1.
Heidi
trangugiò un sorso d’acqua dalla bottiglietta e disse ai suoi compagni, coprendo
il microfono con la mano:
“Posso
farcela ancora per un paio di canzoni.”
I
Chocolate avevano deciso di esibirsi nonostante la loro cantante stesse uscendo
da un forte raffreddore che le aveva provocato qualche problema alle corde
vocali. La serata al Ladybird era troppo importante, aveva bofonchiato il loro
manager. Così Heidi aveva preso tutti gli antibiotici mai inventati dalla
scoperta della penicillina in avanti e aveva sperato in
bene.
“Senti,
facciamo la cover dei Kiss e poi i Police - suggerì River - Con i Kiss
sforzerai, ma l’altra è molto lenta, quasi sussurrata. Non è il massimo chiudere
così, ma le altre nostre canzoni sono troppo impegnative, mentre sei in queste
condizioni.”
“E se
ci chiedono il bis?”
“Ci
inventeremo qualcosa.”disse Andrea.
“Va
bene, allora forza.”
La
folla che riempiva il locale apprezzò molto, e quindi chiese il bis. I Chocolate
dimenticarono il proposito di poco prima, ma scelsero di proporre di nuovo un
paio delle loro canzoni più lente per salvare almeno in parte la voce di
Heidi.
Dieci
minuti dopo erano tutti nella saletta che costituiva il camerino comune. Tyler,
il loro manager, entrò e si gettò su una poltrona.
“Allora?”chiese
River.
“Allora...
avete notato una tipa bionda e uno alto e muscoloso con un giaccone di
pelle?”
“Sì,
erano vicini al palco”rispose David.
“Erano
Lucian&Pat.”
Il
silenzio cadde nella stanza. Si sentiva solo il fracasso del
locale.
“La
prossima settimana avete un incontro per parlare con
loro.”
Lucian&Pat
erano una coppia di talent-scout che lavorava per
Il
primo ad afferrare l’importanza dell’evento fu River che si mise a saltare e
coinvolse i suoi amici in un pazzo ballo di gruppo. Continuarono così per un
po’, finché Heidi non fece sentire quel che restava della sua
voce.
Si
sistemarono tutti nell’eroico pulmino Volkswagen bianco e rosso di River, che li
portò ognuno a casa. Sapevano che avrebbero dormito ben poco, ma le regole di
Tyler erano ferree. “Dopo un concerto, niente feste, niente groupies, niente
alcol... tutti a dormire”, ecco il Tyler-pensiero.
Heidi
saliva le scale con passi lenti e fiochi, il cui suono rimbombava nel silenzio.
Entrò nell’appartamento: Matthew dormiva, circondato da un certo numero di
bottiglie di birra. Vuote. Heidi le raccolse e le gettò via. Poi prese una
sciarpa e uscì sul terrazzo. Da lì, si godeva una splendida vista
dell’oceano.
Amava
sentire l’aria fresca della notte che le sfiorava il viso, e inspirò a pieni
polmoni il profumo di salsedine. L’aurora iniziava appena ad illuminare
l’orizzonte, e in quel momento, Heidi si sentì felice. Riusciva a ripensare a
tutto quello che nella sua vita non aveva funzionato senza piangere.
I
suoi genitori si erano separati circa dieci anni prima, e ricordava tutto con
una lucidità che le pungolava il cuore: ma sopra ogni cosa la sensazione di
non-appartenenza, sballottata fra sua madre e suo padre.
Le
vacanze con uno, poi saltate per il mancato pagamento degli alimenti, o magari
perché aveva una nuova fiamma da
far divertire. La vita di tutti i giorni con l’altra, la pressione di essere
sempre perfetta, il college appena completato “così finalmente inizierai a
lavorare seriamente”. E Matthew.
Aveva
conosciuto Matthew alla festa di una confraternita. Era mezza addormentata su un
divano, e lui si era avvicinato per offrirle un tiro da una canna. Lei aveva
accettato e il giorno dopo era andata a vivere da lui. L’appartamento era enorme
e bellissimo, pagato dai gentili signori Longhurst. Quando sua madre aveva
saputo che andava a vivere con il loro rampollo, aveva affermato che alla fine
si era trovata uno ricco, e che doveva riuscire a farsi sposare.
Heidi
non la chiamava da sei mesi.
Con
suo padre i contatti erano ancora più sporadici: l’ultima volta che si era fatto
vivo era stata in occasione del Natale dell’anno precedente, con una cartolina
dai Caraibi.
Heidi
si sfilò i sandali, poi si distese su una delle chaises longues, e rimase
immobile a fissare l’alba. I riflessi del sole la abbagliavano, e dovette
chiudere gli occhi. Pian piano, scivolò nel sonno.
David
era fermo davanti alla porta di casa sua: un appartamento incastrato in un
residence vicino alla stazione. Stava frugando nelle tasche dei pantaloni alla
ricerca delle chiavi. Non c’erano. Mentre appoggiava sul pianerottolo la
custodia del basso, sentì un rumore argentino. La aprì, e vide le sue chiavi, rintanate in un
angolo.
Infilò
la prima nella toppa, senza preoccuparsi del rumore. Il suo coinquilino ed i
vicini non erano tipi da essere a casa a quell’ora. Appena entrato si tolse le
scarpe, e andò a deporre la custodia sulla poltrona della sua stanza. Poi si
spogliò con calma, afferrò un paio di boxer e si diresse in bagno, per farsi una
doccia. L’acqua che percuoteva il suo viso aveva un effetto rigenerante. Rimase
cinque minuti fermo sotto l’acqua tiepida, poi si insaponò e si sciacquò.
Uscì
dalla cabina, si asciugò e indossò la biancheria. Mentre usciva dal bagno,
piombò in casa Lucas, in compagnia di due ragazze.
“Ehi,
vi presento il mio coinquilino...” biascicò “David, loro sono Christy e
Sabrina.”
“Ciao!”dissero
le due ragazze in coro.
“Christy
è venuta qua per te.”
La
bruna arrancò verso di lui e lo prese sottobraccio, sussurrandogli di
seguirla.
“La
porta a destra!”le disse Lucas.
David
non oppose resistenza e lasciò che la ragazza lo trascinasse. Qualcosa in lui
gli diceva di rinunciare, ma la sua mente non riusciva a trovare alcuna ragione
valida.
Dopo
aver compiuto il suo dovere, si alzò dal letto, dove Christy dormiva, ubriaca e
stanca, e tornò a farsi la doccia. Si raggomitolò in un angolo, mentre le gocce
bollenti gli sferzavano la pelle.
River
ebbe un colpo di sonn; il pulmino Volkswagen, che ne aveva viste tante ma non
era capace di guidarsi da solo, sbandò. Andrea mandò un grido e nel frattempo
diede uno strattone al volante. River si riscosse e frenò davanti all’abitazione
della ragazza, che abitava in una delle casette vittoriane dei sobborghi.
“River,
non posso lasciarti tornare a casa, guidando in questo stato.”
“Quale
stato?”
“Poco
fa stavamo per andare a sbattere contro un lampione. E non credo che la cosa
fosse programmata.”
River
parve molto interessato al volante.
“Hai
ragione, forse sono un po’ assonnato.”
“Fermati
a casa mia per dormire. Ho una stanza per gli ospiti... se è quello il
problema.”
“Va
bene, fammi strada.”
River
entrò timidamente nell’ingresso e seguì su per le scale Andrea, che gli mostrò
la sua stanza, e poi si ritirò nella propria. Mentre stava indossando la
maglietta grigia di sei taglie più grande che usava come camicia da notte, la
ragazza ripensava alle ore appena trascorse. Sospirò: aveva ancora troppa
adrenalina in circolo per riuscire a addormentarsi. Scese in cucina e mise un
pentolino d’acqua sul fuoco. Poi iniziò a macinare alcune foglie in un mortaio;
Taryn, la sua coinquilina, l’aveva contagiata con la mania degli alimenti
naturali.
La
ragazza avvertì una presenza alle sue spalle, e non appena si girò si trovò
davanti River, che portava solo i jeans, sveglio come lei.
“Cosa
stai preparando?”
“Una
tisana calmante. Non riesco a dormire, e neanche tu a quanto vedo.”
“In
effetti... potrei averne una tazza?”
“Certo,
anzi già che ci sei preparane due e mettici tre zollette di zucchero. Guarda
nell’armadietto in altro a sinistra.”
Mentre
trafficavano vicini, Andrea si rese conto che conosceva poco di River. A parte
il suo nome, il suo talento come batterista, e negli ultimi minuti il suo fisico
insospettabilmente atletico.
“Non
conosco neanche il tuo cognome.”disse lui, come se avesse pensato la stessa
cosa.
“Farrant.”
“I
Farrant che possiedono il T****?” chiese lui, nominando la testa più famosa di
San Francisco.
“Loro.”
tagliò corto Andrea “E tu?
“Casey.
River Casey. Detto così, suona malissimo.”
“Hai
un nome molto particolare.”
“I
miei erano degli hippie fuori tempo massimo.”
“Credo
che un po’ tutti i genitori lo siano.”
“Già,
ma io ho avuto il non comune privilegio di nascere in una comune hippie di
Bombay.”
La
tisana era pronta. Andrea e River andarono a sedersi sulle poltrone del salotto.
Dopo non pochi contorcimenti per assumere una posizione che non rivelasse al
ragazzo tipo e colore della sua biancheria intima, Andrea ritornò sul
discorso.
“Quindi
sei indiano?”
“Ho
il doppio passaporto.”
Notando
che Andrea lo guardava incuriosita, River le parlò della sua vita. Era così
semplice aprirsi in quel clima di confidenza e pace.
“Vedi,
mia madre era una bellissima ragazza anglo-indiana che lavorava all’ambasciata.
Mio padre era in viaggio per l’India alla ricerca di se stesso, invece trovò mia
madre e insieme andarono a vivere in una comune vicino a Bombay, dove nacqui io.
Restammo lì fino al mio quinto compleanno, poi su insistenza di mio nonno
materno, un colonnello dell’esercito inglese preoccupato che il suo nipotino
crescesse in modo così disordinato, tornammo alla vita civile. Mio padre
iniziò a lavorare come insegnante
in un liceo privato, e mia madre riprese a lavorare all’ambasciata. Quando avevo
nove anni morì mio nonno paterno e l’anno dopo ci trasferimmo qui negli Stati
Uniti, perché mio padre doveva mandare avanti l’attività di famiglia. Quando ho
finito il college, ho girato il mondo. Dopo peregrinazioni varie, sono arrivato
qua a San Francisco.”
“Come
mai proprio qui?”
“Avevo
letto da qualche parte che è la città americana nella quale « si impresse nel
patrimonio genetico cittadino quella predisposizione alla tolleranza e
all'accoglienza che la caratterizzano oggi forse ancora più che in passato,
facendone la metropoli nordamericana meno allineata alle convenzioni sociali »
.”
“Un
po’ troppo solenne, ma abbastanza vero.”
Andrea
e River continuarono a parlare per un po’, poi lui si assopì poco dopo l’alba.
Andrea lo fece stendere sul divano, e lo coprì con una coperta leggera; poi salì
le scale, si infilò fra le lenzuola e anche lei si addormentò.
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