutto quello che è cambiato, migliorato o giunto a termine  nella mia vita, questo posto rimane quello che sento più...casa, insieme al mio giardino a Plymouth. Qui sono stata felice. Siamo stati felici, nonostante il poco che avevamo. Anzi, forse lo siamo stati proprio grazie a quel poco che possedevamo. Ci torno sempre quando vengo in Florida. Ci torno per ricordarmi che le cose semplici sono sempre le più belle ed autentiche. E so che anche Papà a volte torna perché ho trovato le cicche delle sue sigarette sparse nel cortile...», concluse ridacchiando tra sé.

«Non torno a casa da quando l'ho lasciata a diciassette anni...», confessai ad alta voce quasi senza rendermene conto.

Lei rivolse lo sguardo a me e mi sorrise, «Credo proprio che dovresti farci ritorno. Fa sempre bene tornare indietro, alle proprie radici. Ti aiuta a capire i passi fatti fino a quel momento e quelli ancora da compiere. È illuminante e al tempo stesso terribilmente disorientante. Torna a casa, Mr. Liam».

Come ci riusciva? Come poteva parlarmi così sinceramente e saggiamente la stessa persona che si chiudeva quotidianamente da sola le dita nella portiera del pick-up e litigava furiosamente con il commesso del supermarket che faceva il furbo sul numero delle caramelle che le serviva e impacchettava?

Annuii, non sapendo come ribattere. Nel mio intimo ero terribilmente indispettito. Come si permetteva di farsi gli affari miei e dirmi come comportarmi? Lei, con una vita così ingarbugliata da non riuscire a venirne a capo neanche se fosse stata Arianna nel labirinto e avesse avuto il filo da seguire!

«Dobbiamo andare. Ho promesso a Mamma di dare un'occhiata alla disposizione degli ospiti, lei ha una memoria a scolapasta e tende a dimenticare litigi, odi sanguinari e minacce di morte intercorse tra vari parenti, amici e conoscenti. Ti prometto che proverò a metterti al tavolo delle mie cugine. Sono ricche, sono viziate, sono fatte per metà di plastica e per l'altra metà di seta cinese con stampe Hermes, e ovviamente sono single e a caccia di marito», mi prese in giro mentre ridiscendevamo al piano inferiore.

Dopo essere tornati alla spiaggia e all'ingresso del mio albergo ci salutammo. Poco prima di inforcare la sua bicicletta color confetto si fermò, fece scivolare leggermente in basso sul naso gli occhiali da sole e mi fissò da sopra la montatura.

«Mi raccomando, stasera comportati bene e non farti impressionare troppo da quello che vedrai, è solo uno scintillio», detto ciò mi sorrise e partì pedalando verso il sole infuocato all'orizzonte.

 

***

 

Dietro il bancone della reception non c'era più quella bellezza esotica che era Jackie ma un certo Kyle, occhi di ghiaccio e testa rasata.

Probabilmente dovevano soddisfare i gusti di tutti i clienti e non solamente i miei, pensai deluso.

Il muscoloso e troppo mascolino per i miei gusti Kyle mi informò che l'auto da me prenotata era arrivata e che l'autista mi attendeva all'ingresso.

Gli feci un cenno del capo e mi avvicinai contrariato alle porte scorrevoli in vetro della hall. Avevo specificatamente richiesto di non usufruire del servizio autista.

Guidare mi piaceva, farmi scarrozzare sul retro di un macchinone dai finestrini oscurati come se fossi un'appariscente stella di Hollywood no.

Dopo vari minuti di discussione, una mancia di cinquanta verdoni e un taxi a mie spese per rispedire l'autista al mittente, potei finalmente appoggiare il mio didietro al sedile in pelle nera della Mercedes a noleggio e partire alla volta della villa di Mr. Montgomery Van Houten.

Ero veramente pronto a tutto. Mi sarei aspettato draghi che sputavano fuoco usati come animali da guardia e famiglie di fenicotteri libere di scorrazzare nella piscina a forma di fiore di loto.

L'elegante sobrietà di casa Van Houten mi sorprese. Non mi aspettavo una manifestazione pacchiana e sfacciata di lusso e gingilli scintillanti dal valore milionario.

Nessun parcheggiatore, le auto venivano posteggiate dai legittimi proprietari lungo il viale ricoperto di ghiaia. Nessuna cameriera vestita da coniglietta a servire stuzzichini, sobri camerieri si aggiravano impeccabili nella loro divisa scura per la sala. Nessun soffitto dorato o pavimento di specchi, graziosi affreschi dalle tinte pastello adornavano in modo discreto le pareti e una superficie di solido ma raffinato marmo grigio scuro sfilava sotto le suole delle scarpe delle decine di invitati.

La festa si svolgeva nell'ala ovest del piano terra e nel giardino posteriore che si affacciava direttamente sull'oceano, rischiarato dagli ultimi raggi rosati del sole calante.

Parure di splendenti diamanti, sorrisi contornati da rossetti sgargianti, abiti principeschi dai lunghi strascichi, immacolati colletti inamidati, acconciature fantasiose e perfette, papillon annodati ad arte.

La ricchezza e l'ostentazione che non avevo trovato nella cosa la potei osservare negli ospiti.

«Carter Wright, ce l'ha fatta a venire! Ora devo davvero un tetto nuovo alla mia scellerata figliola», mi accolse giovialmente con una poderosa stretta di mano il padrone di casa.

«È un piacere averla qui. Mi scuso a nome di quella povera donna esaurita dopo anni di lavoro alle dipendenze di mio marito che è Miss Lydia per il ritardo nel recapitarle l'invito alla festa. Non ha portato nessuna fanciulla con sé?», e nel domandarmi ciò, conoscendo benissimo la risposta data l'evidente mancanza di un'accompagnatrice, mi fece l'occhiolino civettuola.

Perché interrogarsi a lungo sull'origine dei comportamenti psicotici di Felicity? Non bisognava ricercare molto per scoprire che il detto 'tale madre tale figlia' spiegava già ampiamente tutto.

«Alla fine non avevamo più avuto occasione di parlare del perché della mia telefonata, sa quella della mia segretaria, volevo...oh no! Cara, tuo zio Larry si sta avvicinando troppo alla zona bar e sai cosa succede quando esagera con il gin. Riprendiamo dopo», e mi abbandonò lasciandomi con una pacca sulla spalla.

Mrs. Van Houten, fasciata in un elegante abito di seta color crema, che riusciva ad illuminare il suo incarnato e a non farla apparire come un enorme bignè alla crema, mi rivolse un sorriso di scuse e,  dopo aver borbottato qualcosa riguardo a 'quella benedetta figliola di Felicity' e al piano di sopra, mi lasciò a sua volta seguendo il marito nella vana impresa di separare l'anziano signore dal quinto Martini.

Non conoscendo nessuno decisi di rompere il ghiaccio seguendo l'esempio del buon vecchio Zio Larry e mi avvicinai all'angolo bar,  chiedendo al barman di servirmi un Gin Tonic.

La signora accanto a me stava spiegando ad un'amica la colonia di calli che aveva preso possesso dei suoi piedi, mentre il ragazzo dall'altro lato sembrava impegnato a scrutare il suo Shirley Temple come se fosse una sfera di cristallo, da cui poter decifrare il futuro.

Ruotai annoiato sull'alto sgabello e feci vagare lo sguardo per la stanza, osservando tutti quei visi sconosciuti che mi circondavano.

Anziani signori dai capelli brizzolati impomatati intenti a fare presentazioni e stringere mani. Donne più agghindate di un albero di natale impegnate a fare capannello per poter spettegolare in libertà sull'abito di quella e l'accompagnatore di questa. Bambini che tiravano le maniche dei genitori per attirare la loro attenzione, gli occhi pieni di sonno e i piedi stanchi per le corse in giardino.

Mancava qualcosa.

Mancava qualcuno.

E fu in quel momento che la vidi.

Una nuvola di tulle rosa. Le guance arrossate. I capelli luminosi intrecciati. La mano saldamente attaccata al corrimano della scalinata per non perdere l'equilibrio. Lo sguardo spaesato a scrutare i presenti.

Senza rendermene conto avevo già appoggiato il bicchiere, lasciato la mia postazione e mi stavo dirigendo verso di lei, come attirato dal polo opposto di una calamita.

I suoi occhi si ingrandirono quando si focalizzarono sulla mia persona e un'ampia espressione incredula si dipinse sul suo volto.

«Mr. Liam, che schianto!», commentò fischiando in segno di approvazione.

Perché nonostante l'aspetto fatato, sotto quelle vesti fiabesche si celava la solita Miss Felicity, sempre svitata e poco intenzionata a comportarsi bene.

Mi venne da arrossire, quasi come se fosse avvenuto uno scambio di ruoli e io fossi la donzella imbarazzata dall'apprezzamento sfacciato di un uomo.

«Anche tu non sei male...», borbottai porgendole il braccio, che lei prontamente afferrò prima di lasciarsi alle spalle l'ultimo gradino con un saltello.

Bugiardo. Bugiardo. Bugiardo.

E avevo mentito in modo così sfacciato da temere che i suoi occhi potessero leggere e smascherare la mia menzogna semplicemente guardandomi negli occhi.

Fortunatamente lei sembrava impegnata a camminare sui suoi sandali dal tacco vertiginoso senza sembrare una giraffa ubriaca e ciò pareva un'azione in grado di assorbirla completamente.

«Mamma ha schierato il suo intero esercito di torturatrici per ottenere ciò. Sarà felice che almeno una persona abbia notato lo sforzo fatto da loro e il dolore sopportato dalla sottoscritta...», mugugnò trascinandomi attraverso il salone in direzione del bancone da me lasciato pochi minuti prima.

Si sbagliava invece, gli occhi dei due terzi degli uomini presenti nella stanza erano puntati su di lei, ovviamente troppo distratta per accorgersene, e il terzo restante aveva smesso di fissarla solo dopo essere stati prontamente rimproverati da consorti e accompagnatrici.

Per non parlare dei commenti concitati e sussurrati che percorrevano la stanza, rimbalzando di donna in donna, e gli sguardi invidiosi dedicati al vestito della ragazza il cui braccio era saldamente allacciato al mio.

«Un Margarita alla fragola per me», trillò non appena raggiungemmo il lucido piano del bancone. «Per te?», mi domandò ruotando il capo nella mia direzione.

Nel compiere quel movimento l'acconciatura semi raccolta le lasciò scoperta una spalla e il lato destro del collo. Distratto da quella porzione di pelle appena dorata e cosparsa di sparute efelidi tardai nel risponderle e così la vidi tornare a rivolgere la sua attenzione al barista e chiedergli di preparare un Margarita anche per me.

Tempo di riacquistare il controllo e un alto bicchiere dal collo sottile veniva sospinto gentilmente verso di me.

«Ti vedo distratto stasera. Qualcosa non va?»

Alzai lo sguardo e la vidi guardarmi con sguardo preoccupato mentre si sporgeva nella mia direzione.

Sì, mi sto completamente rincitrullendo. Sarà l'alcool, sarà l'euforia generale, sarà l'atmosfera leggera e festaiola. Sarai tu con quel vestito di un colore così etereo e infantile che eppure su di te risulta maledettamente seducente. O quel tuo profumo che emani ogni volta che ti muovi, e tu sei irrequieta e ferma non ci stai mai, e a me pare di stare in Provenza in un immenso campo di lavanda color indaco. Sarà la tua mano poggiata quasi per caso sul mio ginocchio o il tuo respiro troppo vicino ora che mi stai guardando apprensiva. Sarà tutto ciò ma io stasera mi sento come uno sciocco adolescente alla prima cotta. Gli ormoni a mille, le mani sudate, la conversazione impacciata. E i tuoi occhi. Potresti smetterla di rivolgermi quello sguardo? Per favore. Se tu mi guardi in quel modo è come se assorbissi tutto l'ossigeno presente e io dovessi andare in apnea. Per favore.

«Nulla, assolutamente nulla». Fine della discussione.

Tutto va in modo meraviglioso no?

«Quella donna ti fissa con lo stesso sguardo affamato che io dedico ai pancakes con lo sciroppo d'acero e i mirtilli», mi informò placidamente lei, sorseggiando il suo cocktail della stessa tinta del suo abito.

Feci per voltarmi a cercare il soggetto in questione quando la sua mano corse ad afferrarmi saldamente il mento per impedirmi qualsiasi movimento che non fosse abbassare lo sguardo per fissarlo nel suo.

«Nonchalance, Mr. Liam! Fai finta di volermi gentilmente prendere un tovagliolino - che tra parentesi mi serve davvero - e voltati manifestando naturalezza e non sembrando un guardone maniaco». Mollò la presa e tornò a sedere con la schiena ritta.

Seguii le sue istruzioni alla lettera, ruotando con calma sullo sgabello, camminando fino all'angolo del bancone dove si trovava il piccolo porta tovaglioli argentato e solo allora mi concessi di alzare lo sguardo per poter finalmente scovare la mia ammiratrice segreta.

Per un attimo rimasi senza fiato. Gambe incrociate, spacco furbetto, abito aderente rosso fuoco come il rossetto, occhi scuri come l'onice. Mi fissava sfacciatamente, l'angolo della bocca leggermente piegato in un sorrisetto ammiccante e un sopracciglio sollevato come a dire: Che stai aspettando? Avrà avuto sicuramente più di quarant'anni ma li portava egregiamente, come il viso luminoso e la scollatura generosa testimoniavano. Era una predatrice, una leonessa abituata alla caccia grossa, annoiata probabilmente dalla vita di tutti i giorni e da un marito sovrappeso e petulante.

Recuperai un paio di tovaglioli e tornai da Felicity, la quale mi attendeva con una buffa espressione di shock stampata in volto.

«Mi sbagliavo: è senza dubbio lei la guardona maniaca! Santo cielo, pare voglia ripassarti per bene solo guardandoti!», esclamò concitata.

«Oh oh, che fine ha fatto la Felicity romanticona che usava le tende di casa per confezionare abiti nuziali? Ripassare per bene? Che fine hanno fatto i discorsi su cuore, sole e amore?», mi burlai di lei.

Lei ovviamente si inviperì proprio come mi aspettavo. «Dubito voglia fare l'amore, infilarti un anello al dito e adottare tre gemellini etiopi con te! E non dire romanticona come se fosse un insulto!»

Ridacchiai di fronte alla sua espressione sostenuta e al suo sguardo vagamente minaccioso rivolto alla donna alle mie spalle.

«Mi fai fare un tour della casa?», tentai per smorzare l'atmosfera pesante che si era venuta a creare.

«No»

«Vuoi ballare?»

«No»

Porsi il mio bicchiere vuoto al barista e feci per alzarmi, «Va bene, messaggio recepito. Andrò a conoscere la bella panter-»

Non riuscii a terminare perché Felicity, come sempre nel suo modo molto prepotente, mi afferrò per il risvolto della giacca e mi trascinò al centro della sala.

«Oh no, cari. Qui si balla musica per vecchi!», si precipitò su di noi Mamma Van Houten iniziando a spingerci in direzione del giardino e del gazebo illuminato da mille lucine bianche nascoste tra le rose del pergolato. «Qui stanno i giovani! Buona serata!», e ci mollò tra le varie coppiette intente a danzare strette strette sulle note di una ballad strappalacrime.

«Ma mamma...», la sua protesta venne smorzata dall'annuncio del cantante della band che la prossima canzone era dedicata a tutti gli amori non ancora nati ma prossimi alla fioritura.

«Che stupidaggine», borbottò a mezza voce facendo per allontanarsi da me e dalla pista da ballo.

Afferrai la sua mano e facendola piroettare su sé stessa la feci atterrare precisamente dove volevo che fosse: vicino a me, le mani sul mio petto per mantenere la distanza di un soffio che ci divideva e non oltrepassare un limite invisibile ma chiaramente percepibile.

«Esibizionista», mi rimbrottò appoggiando con ostentata malagrazia una mano sulla mia spalla e lasciando che le cingessi la vita.

La musica cominciò e noi iniziammo a piroettare come dei moderni Cenerentola e relativo principe azzurro. Ok, magari Felicity, con la sua famiglia dal patrimonio miliardario, non era proprio un buon esempio di sguattera maltrattata. Sicuramente però avrebbe adorato avere dei topini come amici.

«Sai anche ballare bene», constatò, una nota di delusione nella voce.

«Lo dici come se fosse una colpa», le feci presente, guidandola tra le varie coppie e tenendola saldamente tra le mie braccia.

Lei sembrò pensarci un attimo su prima di sbuffare e ammettere, «Vorrei che lo fosse. Sei quasi perfetto. E a me le cose perfette spaventano, forse perché io sono tutto tranne che perfetta».

E lì, calda e morbida, stretta a me, mi veniva in mente solo una parola per definirla: perfetta.

«Non hai mai pensato che forse è proprio questo il bello? Smettere di cercare di essere perfetti e provare a fare delle proprie imperfezioni delle peculiarità, dei punti di forza», la feci ruotare su sé stessa, l'abito vaporoso che si sollevava spumeggiante attorno a lei, per poi tornare a scendere in onde sinuose.

«Fosse facile...»

Le sorrisi, capivo benissimo. Dietro quella facciata di impeccabile rispettabilità che offrivo al mondo mi ponevo le sue stesse domande, mi agitavano i medesimi dubbi. Quotidianamente.

«E poi hai quello sguardo. Come se capissi sempre più cose di quelle che riveli...»

La band finì di suonare le ultime note e annunciò una pausa per il taglio della torta, pausa riempita da basi musicali registrate, e lasciò il pubblico con la promessa di rivedersi dopo il breve intervallo.

«Cosa pensi che non abbia detto ora?», la interrogai curioso, senza accennare ad allontanarla e a seguire dentro casa le altre coppie, intente a sciamare all'interno a congratularsi con il festeggiato.

Lei sembrò non accorgersi dell'improvvisa assenza di ballerini attorno a noi. «Credo tu stia pensando a quanto io sia patetica e negata per il ballo!», esclamò ridendo argentina.

E lo rifece. Scosse la testa, i capelli le scivolarono sulla schiena e il collo si scoprì completamente. Solo che questa volta era molto più vicino e il suo profumo molto più intenso ed inebriante.

«Penso tu sia tutt'altro che patetica...», sussurrai avvicinandomi impercettibilmente a lei. In quel momento lei alzò lo sguardo e ci ritrovammo così vicini che sarebbe bastato un minimo movimento per far sì che le nostre labbra si toccassero.

Nessuno dei due si scostò e nessuno dei due si mosse. Sospesi in un limbo tanto bello quanto frustrante. Lo volevamo tutti e due ma allo stesso tempo nessuno voleva sbilanciarsi e fare il primo passo. Avrebbe voluto dire cedere, ammettere per primo qualcosa che avevamo cercato di ignorare. Un paio di centimetri ci separavano, un oceano ai nostri occhi spaventati.

Presi coraggio. Lo volevo, ne ero certo. «A dire il vero io penso tu sia s-»

«Felicity! Ti ho cercata dappertutto, cara. Tuo padre mi aveva avvertito che probabilmente ti eri smarrita come sempre in qualche cespuglio mentre sognavi di puffbacche e puffole pigmee». Silenzio. «Ho interrotto qualcosa?»

Era bastato quel primo nome esclamato da una voce maschile per mettere fine a quel momento sospeso nel tempo.

Felicity si allontanò di scatto, scuotendo il capo come per riprendersi e tornare in sé. Dopodiché si affrettò a raggiungere il nuovo arrivato. «Theo! Sono così felice che tu sia qui. Entriamo dai, credo di essermi persa Papà e il suo discorso dettato da troppo champagne...». Gli cinse un braccio e assistetti come spettatore ad un bacio a quello che immaginai essere il famoso fidanzato di Felicity.

Voltai loro le spalle e mi incamminai verso il viale d'ingresso. Non avevo nessuna voglia di stringere la mano a quello scialbo Theo che si era preso qualcosa che avrebbe dovuto essere mio. Che pensassero pure che fossi un gran cafone. Rientrai in casa, una direzione ben precisa in mente, una direzione che indossava un abito rosso come il peccato.

 

 

Chiedo scusa per il ritardo nel postare il nuovo capitolo. Ricominciare l’università è stato più impegnativo del previsto considerate che in gioco in questo periodo ho anche la ricerca di una casetta e il dover iniziare di nuovo da zero. Risponderò immediatamente alle recensioni super gentili che mi avete lasciato e ne approfitto per ringraziarvi tutti. Potrei promettervi mari e monti qui ma preferisco essere sincera e dirvi che i tempi di attesa saranno più lunghi rispetto agli inizi causa sveglia odiosa all'alba e giornate pienissime. Cercherò comunque di compattare i tempi e cercare di non far passare un ulteriore mese.

S.

 

  
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