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Autore: liberty_dream    22/11/2015    0 recensioni
STORIA AD OC
Cento anni dopo la morte dell'ultima ninfa la situazione è la stessa del secolo scorso: il sovrano ha ottenuto la fonte della giovinezza ed è ancora in vita, si tratta di un re sanguinario e violento.
Ma un gruppo di volontari è deciso a combattere contro di lui ed annientarlo. Loro hanno un'arma che può sconvolgere le sorti della guerra: l'ultima ninfa è rinata, ma devono ancora trovare la ragazza che ha ereditato le sue origini ed i suoi poteri.
La lotta tra il bene ed il male ricomincia... l'ago della bilancia a chi concederà la vittoria?
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gray, Fullbuster, Natsu
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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THE LAST NYMPH TALE



Il fumo esalato dalla brace aveva annerito i mattoni in terracotta di quella che era, secondo tutti gli inquilini, la casa più calda dell’intera abitazione. Non era termicamente isolata e questo rendeva confortevolmente caldi gli ambienti vicini e insopportabile la fucina; in bella vista, poggiati su dei ripiani pensili, alcuni attrezzi da lavoro come falci e teste di vanghe ancora brillanti per la recente fattura, sfoggiavano il proprio ferro, bronzo e acciaio ai loro eventuali compratori.
La stanza non era in legno, né aveva il soffitto in paglia, non sembrava più grande delle altre stanze ma la percezione ottica veniva deviata dalla presenza dell’enorme brace sulla quale enormi ceppi ardenti si carbonizzavano lentamente sbriciolandosi consumati dalle fiamme e della gigantesca incudine tanto usurata quanto usata; a lato, sempre pronto per ogni evenienza, vi era un secchio colmo di acqua fredda che una ragazza, sotto le costanti minacce del padre, era tenuta a riempire con l’acqua del vicino torrente. In quel momento era vuoto, nonostante i continui rimproveri dell’uomo.

Il battere del ferro sul ferro risuonava ancora potente anche a diverse abitazioni di distanza, l’una sufficientemente distanziata dall’altra per evitare che un incendio casuale distruggesse l’intero villaggio.
Era mattina inoltrata, nel paesino l’alone tangibile di pace e tranquillità era tangibile e addirittura respirabile. Gaiezza, serenità e spensieratezza accompagnavano le operose attività degli abitanti del villaggio di Slave Town. Chi poteva, lavorava all’esterno, rincuorandosi con quell’ultimo tiepido calore che avrebbe riscaldato le membra affaticate e doloranti peri reumatismi; per questo motivo, un paio di anziane signore ricamava a punto croce scambiandosi qualche pettegolezzo su un paio di seggiole poste a lato, lungo la strada.
Tutto il paese era indaffarato: le più giovani imparavano l’arte del tessere come apprendiste, o badavano ai fratelli più piccoli, o rassettavano le case; alcune madri stendevano i bucati che tanto avevano fatto soffrire le loro povere mani su dei fili legati tra gli alberi insieme le lenzuola già stese, candide e immacolate per l’uso della cenere e lo strofinio nell’acqua del fiume; gli uomini del villaggio erano impegnati nelle loro attività, alcuni insegnavano a mungere le mucche ai figli più grandi, altri terminavano la semina delle messi, altri spaccavano la legna necessaria a sopravvivere all’imminente inverno.

I bambini, al contrario, erano esonerati dalla preparazione all’inverno; l’ingenuità  e la loro acerba età permetteva loro che di svagarsi nelle fredde acque del fiume, di rotolare nel prato che già aveva risentito delle prime piogge autunnali o di cacciare le lucertole quando uscivano dalle loro tante, di arrampicarsi sugli alberi o di nascondersi nei granai per fare marachelle che spesso ostacolavano il lavoro degli adulti, ma che, facendo ridere, miglioravano la giornata a tutti.

Ed era ormai da qualche ora che un gruppo di monelli non si faceva vedere, né che i loro schiamazzi interrompessero le attività di chi si affrettava a radunare il necessario per superare l’inverno.

La proprietaria della rimessa più grande e peggio mantenuta del villaggio stava lavorando con i suoi tessuti per regalare alla figlia maggiore, ormai madre di due splendidi bambini, un vestito nuovo. Il locale che le apparteneva aveva delle dimensioni immense e spesso e volentieri i più piccoli gattonavano al suo interno finendo per perdersi tra casse e pezzi di legno lasciati lì da almeno un lustro, il tempo necessario affinché la memoria del defunto marito sfumasse tra i ricordi dall’anziana vedova indaffarata.

Un paio di occhietti da furetto sbirciarono che nessuno arrivasse e fece un cenno ai suoi amici.

Silenziosamente una masnada di bambini dalle scarpe rotte e dai vestiti rammendati scivolò fuori dalla rimessa della vedova, camminavano lentamente verso il torrente lì vicino. Si erano segnati con la cenere le guance, alcuni avevano le mani completamente annerite, piccole foglie erano state inserite tra i capelli per non essere visti il più a lungo possibile, mimetizzati; le loro sottile labbra erano contrite, gli occhi accigliati… l’altra vedetta strinse gli occhi per mettere a fuoco il loro bersaglio. Ed eccole lì, piccoli puntini lontani sulle sponde del lago, macchioline celestine tra gli ancora verdeggianti cespugli.

Il piano era stato studiato nei minimi dettagli, il campo accuratamente scelto: sì, ce l’avrebbero fatta, era quello il giorno propizio! L’esaltazione luccicava negli occhi dei bambini ed ecco il tanto atteso segnale: la piccola vedetta fischiò il verso della tortora e tutta la truppa iniziò ad avanzare. Il capo, un bambino più grassottello con una fascia rossa attorno ai capelli marroni, fece cenno a tre ragazzini più mingherlini di restare indietro come retrovia, altri tre andarono verso destra, altri tre a sinistra. L’obiettivo? Circondare il bersaglio. Il capo rimase con due dei suoi più leali e fidati compagni, sorrise loro incoraggiandoli e avanzarono anche loro.

Chi l’avrebbe mai detto che l’eterna guerra intergenerazionale potesse essere così divertente?

Il campo offriva alberi sempreverdi dai rami bassi e cespugli in abbondante quantità; se si aveva l’occhio allenato era possibile nutrirsi con piccoli funghi porcini ed evitare di cadere nelle numerose insidie che le chiazze erbose nascondevano: infami pozzanghere potevano impedire la buona riuscita della missione, trappole per scoiattoli e conigli aspettavano gli ignari piedi, rametti invidiosi della libertà di movimento degli aggressori potevano scricchiolare e serpenti iracondi potevano rovinare la giornata, e insieme una vita. Un muretto a secco circondava un frutteto di una delle famiglie più importanti, dalle finestre della casa, un paio di marmocchi, cui gocciolava il naso per un raffreddore impudente, osservavano gli aggressori prepararsi all’agguato e i tre bambini avanzare rossi in viso per il caldo e la corsa.

Le prede erano indaffarate, nei loro vestiti dai colori più tenui, nel lavare, strofinare e ripulire da ogni traccia di umidità, grasso e sporco gli abiti della scorsa stagione: l’autunno era arrivato e quella sarebbe stata una delle poche giornate di sole rimaste prima delle nevi. Con rigido pudore tenevano i capelli raccolti nelle proprie cuffie di cotone e le maniche ripiegate su se stesse così da non bagnarsi; su dei pezzi di legno striati, insaponavano accuratamente i vestiti per poi risciacquarli. Avevano le mani piagate e le guance arrossate per la fatica.

Canticchiavano tra loro allegri motivetti e raccontavano le loro ultime esperienze e gli ultimi pettegolezzi, seguendo quella consueta abitudine delle popolane e delle comari. Le canzoni predilette erano romantiche, piccole poesie elegiache imparate dai trovatori che si esibivano nella piazza di tanto in tanto; ma non mancavano piccole burle irriverenti per le padrone e risate innocenti e ingenue. Un paio di fanciulle si stava riposando all’ombra di un mandorlo intrecciando delle ghirlande di fiori che poi avrebbero indossato quando, dopo aver terminato il lavoro, si sarebbero rilassate e sarebbe venuto il tempo per i giochi fanciulleschi che il loro stato di giovani nubili permetteva loro.

I bambini furono in posizione e uno squillo di tromba avvertì le malcapitate, del pericolo, e i compagni di squadra, dell’inizio delle operazioni.

Da destra, il primo gruppo si lanciò sulle giovani spingendole in acqua e tirando loro “bombe” di fango. Le ragazze, dal canto loro, provavano a mettere in salvo il frutto del loro lavoro dai giochi indesiderati dei bambini.

Tic toc, tic toc.

Anche da sinistra, il secondo gruppo iniziò l’offensiva imbrattando ancora di più i vestiti delle giovani che scappavano come gru in volo dopo un rumore improvviso.

Tic toc, tic toc.

Le ragazze erano ormai arrivate alla retroguardia con le ceste tra le braccia, lasciando indietro le ghirlande e permettendo ai capelli di uscire disordinati dalle cuffie… quale scempio di tanto prezioso e stancante lavoro! I vestiti imbrattati erano il meno peggio. I bambini uscirono da dietro gli arbusti e iniziarono a colpirle anche da davanti.

Tic toc, tic toc.

Il capo finì di cronometrare e scese dall’albero in cui si era nascosto con gli altri. Raggiunse il luogo in cui poco prima le fanciulle si stavano rilassando, quindi si guardò intorno. I suoi compagni avevano quasi ultimato le loro munizioni e sarebbero ritornati di lì a poco dopo averle sprecate sui vestiti e sui capelli delle fuggitivi. Si sedette, lì doveva aveva visto essersi seduta la sorella e fissò il cielo, per quanto ancora sarebbe durato il bel tempo?
Gli altri bambini arrivarono di corsa ridendo.

- Ragazzi miei!- incominciò quindi il bruno- è stato difficile e abbiamo subito delle perdite, - tutti si ricordarono del rosso messo in punizione dalla madre prima ancora dell’attuazione del piano- ma alla fine ce l’abbiamo fatta: il torrente è nostro! E nessuno potrà mai togliercelo!- detto così sciolse la fascia che portava in capo e la legò a un ramo dell’albero in un gesto magniloquente e esemplare.

- E allora godiamocelo!- un coro di voci annuì in risposta e tutti iniziarono a gridare il nome del loro capo orgogliosi come non mai- Gavriel! Gavriel! Gavriel!La masnada vincitrice si gettò nelle acque cristalline del fiume tra gli spruzzi delle increspature e incuranti delle vicine rapide. Le acque erano fresche e corroboranti, avevano un effetto frizzante che faceva aumentare la voglia dei bambini di schizzarsi e giocare tra gli spruzzi.

Il fondale era basso e visibile: ciottoli levigati costituivano il letto e nel punto più profondo, l’acqua arrivava loro alla vita. Con le maglie infradiciate e le guancie arrossate, si schizzavano a vicenda, costruivano torri e si lanciavano in acqua, qualcuno nuotava in piccole gare organizzate alla bell’e meglio. Il divertimento era generale e anche qualche ranocchia si risolse nell’unirsi al coro di voci allegre e spensierate con i suoi gracidii stonati.

Da lontano le giovani donne scacciate, perdenti e sporche li guadavano in cagnesco aggrottando gli occhi e confabulando idee di rivalsa. Un’unica parola era dipinta sulle loro bocche ancora acerbe, un’unica idea era contemplata dalle loro menti: vendetta! Non sarebbe stata neanche una cosa anomala o stonata in merito alla situazione, ma probabilmente non era la cosa più giusta a cui pensare.

- Shail! Fai sgridare tuo fratello: -proruppe una ragazza dalle numerose lentiggini e dai capelli rossi- non è possibile che si ficchi sempre in mezzo ai pasticci e combini tutti questi guai. Guarda la settimana scorsa per esempio!- indicò la rimessa dell’anziana vedova in parte ricolorata dalle palle di fango rinsecchito da giorni che i bambini si erano divertiti a tirare.

- Sono ancora dei bambini, cretina! Anche tu alla loro età facevi solo danni, ma non mi sembra te lo ricordi.- tutte si misero a ridere ricordando i propri errori.

- Bambini un cazz…- la fulva venne interrotta da un rumore improvviso.Da dietro un gruppo di abitazioni un gruppo di cavalieri a cavallo irruppero tra le donne radunate.

Non erano tanti, indossavano tutti la stessa armatura tranne uno.

Chi era quella figura misteriosa? Che ci faceva tra quei soldati del re?

Gli altri erano chiaramente riconoscibili per il blasone impresso a fuoco sulla piastra frontale della loro armatura e sull’elmo: un tridente inciso a fuoco vivo. Un simbolo di forza, un simbolo di paura. Le celate degli elmi nascondevano i  loro occhi alle osservatrici incaute, mentre non curanti sferzavano i fondoschiena dei loro palafreni o, a seconda dei casi, dei loro stalloni.

Il figuro anomalo era davanti agli altri, ben visibile e sarebbe stato anche riconoscibile da tutti, se si fosse mostrato in quel paesino il giorno dell’esecuzione del principe Gilbert. Il fisico straniero, più da terra artica che da clima continentale, era grigiastro e scolpito, egli sembrava imponente dall’alto del suo cavallo da guerra, un purosangue nero; gli occhi glaciali per freddezza e colore erano quanto si vedeva del suo volto attraverso l’elmo.

La sua era un’armatura a placche nere istoriate con motivi rossastri o nerastri che aveva un unico punto scoperto: il ventre, lasciato a incitamento per i nemici, ma essendo senza cicatrici poteva significare solo una cosa; lascio al lettore curioso il compito di immaginare in quanti fossero mai riusciti a colpirlo. Aveva un non so che di magnetico e, agli occhi di Shail, era un mix di adrenalina e di feromoni;  forse ciò era legato al tatuaggio tribale che da attorno l’ombelico risaliva a volute verso il petto, o forse alle catene che portava come bracciali attorno ai polsi e come cintura. La ragazza non poteva distogliere lo sguardo che si soffermava languidamente e inconsapevolmente sui suoi fianchi che si ondeggiavano seguendo i movimenti lenti del suo animale mansueto, sui suoi muscoli gonfi e sodi temprati dalla fatica, su quelle mani grandi che potevano essere in grado di circondarla senza remore, su quelle fessure gelide ma così affascinanti che studiavano i volti di ciascuno dei presenti.

Forse gli occhi di lei avrebbero avuto espressioni meno dolci e passionali, se avesse saputo dove il gruppo sarebbe andato.

L’entrata in scena del gruppo di armati aveva sì messo a tacere il gruppo di fanciulle, ma il coro dei bambini che giocavano in lontananza non si era affatto calmato sebbene un uomo dalla barba ormai già brizzolata di bianco stesse gridando e inveendo contro uno di loro, non ancora conscio della presenza del drappello di armati. Era rigido nella sua posizione eretta, con le guance arrossate come al solito e il grembiule sporco di fuliggine. Cercava di attirare l’attenzione di un marmocchio in particolare che lo ignorava continuando nel gioco.

- Gavriel Aghea! Vieni subito qui.- il ragazzino continuava a non considerarlo.- Se ti prendo, non so nemmeno io che ti faccio!L’uomo scese nell’acqua del fiume e andò verso il bambini. L’acqua non gli arrivava nemmeno alla vita ma ugualmente avrebbe dovuto cambiarsi, una volta a casa.

Paonazzo per l’indignazione, arrancava verso il gruppo dei bambini che solo allora si era accorto della sua presenza. Il diretto interessato, il capobanda, provò ad allontanarsi notando il proprio vecchio a poca distanza da lui ma fu troppo lento: tue mani forti e callose lo afferrarono per un braccio trascinandolo con sé.
Il bambino ebbe un sussulto: stava per essere punito a suon di cinghiate, ma il gioco era valso la candela. Sorrise con boria ai suoi amici preoccupati per la sua sorte caricandolo di un significato nascosto: ne è valsa la pena, grazie ragazzi avrebbe detto, se avesse potuto. Poi si rivolse al padre lamentandosi della presa eccessivamente forte e bisbigliando scuse divertite, mascherando la totale assenza di eventuali tracce di pentimento.

I bambini piegarono il capo:il loro capitano si era immolato per il loro divertimento. Che eroe!

Ma mentre il fabbro riportava suo figlio nella sua capanna per educarlo come si conviene, gli armati non erano rimasti fermi ad assistere alla scenetta. Si erano divisi per cercare la targa di una precisa abitazione dopo aver riunito le donne e gli uomini occupati in attività interne al paese di Slave Town all’interno della stessa piazza dove solo pochi giorni prima era morto il principe ereditario di quel regno, giustiziato dal suo stesso padre. Vicino al ceppo, gli schizzi di sangue non si erano ancora cancellati, ma avevano impregnato il legno. Chissà tra quanto tempo le assi avrebbero iniziato a emanare l’odore pungente del sangue di cui si sarebbero imbevute con il passare dei mesi: c’era sempre qualcuno da punire.

Shail osservò la piazza, non era molto gremita ma ugualmente, tutti coloro che si trovavano in zona erano stati costretti con la forza alla posizione scomoda di spettatore astante. Era ancora vicina al suo gruppo di amiche con cui era solita tessere e intrecciare, e appoggiava il peso ora su una gamba, ora sull’altra, irrequieta e impaziente. Aveva il sentore che qualcosa di poco positivo sarebbe successo da lì a breve.

Tutti gli astanti avevano compreso che di lì a poco non ci sarebbe stata una esecuzione: generalmente la popolazione locale era avvertita uno o due giorni prima del grande evento. La sicurezza dilagante comportava un’unica certezza: la colonna delle fustigazioni, mai cambiata né spostata, sarebbe stata di lì usata. L’unica incertezza era nell’identità della sua vittima: a chi sarebbe toccato subire l’infamia?

Nessun araldo aveva intonato lo squillo di tromba che preannunciava l’inizio della punizione esemplare, nessun soldato si era mosso dalla posizioni impettite in cui erano stati destinati dall’uomo dei ghiacci.


 
***

Non gli aveva fatto domande. Strano, fu l’unico pensiero del rosato. L’indomani la donna si era alzata, aveva rassettato la casa, afferrato il suo cesto del bucato da lavare e si era diretta verso il fiume come ogni altra massaia senza rivolgergli parola, si era limitata a intimare ai figli di non uscire di casa e di mangiare quel poco che aveva preparato e che ora faceva una ben misera mostra di sé: i due bambini avevano divorato tutto ciò che i loro piccoli affamati organismi riuscivano a ingurgitare, quel poco che restava sarebbe stato per lui. Poi se n’era andata, lasciando le due pesti a fargli compagnia, ora i due correvano per la casa, colmi di quell’euforia e di quella gioia di vivere che ben presto abbandona chiunque si affacci nell’età adulta.

Da quanto non assumeva quella forma fasulla? Perché incarnarsi in un uomo se avrebbe potuto semplicemente rapirla e portarla nella sua grotta? Si era appena svegliato nel corpo di un uomo e già bramava il cielo, la libertà. Avrebbe voluto non essere l’ultimo della sua specie, avere ancora suo fratello Zeref a consolarlo e consigliarlo, ma il fuoco dei maghi aveva annientato anche lui.

I maghi li avevano braccati per giorni, costringendoli a una vita di stenti: non potevano neanche uscire per cacciare! Poi una sera, mentre erano accucciati contemplando il bagliore lunare gli uomini avevano portato via tutto ciò che gli restava. Lui era riuscito a volare via: era più possente e più indomabile, l’altro più violento, ma di stazza inferiore era stato legato al suo e ferito a un’ala. Aveva emanato il suo alito infuocato verso quegli esseri pavidi, aveva bruciato le loro pelli eppure loro gridavano Uccideteli! e infierivano sul corpo del drago con le loro daghe. L’aveva visto accasciarsi inerme, guardare il cielo, cercarlo, trovarlo e chiudere gli occhi, per sempre.

Era volato via.

E si era trovato nei pressi di quel ruscello dove aveva spiato per giorni quella giovane donna dai capelli dorati che cantava sempre mentre adempiva al suo compito di madre. Si era innamorato della luce che emanavano i suoi occhi, vi aveva scorto malinconia e aveva sperato di poterla sradicare dal suo sguardo. Fantasticava sui suoi pensieri, immaginava chi fosse, che vita conducesse. Le sue labbra delicate erano state l’oggetto delle sue riflessioni nelle notti insonni, quando i ricordi diventavano troppo dolorosi. E quando l’angoscia per essere rimasto l’ultimo lo afferrava, ripensava ai suoi grandi occhi nocciola e vi si perdeva all’interno.
Si alzò dal letto fingendo uno stato confusionale.

- Dove sono?- bofonchiò attirando l’attenzione dei due bambini.Il maschio, più vivace e intraprendente, gli si avvicinò.

- Ma allora sei vivo?- lo squadrò con sguardo indagatore e rivelatore- io sono Jude e lei è Ur, tu chi sei?

- Io? Io sono Natsu.- gli rispose indicandosi.

- Bel nome- rispose una voce femminile dall’ingresso delle modesta abitazione- io sono Lucia.

 
***
 
Era ormai passata un’ora dal momento in cui ogni via d’uscita dalla piazza era stata sigillata, anche i bambini, pesti ma colmi di allegria si erano riversati all’interno dell’area di terra battuta portando con loro le loro risate rincuoranti. Ma il padre di Shail e suo fratello non erano ancora entrati nel suo campo visivo. Nessun altro sembrava aver notato la loro assenza finché il piccolo Gavriel non era entrato nella piazza con gli occhi colmi di lacrime e il volto arrossato per gli schiaffi. Corse tremante verso sua sorella per poi affondare nella sua gonna rosa sporcandole il vestito di fango.

Stupita, la ragazza appoggiò le sue mani sul capo del bambino ancora scosso e muto, con gli occhi sgranati e le gialle iridi contorniate da un tripudio rossastro. Sospirò cercando di incanalare la sua apparente calma nel debole corpicino che le si avvinghiava terrorizzato. Poi un sibilo.

- Papà…- bisbigliò in un sussulto.

La ragazza lo udì. Cos’era successo a Fernando Aghea? Papà dove sei? Abbiamo bisogno di te. La sua domanda ebbe una rapida risposta perché negli attimi successivi un uomo dal volto incappucciato da un sacco di tela lacero da cui sporgevano ciuffi di barba candidi, con le mani arrossate legate, dai pantaloni di cuoio macchiati e logorati per l’uso che con seria difficoltà erano mantenuti su da un laccio dello stesso materiale altrettanto consunto gocciolante acqua e da una casacca verde muschio anch’essa parzialmente bagnata. Egli era scortato da quell’uomo misterioso, quello per cui il cuore della fanciulla aveva perso un battito, quello stesso che essa avrebbe imparato ad odiare.

Lo sconosciuto si tolse l’ermo cedendolo al suo commilitone più immediato, poi spinse in malo modo il suo prigioniero conducendolo con continui strattoni alla pedana dove erano posti la colonna delle fustigazioni e il ceppo per le esecuzioni. Il suo volto aveva lineamenti duri e affilati, i capelli si stavano ricomponendo in quella che era un cresta e ora anche il taglio degli occhi ghiacciati, chiusi come se fossero due fessure, era ben visibile. Una spada lunga a due mani gli pesava sulle spalle senza infiacchire il corpo abituati a sforzi ben più pesanti.

Egli non era mai stato di molte parole, ma in questo caso un discorso esemplificativo doveva essere tenuto: era il preciso volere di sua maestà, il re Henry Von Paradise. Si accinse a parlare,ma  la differenza rispetto a pochi giorni prima era manifesta, quasi plateale: era una Guardia Reale a parlare, e non uno degli araldi reali. Ma c’era la stessa atmosfera: pesante e carica di tensione. L’impazienza era percepibile allo stesso modo, anzi, era incrementata dall’attesa di chi sarebbe occorso nella mano pesante di quel soldato sconosciuto al villaggio e dal fatto stesso che, questa volta, la vittima-forse colpevole di aver rubato una cipolla ai carri che transitavano per quell’agglomerato urbano in direzione del castello- era uno di loro. Si schiarì la gola.

- Nessuno di  voi sa chi sia quest’uomo che giace al mio fianco, ma tutti voi siete rei di connivenza. Egli è stato trovato a vendere ai ribelli merce destinata all’esercito e finanziata dal re in persona, dal vostro re! Si tratta di armi che sono state custodite nelle vostre case, lame da taglio come quelle trovate sul suo corpo- lanciò verso la folla il pugnale che ferì di striscio il volto di una donna e si infilzò nella gamba di un uomo che perse l’equilibrio e iniziò a gemere per il dolore; sua moglie accorse per  prestargli le prime cure- fateli stare zitti!-gridò stizzito ai soldati che lo accompagnavano per poi riprendere il discorso.

Essi si avvicinarono alla coppia e li trascinarono di peso all’esterno della piazza tra lo scompiglio generale, gli occhi colmi di lascivia per il corpo femminile che portavano con loro ancora scalpitante. Avevano avuto il permesso di stuprarla, no? Entrarono all’interno di una stalla e legarono l’uomo con i finimenti equestri costringendolo a osservare la scena animalesca che di lì a poco si sarebbe consumata davanti ai suoi occhi.

Inutili furono le suppliche, le maledizioni, le imprecazioni della donna. Le strapparono il vestito, lacerando la sottoveste, sdrucendo la sottana. Rivelarono la sua femminilità e il suo corpo prosperoso non fu nascosto agli sguardi indagatori e inconsapevoli dei cavalli, né allo sgomento del marito. Ma non siamo qui per assistere all’orrore che venne qui consumato, non descriverò le sue urla, i suoi rantoli e i gemiti di loro.
Non vi narrerò del seme e del sangue che scorse lungo il suo corpo, dei muscoli tirati, dei capelli strappati, delle contusioni che costellavano il suo corpo rendendolo tanto simile a una cartina geografica.
Ma vi parlerò dell’abominio commesso quando, stanchi e soddisfatti, i soldati decisero che era giunta l’ora di farla finita. Legarono la donna ai finimenti di un cavallo e il marito ancora sanguinante, sconvolto, inorridito, preoccupato allo stesso cavallo e lo lanciarono al galoppo… in direzione di Dover, la città dell’Ammazzabestie là vicina e le sue bianche scogliere.

I loro corpi sbattevano contro le pietre del selciato,graffiandosi, scorticandosi. I polsi si slogarono, le ossa si ruppero, la pelle si lacerò. Nessuno li avrebbe trovati là dove il cavallo, incantato da uno dei due soldati, stava andando: il fondo del mare. E vi arrivarono, con le orbite capovolte e avvolti da un mantello sanguinolento, agonizzati o senza vita? Nessuno fu in grado di dircelo.

Poi i soldati tornarono indietro ad assistere alla punizione esemplare che si stava per tenere. La Guardia Reale si era presentata come Amlach, the Devil. Un diavolo o un demone? C’erano molte voci sul suo conto ma per una cosa era noto: faceva largo uso di una dose sovrabbondante di cinismo. Già pregustava il momento in cui si sarebbe sporcato lui stesso le mani nel sangue del prigioniero che giaceva carponi al suo fianco. Lo fece alzare, impaziente. Strattonandolo lo portò verso la colonna, lo spogliò della casacca consunta che indossava rivelando un corpo avanti con l’età ma ancora tonico e lo assicurò all’asse. Sollevò il cappuccio svelando il volto a tutto il pubblico.

Shail ebbe un brivido. Sgranò gli occhi. Non è possibile.

L’uomo afferrò la frusta che gli veniva porsa: una lunga striscia di canapa con delle borchie di metallo appuntite nella parte finale della corda. Si leccò le labbra, ora l’uccellino avrebbe cantato la più ricercata delle melodie. D’altro lato il vegliardo chiudeva gli occhi, ignorando gli sguardi puntati su di lui, pregando perché i suoi figli avessero il buonsenso di non intervenire. Pensò a come era stato scoperto: una delatore aveva fatto la spia; chi poteva essere? Forse non l’avrebbe mai saputo. Pregò i suoi dei: la chiesa di Zentopia gli aveva insegnato i suoi valori educandolo al rispetto e alla fratellanza.

Il primo colpo lo colse alla sprovvista, non urlò. Imprecò nei suoi pensieri e tornò a perdersi nelle sue divagazioni: non doveva dare soddisfazione al suo carnefice né sminuire la sua dignità. Si erse titanicamente di fronte al suo nemico: ma al quinto colpo, alla quinta ondata di dolore, esso fu troppo. Le sue corde vocali vibrarono invocando un sollievo che la carne martoriata bramava. Era stato sconfitto, piegato, ma la sua punizione era appena all’inizio… resistette a altri dieci sferzate, poi perse conoscenza.

I presenti, giorni dopo, non erano sicuri della quantità delle frustrate, alcuni stimavano intorno ai trenta, altri addirittura cinquanta. Nessuno si aspettava che il fabbro Fernando Aghea sarebbe tornato lo stesso uomo che aveva sfidato il re aiutando i suoi nemici. Amlach godeva del suo dolore, cullandosi nella dolcissima stridula sinfonia delle sue urla; era come un bambino alla prese con una pozzanghera dopo un giorno di pioggia: più saltava nelle pozzanghere sporcandosi più si divertiva, più si macchiava del suo sangue, più i suoi occhi assumevano un’aria euforica.

Gavriel piangeva aggrappato alla sorella. – Papà…- sussurrava tra i suoi singhiozzi con voce flebile.

La massa era impassibile, sgomenta e al tempo stessa abituata a quegli spettacoli di dolore gratuito.

Shail abbracciava il fratello, cercando di nascondere l’apprensione per il padre e la paura di perderlo. Doveva mostrarsi forte per il bambino, tanto debole quanto forte voleva sembrare. Ma i suoi occhi bianchi girati, l’abbandono del suo corpo all’oblio la sconvolgevano. Il sangue che scorreva fresco era troppo, rischiava di morire dissanguato e intanto, il suo carnefice non dava segni di voler smettere. Cosa la aveva attratta in lui? Nel momento in cui aveva impugnato la frusta contro Fernando Aghea, Shail aveva perso ogni interesse lascivo e infedele nei suoi confronti. Quando però vide che la frusta era entrata a tal punto nella carne, lacerando la schiena martoriata, distruggendo i legamenti, la ragazza perse il senso della realtà.

Si narra che l’usignolo amasse a tal punto la rosa che le spine gli trafissero il cuore. L’uccellino bianco spiccò un salto, ignaro dei movimenti del suo corpo correndo incontro al fiore mortale. Un turbinio vorticoso si sollevò attorno al corpo della fanciulla e in un istante la Guardia Reale abbandonò la frusta liberando la spada a due mani dalle corde di cuio che la assicuravano alla sua schiena.

- La pagherai!- gridò Shail mentre le raffiche di vento aumentavano e le persone tra la folla cercavano di allontanarsi il più possibile da lei per non essere sbalzati via.

Sollevò la mano e il cielo si oscurò, chiuse il pugno e un fulmine atterrò poco distante dall’uomo.

- Ti sei finalmente rivelata, ninfa?- sputò quello calcando con tono disgustato l’ultima parola.










ANGOLINO DELL'AUTRICE
Sono passati undici mesi dall'ultima volta in cui aggiornato e sono molto curiosa: in quanti, di quei miei quattro lettori si ricorderà di quello che ho scritto in precedenza?
Non chiedo scuse, non imploro perdono, ho dei ritmi molto lenti, lo sò e l'ho notato. Questo è il periodo dell'anno più prolifero per la mia scrittura, e devo ringraziare il mio ragazzo, Dario, per supportarmi con tutti i progetti che ho in corso e per sopportarmi in tutti i miei attacchi di pura follia. E' merito suo se un terremoto non si è abattuto nel regno di Fiore, ma non è riuscito a evitare tutte le calamità che ben presto si seguiranno.
Ora lo storia entra nel vivo, non ci saranno mezze misure: diversi moriranno, anche in modi atroci. Spero non vi siate affezionati a nessuno perché anche il personaggio più importante può morire (Ned Stark... Martin, perché?).
Se ritenete debba alzare il rating, vi sare grata se poteste dirmelo. 


La vostra Liber





 
  
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