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Autore: rossella0806    17/11/2015    2 recensioni
Philippe Soave è uno psicologo infantile che lavora presso il "Centre Arcenciel" di Versailles, una sorta di scuola che ospita bambini e ragazzi disagiati, a causa di dinamiche famigliari non proprio semplici.
Attraverso il suo sguardo appassionato, scopriremo la realtà personale dei piccoli e grandi ospiti, ognuno dei quali troverà un modo per riscattarsi dalle ingiustizie della vita.
Ci sarà anche spazio per sorridere, pensare e amare!
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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PHILIPPE

LA RESA DEI CONTI



Da come era cominciata, la giornata non si preannunciava tra le più idilliache che avesse mai vissuto: durante la notte, infatti, dopo che Morfeo gli aveva gentilmente posato le sue mani soporifere su di lui,
Philippe era stato svegliato da una bufera di vento in piena regola, poco prima dell’alba, quando finalmente era riuscito a prendere sonno e a far tacere la propria coscienza.
Probabilmente non aveva chiuso bene la finestra, la sera precedente, quando si era affacciato al davanzale e aveva scrutato il giardino, alla ricerca di chissà cosa, mentre attendeva il messaggio di Liliane da leggere: un rumore di vetri che sbattevano uno contro l'altro lo fece sobbalzare e quasi spaventare, costringendolo ad abbandonare l'accogliente nave dei sogni.
L’uomo si mise seduto e, nella penombra, cercò di scrutare la sveglia sul comodino, accanto alla lampada dalle fattezze di ape regina: erano le sei meno un quarto e lui aveva dormito appena tre ore, anzi, nemmeno, due ore e quarantacinque minuti.
Sospirò assonnato e arrabbiato: andò a chiudere le imposte, poi ritornò a letto.
Rimase immobile supino per qualche minuto, ma, capendo che non avrebbe ripreso sonno, si alzò ancora più nervoso di pochi istanti prima; scese le scale e si diresse in salotto, il pigiama blu ancora addosso.
Improvvisamente, a nemmeno metà rampa, lo psicologo si ritrovò a pensare a quanto quella casa, la sua casa, gli apparisse vuota e si accorse che ciò che gli mancava era la presenza rassicurante di Liliane: fino a una settimana prima, quando lei, il lunedì mattina, se ne andava dopo un week end trascorso a divertirsi, essere andati al supermercato o al parco a passeggiare, aver visto un film insieme ed essersi sbafati una succulenta pizza extra large in due, non si sentiva affatto perso, semplicemente e pienamente soddisfatto per il tempo vissuto con la sua fidanzata (gli suonava un pò strano pensare a quella parola) e subito si metteva a fare altro, senza sentire nostalgia alcuna, aiutato anche dal suo lavoro al Centre.
Quella mattina, invece, una strana sensazione gli stava invadendo la mente e lo stomaco, una sorta di bruciore martellante che gli risaliva l'esofago.
Una volta a destinazione, si buttò sul divano e chiuse gli occhi: non avrebbe retto ancora a lungo quella situazione, fatta di un’esistenza precaria sul filo del rasoio che, non solo coinvolgeva lui stesso, ma anche Aimée e Liliane.
La cosa migliore, adesso più che mai ne era convinto, sarebbe stata quella di non andare alla cena di martedì sera, organizzata da madame Betancourt e dalle altre colleghe in onore della piccola Sophie e della madre.
Avrebbe trovato una scusa, doveva semplicemente ingegnarsi perché risultasse valida e veritiera.
Fece un rapido calcolo mentale, che gli strappò un sorriso a metà tra il malinconico e il soddisfatto: mancavano ancora tre giorni, rifletté, quindi il tempo gli sarebbe bastato per mettere in piedi il suo piano.
Dovrebbero chiamarmi Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo di idee e macchinazioni.



Mentre guidava in direzione dell’appartamento di Liliane, nel centro di Versailles, lo psicologo allungò la strada, passando in prossimità del Centre: aveva appuntamento con lei
all’una, per pranzare insieme, perciò aveva una buona mezz’ora per arrivare in orario e, magari, addirittura in anticipo di qualche minuto.
In realtà, non sapeva bene neppure lui perché avesse deciso di andare fino a lì: sebbene la sua parte razionale non volesse ammetterlo, Philippe sperava di vedere Aimèe, per quanto la cosa potesse risultare impossibile, dal momento che era sabato ed erano appena le dodici e venticinque.
La donna, infatti, in attesa di partire con la figlia il venerdì successivo, viveva ancora presso la comunità che l’aveva accolta in quei due anni, tuttavia andava a trovare Sophie tutti i pomeriggi alle tre, dopo le lezioni.
L’uomo, seduto in macchina, il finestrino abbassato a metà, scosse la testa, quasi spaventato da quell’ossessività che si era impadronito di lui.
Ritirò il gomito sinistro appoggiato sul lato interno della portiera e premette l'acceleratore: poi, accese a tutto volume la radio, nello stesso momento in cui veniva trasmesso l'inzio di
"In The end", una delle canzoni degli Snow Patrol, un gruppo che ascoltava sempre con piacere e trasporto.
Ecco, quella era la verità: tutto ciò che provava per Aiméè doveva concludersi, finire per sempre, glielo stava dicendo anche quella chanson.
Un nuovo senso di consapevolezza fece capolino nella mente di Philippe, che diede gas bruscamente, approfittando del fatto che la strada fosse vuota.
A un certo punto, mentre stava svoltando sul lungo viale che lo avrebbe condotto da Liliane, la vide: non aveva alcun dubbio, era lei, era la donna per la quale non dormiva la notte, per la quale faticava a concentrarsi, per lei stava rovinando un rapporto d’amore appena nato, per lei stava rischiando di mettere a repentaglio la propria carriera e di far del male alla sua fidanzata.
Inchiodò e frenò, aspettando che la sagoma arrivasse più vicino: qualche secondo dopo, Philippe non ebbe più dubbi; per quanto fosse bella, desiderabile e bisognosa di affetto, non sarebbe stato lui la persona al suo fianco, l’uomo che l’avrebbe di nuovo resa felice e amata.
Represse un moto di stizza e colpì violentemente il clacson, facendolo suonare.
Aimée si voltò nella sua direzione e, per un lungo ed interminabile attimo, i loro sguardi si incrociarono, sfiorandosi da lontano.
Al cenno di saluto incerto che gli rivolse, lo psicologo non rispose, riprendendo ad accelerare e a mormorare addio per sempre.
Non avrebbe mai più pensato a lei, lo giurava.



“Ciao! Mi sei mancato!” Liliane aprì la porta sorridendo, una tuta blu attillata ad esaltarne le forme ben proporzionate e per nulla esagerate.
I capelli biondi erano più corti del solito, forse perché raccolti in una spilla dietro la nuca, e profumavano di camomilla e bergamotto.
“Anche tu, molto … adesso, però, non ho voglia di mangiare, vieni di là …”
Philippe la baciò con passione, mentre la donna, piacevolmente stupita, assecondò il gesto, cominciando a togliergli la polo rossa, mentre lui faceva lo stesso con la casacca di cotone.
Se si fosse fermato anche solo un secondo a ragionare, si sarebbe sentito terribilmente in colpa per come stava usando Liliane, perché era quello il vile e meschino sentimento che avvertiva attraversagli la mente e il cuore.
Aveva deciso di dimenticare Aimée, ora non poteva e non voleva negarlo, e così avrebbe fatto: non sarebbe tornato indietro, però non aveva ancora il coraggio di guardare in faccia la donna a cui sentiva di essere stato infedele, di aver mentito, che sapeva e voleva amare.
Desiderava solamente sentirla vicino, farsi accarezzare e accarezzarne il corpo, baciarla e farsi baciare, per poi rimanere avvinghiati per tutto il tempo del mondo.
Una volta sul letto, Philippe si sentì finalmente appagato e felice: Liliane era la sua scelta e non l’avrebbe mai e poi mai fatta soffrire.



Quando l’uomo si svegliò, si ricordò all’istante di dove fosse, i sensi all’erta: aveva il lenzuolo stropicciato posato sulle gambe, il cuscino messo di sbieco.
Allungò una mano a sinistra, cercando il contatto caldo e morbido della donna che aveva amato.
Ma,
non appena si accorse che non era al suo fianco, si levò a sedere: si guardò in giro, nella stupida speranza che potesse essere nascosta in qualche angolo della stanza, magari a fargli uno scherzo per testare la sua fedeltà.
Non vedendola da nessuna parte, si rivestì in fretta e, preoccupato, lanciò un’occhiata all’orologio posto su una parete, di fronte al letto: segnava le tre meno venti.
Ecco perché avvertiva un certo senso di fame attanagliargli la bocca dello stomaco: sorrise tra sé e sé all’idea di quale meraviglioso manicaretto la donna gli avesse preparato, quando, arrivato nel salotto, il sorriso gli morì sulle labbra.
“Liliane … hai pianto?”
La ragazza gli dava le spalle, seduta sul divano, la radio accesa a volume bassissimo e la televisione sintonizzata su un programma che stava trasmettendo una commedia.
Sentendo i passi dell’uomo, però, lei si era voltata a mezzo busto, rivelando le guance arrossate e gli occhi vagamente gonfi.
“Cos’è successo, amore?”
Credendo che la donna avesse dimenticato l’apparecchio musicale acceso, fece per andare a spegnerlo; a pochi passi dal sofà, tuttavia lei lo bloccò, urlandogli:
“Non toccare niente! Anzi, vattene e non farti più vedere!”
“Ma... io ... non capisco! Perché dici così? Cosa ti ho fatto?!”
Liliane non rispose, le braccia abbandonate sulle gambe, lo sguardo fisso puntato sullo schermo della TV.
“Per favore, dimmi perché ti comporti in questo modo! Siamo stati bene, prima, non è capitato niente che possa averti fatto cambiare idea, quindi non capisco il motivo per cui fai queste ... scenate!”
Tu non capisci?! Tu non capisci, Philippe?! Davvero?! Per favore, vattene immediatamente!”
La donna, sempre immobile sul divano color crema, fulminò con lo sguardo lo psicologo, in piedi a qualche passo da lei.
Quando fece per avvicinarsi e toccarle una spalla, la ragazza si ritrasse come se avesse preso la scossa.
“Non-mi-toccare” scandì Liliane, ritornando a guardare fisso lo schermo.
“No! No che non me ne vado! Voglio sapere perché mi stai trattando così! Guardami, guardami mentre ti parlo, dannazione!”
Philippe le agguantò un braccio, nello stesso istante in cui si alzò e lo spintonò con forza:
“Mi hai mentito! Ti sei preso gioco di me! Io … io non so nemmeno da che parte iniziare, cosa dirti, talmente sono disgustata, delusa!”
L’uomo corrucciò le sopracciglia e aprì leggermente la bocca, non riuscendo a capire il motivo di tanta improvvisa rabbia.
“Io non ti ho mai mentito, io ti amo, Liliane, non sarei qui, altrimenti!”
“Anche adesso lo stai facendo? Perché continui a farlo?! Perché continui a mentirmi! Ti ho sentito che pronunciavi il suo nome, nel sonno, ho sentito che le parlavi, che le dicevi che non l’avresti mai dimenticata, ma che non volevi farmi soffrire, per questo avevi scelto me! Solo perché io ti faccio pietà, ecco quello che provi per me, non amore, ma compassione! Mi fai schifo, Philippe, mi fai schifo!”
La psicologa rimase in piedi davanti a lui, i pugni chiusi, lo sguardo abbassato: si morse il labbro fino a farlo sanguinare, ma dai suoi begli occhi azzurri le lacrime non avevano più intenzione di scendere.
Solo allora gli fu tutto chiaro: la sua coscienza non era riuscita a starsene zitta, lo aveva tradito, aveva parlato al proprio posto, com’era giusto che fosse.
Si sentiva sporco e crudele: l’ultima cosa che avrebbe voluto fare, fin dall’inizio, era far soffrire la donna che amava, che realmente aveva capito di amare.
E’ vero, Aimée era stata una tentazione enorme, ma si era rivelata irraggiungibile, era riuscito a tirarsi indietro prima che succedesse l’irreparabile: appartenevano a due mondi diversi, lei sarebbe partita tra pochi giorni, non si sarebbero più rivisti, perché quindi continuare a soffrire inutilmente?
“Perdonami … Liliane, perdonami. Ti giuro, ti giuro su me stesso, su quello che vuoi, che non è come pensi. Tra me e lei non c’è mai stato niente: mi ero invaghito di lei, lo ammetto, ma non ci siamo scambiati né un bacio né un abbraccio, nulla di nulla. Ti prego, ti prego amore mio, perdonami, scusa se ti ho fatto soffrire, ma non volevo, per favore, credimi, ti chiedo solo questo …”
La ragazza sospirò, portandosi una mano sulla bocca e poi sugli occhi:
“Va bene … va bene, ti credo. Ma adesso vattene, sono io a pregarti. E non farti vedere più qui, mai più ... ”
“Liliane …”
“Ho detto vattene!” urlò nuovamente, indicandogli con un braccio l’uscita.
Philippe rimase per una manciata di secondi fermo davanti a lei: la guardò ancora una volta, mentre si voltava indietro, rassegnato a lasciarla da sola.
Poi, aprì la porta e, l’ultima cosa che sentì mentre scendeva velocemente le scale, trattenendo la rabbia che avvertiva premergli per scoppiare, fu la risata di una bambina, proveniente dall’appartamento di fronte a quello della donna che amava, la TV e la radio ancora accese e con il volume assordante.




Snow Patrol, "In The end"


It’s the price I guess
 For the lies I’ve told
 That the truth it no longer thrills me

And why can’t we laugh?
 When it’s all we have
 Have we put these childish things away?
 Have we lost the magic that we once had?

In the end, in the end
 There’s nothing more to life than love, is there?
 In the end, in the end
 It’s time for us to lose our weary minds

Will you dance with me?
 Like we used to dance
 And remember how to move together

You are the torch
 And it all makes sense
 I’ve waited here for you forever
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 I’ve waited here for you forever

In the end, in the end
 There’s nothing more to life than love, is there?
 In the end, in the end
 It’s time for us to lose our weary minds

We’re lost ‘til we learn how to ask
 We’re lost ‘til we learn how to ask
 We are lost ‘til we learn how to ask
 So please, please just ask

In the end, in the end
 There’s nothing more to life than love, is there?
 In the end, in the end
 It’s time for us to lose our weary minds
 There’s nothing more to life than love, is there?
   
 
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