Fanfic per contest Twilightlovers: Il Futuro
All’apparente
età di sette anni Renesmee Carlie
Culle esibiva con maestria disarmante un sorriso luminoso e grandi occhi senza
pensieri. Immortalata in una fotografia sembrava proprio una bambina normale,
un essere umano, i lunghi capelli bronzei che si incendiavano nel tramonto, la
pelle che rimandava un lieve bagliore ambrato, dolce e grazioso.
Sbuffai
inviperita, chiudendo il grande album che tenevo pigramente tra le mani con uno
schiocco. C’era qualcosa di pericolosamente irritante nelle foto della mia
infanzia, nell’ossessione con cui ogni mio passo era stato immortalato solo per
dare la parvenza di una vita umana passata serenamente e poi esibito con
pomposo orgoglio.
Riosservai
quella piccola me stessa che mi sorrideva dalla foto. Avevo i capelli dello
stesso colore di mio padre, gl’occhi uguali a quelli che una volta aveva mia
madre. Odiavo i miei grandi occhi marroni. Erano anonimi, erano normalissimi,
insomma, erano troppo umani. Tutti i miei parenti avevano magnifici occhi
topazio e io? Io solo stupidi anonimi occhi marroni. Che schifo.
Osservai
ancora le foto, alcune in cui figuravano disparati membri della mia grande
famiglia: una foto nell’immenso armadio di Alice mentre giocavamo con dei
vestiti, una con Rosalie che mi abbracciava teneramente e l’ultima che guardai
era una delle mie preferite.
Stavo
ritta, in piedi, tra i miei amatissimi genitori, eterni diciassettenni. Allora
sembravo già una sorellina minore, ora apparivo quasi come loro coetanea. La
mia costituzione minuta mi regalava una anno in meno, ma ormai avevo raggiunto
la mia maturazione e la crescita era terminata, regalandomi per l’eternità
l’aspetto di una diciassettenne, come i miei genitori. I nostri tratti simili
ci facevano passare più facilmente come fratelli, ma era ancora più pericoloso
frequentare la stessa scuola.
La
storia messa in piedi perdeva ancora di più di credibilità.
Ma
in fondo per una famiglia speciale come la mia certi ostacoli erano normali.
Dopotutto erano tutti vampiri, eterni ed immutabili, bellissimi. Eh, si, vivevo
con una delle uniche famiglie, per la precisione ne esistevano solo tre, così
numerose di vampiri, che solitamente vivevano solo in coppie o terzetti per
insospettire di meno. Le uniche famiglie abbastanza numerose erano il clan di
Denali, che consideravamo come parenti, e i Volturi, millenaria famiglia che
aveva sempre tenuto nelle mani il potere su tutti i vampiri, sconfitti
clamorosamente dalla mia famiglia per proteggermi quando avevo solo 5 mesi.
Non
eravamo particolari solo per quello. Il nostro clan, come quello di Denali,
viveva una filosofia di vita molto particolare: non si cibava si sangue umano,
ma solo di sangue animale. Pensiero pressochè
incomprensibile per gl’altri vampiri, ma che ci permetteva di vivere come umani
per quanto il tempo ce lo concedeva, prima che la gente si rendesse conto del
fatto che non saremmo invecchiati.
Allora
dovevano partire per un altro posto, per ricominciare la loro vita da capo.
Dovevamo
proteggere il nostro segreto.
Solitamente
ero orgogliosa delle mie origini, del fatto che io stessa ero speciale quasi,
se non di più, come loro. Io ero una mezza vampira, nata quando mia madre era
ancora umana, sposata con mio padre Edward, vampiro, quasi otto anni prima; ma
quel giorno non mi sentivo proprio orgogliosa di niente. Di certo non ero
orgogliosa della parete del nuovo salotto, della nuova casa Cullen,
nella nuova cittadina, dove avrei vissuto la mia nuova vita. Era costellata di
mie foto incorniciate che documentavano
ogni mio anno, con sotto la didascalia dell’età. “Renesmee,
4 anni” scandiva una foto,
mostrando mentre giocavo con l’acqua di un fiumiciattolo. Ovviamente l’età
scritta non era quella effettiva, ma quella che dimostravo. Il perché poi me lo
dovevano ancora spiegare in modo convincente.
Assolutamente
no. Non ero orgogliosa per niente. Per quello non ero ancora uscita da quello
stupido salotto se non per mangiare o per altri bisogni fisiologici. Papà era
ossessionato dal fatto che gli sembrava non mangiassi abbastanza quindi mi
costringeva ad uscire di lì, come un animale stanato, ma quando potevo rimanevo
lì, immobile a pensare con dolore a tutto quello che recentemente avevo perso.
Come
ho già detto non era raro che ci spostassimo, e fino a quel momento avevo già
avuto due trasferimenti. Non mi disturbava affatto, anzi, conoscere nuovi luoghi
mi appassionava, tanto che ero riuscita a convincere mio papà e mia mamma a
farmi viaggiare con Jacob in giro per il mondo ogni estate, per vedere anche
sotto la luce del sole tanti posti fantastici, come la grande muraglia cinese o
i templi giapponesi.
Quindi
per me spostarmi non era un problema, ma avevo imposto anch’io una condizione:
che fossimo sempre abbastanza vicini perché potessi andare a trovare Charlie
ogni tanto e perché Jacob potesse rimanere con me senza abbandonare La Push, come invece sarebbe stato costretto a fare per
seguirmi in capo al mondo. Nonostante lui fosse un licantropo se si trattava di
me era disposto anche a vivere con una famiglia di otto vampiri. Ma penso sia
normale quando si ha l’imprinting…
Così
ero sempre stata vicino a lui, che aveva continuato a seguirmi nella mia
velocissima crescita con la dolcezza che solo lui sapeva regalarmi,
riscaldandomi il cuore ogni volta che mi sorrideva. Ormai il mio bisogno di lui
era fisico. Averlo accanto mi completava, come non averlo vicino mi dilaniava.
Ma ora? Ora avevo perso tutto. Quando mi
sembrava che tutto andasse per il verso giusto si era frantumato sotto le mie
dita come fragilissimo cristallo. Non potevo ancora crederci!
Cosa
poteva accadere di così grave da strappare dal mio fianco Jacob?
Una
sola piccola cosa. In particolare una sola persona. Giorgie.
Che
la nostra vittoria pochi anni prima bruciasse ai Volturi era ormai risaputo:
davanti a un pubblico da loro stesso portato avevano dimostrato l’esistenza di
una potenza superiore e ormai ci eravamo arresi all’evenienza che si
vendicassero, anche se eravamo certi che sarebbe successo almeno tra
trent’anni. Non c’era problema alcuno, nel frattempo avremmo pensato a un
piano: dopotutto li avevamo sconfitti una volta perché non farlo di nuovo?
Di
certo non avremmo mai pensato che potessero ricorrere ad un espediente così
subdolo e contorto.
Non
potevamo certo dubitare di Giorge e Katrina.
Mi
ricordo come fosse ieri quando arrivarono, qualche mese fa, a Forks, cercandoci disperatamente, gl’occhi lievemente
ambrati che stavano ad indicare l’inizio di un nuovo modo di vivere. Erano
venuti alla ricerca di Carlisle e di tutti noi Cullen, per implorarci di aiutarli ad imparare a mantenere
le loro scelte di vita.
Giorge era un personaggio magnetico. Il suo
viso era uno spettacolo di emozioni contrastanti che si agitavano e si
scontravano come un mare in tempesta. Katrina non gli
era da meno: una criniera di riccioli arancioni le scendeva lungo le spalle
ossute e pallide incorniciando alti zigomi e labbra voluminose.
Erano
belli, come ogni vampiro, ma in loro c’era qualcosa di particolare. Erano
proprio i loro caratteri a renderli speciali ed Edward per primo si era
lasciato andare dopo aver scrutato nella limpidezza delle loro azioni. Invece
ci avevano solo raggirato e presi in giro.
Come
capire l’accoppiata di terribili poteri che si portavano appresso?
Katrina poteva filtrare o manipolare i poteri
altrui. Era la reincarnazione della vipera fatta persona e per prima aveva
soggiogato papà facendogli sentire i pensieri che decideva lei, e lui, povero,
non aveva sospettato di nulla, anzi. Proprio mio padre era stato tra i primi ad
affezionarsi ai nuovi venuti. Forse erano le lunghe discussioni silenziose che
faceva con Giorge, non lo so, ma era stato il primo a
cadere nella lucente ragnatela di quei due predatori ambiziosi. Ma Edward non
era stato l’unico il cui potere era raggirato. Anche le visioni di Alice
subirono una pesante sviata da parte di Katrina e non
aveva visto il futuro svolgersi degli eventi rispetto a Katrina
e Giorge.
L’unico
che continuava a guardarli con sospetto era Emmet,
fermò nell’affermare apertamente che non si fidava, supportato solo da Rosalie,
che si fidava ciecamente di quello che pensava, anche se è difficile dare torto
ad Edward e Alice. Alla fine ripensandoci dobbiamo a lui se non siamo tutti
morti.
Emmet non era mai stato un tipo dall’orgoglio
gongolante, ma non sopportava che le sue considerazioni non venissero valutate.
All’epoca vivevamo di nuovo nella nostra casa a Forks
in cerca di un nuovo posto dove andare nelle vicinanze, magari in Canada,
cercare una casa dove potessimo stare tutti noi nove, Jacob per quando sarebbe
venuto (quasi sempre) e Carlise avanzò la proposta di
prendere uno stabilimento abbastanza grande per tenere anche Giorge e Katrina, deciso ad
accoglierli in famiglia.
Emmet non ci vide più e per non fracassare
casa dalla rabbia andò a prendersela con una montagna, inseguito da Rosalie,
Jasper e Alice.
Come
Alice si allontanò abbastanza da Katrina una visione
l’aveva fulminata: aveva visto Esme e Jasper saltare
in aria e morire, finiti in pezzetti bruciacchiati, mentre Giorge
li guardava e rideva soddisfatto.
La
terribile immagine la scosse a tal punto che inchiodò a corsa in un gesto
secco, la mente che rimandava a rallentatore l’immagine per tentare di capirla
e Jasper la scuoteva mentre inerme guardava nel vuoto.
Alice
era sempre ben disposta a raccontarmi le cose, anche quelle che secondo alcuni
(vedi mamma e papà iperprotettivi) ritenevano mi avrebbero sconvolta, ma avevo
faticato pure io a scucirle la sua versione dei fatti.
Me
la ricordo perfettamente, dritta come un fuso ed immobile, che osservava
lontano assente mentre con poche parole veloci mi descriveva la sua visione.
“
Ho visto Jasper saltare in aria ed Esme subito dopo.
È stato davvero terribile, anche se non è la prima volta che ci vedevo morti”
aveva fatto una lunga pausa pensierosa “Sembravano davvero soffrire
tremendamente. Come se avessero cominciato a bruciare da dentro e poi la forza
dell’impatto li facesse esplodere in tanti piccoli pezzi.”
Poi
mi aveva osservata, apprensiva, aspettando una mia qualche reazione prima di dire
l’ultima inquietante frase.
“Era
un uccisione di vampiri in piena regola, tutta in un solo istante.”
Non
riuscii più a ritrovare l’immagine perché Katrina le
era andata dietro, ma aveva avuto il tempo di dire a Jasper “Siamo stati
imbrogliati”. Poi l’avevano uccisa.
La
pira di Katrina si era accesa e spenta prima ancora
che potesse capire cosa succedeva.
Con
Giorge fu diverso. L’odore di morte gli era arrivato
prima che i miei vampiri tornassero a casa e si era già messo in guardia,
pronto al contrattacco, ma come la lontananza da Katrina
aveva svegliato Alice, aveva miracolosamente svegliato anche papà.
Lì
iniziò la nostra fuga disperata.
Con
rabbia scagliai l’album dall’altra parte della stanza e la mia forza sovraumana
lo distrusse senza problemi. Ero sinceramente disgustata dall’ idea di fuga,
quasi quanto Emmet. Dovevo rimanere a Froks a proteggere la gente umana, al fianco di Jacob e di
mio padre!
Invece
ero stata spedita lì e la mia lontananza obbligava Rosalie ed Esme a seguirmi per “accudirmi” inutilmente. Non ero una
poppante! La mia pelle era dura come quella dei vampiri, ero forte e veloce
come loro! Potevo benissimo affiancarli in battaglia!
Invece
sia Edward che Jacob erano stati irremovibili sulla scelta di spedirmi laggiù
senza una ragione valida. Per proteggermi, continuavano a dire. Ero davvero
furiosa e triste e stressata e tanto, tanto stanca.
Gettai
un altro sguardo al leggerissimo cellulare appoggiato su un tavolino poco
distante. Non potevo chiamare, dovevo aspettare che fossero loro a contattarmi.
Mi
pizzicarono gl’occhi.
Sentivo
due piani di sotto Esme e Rosalie discutere sulla
sistemazione dei mobili.
Non
era rimasta nemmeno mia mamma. E io ero lì.
In
un secondo mi stavo di nuovo sdraiando sul divano, ma tra le mani tenevo il minuscolo
cellulare nero che mi avevano dato. Dovevo chiamare Jacob. Dovevo sentire la
sua voce dolce accarezzarmi le corde le cuore. Dovevo immaginare il suo viso
illuminato dal suo sorriso caldo come il sole e non con gl’occhi lucidi.
Forse
sarebbe finita male.
E
io avevo baciato Jacob solo una volta, due mesi prima.
Me
lo ricordavo ancora. Ricordavo il mio letto nell’hotel in India, le lenzuola
che profumavano di fiori e incenso, le finestre aperte dentro cui spirava la
brezza lenta e gentile, calda, come la sua pelle nel nostro abbraccio. Mi
passava la mano tra i capelli e mi guardava negl’occhi. Anche nel buio la sua
pelle rossastra brillava come un pensiero prezioso.
Ci
guardavamo e basta. Sdraiati sulle lenzuola fresche, abbracciati andavamo a
fuoco, la nostra temperatura sopra la media ci incendiava a vicenda.
Non
eravamo mai stati in intimità, non così. Un papà geloso e possessivo che legge
nel pensiero non è l’ideale per avere momenti di intimità con il tuo ragazzo.
Ma
quella sera c’erano centinaia di chilometri tra noi e lui, e non ci pensavo
neanche.
Per
me c’erano solo i suoi grandi occhi neri, mentre ogni minuto si avvicinava di
poco a me, il respiro che sapeva di pioggia, fresco e frizzante.
Si
avvicinava, sempre di più, sempre di poco, man mano che i nostri occhi si
confondevano tra loro, intrecciati in uno sguardo dolce e rapito.
Le
labbra di Jacob erano morbide e calde. Sapevano dei frutti che avevamo
assaggiato a cena e di qualcosa di fresco che non riuscivo ad identificare.
Sentii la sua mano chiudersi ed aprirsi tra i miei capelli, dolcemente, poi
sempre con più foga, mentre approfondiva il bacio schiudendomi le labbra con la
sua lingua.
Non
siamo andati troppo oltre, solo baci, carezze e piccole attenzioni. Già con
quello sfuggire alla lettura inopportuna di papà sarebbe stato impossibile.
Infatti la sua irritazione era pari solo alle risatine che Jacob che si faceva
sotto i baffi una volta tornati.
Mi
mancava, mi mancavano tutti. Anche Esme e Rosalie
sarebbero presto partite, lasciandomi sola per un po’, per affiancare i
compagni in battaglia. Avevo già salutato tutti, come se fosse l’ultima volta.
Ma
Jacob?
Jacob
mi aveva strinto, così forte che per la prima volta sentii male alle costole
quando mi lasciò, ma non ero sicura se fosse per la foga dell’abbraccio o per
il dolore che mi cresceva nel petto. Ma mi sussurrò in un orecchio:
“A
presto, Amore mio.”
E
mi ero messa a piangere, senza saper dire niente di più. Non ci sarebbe stata
un’altra volta.
Infatti
stavo ancora accoccolata sul divano in un salotto che mi era estraneo. L’arredamento
del salotto era ipocrita, come se ci sarebbe stato un futuro.
Sentii
un odore che mi stimolò un acceleramento del cuore, che batté ancora più veloce
del solito, l’odore di Jacob. Non mi preoccupai molto. In quel momento stavo
indossando la sua maglia, era ovvio che ogni tanto una zaffata più intensa del
suo odore mi invadesse il naso delicato. Sentivo la sua mancanza.
Piano
piano mi addormentai stringendo al cuore il piccolo
cellulare.
Mi
svegliò un respiro.
Lento,
dolce e regolare, un cuore pompava vicino a me con un rumore di risucchio quasi
fastidioso.
Aprii
un occhio. Chi era?
Gl’occhi
caldi e neri di Jacob mi salutarono prima del suo sorriso.
“Ciao”
mi sussurrò.
Confusa
mi rizzai a sedere, ma prima di tutto gli lanciai le braccia al collo,
stringendolo più forte che potevo. Non poteva più sfuggirmi.
Mi
gettai in avanti con tutto il mio peso, schiacciandolo per terra dalla
sorpresa, mettendomi a singhiozzare. Ero convinta di non rivederlo mai più!
Lo
baciai, senza pensare ad altro, sentendo in lontananza il cellulare cadere per
terra.
Le
sue mani si infilarono sotto la mia maglietta quel che bastava per accarezzarmi
i fianchi stretti, saggiando con le dita la mia pelle. Lo osservai, passando una
mano sui suoi tratti familiari.
“Ciao”
gli risposi con la voce strozzata.
“Sono
venuto a prenderti” mi mormorò, la mano calda salita ad accarezzarmi la guancia
mettendomi l’altro braccio intorno alla mia vita per stringermi a lui. Sbattei
le palpebre confusa.
“Dove
andiamo? Cosa è successo? Esme e Rosalie…”
“Sh.”
Mi
sorrise. Un sorriso stanco, esausto, ma sincero.
“Sono
tutti a Forks e ci stanno aspettando. Questa è una
guerra da affrontare tutti insieme.”
Capivo
cosa significavano quelle parole: se saremmo morti lo avremmo fatto tutti mano
nella mano. Bene. Ero pronta.
“Quando
se ne sono andate?” chiesi.
“Appena
ti sei addormentata sono arrivato a darle il cambio” appoggiò la sua fronte
sulla mia.
Lo
guardai sconcertata. E non mi aveva svegliata? Avevo passato ore preziose a
ronfare sul divano?!
“Quanto
ho dormito?”
Soffocò
un risolino. “Nove ore buone.”
Gli
spinsi la mano aperta sul petto, irritata.
“Dovevi
svegliarmi.”
“No”
esclamò allegro “Sei bellissima mentre dormi.”
I
suoi occhi luccicarono mentre me lo diceva e mi sentii arrossire. Mi piacevano
i complimenti di Jacob, mi piaceva tutto di lui. Sentii il mio cuore accendersi
di quel fuoco leggero che solo Jacob sapeva accendere.
“Quando
partiamo?” chiesi, lievemente ansiosa.
Mi
scompigliò i capelli, pensieroso, come se stesse soppesando se dirmelo; ma
Jacob era il ragazzo più schietto e sincero sulla faccia della terra e di certo
non mi avrebbe mai nascosto nulla. E poi perché non dirmi una cosa così? Tanto
lo avrei scoperto, no?
“Subito,
appena possiamo” brontolò. Perché era irritato ora?
Gli
puntellai il dito sul naso, come gli facevo sempre per prenderlo un po’ in
giro. Un gesto affettuoso tutto nostro.
“Hai
esitato” gli feci notare con un sorriso e lui mi illuminò col suo.
“È
che sto così comodo…” commentò, fingendo di
stiracchiarsi pigramente sul pavimento con me ancora accoccolata sopra di lui,
aggrappata alla maglia a maniche corte nera che gli copriva il petto rossastro.
Ridacchiai
leziosa, appoggiando il viso sulla sua clavicola, col la punta del naso
riuscivo ad accarezzare il pomo d’adamo che si alzava
e si abbassava ogni volta che deglutiva.
Nemmeno
io volevo spostarmi. Abbracciati sembrava più semplice credere che non ci fosse
nulla a minacciarci. La tasca di Jacob vibrò all’improvviso facendomi
sobbalzare e Jacob rispose al cellulare.
“Pronto?
Ah, ciao Edward.”
E
così dovevamo partire. Non vedevo l’ora di combattere con la mia famiglia: non
riuscivo ad accettare il confinamento dentro a quella casa estranea.
“Si.
Si, stavamo per partire. Tranquillo, sta bene. Si, dormiva” mormorò con la voce
che si addolciva.
Da
quando ci eravamo salutati Jacob aveva tagliato i capelli. Prima li aveva
lunghi fino alle spalle, ora invece gli ricadevano sulla fronte in corte
ciocche confuse.
“Ah”
esclamò all’improvviso, incupendosi.
Passò
una manciata di secondi e lo guardai rilassarsi.
“Si
è proprio da Sam” si lamentò, alzando gl’occhi al cielo. “Ok. Certo a dopo.”
Mise
giù e si reinfilò il cellulare in tasca con un
sbuffo.
“Tutto
bene?” sussurrai cauta.
“Non
ti preoccupare, è tutto a posto. Jaz e Sam non
riescono a scendere a patti con la strategia e si sono messi a litigare… lo sai com’è lo zio quando se la prende, no?” mi
guardò ghignando comicamente e mi strappò un risolino sereno.
Mi
strinse e mi cullò coccolandomi, un gorgoglio che gli saliva dalla gola come
roche fusa.
Se
il mondo si fosse fermato in quel momento non mi sarebbe dispiaciuto. Stavo
bene.
Ma
mi sciolsi dalle sue mani e appoggiai le mie accanto al suo viso, sorridendo al
suo sguardo curioso e canzonatore. Mi abbassai e lo baciai di nuovo, prima con
lentezza, assaggiando la consistenza delle labbra morbide, poi sempre più
profondo, con più foga, aderendo al suo corpo.
Sentii
una scarica di pizzicore scuotermi l’anima, qualcosa di magico che mi
percorreva le membra. C’era urgenza nei nostri baci, nelle nostre carezze, un
urgenza irritante e fastidiosa, ma necessaria.
Per
quanto mi stessi illudendo inconsciamente che il tempo si fosse fermato, che
stesse tornando tutto alla normalità, sentivo nelle ossa che il nostro futuro
era sull’orlo del baratro.
E
pensare che mi ero fermata spesso a pensare al mio futuro, eterno, in compagnia
della mia famiglia e di Jacob. Chissà, magari avrei avuto anche dei figli, non
sapevo se ero sterile o no. Però ora tutto scemava e svaniva nella luce di una
morte presagita.
Ero
preda di una frenesia piatta e sottile, nata dall’urgenza di un futuro che
forse non avremo mai avuto. Lo volevo, lo volevo con tutta me stessa. Mi
assecondò, stringendomi forte, ma con dolcezza. Era possessivo, ma mi
maneggiava con delicatezza, come se fossi un oggetto fragile e prezioso.
Lui
era la persona che meno sembrava accorgersi della mia forza, della mia pelle
durissima, delle mie fattezze da vampira. Era il primo a trattarmi da adulta, a
differenza di Rosalie che proprio non voleva che io crescessi, ma l’ultimo a
rinunciare all’idea di fragilità che davo da bambina.
Vedevo
i suoi occhi brillare nella penombra, mentre nelle brevi pause tra i nostri
baci e mi osservava bramoso, ma lui doveva aver visto qualcosa nei miei che lo
bloccò, allontanandolo bruscamente da me.
All’improvviso
era dall’altra parte della stanza e mi osservava pensoso, ansante. Mi sentii
abbandonata e delusa. Perché, perché era improvvisamente fuggito da me?
“Nessie …” mormorò dolcemente. “La mia Nessie.
La mia luna.”
Si
fermò lì, ancora pensieroso. Non era un espressione che gli si addiceva molto.
Lui era una creatura passionale ed istintiva, quell’aria intellettuale e
pensierosa si addiceva più a persone come papà. Non era arrabbiato. Perché
avrebbe dovuto esserlo, poi? Ma l’aveva apostrofata come ‘luna’ e quello era un
nomignolo che si riservava solo nei discorsi importanti e un po’ filosofici che
ogni tanto si sforzava di fare. Mi avvicinai a lui camminando a quattro zampe,
trotterellando per il poco spazio che ci divideva e accoccolandomi tra le sue
braccia. Non capivo cosa l’aveva fatto scattare così.
“Cosa
c’è, Jacob?”
“Hai
paura Nessie?” mi chiese invece, gl’occhi accesi da
uno strano tormento. “Perché mi guardavi spaventata e io … “ la voce morì
soffocata in un istante.
Paura?
Si che avevo paura. Paura di perderlo, paura di non avere abbastanza tempo per
scoprire tutto di lui e amarlo come una vera fidanzata. Avevo paura di morire,
o di rimanere da sola, o di perdere qualcuno di importante. E con ciò?
Jacob,
concitato, aspettava una risposta immediata, ma io mi ero persa di nuovo nel
filo dei miei pensieri e avevo tardato a rispondere. Quindi in preda all’ansia
diede aria alla bocca.
“Nessie, se ti ho spaventata scusami, ti prego, non ti farei
mai nulla, lo sai! Io non volevo spaventarti o … “
Lo
zittii appoggiandogli la mano su una guancia.
Alcuni
vampiri avevano sensi o poteri supplementari ai soliti che sfoggiava ogni
vampiro. Mia madre aveva uno scudo particolare che poteva estendere su altri,
mio padre leggeva nel pensiero, Alice vedeva il futuro, Jasper controllava il
clima emotivo delle altre persone. Ma anch’io avevo un potere, molto speciale.
Col
tempo mi ero abituata a non usarlo spesso, come invece mi era di abitudine, in
particolare dovetti imparare a trattenermi e disciplinarmi quando frequentavamo
una scuola umana, non potevo salutare la mia compagna di banco appoggiandole
una mano sulla guancia e fare quello che stavo facendo in quel momento con
Jacob. Io potevo far vedere agl’altri cosa pensavo, tramite immagini e
sensazioni.
Allora
feci vedere le mie preoccupazioni a Jacob, tentando di tranquillizzarlo. Non
dovevano esserci ostacoli del genere tra di noi, non volevo.
Lui
si sciolse e mi sorrise, più sereno, abbracciandomi stretta.
“Moriremo?”
chiesi.
Jacob
non mi rispose, impedendomi di guardarlo in faccia per un po’, stringendomi
contro il suo petto in modo che non potessi alzare lo sguardo sui suoi occhi.
“Io … non credo” mi rispose, lentamente.
Non
ero sicura del suo tono. Sembrava dire ‘spero di no’. Erano cose diverse. Lo
strinsi un po’ più forte.
“Io
… Nessie, non ti vorrei là con noi, lo sai. Ho tanta
paura di perderti, sapessi che peso è per me riportarti a Forks,
ma …” si interruppe, cercando le parole giuste. “Sarei davvero molto più
contento ad averti al mio fianco che lontana senza la garanzia che tu stia
bene. Mi sento egoista ma non voglio lasciarti qui, anche a costo di portarti
nel bel mezzo dello scontro.”
Gli
circondai il collo con le braccia bianche e marmoree, appoggiando le dita di
una mano sulla sua guancia in una carezza. Gli mostrai il mio ardente desiderio
di stargli accanto, di combattere al fianco della mia famiglia.
Mi
sorrise, un sorriso solare e sincero che mi sconvolgeva sempre.
“Allora,
vuoi partire subito? Lo scontro è stato previsto da Alice tra almeno due
settimane, quindi se vuoi partire un po’ più tardi, magari aspettare il pomeriggio…”
Capivo
il desiderio velato tra le sue parole. Voleva stare ancora un po’ solo con me,
lontano dall’invadente potere di papà. Sorrisi furbescamente e gli posai un
nuovo bacio sulle labbra, che sbocciò in molto altro.
Non
avevo più addosso l’urgenza della battaglia, ma solo la velata determinazione
che mi spingeva in ogni cosa che mi appassionava.
E
poi la dolcezza di Jacob era irresistibile.
Il
sole ci investiva. Strano, in quel posto piovoso da cui stavamo partendo, ma
non mi preoccupai molto. Io, a differenza dei miei, non diventavo uno strano
essere sbrilluccicoso sotto la luce del sole, ma
emettevo solo un vago bagliore ambrato, che Jacob, mi aveva confessato,
adorava. Quindi, contrariamente alle mie abitudini, quel pomeriggio non feci
caso al sole, mentre stavamo per imbarcarci in aeroporto per tornare a Forks. Non importava che scendesse dalle grandi finestrate
a fiotti composti e pieni, accentuando i miei capelli. Avevo ben altro per la
testa. La battaglia, la mia famiglia, il mio futuro. Jacob.
Ci
imbarcammo e appoggiandomi allo schienale mi sfuggi da ridacchiare, guardando
Jacob con aria complice. Dopotutto era lui che, solo pochi minuti prima, mi
aveva fatto notare che i primi giorni dal nostro arrivo ci sarebbe stato un
altro motivo di ansia per Edward. Sarebbe stato molto difficile frenare la
fantasia di Jacob dopo la sera prima.