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Autore: r_clarisse    25/11/2015    1 recensioni
Africa, 148.000 aC.
Due ragazzi innamorati, David e Steven, contemplano la bellezza del loro nuovo mondo dopo quattro anni di esodo nella Flotta Coloniale.
Il loro viaggio è terminato e ricominceranno da capo, a partire da quel momento, insieme.
David racconta in prima persona la loro storia, la loro vita insieme nelle Dodici Colonie e la corsa disperata per la sopravvivenza dopo la loro distruzione per mano dei Cyloni.
Non ha la pretesa di essere un grande racconto, ne un'opera di fantascienza, ma spero possa far trasparire in qualche modo quella che è la semplicità dell'amore che può unire due persone, attraverso lo spazio e il tempo.
"Eravamo finalmente a casa, la nostra nuova casa, e non dovevamo più scappare.
Certo, avremmo dovuto ricominciare da zero in un nuovo mondo, ma questo non mi spaventava; non mi spaventava la mancanza di cibo, il doverci arrangiare, il costruire tutto da capo.
Dopo quello che avevamo passato sarebbe stato sciocco preoccuparsi per il futuro.
Sapevo che ce l’avremmo fatta."
Genere: Drammatico, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi Tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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               Capitolo 3 - Fermento

3.1 -“Non sembra vero
Capita a volte che io mi impegni così intensamente nel raccontare questa storia tanto da dimenticarmi per un attimo che la maggior parte delle cose di cui parlo e che descrivo in realtà non esistono più; i pianeti su cui vivevamo sono stati devastati, le nostre città rase al suolo; la società di cui facevamo parte ha smesso di esistere, o almeno non è più quella di quei giorni. La nostra stessa razza ha rischiato di essere spazzata via dall’universo e si è salvata per un pelo dall’estinzione.
Mi sembra assurdo pensare che siano passati solo quattro anni da allora, da quando tutti noi conducevamo le nostre vite ed assaporavamo la noiosa e al contempo meravigliosa condizione dell’ordinario e del consueto; spesso mi stupisco nel pensare che non vedrò mai più i grattacieli di Caprica, ne il cielo azzurro-viola di Virgon, o viaggerò nello spazio a bordo di una nave di linea.
Quasi mi spaventa la consapevolezza che non guiderò mai più un’automobile, ne suonerò un pianoforte o tantomeno impugnerò l’asta di una chitarra; su questo mondo non c’è nulla di tutto questo, ci sono solo erba ed alberi, mari e montagne, e di certo non abbiamo i mezzi per costruire dal nulla quello che conoscevamo una volta.
Non voglio essere frainteso, sono fortunato, siamo stati fortunati tutti noi a scampare a quello che per molti altri è stato un irrevocabile capolinea; io mi sento più fortunato di altri perché c’è Steven qui con me, e perciò il resto passa in secondo piano. Non importa il dove o il come vivere, se siamo insieme è tutto ok.
Certamente, cinque anni e mezzo fa non lo avrei mai immaginato; sicuramente non dopo quel pomeriggio in cui ci conoscemmo di fronte alla stazione dei treni Lev.
 
3.2 – “Pianeti e ansiolitici”
Tornai a casa ai primi vespri quella sera, dopo aver salutato i miei amici, mentre il sole tramontava sulla campagna tingendola di un caldo e familiare arancione.
Amavo quel momento della giornata: dalla strada vedevo i trattori fermi nei campi o vicini ai cancelli delle fattorie, mentre i loro proprietari erano probabilmente in casa a scolarsi una birra o a seguire l’incontro di Pyramid in televisione. Era anche l’ora del ritorno della gente dagli uffici nelle grandi città: la strada era infatti sempre piena zeppa di autobus che raggiungevano i piccoli centri –come quello in cui vivevo- nei quali gli impiegati, reduci da una stressante giornata passata davanti ad un computer o a spillare documenti, si sarebbero abbandonati ad una doccia calda –nonostante fosse piena estate- e successivamente ai comodi cuscini dei loro letti.
Nel cielo, a migliaia di metri da me, decine di astronavi da trasporto per passeggeri o merci attraversavano velocemente l’empireo, entrando e uscendo dall’atmosfera; alcune di esse lasciavano scie di condensazione dietro i propri rotori, esattamente come degli aeroplani, a causa dell’elevata altitudine e del contatto dei loro gas di scarico con l’aria. Sfortunatamente Canceron non aveva lune, e l’unico corpo celeste vagamente visibile ad occhio nudo – e solo in determinati momenti dell’anno- era il gigante gassoso di Hestia, con il quale due dei tre pianeti abitabili del nostro sistema solare condividevano l’orbita; la luce del sole si rifletteva sulla sua vasta superficie, facendolo apparire come un piccolo puntino luminoso nel cielo delle 19:30.
Continuavo a pensare, mentre guidavo, a quello che era accaduto quel pomeriggio e a quanto mi avesse colpito incontrare quel ragazzo; senza rendermene conto, stavo sorridendo come un ebete.
“Chissà se mi chiamerà” pensavo “Non so nemmeno dove vive, lo rivedrò?”.
Avevo già avuto delle cotte in precedenza, anche abbastanza serie, ma non mi ero mai sentito in quel modo, mai in vent’anni che ero al mondo. Già quello avrebbe dovuto farmi capire tutto.
Entrai in casa e andai verso la mia camera senza nemmeno accorgermi che Will, il nostro gatto, era saltato sul mobile facendo cadere a terra il vaso rosa della sala, che ora giaceva in pezzi vicino al divano.
La nostra piccola sala, dall’aria essenziale ma accogliente, piena di tende rosa a tutte le finestre, con lampade dalla luce intensa ma allo stesso modo non eccessiva; costantemente fresca anche quando fuori c’erano trenta gradi.
“Ciao Jennifer, sono a casa!”
“David! Puoi venire qui per favore?” Sentì replicare dal bagno; la trovai seduta sulla vasca con una salvietta in faccia intenta ad asciugarsi i capelli.
“David non trovo gli ansiolitici, li hai presi tu?” Disse mentre si strofinava la salvietta in faccia.
“No non mi pare… non li ho mai nemmeno usati.”
“Dove li avrò messi, che diamine, ho guardato ovunque!” Replicò con un’espressione di acceso disappunto.
“Aspetta, forse sono nel mobiletto in sala!” Si alzò con i capelli ancora umidi e la salvietta in spalla.
“Il medico ti ha raccomandato di andarci piano con quella roba, te lo ricordi vero?” Le dissi mentre la guardavo dirigervisi. Faceva uso di ansiolitici da quando avevo dieci anni, da quando aveva realizzato che la sua vita e la mia sarebbero state intrecciate per sempre –o avrebbe dovuto esserlo-; più volte aveva avuto delle reazioni all’uso smodato del farmaco, sonnolenza e svenimenti, ma i dottori le permettevano di continuare a prenderlo, un po’ perché non costituiva un grosso problema per la sua salute, un po’ perché quella povera donna aveva bisogno di qualcosa che la tenesse calma. Essere “madre” era davvero una dura prova per lei.
“Lo so David e infatti li prendo solo una volta al giorno, non preoccuparti. Vediamo se son…ODDEI!”
Alzai lo sguardo per capire cosa la turbasse.
“Ma chi è stato?”
“Cosa è successo?” Chiesi.
“IL VASO ROSA! E’ A PEZZI!” disse mentre indicava la marea di frantumi disposti a casaccio sul pavimento insieme alla pozza d’acqua e ai tre fiori che conteneva prima di cadere.
“Credo che il colpevole non lo ammetterà mai..” risposi cercando di trattenere le risate mentre il gatto se ne stava seduto, bello impettito sul mobile di fronte a me, con lo sguardo di chi sa benissimo di essere stato beccato ma finge di non sapere nulla. Quel gattone era così bello, il suo pelo lungo e soffice, i suoi baffi bianchi sempre puntati in avanti, e la coda folta come uno spolverino.
“Gattaccio! Questo vaso lo avevo comprato su Virgon prima di trasferirmi qui… guardalo è in pezzi.”
In realtà ero piuttosto dispiaciuto: Jennifer era molto attaccata alle sue cose, specie a quelle che le ricordavano la sua casa. In realtà era la nostra casa, quella che lei aveva lasciato per me.
“Dai” provai a confortarla “Magari possiamo aggiustarlo, un po’ di colla, nessuno lo noterà!”
anche se era poco verosimile –era davvero in mille pezzi, più che un vaso sembrava una costellazione che avevo studiato in astronomia pochi mesi prima-.
“Beh ci penseremo più tardi, ora va a lavarti, io raccolgo i pezzi, tra venti minuti si cena, non farmi aspettare. Ok?”
“Agli ordini, generale!” Le diedi un bacio sui capelli bagnati ed andai di nuovo in bagno.
L’acqua mi passava tra i capelli e sulla pelle ed io, ad occhi chiusi, ripensavo ancora una volta al mio magico pomeriggio, mentre mi insaponavo a dovere.
“Si! Certo, David! Cioè, sono David! Piacere, come va?” Quelle frasi mi rimbalzavano in testa in modo ossessivo: com’era possibile che fossi così tanto una frana in ogni cosa? Non ero capace nemmeno di presentarmi adeguatamente a qualcuno.
Ridevo sotto l’acqua che mi scorreva addosso; sentivo che, in qualche modo, qualcosa era iniziato, e che sarebbe stato determinante per me. Forse, anche per Steven stesso.

3.3 -“Uragani”
“Allora cos’avete fatto oggi di bello?” Chiese Jennifer mentre poggiava il piatto con il polpettone di carne e verdure accanto al mio; io giocherellavo con la forchetta disegnando cerchi immaginari sul tovagliolo bianco a quadretti rosa.
Non avevo letteralmente sentito la sua domanda, ero come assente, avvolto dai miei pensieri che, ovviamente, andavano in un’unica direzione; Jennifer se ne accorse e, dopo un paio di secondi di silenzio intervenne nuovamente:
“Come si chiama? Chi è?” la forchetta mi scivolò tra le dita e finì per terra.
“Come scusa?” Chiesi sgranando gli occhi “…come fai a sapere?” Lei si mise a ridere e riprese il piatto del polpettone per servirsi visto che non lo avevo ancora fatto io.
“Mio caro, ti conosco da vent’anni, ogni volta che hai conosciuto qualcuno hai sempre avuto quell’espressione da triglia lessa, allora lo vuoi il polpettone?” Mi tese di nuovo il piatto.
La stanza era pervasa da un profumo delizioso.
“Allora, come si chiama?” Al chè indugiai per qualche istante.
“Steven… si chiama Steven.” Mi grattai la testa imbarazzato.
“Oh, e com’è? Avete parlato?” Si faceva sempre più interessata, potevo vederlo da come mi guardava.
“E’…” Pensai per un secondo “Interessante. Beh, sicuramente è molto bello, ma a parte questo sembra una persona interessante. E’ di Leonis!” Assunsi un’espressione quasi magistrale mentre pronunciavo il nome del pianeta, inarcando le sopracciglia e chinando leggermente il capo a sinistra, mentre prendevo con la forchetta un paio di fette di polpettone.
Oh, Leonis!” Jennifer sorrise e si illuminò “Sai, quando ero giovane, poco più grande di te, conobbi un uomo di Leonis.”
“Davvero?”
“Si, è stato l’uomo più importante della mia vita. In realtà è stato uno dei pochi, ma meglio così.”
Mi fermai ad ascoltare il suo racconto: non mi aveva mai parlato della sua vita sentimentale, ed ora che ci pensavo, effettivamente non l’avevo mai vista frequentare qualcuno.
Aveva forse rinunciato ad avere relazioni per occuparsi di me? Questo mi avrebbe fatto sentire decisamente in colpa.
“Si chiamava Ryan. Io avevo ventisei anni, lui trentuno. Mia madre ovviamente disapprovava. Mi portò in vacanza su Leonis una volta, è un pianeta bellissimo.”
“Com’è?” Chiesi incuriosito. Conoscevo le sue caratteristiche principali dato che, come tutti , le avevo studiate a scuola, ma non essendoci mai stato volevo sentire un’esperienza diretta.
“E’ bello, è sempre caldo tutto l’anno perché il suo asse non ha inclinazione e i raggi del suo sole riscaldano la superficie sempre allo stesso modo. Ha delle pianure sconfinate sulla maggior parte delle terre emerse e le città sono piene di ristoranti davvero altolocati. La sua cucina e i suoi vini sono noti su tutti i dodici pianeti!”
Pensandoci, mi venne in mente che molto spesso Jennifer ne preparava i piatti tipici; e il mio stupore in realtà era del tutto fuori luogo: Leonis era uno dei mondi più ricchi ed influenti delle Dodici Colonie, sia per gli aspetti culturali e culinari, come diceva lei, sia per quelli istituzionali: era infatti ai primi posti nell’educazione scolastica e nell’industria negli standard coloniali.
“Eh… come mai è finita?” Mi morsi la lingua nel momento stesso in cui lo dissi, temendo di metterla in imbarazzo; Jennifer rispose con molta nonchalance:
“Ero giovane, ero ingenua e accecata da tante cose, poi ho aperto gli occhi.” E sorrise. Non volli chiedere altro per non essere invadente.
“Ma sono sicura che non è il tuo caso invece. Allora, uscirete?”
“Non saprei… gli ho dato il mio numero. Sta a lui contattarmi adesso.”
“Tranquillo” sorseggiò un bicchiere di thè freddo al limone “Lo farà, lo farà.”
Nel frattempo alla televisione, un notiziario ci aggiornava sulle ultime notizie importanti.
“Una scossa di magnitudo 2.4 è stata registrata nei pressi di un agglomerato urbano, su Scorpia.”
Mi voltai per ascoltare meglio, vedendo sullo schermo immagini di palazzine crollate e ponti pericolanti.
“Le autorità del pianeta hanno dichiarato lo stato di calamità naturale e il bilancio dei danni ammonta a quindici milioni di cubiti, una cifra piuttosto alta per delle città già messe a dura prova dai frequenti uragani.”
“Poveretti, posso solo immaginare cosa provino.” Disse Jennifer con un filo di tristezza nella voce.
“Su quel pianeta ci sono continuamente cicloni, cos’era, il sesto quello del mese scorso? Ora il terremoto. Vivere su Scorpia non dev’essere per nulla facile…” Risposi prendendo in mano il cellulare.
-1 new message from StevenJ
Sgranai gli occhi.
“Ci ha messo così poco? Pensavo passassero giorni o si dimenticasse anche…” La mia testa era un vortice di pensieri che frullavano ad una velocità inaudita. Come un uragano.
Come gli uragani su Scorpia.
Eppure era solo un messaggio che –tra l’altro- non avevo ancora letto; sarebbe potuto essere anche un “Non voglio vederti mai più” o “Mi trasferisco, addio” per quanto ne sapevo. Poteva un messaggio non letto mandarmi così su di giri? Jennifer notò la mia faccia stranita ed eccitata allo stesso tempo e sorrise in silenzio.
“Hey ciao! Ho pensato molto ad oggi pomeriggio e se sei d’accordo vorrei rivederti! J”
Il messaggio era decisamente chiaro e diretto e la cosa non poteva che farmi piacere; risposi di scatto picchiettando nervosamente sui piccoli tasti disegnati sullo schermo digitale del cellulare.
“Ciao, piacerebbe molto anche a me, potremmo accordarci! J”
Per un attimo mi sembrò una risposta troppo secca ma in fondo cos’altro avrei potuto dirgli?
“Che ne dici di venerdì? Potremmo vederci nel pomeriggio e fare un giro!”
Venerdi? Oh dei, Venerdì era troppo vicino, troppo poco tempo per prepararmi psicologicamente all’evento! Avevo sempre avuto difficoltà nell’affrontare questo genere di cose e nel relazionarmi in generale e sapere di avere soltanto tre giorni prima di dovermi buttare in quest’impresa mi sconvolgeva.
Ma non potevo nemmeno tirarmi indietro, perciò, dopo aver fissato il cellulare per dieci secondi, risposi.
“Sarebbe perfetto! Ci vediamo venerdì alle 16:00 davanti alla stazione dei Lev, ok?”
Mi sentii immediatamente più leggero appena dopo aver inviato il messaggio.
In tutto questo, Jennifer se ne stava seduta sulla poltrona a seguire le news sui disastri naturali su Scorpia, guardandomi con la coda dell’occhio; naturalmente aveva capito tutto, mi conosceva meglio di quanto mi conoscessi io stesso.
Non ricordo esattamente come andò avanti quella serata; so per certo che guardammo insieme un film pseudo romantico, “Maryanne flowers”: parlava di una ragazza di provincia di Picon che scopriva le proprie origini tramite un’indagine e trovava l’amore della sua vita. Un’operetta leggera ma sicuramente piacevole per una serata madre-figlio.
Una piccola idea cominciava in quel momento a farsi strada nella mia testa: il meglio doveva ancora arrivare.


Continua…
   
 
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