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Autore: Snuffles    25/11/2015    0 recensioni
Mi trovavo in un cortile di ghiaia che dava su una strada asfaltata, circondata da un gruppetto di case con le persiane sbarrate e le porte chiuse, il tutto illuminato dalla dolce e morbida luce dei lampioni, che sembrava la carezza di una madre.
Al solo pensiero, mi irrigidii, e non per la bassa temperatura: carezze, abbracci e in genere la parola amore non facevano parte della mia vita.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Erano circa le tre quando mi svegliai.
Ero nel dormitorio femminile, una stanza piuttosto spartana, dotata solo di una decine di letto a castello di ferro battuto ricoperti di vernice rossa, scrostata in più punti.
Mi soffermai a studiare le mie compagne di stanza, che dormivano beate e serene nei loro letti a castello. Una di loro si rigirò nel letto, sbuffando, e le doghe cigolarono, quasi piangendo.
Senza svegliare la mia gemella, che sognava col sorriso sulle labbra di fianco a me, saltai giù dal letto, atterrando dolcemente sul pavimento freddo.
Presi una giacca e mi misi le scarpe, poi camminai con passo felpato fino alla porta di vetro che dava sul cortile e la aprii permettendo alla luce della luna di entrare, colorando per un momento di un tenue giallo la stanza spoglia. Misi il primo piede fuori, l'aria di dicembre che mi colpiva il viso come un coltello tagliente, e respirai a pieni polmoni l'aria del Natale.
Ero nel mio ambiente: tutt'uno con la notte, con il freddo, con la luna e le stelle, da sola.
Mi capitava spesso anche a casa, di scappare di casa la notte, per sedermi da qualche partea osservare  le stelle, l'aria fredda che mi tagliava le ossa e mi faceva sentire viva.
Più di una volta mia sorella mi aveva visto lasciare la stanza in silenzio, ma si era limitata a fare un cenno con la testa e a rigirarsi nel letto.
Camminai verso la panchina scassata che si trovava vicino alla strada e mi guardai intorno, in muto raccoglimento con me stessa.
Mi trovavo in un cortile di ghiaia che dava su una strada asfaltata, circondata da un gruppetto di case con le persiane sbarrate e le porte chiuse, il tutto illuminato dalla dolce e morbida luce dei lampioni, che sembrava la carezza di una madre.
Al solo pensiero, mi irrigidii, e non per la bassa temperatura: carezze, abbracci e in genere la parola amore non facevano parte della mia vita.
Non avevo mai creduto nell'Amore, quello con la A maiuscolo., intendo. Per me le coppie, gay o etero che fossero, altro non erano se non due esseri persi nel vasto oceano dell'umanità che mantenevano in vita quell'illusione amorosa a vicenda, per non dover arrendersi alla realtà.
Alla realtà dove l'amore non esiste. Sorrisi malinconica. L'avevo imparato presto io: già a nove anni non credevo più nell'amore.
E' l'amore che fa uccidere, che fa piangere, che fa star male, che ti costringe a rinunciare alle tua ambizioni, convinta di star facendo la giusta scelta. Per ritrovarsi all'età di 50 anni in lacrime davanti al camino, rendendosi conto di chi saresti potuto diventare, di cosa saresti potuto essere, se solo non ti fossi illusa a quelle dolci parole che ti avevano fatto sognare. Ecco cos'erano per me gli innamorati: erano tremule fiamme su un cero bagnato. Loro speravano e vivevano il loro sogno, testardi, convincendo loro stessi che sapevano amare, che volevano amare, e che erano in grado di amare.
Volevo bene ai miei genitori, un bene immenso, anche se spesso i miei sentimenti nei loro confronti erano condizionati dagli sbalzi d'umore dell'adolescenza. E la loro relazione che stava lentamente cadendo a pezzi, afflosciandosi su sé stessa e su di me.
Il mio carattere silenzioso, solitario e pensieroso mi portava a far di un sassolino un macigno. Tanto da essere obbligata ad andare una volta al mese da uno psicologo.
Ero immersa nei miei pensieri quando mi accorsi di non essere sola. Lui mi stava guardando, indeciso se avvicinarsi o meno. Quando vide che l'avevo visto, si decise, e si avvicinò.
“Non dovresti stare qui fuori. E' freddo.”
Come se mi importasse. Lo fulminai con lo sguardo.
“Non ho sonno e non soffro il freddo”
Sorrisi, cercando di essere educata. Non era affar suo cosa stavo facendo a quell'ora lì fuori.
“Perché sei qui fuori da sola? Dov'è tua sorella?”
“E' dentro che dorme. Possiamo stare separate, sai? Non siamo gemelle siamesi”
“Se è per questo non siete neanche omozigoti”
Non gli risposi. Se era venuto lì per chiaccherare poteva anche tornarsene dentro . Di solito io e la mia gemella eravamo le anime del campo estivo, sempre pronte a far casino, ma quando ci separavamo diventavo più chiusa, aggressiva e scontrosa. E in quel momento non avevo voglia di mettermi a far salotto. Volevo solo sbollire in pace, guardare la luna e pregare le stelle di portarmi via da lì, in silenzio.
Da sola.
Ma evidentemente qualcuno non era del mio stesso parere.
Lui si sedette vicino a me.
La panchina scricchiolò minacciosa.
“Sei sicura che ci regga tutti e due?”
“Non sono sicura di niente” risposi secca. Per poi rendermi conto dell'immenso errore che avevo appena fatto: gli avevo fatto capire che c'era qualcosa che non andava.
Mi fissò ammirato, quasi stupito.
“Che ti succede?”
“Assolutamente nulla. Va tutto benissimo!” Esclamai sorridendo, bluffando abilmente.
Mi squadrò con un sorrisetto sbilenco. “Dovrei crederti? Giusto per sapere, eh,”
“Dovresti. Perché non è affar tuo se sto male, se mi sento il mondo che mi cade addosso, se esagero, se faccio la vittima, se vorrei solo sparire, se non so cos'è l'amore e se non ci credo, capito?”
Sentivo le lacrime che stavano spingevano per scendere, ma dovevo combatterle. Dovevo tenermi stretta quel po' di dignità che mi rimaneva. Ero una Serpeverde, cazzo! Dignità prima di tutto.
Ma non ero a Hogwarts, non esisteva la magia, né le case. Non ci sarebbe stato nessun Weasely a consolarmi, come accedeva nei miei sogni ad occhi aperti duranti le lezioni di tedesco.
E una lacrima mi solcò il viso. Solo una. Non singhiozzai piangendo tutte le mie lacrime, comportandomi come una bambina, no. Lasciai che quella piccola e salata goccia esprimesse quello che provavo.
Mi aspettavo che lui mi fissasse preoccupato, che si alzasse e scappasse via balbettando scuse.
Ma non lo fece.
Mi passò un braccio attorno alle spalle, spingendomi delicatamente verso di sé. Poggiai la testa sulla sua maglietta, fissando apatica il lampione davanti a me. Mi accomodai sul suo braccio, sospirando.
“Va tutto bene” disse “va tutto bene”.
E mi strinse a sé.
Passammo tutta la notte lì, abbracciati, insieme.
In silenzio, ognuno immerso nei prorpi pensieri, troppo rumorosi per essere ignorati.
Quando il sole sorse, tornammo nei rispettivi dormitori. Senza dire una parola, ma più sereni.
Non parlammo mai di quello che era successo quella notte.
 Mai.
   
 
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