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Autore: Rei_    26/11/2015    9 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Era seduto sopra il suo letto, mentre lo osservava.
Vedeva il suo corpo liscio, la sua pelle priva di imperfezioni, le piccole venature dei muscoli che modellavano le braccia, appoggiate distese sopra le lenzuola. I suoi capelli erano lunghi. Di giorno se li tirava su con il gel, ma la notte finivano scompigliati sul cuscino di seta di color azzurro chiaro, coprendogli il viso in modo scomposto. Quel particolare colore azzurro era quello prevalente nella camera di Riccardo. Ne erano tinteggiate le pareti e il soffitto, a diverse sfumature. Un po' gli ricordava il cielo, ma per il resto gli ricordava l'unica cosa che aveva rappresentato un po' di stabilità nella sua vita: la sua attività politica.
Sopra il cuscino dormiva Francesco Venturi, nudo tranne che per i boxer di color rosso acceso, lo stesso colore dei suoi capelli. E Riccardo gli era a fianco nel letto, come accadeva da diversi anni, durante i quali una persona comune si sarebbe abituata a quell'affetto speciale e nascosto che si era creato tra di loro.
Lui invece no. Tutte le notti si svegliava, mettendosi a sedere nell'oscurità. E lì, nel buio totale, silenziava il suo respiro per sentire quello dell'altro. Non lo avrebbe mai toccato mentre dormiva, si sarebbe sentito in colpa a svegliarlo. Gli bastava essere sicuro che lui fosse lì presente. Che c'era ancora, che non se n'era andato, che non era stata tutta un'illusione.
A volte, però, non gli bastava sentirlo respirare per convincersi che era lì. Quindi accendeva l'abat-jour, studiava la figura che riempiva l'altra metà letto, riconoscendo che i capelli rossicci erano proprio i suoi e l'orecchino che portava era proprio quello che gli aveva regalato lui e poi, tranquillo, ritornava a dormire. Non sempre, tuttavia, quel rapido bagliore di luce soffusa riusciva a non svegliare il suo compagno.
«Ric?»
Riccardo mugugnava sempre, facendo finta di stare dormendo, anzi, di non essersi mai svegliato, di non aver mai avuto quelle paure stupide che lo ossessionavano ogni notte.
«Perché sei sveglio?»
«Nulla, Francè, dormi».
«Ti ho sentito che ti muovevi».
«Dormi, dai che domani ci dobbiamo alzare presto…»
Finiva sempre così quella discussione tra loro, e Riccardo lo sapeva bene. Però continuava a fare quell'operazione tutte le notti, ostinatamente, perché la paura finiva per vincerlo ogni volta che si addormentava.
Diversi anni dopo, invece, accadeva che in quelle poche sere in cui andava a casa a dormire si svegliava alla stessa ora di un tempo e, come d’abitudine, si metteva seduto per cercare l’altro con lo sguardo, ma udiva solo il suo stesso respiro.
Non c'era più alcun rumore che accompagnasse il suo fiato. Non c'era più niente. Avrebbe anche potuto accendere la luce, ma non avrebbe visto altro che la sua ombra proiettata su quelle stesse lenzuola di tanti anni fa, di color azzurro cielo, così chiare che quando la luce del sole entrava dalle tende riusciva ad accecare ogni suo risveglio, illudendolo che quel giorno sarebbe stato davvero luminoso.
Una persona comune sarebbe andata oltre ad una mancanza. Avrebbe dimenticato, avrebbe ricucito con il tempo le ferite, avrebbe spento le ansie e taciuto le illusioni irrazionali.
Ma lui no, perché non era una persona comune, ma un mare azzurro destinato a rimanere in tempesta.
 
 
*
 
 
Fu il rumore delle macchine che passavano sulla strada a segnalargli che doveva essere già mattina inoltrata.
Era domenica, e lui si trovava ancora in quella camera estranea dove aveva passato le ultime ventiquattro ore, una sola giornata che sembrava essere durata una vita, anche se per la maggior parte del tempo aveva dormito, vittima della stanchezza causata dalla febbre.
Aveva avuto modo di osservare la camera di Andreani durante i brevi momenti di veglia. Ovunque erano appese foto, talmente tante che non c'era quasi un angolo di muro visibile. Alcune di esse ritraevano l'attuale capogruppo del Fronte con in mano la bandiera del suo partito, ma per la maggior parte riguardavano i suoi viaggi. Erano poche le persone che si ripetevano in quelle foto. Solo una ragazza compariva in addirittura tre cornici, mentre le altre erano in una, massimo due immagini.
Per il resto, la camera di Andreani era un deposito di oggetti ammucchiati sugli scaffali. Souvenir, libri, scatole, sciarpe rossonere, zainetti da viaggio, peluche, trofei di varia statura e dimensione.
Michele si era incuriosito vedendoli, ma non aveva avuto ancora occasione di avvicinarsi per scoprire a cosa fossero dovuti.
Lui nella sua camera aveva portato solo l'essenziale: qualche libro dei suoi preferiti, un album di foto e per il resto solo vestiti. Il resto era rimasto a Cutro, e non ne aveva affatto sentito la mancanza.
Si rigirò nel letto. Era stata una notte tranquilla. Niente incubi, niente paure, nemmeno la porta e le finestre chiuse erano riuscite a impedirgli di dormire beatamente, anche se non aveva ricordi di come fosse finito in camera da letto. L'ultima cosa che si ricordava era lui addormentato sul divano, mentre guardava una partita di calcio.
Nelle ultime ventiquattr'ore si era addirittura abituato alla vicinanza di Andreani, che in quel momento respirava rumorosamente, disteso supino su tutta la lunghezza del letto.
Michele aveva fame, abituato com’era a svegliarsi presto la mattina per fare colazione. Cercò di spostare le coperte il meno possibile mentre, con movimenti minimi, provava a sgusciare via dal letto, ma non bastò a impedire che l’altro si svegliasse.
«Mh? Che ore sono?» mugugnò.
«Saranno le dieci, credo».
Nicolò si mise a sedere, strofinandosi gli occhi ancora stanchi.
«Ti stai alzando? Come ti senti?»
«Mi sento meglio».
«Provati la febbre».
Gli lanciò il termometro, e Michele ubbidì. Non aveva mentito, si sentiva davvero meglio. La testa aveva smesso di pulsare dolorosamente, e gran parte della stanchezza se n’era andata.
«Trentasette e sei».
«Uh» Nicolò si alzò del tutto, nascondendo a fatica il senso di sollievo per quella notizia, «è scesa! Io vado a farmi una doccia, tu se vuoi mangiare non farti problemi. Nello sportello più a destra c’è un cestino con i tè e le tisane. Fatti qualcosa di caldo, devi bere molto». Michele non se lo fece ripetere due volte. Nello sportello indicato tirò fuori una tisana allo zenzero, aspettò che l’acqua bollisse e se ne versò una tazza.
Dopo un quarto d’ora, Nicolò lo raggiunse in cucina portandogli degli asciugamani puliti. Michele si chiuse a chiave dentro il bagno ancora umido e caldo per il vapore, buttandosi sotto il getto di acqua calda. Quando ne uscì, si sentì completamente rigenerato.
Ritrovò Nicolò in cucina, a fumare e a leggere i giornali dal tablet.
«Tutto a posto?» gli chiese, puntandogli addosso due occhi verdi decisamente più sereni del giorno prima.
«Sì. Ti ringrazio davvero tanto per l’ospitalità, ma posso tornare a casa adesso, non c’è bisogno che ti disturbi ulteriormente».
Nicolò lo scrutò a lungo, ma poi annuì.
«Va bene. Ti accompagnerei io, ma con la moto prenderesti troppa aria. Ti chiamo il taxi, tu riposati un attimo».
Michele ringraziò di nuovo e tornò in stanza, ammucchiando tutte le sue cose sparse: la camicia, la giacca, i calzini, la borsa, il caricatore del cellulare, e lasciò il pigiama di Andreani ripiegato sul letto.
Si sedette, perdendo ulteriore tempo a osservare la stanza. Gli dava un certo senso di serenità, forse per le foto appese. Non ce n’era una in cui Andreani non sorridesse, quel suo solito sorriso di chi non è turbato da nessun pensiero perché è abituato ad affrontarli di petto. In fondo, avrebbe voluto essere anche lui così, ma la sua vita era andata diversamente.
«È arrivato il taxi!» sentì gridare dall’altra stanza.
«Arrivo!»
Ci fu un silenzio carico di imbarazzo mentre si congedava alla porta d’ingresso.
«Beh, riprenditi! Per quanto riguarda la legge… ne riparleremo in un periodo più calmo, se sei d’accordo».
Annuì, riuscendo a modulare un raro sorriso di gratitudine.
«E comunque se hai bisogno non farti problemi a chiamare» aggiunse poi, mentre scendeva le scale.
 
 
*
 
 
Non si era mai accorto prima di allora che la sua casa era così silenziosa.
Appena riappoggiò le chiavi sulla mensola ebbe l'impressione di sentire l'eco di quel tocco rimbombare sulle pareti, cosa che gli fece quasi paura. Nella sua camera, il letto era completamente disfatto, ma trovò il pigiama piegato con cura.
Nella sua vita aveva subito molte cose. Era scappato di casa, aveva preso manganellate dai poliziotti, aveva concluso relazioni alle quali gli sembrava di tenere molto. Eppure, in nessuna circostanza aveva ancora mai affrontato il mostro del senso di colpa. E forse, dopo averlo finalmente fatto, poteva dire che era la più infida bestia tra tutte quelle che aveva affrontato.
Era ancora pieno giorno, ma Nicolò non aveva voglia di fare niente. Guardò il cellulare per diversi minuti, rileggendo mille volte le stesse notizie. Accese il PC e scaricò la mail, ma essendo domenica non c’erano nuovi messaggi. Pensò di andare a correre per sfogarsi. Si preparò in fretta, infilandosi la tuta blu, prese anche le cuffie per l'mp3, ma quando appoggiò la mano sulla maniglia della porta si accorse che non aveva voglia nemmeno di fare quello.
Finì per gettarsi sul letto, senza neanche togliersi i vestiti. Sulle lenzuola c'era ancora un discreto calore, residuo di quella febbre per cui era stato in ansia più di un giorno. Restò immobile in quella posizione, e solo dopo parecchi minuti si decise ad alzarsi.
Maledizione, non era da lui comportarsi così! Aveva sistemato il suo danno, perché allora si comportava come un misero depresso?
Andò in cucina, evitando di darsi una risposta a quella domanda. Aprì il frigo scoprendo la presenza degli avanzi della cena di ieri.
Quel semplice gesto era stato qualcosa di gratuito e di spontaneo, del tutto diverso dai regali che, quando lavorava a Milano, si scambiava con i colleghi in ufficio a Natale, facendoli anche alle persone che gli stavano antipatiche solo per quell’ipocrita invenzione chiamata educazione. Ma era diverso anche dai “pensieri” che faceva ai parenti quando li andava a trovare dopo tanto tempo, portando la prima cosa che trovava per casa. No, quel gesto era stato così vero da bastare a ripagare quella strana giornata.
Stufo di stare lì a indugiare davanti al frigo, si decise a tirare fuori il piatto e a scaldarlo al microonde. Lo finì in soli cinque minuti.
Si rialzò da tavola, cercando le chiavi della moto sulla mensola. Aria e velocità, ecco di cosa aveva bisogno.
 
 
*
 
 
«Caffè?»
Marchesi annusò il liquido nella tazza bianca che gli stava porgendo il capogruppo.
«Questo non è caffè» osservò subito.
«Bevilo e non fare storie».
Pasqui si sedette sulla poltrona distendendo le gambe lungo il piano della scrivania come al solito, mentre Marchesi ubbidiva in silenzio, appuntandosi mentalmente che più tardi sarebbe comunque sceso a prendersi il suo caffè.
«Notizie sulla nostra legge?» chiese poi.
«Ho lavorato tutta notte per selezionare gli emendamenti che voteremo. Ho già contrattato con i nostri alleati, ovviamente. Ti ho fatto un fascicolo con il resoconto».
Marchesi non riuscì a stupirsi a dovere per l’inquietante precisione e velocità del suo collega. Si era abituato, ormai.
«Ottimo. Gli darò un'occhiata».
«Pensavo ti fidassi e basta» sogghignò Pasqui.
«Anche un cervellone come te può sbagliare, Marcé» rispose Marchesi.
In realtà non lo pensava veramente. Su una legge del genere né lui, né Marcello avrebbero sbagliato una virgola. Era una delle promesse che si erano fatti, l'unica che per ora stavano entrambi mantenendo.
«Per la legge di Martino, invece?» domandò subito dopo.
«Le mie fonti dicono che non l’hanno ancora finita» rispose distrattamente Pasqui, lanciando una gomma da cancellare contro l'armadio, la quale rimbalzò e cadde per terra. Lo faceva spesso quando si annoiava.
«Basta che non si mettano tra i piedi» sospirò Marchesi.
«Non succederà. Prima le nostre leggi, poi le inezie. E se il buffone anarchico in riunione insisterà per calendarizzarla gliela farò vedere io. Metterlo a tacere è sempre una soddisfazione».
Marchesi spezzò la matita che teneva in mano, e l'eco del rumore riempì il successivo silenzio della stanza. Squadrò Pasqui a lungo, fino a che lui non capì da solo il grave errore che aveva appena fatto pronunciando una frase del genere.
«Smettila di agitarti, non intendevo in quel senso» borbottò, alzandosi in piedi con uno scatto irritato.
«Certo, non lo intendi mai» Marchesi appoggiò la matita spezzata sul tavolo, facendola ruotare su se stessa, «però lo dici come se niente fosse. Avevamo promesso che non saremmo stati così, come quelli che lo hanno ucci-»
«Io non sono così!» urlò Marcello interrompendolo, al limite della collera, «e poi tu, proprio tu vieni a parlarmi di promesse?»
«Non stiamo parlando di quello!» gridò Marchesi, alzandosi anche lui in piedi.
Uno dei collaboratori di Marchesi entrò dalla porta, squadrando i due litiganti con un'espressione interrogativa.
«Niente» bofonchiò il segretario di Sinistra Democratica, calmandosi subito, «è tutto a posto, Alfrè. Sto andando a farmi un caffè».
Uscì dal suo ufficio, senza rivolgere nemmeno uno sguardo al suo più caro amico.
 
 
*
 
 
Si prese tre giorni interi di riposo prima di fare la sua ricomparsa a Montecitorio. Aveva passato diverso tempo al telefono sia con Thomas che con Arturo, venendo informato sull’evoluzione della discussione della legge. Da quelle conversazioni sembrava emergere una tensione evidente nella maggioranza, in particolare tra Pasqui e il gruppo dei popolari, e certamente il giovane non moriva dalla voglia di immergersi in fretta dentro un clima del genere. Per cui, anche se al terzo giorno la febbre se n’era del tutto andata, preferì non presentarsi in aula e restare a casa per studiare da solo la legge e gli emendamenti.
Il giovedì si presentò all’ingresso di Montecitorio per le otto, puntuale per la seduta delle otto e mezza. La prima persona che notò fu Andreani, intento a parcheggiare lo scooter litigando con il cavalletto tra feroci imprecazioni.
«Ehi!»
«Ah, Martino!»
Diede un forte strattone al veicolo per farlo stare in piedi, poi lo appoggiò per il lato orizzontale al muretto, fissando la catena.
«Come stai?»
«Tutto bene, grazie».
«Ti sei perso un po’ di giornatine tranquille, eh? Facciamoci un caffè».
Michele lo seguì all’interno dell’edificio, osservando che salutava allegramente tutti quelli del suo gruppo. Tuttavia, non riuscì a fare a meno di notare che non sempre veniva contraccambiato, e che anzi molti sembravano far finta di non vederlo.
Una volta alla buvette, il giovane diventò ancora più nervoso. Era evidente che tutti gli sguardi dei presenti erano puntati su di loro e, non appena li intercettava, venivano distolti alla svelta. Andreani sembrò non accorgersene fino a che non vide un deputato del Nuovo Partito Popolare indicarlo palesemente con l’indice ad un collega, il quale, appena si fu voltato per guardarlo, scoppiò a ridere di gusto.
«Sbaglio o qualcuno sta parlando alle nostre spalle?» chiese, mentre si stava evidentemente sforzando di tenere lo sguardo basso per controllare l'irritazione.
«Sì, me ne sono accorto anche io» ammise Michele.
Il mistero si risolse solo quando comparve Thomas, con un’espressione a metà tra l’irritazione e il divertimento.
«È per questo che stanno a ride’» annunciò sottovoce, senza il bisogno di aspettare la domanda.
Aprì davanti a loro un settimanale di bassa lega. Nelle prime pagine compariva un’enorme foto in cui lui e il capogruppo del Fronte stavano uscendo dal palazzo, la sera tardi, mano nella mano. Era piena notte e la foto era scura, ma Michele riuscì a intravederci le fitte gelate e l’atroce mal di testa.
Lo stomaco gli si annodò a doppio giro leggendo qualche riga dell’articolo.
 

CONTINUA IL FLIRT PIÙ PICCANTE DEL PALAZZO!

Dopo il famoso episodio del bacio tra Andreani, noto capogruppo del Fronte per l’Indipendenza e Martino di Sinistra Democratica, sembra che qualcosa sia scattato. I due sono stati visti uscire dal palazzo a tarda notte, da soli e mano nella mano. Si racconta che siano saliti sullo stesso taxi. Altre fonti ci informano che i due deputati sono impegnati nella scrittura di una legge. Sembrerebbe che però sia solo una copertura, e che i due deputati trascorrano diverse ore serali nello stesso ufficio, al riparo da occhi indiscreti.
 
Smise di leggere, rifiutandosi di andare oltre. Non riusciva ad accettarlo. Chissà quante persone avevano letto quello stupido articolo. In quel momento si trovava completamente sopraffatto dagli eventi, senza possibili vie per fermare quelle subdole menzogne.
Forse, dopo tanti anni, sentiva il bisogno di piangere, solo per il gusto di sfogare in qualche modo quell'ennesima ingiustizia che era costretto a subire. Nello stesso momento, però, Andreani si era alzato in piedi, ribaltando lo sgabello con un tonfo che fece sussultare tutti i presenti.
«Deficienti che non siete altro! Ipocriti e coglioni, ecco cosa siete! Vi basta una cazzo di foto per sentirvi superiori e spettegolare come oche, non è vero? Non avete neanche un briciolo di vergogna!»
Nella sala avevano tutti smesso di sorseggiare il caffè o leggere il giornale e un silenzio di piombo calò all’istante. Andreani stava fulminando tutti con i suoi occhi verdi. Non risparmiò neanche un paio di colleghi del suo gruppo, i quali non ressero nemmeno lo sguardo.
«Ascoltatemi bene, coglioni e creduloni che non siete altro. Lo sapete perché c’è questa foto sul giornale? Perché quella sera Martino aveva la febbre e io l’ho accompagnato a prendere un taxi. Avete capito di chi state ridendo alle spalle? Fate veramente vomitare!»
Thomas per una volta rimase serio, mentre ascoltava e annuiva impercettibilmente alle parole di Nicolò. Michele invece continuò a tenere lo sguardo basso, tremante di rabbia e umiliazione.
«Ah, però se fossero stati un uomo o una donna immagino che non avreste avuto niente da ridere, giusto? Siete solo dei vergognosi bigotti, ecco cosa siete! E voi pretendete di cambiare l'Italia? Iniziate prima a cambiare le vostre teste di cazzo!»
Picchiò con forza la mano sul tavolo, provocando un secondo sussulto collettivo. Con un calcio fece rotolare lo sgabello per terra. Prese la rivista, la sbatté sul pavimento, la calpestò più volte e infine se ne andò.
Michele sentiva il cuore battere incessantemente. Nessuno gli rivolse lo sguardo mentre usciva dalla buvette a testa china, come mai avrebbe sperato di fare in quel palazzo. Thomas non lo seguì, conoscendolo abbastanza bene per capire che in quel momento voleva restare solo.
   
 
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