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Autore: Emy93    26/02/2009    1 recensioni
Anni dopo la loro pubblica umiliazione i volturi vogliono vendetta. Una piccola pausa riflessiva di una bambina cresciuta troppo in fretta in attesa dell'inevitabile, in cui riesce lo stesso a sperare e sognare un amore che le appartenie.
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jacob Black, Nuovo personaggio, Renesmee Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Fanfic per contest Twilightlovers: Il Futuro

 

All’apparente età di sette anni Renesmee Carlie Culle esibiva con maestria disarmante un sorriso luminoso e grandi occhi senza pensieri. Immortalata in una fotografia sembrava proprio una bambina normale, un essere umano, i lunghi capelli bronzei che si incendiavano nel tramonto, la pelle che rimandava un lieve bagliore ambrato, dolce e grazioso.

Sbuffai inviperita, chiudendo il grande album che tenevo pigramente tra le mani con uno schiocco. C’era qualcosa di pericolosamente irritante nelle foto della mia infanzia, nell’ossessione con cui ogni mio passo era stato immortalato solo per dare la parvenza di una vita umana passata serenamente e poi esibito con pomposo orgoglio.

Riosservai quella piccola me stessa che mi sorrideva dalla foto. Avevo i capelli dello stesso colore di mio padre, gl’occhi uguali a quelli che una volta aveva mia madre. Odiavo i miei grandi occhi marroni. Erano anonimi, erano normalissimi, insomma, erano troppo umani. Tutti i miei parenti avevano magnifici occhi topazio e io? Io solo stupidi anonimi occhi marroni. Che schifo.

Osservai ancora le foto, alcune in cui figuravano disparati membri della mia grande famiglia: una foto nell’immenso armadio di Alice mentre giocavamo con dei vestiti, una con Rosalie che mi abbracciava teneramente e l’ultima che guardai era una delle mie preferite.

Stavo ritta, in piedi, tra i miei amatissimi genitori, eterni diciassettenni. Allora sembravo già una sorellina minore, ora apparivo quasi come loro coetanea. La mia costituzione minuta mi regalava una anno in meno, ma ormai avevo raggiunto la mia maturazione e la crescita era terminata, regalandomi per l’eternità l’aspetto di una diciassettenne, come i miei genitori. I nostri tratti simili ci facevano passare più facilmente come fratelli, ma era ancora più pericoloso frequentare la stessa scuola.

La storia messa in piedi perdeva ancora di più di credibilità.

Ma in fondo per una famiglia speciale come la mia certi ostacoli erano normali. Dopotutto erano tutti vampiri, eterni ed immutabili, bellissimi. Eh, si, vivevo con una delle uniche famiglie, per la precisione ne esistevano solo tre, così numerose di vampiri, che solitamente vivevano solo in coppie o terzetti per insospettire di meno. Le uniche famiglie abbastanza numerose erano il clan di Denali, che consideravamo come parenti, e i Volturi, millenaria famiglia che aveva sempre tenuto nelle mani il potere su tutti i vampiri, sconfitti clamorosamente dalla mia famiglia per proteggermi quando avevo solo 5 mesi.

Non eravamo particolari solo per quello. Il nostro clan, come quello di Denali, viveva una filosofia di vita molto particolare: non si cibava si sangue umano, ma solo di sangue animale. Pensiero pressochè incomprensibile per gl’altri vampiri, ma che ci permetteva di vivere come umani per quanto il tempo ce lo concedeva, prima che la gente si rendesse conto del fatto che non saremmo invecchiati.

Allora dovevano partire per un altro posto, per ricominciare la loro vita da capo.

Dovevamo proteggere il nostro segreto. 

Solitamente ero orgogliosa delle mie origini, del fatto che io stessa ero speciale quasi, se non di più, come loro. Io ero una mezza vampira, nata quando mia madre era ancora umana, sposata con mio padre Edward, vampiro, quasi otto anni prima; ma quel giorno non mi sentivo proprio orgogliosa di niente. Di certo non ero orgogliosa della parete del nuovo salotto, della nuova casa Cullen, nella nuova cittadina, dove avrei vissuto la mia nuova vita. Era costellata di mie  foto incorniciate che documentavano ogni mio anno, con sotto la didascalia dell’età. Renesmee, 4 anni”  scandiva una foto, mostrando mentre giocavo con l’acqua di un fiumiciattolo. Ovviamente l’età scritta non era quella effettiva, ma quella che dimostravo. Il perché poi me lo dovevano ancora spiegare in modo convincente.

Assolutamente no. Non ero orgogliosa per niente. Per quello non ero ancora uscita da quello stupido salotto se non per mangiare o per altri bisogni fisiologici. Papà era ossessionato dal fatto che gli sembrava non mangiassi abbastanza quindi mi costringeva ad uscire di lì, come un animale stanato, ma quando potevo rimanevo lì, immobile a pensare con dolore a tutto quello che recentemente avevo perso.

Come ho già detto non era raro che ci spostassimo, e fino a quel momento avevo già avuto due trasferimenti. Non mi disturbava affatto, anzi, conoscere nuovi luoghi mi appassionava, tanto che ero riuscita a convincere mio papà e mia mamma a farmi viaggiare con Jacob in giro per il mondo ogni estate, per vedere anche sotto la luce del sole tanti posti fantastici, come la grande muraglia cinese o i templi giapponesi.

Quindi per me spostarmi non era un problema, ma avevo imposto anch’io una condizione: che fossimo sempre abbastanza vicini perché potessi andare a trovare Charlie ogni tanto e perché Jacob potesse rimanere con me senza abbandonare La Push, come invece sarebbe stato costretto a fare per seguirmi in capo al mondo. Nonostante lui fosse un licantropo se si trattava di me era disposto anche a vivere con una famiglia di otto vampiri. Ma penso sia normale quando si ha l’imprinting…

Così ero sempre stata vicino a lui, che aveva continuato a seguirmi nella mia velocissima crescita con la dolcezza che solo lui sapeva regalarmi, riscaldandomi il cuore ogni volta che mi sorrideva. Ormai il mio bisogno di lui era fisico. Averlo accanto mi completava, come non averlo vicino mi dilaniava.

 Ma ora? Ora avevo perso tutto. Quando mi sembrava che tutto andasse per il verso giusto si era frantumato sotto le mie dita come fragilissimo cristallo. Non potevo ancora crederci!

Cosa poteva accadere di così grave da strappare dal mio fianco Jacob?

Una sola piccola cosa. In particolare una sola persona. Giorgie.

Che la nostra vittoria pochi anni prima bruciasse ai Volturi era ormai risaputo: davanti a un pubblico da loro stesso portato avevano dimostrato l’esistenza di una potenza superiore e ormai ci eravamo arresi all’evenienza che si vendicassero, anche se eravamo certi che sarebbe successo almeno tra trent’anni. Non c’era problema alcuno, nel frattempo avremmo pensato a un piano: dopotutto li avevamo sconfitti una volta perché non farlo di nuovo?

Di certo non avremmo mai pensato che potessero ricorrere ad un espediente così subdolo e contorto.

Non potevamo certo dubitare di Giorge e Katrina.

Mi ricordo come fosse ieri quando arrivarono, qualche mese fa, a Forks, cercandoci disperatamente, gl’occhi lievemente ambrati che stavano ad indicare l’inizio di un nuovo modo di vivere. Erano venuti alla ricerca di Carlisle e di tutti noi Cullen, per implorarci di aiutarli ad imparare a mantenere le loro scelte di vita.

Giorge era un personaggio magnetico. Il suo viso era uno spettacolo di emozioni contrastanti che si agitavano e si scontravano come un mare in tempesta. Katrina non gli era da meno: una criniera di riccioli arancioni le scendeva lungo le spalle ossute e pallide incorniciando alti zigomi e labbra voluminose.

Erano belli, come ogni vampiro, ma in loro c’era qualcosa di particolare. Erano proprio i loro caratteri a renderli speciali ed Edward per primo si era lasciato andare dopo aver scrutato nella limpidezza delle loro azioni. Invece ci avevano solo raggirato e presi in giro.

Come capire l’accoppiata di terribili poteri che si portavano appresso?

Katrina poteva filtrare o manipolare i poteri altrui. Era la reincarnazione della vipera fatta persona e per prima aveva soggiogato papà facendogli sentire i pensieri che decideva lei, e lui, povero, non aveva sospettato di nulla, anzi. Proprio mio padre era stato tra i primi ad affezionarsi ai nuovi venuti. Forse erano le lunghe discussioni silenziose che faceva con Giorge, non lo so, ma era stato il primo a cadere nella lucente ragnatela di quei due predatori ambiziosi. Ma Edward non era stato l’unico il cui potere era raggirato. Anche le visioni di Alice subirono una pesante sviata da parte di Katrina e non aveva visto il futuro svolgersi degli eventi rispetto a Katrina e Giorge.

L’unico che continuava a guardarli con sospetto era Emmet, fermò nell’affermare apertamente che non si fidava, supportato solo da Rosalie, che si fidava ciecamente di quello che pensava, anche se è difficile dare torto ad Edward e Alice. Alla fine ripensandoci dobbiamo a lui se non siamo tutti morti.

Emmet non era mai stato un tipo dall’orgoglio gongolante, ma non sopportava che le sue considerazioni non venissero valutate. All’epoca vivevamo di nuovo nella nostra casa a Forks in cerca di un nuovo posto dove andare nelle vicinanze, magari in Canada, cercare una casa dove potessimo stare tutti noi nove, Jacob per quando sarebbe venuto (quasi sempre) e Carlise avanzò la proposta di prendere uno stabilimento abbastanza grande per tenere anche Giorge e Katrina, deciso ad accoglierli in famiglia.

Emmet non ci vide più e per non fracassare casa dalla rabbia andò a prendersela con una montagna, inseguito da Rosalie, Jasper e Alice.

Come Alice si allontanò abbastanza da Katrina una visione l’aveva fulminata: aveva visto Esme e Jasper saltare in aria e morire, finiti in pezzetti bruciacchiati, mentre Giorge li guardava e rideva soddisfatto.

La terribile immagine la scosse a tal punto che inchiodò a corsa in un gesto secco, la mente che rimandava a rallentatore l’immagine per tentare di capirla e Jasper la scuoteva mentre inerme guardava nel vuoto.

Alice era sempre ben disposta a raccontarmi le cose, anche quelle che secondo alcuni (vedi mamma e papà iperprotettivi) ritenevano mi avrebbero sconvolta, ma avevo faticato pure io a scucirle la sua versione dei fatti.

Me la ricordo perfettamente, dritta come un fuso ed immobile, che osservava lontano assente mentre con poche parole veloci mi descriveva la sua visione.

“ Ho visto Jasper saltare in aria ed Esme subito dopo. È stato davvero terribile, anche se non è la prima volta che ci vedevo morti” aveva fatto una lunga pausa pensierosa “Sembravano davvero soffrire tremendamente. Come se avessero cominciato a bruciare da dentro e poi la forza dell’impatto li facesse esplodere in tanti piccoli pezzi.”

Poi mi aveva osservata, apprensiva, aspettando una mia qualche reazione prima di dire l’ultima inquietante frase.

“Era un uccisione di vampiri in piena regola, tutta in un solo istante.”

Non riuscii più a ritrovare l’immagine perché Katrina le era andata dietro, ma aveva avuto il tempo di dire a Jasper “Siamo stati imbrogliati”. Poi l’avevano uccisa.

La pira di Katrina si era accesa e spenta prima ancora che potesse capire cosa succedeva.

Con Giorge fu diverso. L’odore di morte gli era arrivato prima che i miei vampiri tornassero a casa e si era già messo in guardia, pronto al contrattacco, ma come la lontananza da Katrina aveva svegliato Alice, aveva miracolosamente svegliato anche papà.

Lì iniziò la nostra fuga disperata.

Con rabbia scagliai l’album dall’altra parte della stanza e la mia forza sovraumana lo distrusse senza problemi. Ero sinceramente disgustata dall’ idea di fuga, quasi quanto Emmet. Dovevo rimanere a Froks a proteggere la gente umana, al fianco di Jacob e di mio padre!

Invece ero stata spedita lì e la mia lontananza obbligava Rosalie ed Esme a seguirmi per “accudirmi” inutilmente. Non ero una poppante! La mia pelle era dura come quella dei vampiri, ero forte e veloce come loro! Potevo benissimo affiancarli in battaglia!

Invece sia Edward che Jacob erano stati irremovibili sulla scelta di spedirmi laggiù senza una ragione valida. Per proteggermi, continuavano a dire. Ero davvero furiosa e triste e stressata e tanto, tanto stanca.

Gettai un altro sguardo al leggerissimo cellulare appoggiato su un tavolino poco distante. Non potevo chiamare, dovevo aspettare che fossero loro a contattarmi.

Mi pizzicarono gl’occhi.

Sentivo due piani di sotto Esme e Rosalie discutere sulla sistemazione dei mobili.

Non era rimasta nemmeno mia mamma. E io ero lì.

In un secondo mi stavo di nuovo sdraiando sul divano, ma tra le mani tenevo il minuscolo cellulare nero che mi avevano dato. Dovevo chiamare Jacob. Dovevo sentire la sua voce dolce accarezzarmi le corde le cuore. Dovevo immaginare il suo viso illuminato dal suo sorriso caldo come il sole e non con gl’occhi lucidi.

Forse sarebbe finita male.

E io avevo baciato Jacob solo una volta, due mesi prima.

Me lo ricordavo ancora. Ricordavo il mio letto nell’hotel in India, le lenzuola che profumavano di fiori e incenso, le finestre aperte dentro cui spirava la brezza lenta e gentile, calda, come la sua pelle nel nostro abbraccio. Mi passava la mano tra i capelli e mi guardava negl’occhi. Anche nel buio la sua pelle rossastra brillava come un pensiero prezioso.

Ci guardavamo e basta. Sdraiati sulle lenzuola fresche, abbracciati andavamo a fuoco, la nostra temperatura sopra la media ci incendiava a vicenda.

Non eravamo mai stati in intimità, non così. Un papà geloso e possessivo che legge nel pensiero non è l’ideale per avere momenti di intimità con il tuo ragazzo.

Ma quella sera c’erano centinaia di chilometri tra noi e lui, e non ci pensavo neanche.

Per me c’erano solo i suoi grandi occhi neri, mentre ogni minuto si avvicinava di poco a me, il respiro che sapeva di pioggia, fresco e frizzante.

Si avvicinava, sempre di più, sempre di poco, man mano che i nostri occhi si confondevano tra loro, intrecciati in uno sguardo dolce e rapito.

Le labbra di Jacob erano morbide e calde. Sapevano dei frutti che avevamo assaggiato a cena e di qualcosa di fresco che non riuscivo ad identificare. Sentii la sua mano chiudersi ed aprirsi tra i miei capelli, dolcemente, poi sempre con più foga, mentre approfondiva il bacio schiudendomi le labbra con la sua lingua.

Non siamo andati troppo oltre, solo baci, carezze e piccole attenzioni. Già con quello sfuggire alla lettura inopportuna di papà sarebbe stato impossibile. Infatti la sua irritazione era pari solo alle risatine che Jacob che si faceva sotto i baffi una volta tornati.

Mi mancava, mi mancavano tutti. Anche Esme e Rosalie sarebbero presto partite, lasciandomi sola per un po’, per affiancare i compagni in battaglia. Avevo già salutato tutti, come se fosse l’ultima volta.

Ma Jacob?

Jacob mi aveva strinto, così forte che per la prima volta sentii male alle costole quando mi lasciò, ma non ero sicura se fosse per la foga dell’abbraccio o per il dolore che mi cresceva nel petto. Ma mi sussurrò in un orecchio:

“A presto, Amore mio.”

E mi ero messa a piangere, senza saper dire niente di più. Non ci sarebbe stata un’altra volta.

Infatti stavo ancora accoccolata sul divano in un salotto che mi era estraneo. L’arredamento del salotto era ipocrita, come se ci sarebbe stato un futuro.

Sentii un odore che mi stimolò un acceleramento del cuore, che batté ancora più veloce del solito, l’odore di Jacob. Non mi preoccupai molto. In quel momento stavo indossando la sua maglia, era ovvio che ogni tanto una zaffata più intensa del suo odore mi invadesse il naso delicato. Sentivo la sua mancanza.

Piano piano mi addormentai stringendo al cuore il piccolo cellulare.

Mi svegliò un respiro.

Lento, dolce e regolare, un cuore pompava vicino a me con un rumore di risucchio quasi fastidioso.

Aprii un occhio. Chi era?

Gl’occhi caldi e neri di Jacob mi salutarono prima del suo sorriso.

“Ciao” mi sussurrò.

Confusa mi rizzai a sedere, ma prima di tutto gli lanciai le braccia al collo, stringendolo più forte che potevo. Non poteva più sfuggirmi.

Mi gettai in avanti con tutto il mio peso, schiacciandolo per terra dalla sorpresa, mettendomi a singhiozzare. Ero convinta di non rivederlo mai più!

Lo baciai, senza pensare ad altro, sentendo in lontananza il cellulare cadere per terra.

Le sue mani si infilarono sotto la mia maglietta quel che bastava per accarezzarmi i fianchi stretti, saggiando con le dita la mia pelle. Lo osservai, passando una mano  sui suoi tratti familiari.

“Ciao” gli risposi con la voce strozzata.

“Sono venuto a prenderti” mi mormorò, la mano calda salita ad accarezzarmi la guancia mettendomi l’altro braccio intorno alla mia vita per stringermi a lui. Sbattei le palpebre confusa.

“Dove andiamo? Cosa è successo? Esme e Rosalie…

“Sh.”

Mi sorrise. Un sorriso stanco, esausto, ma sincero.

“Sono tutti a Forks e ci stanno aspettando. Questa è una guerra da affrontare tutti insieme.”

Capivo cosa significavano quelle parole: se saremmo morti lo avremmo fatto tutti mano nella mano. Bene. Ero pronta.

“Quando se ne sono andate?” chiesi.

“Appena ti sei addormentata sono arrivato a darle il cambio” appoggiò la sua fronte sulla mia.

Lo guardai sconcertata. E non mi aveva svegliata? Avevo passato ore preziose a ronfare sul divano?!

“Quanto ho dormito?”

Soffocò un risolino. “Nove ore buone.”

Gli spinsi la mano aperta sul petto, irritata.

“Dovevi svegliarmi.”

“No” esclamò allegro “Sei bellissima mentre dormi.”

I suoi occhi luccicarono mentre me lo diceva e mi sentii arrossire. Mi piacevano i complimenti di Jacob, mi piaceva tutto di lui. Sentii il mio cuore accendersi di quel fuoco leggero che solo Jacob sapeva accendere.

“Quando partiamo?” chiesi, lievemente ansiosa.

Mi scompigliò i capelli, pensieroso, come se stesse soppesando se dirmelo; ma Jacob era il ragazzo più schietto e sincero sulla faccia della terra e di certo non mi avrebbe mai nascosto nulla. E poi perché non dirmi una cosa così? Tanto lo avrei scoperto, no?

“Subito, appena possiamo” brontolò. Perché era irritato ora?

Gli puntellai il dito sul naso, come gli facevo sempre per prenderlo un po’ in giro. Un gesto affettuoso tutto nostro.

“Hai esitato” gli feci notare con un sorriso e lui mi illuminò col suo.

“È che sto così comodo…” commentò, fingendo di stiracchiarsi pigramente sul pavimento con me ancora accoccolata sopra di lui, aggrappata alla maglia a maniche corte nera che gli copriva il petto rossastro.

Ridacchiai leziosa, appoggiando il viso sulla sua clavicola, col la punta del naso riuscivo ad accarezzare il pomo d’adamo che si alzava e si abbassava ogni volta che deglutiva.

Nemmeno io volevo spostarmi. Abbracciati sembrava più semplice credere che non ci fosse nulla a minacciarci. La tasca di Jacob vibrò all’improvviso facendomi sobbalzare e Jacob rispose al cellulare.

“Pronto? Ah, ciao Edward.”

E così dovevamo partire. Non vedevo l’ora di combattere con la mia famiglia: non riuscivo ad accettare il confinamento dentro a quella casa estranea.

“Si. Si, stavamo per partire. Tranquillo, sta bene. Si, dormiva” mormorò con la voce che si addolciva.

Da quando ci eravamo salutati Jacob aveva tagliato i capelli. Prima li aveva lunghi fino alle spalle, ora invece gli ricadevano sulla fronte in corte ciocche confuse.

“Ah” esclamò all’improvviso, incupendosi.

Passò una manciata di secondi e lo guardai rilassarsi.

“Si è proprio da Sam” si lamentò, alzando gl’occhi al cielo. “Ok. Certo a dopo.”

Mise giù e si reinfilò il cellulare in tasca con un sbuffo.

“Tutto bene?” sussurrai cauta.

“Non ti preoccupare, è tutto a posto. Jaz e Sam non riescono a scendere a patti con la strategia e si sono messi a litigare… lo sai com’è lo zio quando se la prende, no?” mi guardò ghignando comicamente e mi strappò un risolino sereno.

Mi strinse e mi cullò coccolandomi, un gorgoglio che gli saliva dalla gola come roche fusa.

Se il mondo si fosse fermato in quel momento non mi sarebbe dispiaciuto. Stavo bene.

Ma mi sciolsi dalle sue mani e appoggiai le mie accanto al suo viso, sorridendo al suo sguardo curioso e canzonatore. Mi abbassai e lo baciai di nuovo, prima con lentezza, assaggiando la consistenza delle labbra morbide, poi sempre più profondo, con più foga, aderendo al suo corpo.

Sentii una scarica di pizzicore scuotermi l’anima, qualcosa di magico che mi percorreva le membra. C’era urgenza nei nostri baci, nelle nostre carezze, un urgenza irritante e fastidiosa, ma necessaria.

Per quanto mi stessi illudendo inconsciamente che il tempo si fosse fermato, che stesse tornando tutto alla normalità, sentivo nelle ossa che il nostro futuro era sull’orlo del baratro.

E pensare che mi ero fermata spesso a pensare al mio futuro, eterno, in compagnia della mia famiglia e di Jacob. Chissà, magari avrei avuto anche dei figli, non sapevo se ero sterile o no. Però ora tutto scemava e svaniva nella luce di una morte presagita.

Ero preda di una frenesia piatta e sottile, nata dall’urgenza di un futuro che forse non avremo mai avuto. Lo volevo, lo volevo con tutta me stessa. Mi assecondò, stringendomi forte, ma con dolcezza. Era possessivo, ma mi maneggiava con delicatezza, come se fossi un oggetto fragile e prezioso.

Lui era la persona che meno sembrava accorgersi della mia forza, della mia pelle durissima, delle mie fattezze da vampira. Era il primo a trattarmi da adulta, a differenza di Rosalie che proprio non voleva che io crescessi, ma l’ultimo a rinunciare all’idea di fragilità che davo da bambina.

Vedevo i suoi occhi brillare nella penombra, mentre nelle brevi pause tra i nostri baci e mi osservava bramoso, ma lui doveva aver visto qualcosa nei miei che lo bloccò, allontanandolo bruscamente da me.

All’improvviso era dall’altra parte della stanza e mi osservava pensoso, ansante. Mi sentii abbandonata e delusa. Perché, perché era improvvisamente fuggito da me?

Nessie …” mormorò dolcemente. “La mia Nessie. La mia luna.”

Si fermò lì, ancora pensieroso. Non era un espressione che gli si addiceva molto. Lui era una creatura passionale ed istintiva, quell’aria intellettuale e pensierosa si addiceva più a persone come papà. Non era arrabbiato. Perché avrebbe dovuto esserlo, poi? Ma l’aveva apostrofata come ‘luna’ e quello era un nomignolo che si riservava solo nei discorsi importanti e un po’ filosofici che ogni tanto si sforzava di fare. Mi avvicinai a lui camminando a quattro zampe, trotterellando per il poco spazio che ci divideva e accoccolandomi tra le sue braccia. Non capivo cosa l’aveva fatto scattare così.

“Cosa c’è, Jacob?”

“Hai paura Nessie?” mi chiese invece, gl’occhi accesi da uno strano tormento. “Perché mi guardavi spaventata e io … “ la voce morì soffocata in un istante.

Paura? Si che avevo paura. Paura di perderlo, paura di non avere abbastanza tempo per scoprire tutto di lui e amarlo come una vera fidanzata. Avevo paura di morire, o di rimanere da sola, o di perdere qualcuno di importante. E con ciò?

Jacob, concitato, aspettava una risposta immediata, ma io mi ero persa di nuovo nel filo dei miei pensieri e avevo tardato a rispondere. Quindi in preda all’ansia diede aria alla bocca.

Nessie, se ti ho spaventata scusami, ti prego, non ti farei mai nulla, lo sai! Io non volevo spaventarti o … “

Lo zittii appoggiandogli la mano su una guancia.

Alcuni vampiri avevano sensi o poteri supplementari ai soliti che sfoggiava ogni vampiro. Mia madre aveva uno scudo particolare che poteva estendere su altri, mio padre leggeva nel pensiero, Alice vedeva il futuro, Jasper controllava il clima emotivo delle altre persone. Ma anch’io avevo un potere, molto speciale.

Col tempo mi ero abituata a non usarlo spesso, come invece mi era di abitudine, in particolare dovetti imparare a trattenermi e disciplinarmi quando frequentavamo una scuola umana, non potevo salutare la mia compagna di banco appoggiandole una mano sulla guancia e fare quello che stavo facendo in quel momento con Jacob. Io potevo far vedere agl’altri cosa pensavo, tramite immagini e sensazioni.

Allora feci vedere le mie preoccupazioni a Jacob, tentando di tranquillizzarlo. Non dovevano esserci ostacoli del genere tra di noi, non volevo.

Lui si sciolse e mi sorrise, più sereno, abbracciandomi stretta.

“Moriremo?” chiesi.

Jacob non mi rispose, impedendomi di guardarlo in faccia per un po’, stringendomi contro il suo petto in modo che non potessi alzare lo sguardo sui suoi occhi.

“Io  … non credo” mi rispose, lentamente.

Non ero sicura del suo tono. Sembrava dire ‘spero di no’. Erano cose diverse. Lo strinsi un po’ più forte.

“Io … Nessie, non ti vorrei là con noi, lo sai. Ho tanta paura di perderti, sapessi che peso è per me riportarti a Forks, ma …” si interruppe, cercando le parole giuste. “Sarei davvero molto più contento ad averti al mio fianco che lontana senza la garanzia che tu stia bene. Mi sento egoista ma non voglio lasciarti qui, anche a costo di portarti nel bel mezzo dello scontro.”

Gli circondai il collo con le braccia bianche e marmoree, appoggiando le dita di una mano sulla sua guancia in una carezza. Gli mostrai il mio ardente desiderio di stargli accanto, di combattere al fianco della mia famiglia.

Mi sorrise, un sorriso solare e sincero che mi sconvolgeva sempre.

“Allora, vuoi partire subito? Lo scontro è stato previsto da Alice tra almeno due settimane, quindi se vuoi partire un po’ più tardi, magari aspettare il pomeriggio…

Capivo il desiderio velato tra le sue parole. Voleva stare ancora un po’ solo con me, lontano dall’invadente potere di papà. Sorrisi furbescamente e gli posai un nuovo bacio sulle labbra, che sbocciò in molto altro.

Non avevo più addosso l’urgenza della battaglia, ma solo la velata determinazione che mi spingeva in ogni cosa che mi appassionava.

E poi la dolcezza di Jacob era irresistibile.

 

Il sole ci investiva. Strano, in quel posto piovoso da cui stavamo partendo, ma non mi preoccupai molto. Io, a differenza dei miei, non diventavo uno strano essere sbrilluccicoso sotto la luce del sole, ma emettevo solo un vago bagliore ambrato, che Jacob, mi aveva confessato, adorava. Quindi, contrariamente alle mie abitudini, quel pomeriggio non feci caso al sole, mentre stavamo per imbarcarci in aeroporto per tornare a Forks. Non importava che scendesse dalle grandi finestrate a fiotti composti e pieni, accentuando i miei capelli. Avevo ben altro per la testa. La battaglia, la mia famiglia, il mio futuro. Jacob.

Ci imbarcammo e appoggiandomi allo schienale mi sfuggi da ridacchiare, guardando Jacob con aria complice. Dopotutto era lui che, solo pochi minuti prima, mi aveva fatto notare che i primi giorni dal nostro arrivo ci sarebbe stato un altro motivo di ansia per Edward. Sarebbe stato molto difficile frenare la fantasia di Jacob dopo la sera prima.

  
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