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Autore: Robin Nightingale    19/11/2015    1 recensioni
Piccola raccolta di ricordi.
Kanon di Gemini ricorda vari momenti della sua vita: dall'infanzia, all'adolescenza, alla sua vita al Santuario e, soprattutto, ciò che di più prezioso possiede.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gemini Kanon, Gemini Saga
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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L’addestramento intrapreso al Santuario aveva fatto di me un ragazzo sicuro e determinato.
Ero forte e sicuro.
Riuscivo persino a frantumare una roccia con una sola mano. Mi sentivo un leone.
Finalmente le cose andavano per il verso giusto, la vita mi sorrideva e stentavo quasi a crederci.
Ero felice, euforico.
Non avevo altre parole per descrivere il mio stato d’animo; ero talmente preso dalla mia nuova condizione, che non vi avrei rinunciato tanto facilmente, per nessuna ragione al mondo.
L’armatura era diventata un pensiero fisso, addirittura un’ossessione.
Mi svegliavo ed era il mio primo pensiero al mattino; mi allenavo e sognavo il giorno in cui finalmente avrei potuta indossarla; la sera, invece, era diventata un sogno ricorrente.
Ho dedicato ad essa tutto il mio cuore, persino la mia anima, tanto da dimenticare e sopire quella rabbia e quel livore che mi portavo dietro da anni. Vedevo la vita da una prospettiva diversa ed ero convinto che, la stessa, avesse deciso di essere buona con me e farmi un regalo.
Ho cambiato atteggiamento; ho cominciato a sorridere, nonostante non ne avessi alcun motivo, perché non ti eri del tutto riavvicinato a me, se non a piccoli passi. Parlavi poco, eppure lo facevi, e a me andava bene così; in cuor mio sapevo che anche quello era un regalo, o una piccola parte di esso.
Prima o poi ti avrei avuto con me, come sempre, dovevo solo lasciare che il tempo facesse il suo corso; probabilmente, oltre ad ottenere l’armatura, avrei riottenuto il tuo amore, che tanto mi mancava.
Era questa la mia ricompensa, ne ero sicuro: la vita voleva ricambiarmi per tutto il male che avevo subito.
Su di me avevo lavorato molto: non ero più il bambino timoroso di un tempo, anzi. Avrei affrontato qualsiasi nemico, anche a mani nude, e ne sarei uscito ugualmente vincitore.
Avrei affrontato persino mio padre, mia nonna, e avrei restituito loro tutta quella violenza gratuita.
Ogni giorno scendevo all’arena dei combattimenti, i miei compagni mi guardavano impressionati, quasi mi osannavano. Altri, invece, mi temevano.
Con il passare del tempo, ho fatto sempre più fatica a trovare qualcuno disposto a battersi con me; al solo pensiero di avermi come avversario tremavano, e ciò mi rendeva profondamente orgoglioso.
Più i giorni passavano, più mi sentivo parte integrante di quel mondo, che tanto mi sembrava ostile all’inizio.
Mi sentivo talmente potente da riuscire a batterti; ero convinto che, tra noi due, quello a prevalere sarei stato io.
Io avrei indossato la Gold Cloth.
Ero io il più forte di te, anche se, in realtà, non vi era alcuna disparità tra di noi. Per la prima volta, io e te eravamo uguali, senza alcuna distinzione, due veri e propri gemelli.
Il mio desiderio si era avverato e per quanto soffrissi all’idea di battermi con te, dentro di me sapevo che non avrei potuto evitarlo, né io volevo farlo.
Batterti sarebbe stata la mia rivincita nei confronti di una vita e un destino avverso; avrei dimostrato all’intero Santuario che io non avevo nulla da invidiarti.
Ne ero convito. Il Grande Tempio ne era convinto.
Ero il prescelto.
La mia prestanza fisica era superiore alla tua; lottavo con foga e determinazione, preferendo lo scontro diretto, mentre tu perdevi tempo a studiare l’avversario.
Le rare volte che ci allenavamo insieme, riuscivo sempre a metterti al tappeto, ma non mi sono mai stupito di questo: ho sempre avuto una certa attitudine al combattimento, persino da bambino, quando litigavamo: tu eri sempre sdraiato sul pavimento, alla fine della lotta.
 
<< Avanti, Kanon! Facci vedere cosa sai fare! >>
 
 I miei compagni mi incitavano entusiasti e impazienti di vedermi all’opera.
Li accontentavo, lasciandoli del tutto senza parole.
Mi beavo di quegli elogi che gratificavano il mio ego, rendendomi ancora più sicuro di me.
 
<< Che altro sai fare? >>
 
Era musica per le mie orecchie.
Io dimostravo la potenza del mio cosmo e loro, increduli, e forse anche intimoriti, si complimentavano con me, facendomi sentire parte di qualcosa e non più un emarginato.
Quando i più giovani mi chiedevano di insegnargli ciò che sapevo, mi sentivo persino utile, pensando a quanto fossi stato stupido a sentirmi inferiore.
Io valevo quanto te, e non era più una mia sola convinzione.
Avrei dovuto immaginare, però, che quella felicità non poteva essere reale, ma solo qualcosa di fittizio. Nonostante avesse contribuito ad accendere un barlume di speranza in me, allo stesso tempo mi aveva anche chiuso in una sorta di bolla, una campana di vetro, nella quale esistevo solo io e il mio ego.
Non vedevo altro che me e i miei successi; era positivo, ma nel momento in cui mi sono accorto che vi era altro, al di là di quel vetro, mi sono reso conto di quanto tutto ciò fosse solo un’illusione.
Fuori da quella bolla, vi eri sempre e comunque tu.
Se solo avessi visto oltre, anziché chiudermi dentro al mio stesso ego, mi sarei reso conto che, alla sola tua vista, l’intera arena ti si è avvicinata, lasciando me da solo, come ero sempre stato.
L’ammirazione che provavano per te era palpabile, lo si leggeva chiaramente dai loro occhi.
Ti idolatravano come idolatravano Athena; eri un dio sceso dall’Olimpo, il cui potere era qualcosa di ineguagliabile ed irraggiungibile.
Ti hanno chiesto una prova di forza, come fecero con me; non ne comprendevo il motivo, perché io e te eravamo una cosa sola; la nostra forza, il nostro cosmo, le nostre tecniche, era tutto prettamente identico.
Conoscevo ogni tua mossa, guardarla da me, o da te, non avrebbe fatto differenza. E allora perché così tanto entusiasmo, mi domandavo.
Quando hai allargato entrambe le braccia, concentrando su di esse tutto il tuo cosmo, creando un’enorme sfera d’energia, per poi distruggere gran parte dell’arena e degli spalti con una gigantesca esplosione, ho capito.
Ero rimasto sbigottito anche io: non avevo mai visto quella tecnica prima d’ora e anche se facevo fatica ad ammetterlo, temevo di non avere speranze contro di essa.
Tutte le mie certezze mi erano appena crollate addosso come un castello di carte.
 
<< Allora, Kanon…c’è qualcosa che sai fare? >>
 
Mi chiesero ancora i miei compagni.
 
<< Vuoi forse dire, qualcosa che non sa fare…Saga >>
 
I loro ghigni e le loro risate di scherno mi portarono definitivamente alla realtà: non vi era alcun regalo, nessun sogno che la vita avrebbe realizzato per me.
Non vi era alcun prescelto, e se vi era non portava il mio nome. Era tutta un’immagine, una follia, che la mia testa aveva creato appositamente per illudermi di poter davvero dare una svolta alla mia esistenza.
Non era cambiato niente, tutto era rimasto com’era: tu eri considerato una divinità, mentre io potevo solo aspirare ad essere la tua brutta copia.
Ed era questo ciò che il Santuario pensava realmente di me; guardavo i loro occhi che si beffavano di me, tutti i loro elogi non erano altro che delle bugie che non ho saputo interpretare correttamente.
Sono sempre stato un tipo accorto, eppure mi sono lasciato imbrogliare, solo perché speravo fermamente in una svolta.
Ci credevo. Ci credevo fermamente, e non capivo cosa, ad un certo punto, ha smesso di funzionare.
Mi hai sorriso raggiante, felice come non lo eri più da tempo ormai, sommerso da quella folla che ti pregava ancora una volta di mostrargli le tue capacità.
Io sono rimasto immobile e ti ho fissato a lungo, senza trovare la forza, e forse nemmeno la volontà, di ricambiarti.
L’avevi fatto di proposito, era questa la verità; non potevi accettare di essere, tu, secondo, per una volta.
Sapevi che non ero in grado di farla, eppure l’hai mostrata ugualmente; potevi dar prova della tua forza in diversi altri modi, ma hai preferito umiliarmi, facendo di me la tua semplice ombra.
Ti ho guardato con disprezzo, e prima che potessi avvicinarti, sono andavo via in religioso silenzio.
Tutti i miei buoni proposti erano svaniti come fumo e la rabbia era tornata a farsi sentire.
Avevo voglia di distruggere tutto: avrei preso ogni oggetto, o persona, che mi fosse capitata sottomano e l’avrei fatta a pezzi senza alcun risentimento.
Volevo farlo una volta rientrato in casa: gettare tutto all’aria, dal tavolo di legno posto nella piccola cucina, a i pochi mobili presenti nella mia stanza.
A dir la verità, ero talmente frustrato, che se avessi fatto esplodere il mio cosmo, avrei distrutto l’intera baracca.
Alla fine, mi sono semplicemente seduto vicino la finestra; respiravo profondamente, cercando di riprendere il controllo, ma non vi riuscivo.
Tremavo dalla rabbia.
L’armatura era diventata un’agonia, come lo era diventato il nostro scontro, e persino tu.
Seduto su quella scomoda sedia di legno, ho rimpianto di non essere nato figlio unico e ho pensato a come sarebbe stata la mia vita, se tu non fossi mai nato.
Sarei stato amato, cullato, protetto, ammirato. La mia famiglia non avrebbe avuto occhi che per me, non avrei sofferto.
La nonna non si sarebbe mai permessa di picchiarmi, o accusarmi di qualsiasi disgrazia le fosse capitata nella sua vita; papà mi avrebbe lodato, come faceva con te. Sarei stato il suo orgoglio più grande e, forse, anche lui non avrebbe mai levato un dito su di me.
Avrei avuto una madre che, nonostante la malattia, mi avrebbe amato e riconosciuto; e se non fosse stata malata? Forse era un po’ improbabile, ma di certo non avrei sofferto così tanto.
Era un mondo totalmente diverso quello che immaginavo ed io ne ero il centro; eppure non potevo far a meno di chiedermi se sarei stato davvero felice?
Non sapevo che risposta darmi, ma una lacrima rigò il mio volto.
Sei entrato in punta di piedi, rimanendo sull’uscio della porta a squadrarmi, valutando se era il caso o meno di avvicinarti.
Un tempo non avresti esitato.
Avrei dovuto essere contento: eri corso da me, avevi intuito che qualcosa non andava; a dire il vero, ho sperato con tutto il cuore che tu non ti facessi vivo.
Non in quel momento.
 
<< Qualcosa non va? >>
 
Mi sono girato sconvolto, mentre il tuo viso era disteso e tranquillo, innocente come la tua domanda.
 
<< Lo chiedi proprio tu? >>
 
Domandai a mia volta, prima che il tuo stupido sorriso serafico comparisse.
Non capivi, se no perché avresti fatto quella domanda? Perché mettersi in mostra in quel modo?
La mia rabbia saliva, e non sono più riuscito a controllarla.
Con che coraggio ponevi a me quella domanda, quando sei stato proprio tu a respingermi e ad allontanarti?
Non capivi che eri proprio tu la causa?
 
<< Perché? >>
 
Chiesi con un fil di voce, alzandomi minaccioso dalla sedia.
 
<< Tutto ti è dovuto, non è così? >>
 
Ho perso totalmente il controllo delle mie parole, nonché delle mie azioni.
 
<< Ma certo! Tu sei perfetto. Tu sei giusto. Sei un dio. Non sbagli mai nulla, vero? Vieni qui, come se niente fosse accaduto, e pretendi anche che ti dia spiegazioni. E’ quello che hai sempre fatto: corri in aiuto del fratellino, ma non ti accorgi che sei tu a nuocere al tuo stesso gemello? No, certo che no! Perché tu non sei mai nel torto, sei…perfetto. Sei speciale. Lo pensano tutti, non è così? Lo pensavano i nostri genitori e lo pensano i nostri compagni, e tutto ciò ti diverte, vero? Non ti sei mai guadagnato niente, né stima e né oneri, eppure per tutti sei una divinità, tanto che vorrebbero imitarti…perché? Perché sei così? Perché sei così dannatamente perfetto? Cos’hai più degli altri, più di me?! Io e te siamo uguali! Eppure ad occhi esterni hai sempre qualcosa in più. Sono anni che cerco di capire di cosa si tratti, ma ancora oggi non riesco a capire! Perché non posso avere ciò che hai tu? Perché devo accontentarmi di essere la tua ombra e non un tuo pari? Perché non posso avere ciò che desidero, per una volta? Perché sei nato? Dimmelo! Perché da quando sei al mondo, la mia vita è un inferno! >>
 
Il rancore aveva preso il sopravvento e avrei voluto dire molto di più; volevo sapere il motivo che ti aveva spinto ad allontanarti da me e, successivamente, ad umiliarmi. Pensavo mi volessi bene, che non avresti mai compromesso la mia felicità, ma cominciavo a dubitarne.
Ti ho persino tirato un vaso, tanta era la rabbia che avevi creato.
Avevo preso quel piccolo oggetto in terracotta, che era posizionato ai piedi del tavolo, e senza alcun rimorso ho tentato di colpirti.
Tu, ancora sconvolto per le mie parole, lo hai schivato prontamente; ero pronto per respingere qualsiasi tua reazione, avrei affrontato anche la tua parte più violenta, dimostrandoti una volta per tutte chi tra noi due era il più forte. Non avevo più paura di niente, ormai.
Ti sei accasciato a terra senza dire nulla, mentre io ancora tremavo per ciò che avevo appena fatto.
Fermami!
I miei occhi ti pregavano silenziosamente, ma non avevi colto il segnale.
 
<< Ti odio! >>
 
Fu l’ultima parola che pronunciai quel giorno, e fu anche l’unica di cui mi resi conto.
Avrei voluto ritirarla, cancellarla, ma non era possibile.
Il tuo volto era pallido, ma allo stesso tempo teso. Ti sei alzato e in perfetto silenzio ti sei chiuso in camera tua.
Ti ho sentito piangere quella notte, anche se dal tuo volto non scese alcuna lacrima.


Note
Salve a tutti ragazzi e bentornati su questi lidi.
Ho trovato un po' di tempo per postarvi anche questo capitolo, che sicuramente non è uno dei più felici.
Vi ricordate quando ho dato il dono della parola a Kanon e speravo, con tutto il cuore, che ne facesse buon uso? Bene. Non ne sta facendo buon uso, per niente! Direi che ha parlato anche troppo...oltre a farsi fin troppe domande.
Io fuggo e come sempre vi ringrazio tutti, da chi recensisce, legge, preferiti, seguite e tutto il resto.
Un bacio e buona lettura.
  
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