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Autore: Harshlove    29/11/2015    2 recensioni
LAYLOR – anche se a prima vista non si direbbe.
Jane ha ventitré anni. Jane non ha idea di cosa significhi stare nel mondo dello spettacolo, eppure quasi per caso ci finisce dentro e fa amicizia con una serie impressionante di attrici, persone che erano già abituate a tutto quello, compresa una certa Taylor. E, dal punto di vista di Jane, noteremo le dinamiche fra la fredda e furba quanto segretamente frustrata Laura Prepon (credo sia un parere di parte della scrittrice, chiedo venia) e la dolce, folle e lunatica Taylor Schilling. Jane è puerile, insicura, drammatica, paranoica. Troppi pochi peli sulla lingua, secondo la sua stronza madre. E, per quanto io possa odiare dal profondo del cuore la mamma di Jane, Dio, se ha ragione.
Ho provato a scrivere questa storia secondo il punto di vista di qualcun altro, e non Taylor o Laura, per rendere la storia più credibile, meno inverosimile. Sinceramente, so che è una pazzia e mi sto buttando in qualcosa che forse non raggiunge neanche le mie capacità, ma traendo una regale ispirazione da Fitzgerald alle quattro di notte di qualche giorno fa, ecco che è uscita questa ideona.
Enjoy!
Genere: Angst, Comico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Alex Vause, Nuovo personaggio, Piper Chapman, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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I WASN'T READY, TAYLOR!

Capitolo 9
Pel di carota, denti di coniglio

Nel periodo pre-adolescenziale non ero molto popolare fra i ragazzi, perché ero dotata di un umorismo che non gradivano – a tratti snob, a tratti totalmente mancante –, perché avevo i capelli rossi e perché i miei denti erano troppo sporgenti. Ricordo ancora quando Ricky Thompson, nel cortile delle elementari, mi tirava le trecce che mia madre Marjorie mi acconciava ogni mattina. E ricordo le botte che il povero Ricky acchiappava, se riuscivo a prenderlo. 

Mi piaceva la letteratura inglese, le zucche, le lettere che io stessa scrivevo in grafia ordinata al prozio Albert – anche se quella era una scusa per impressionare qualcuno, avendo una grafia particolarmente ordinata –; mi piaceva (e mi piace tutt'ora) mettere ordine nelle cose, dare loro un nome preciso, sezionare i problemi e poi disfarmene il prima possibile. 
Quando ero piccola, mia madre era solita ripetere che ero una ragazzina irrequieta ed entusiasta. Mi arrabbiavo per un nonnulla, mi scatenavo come una furia. Questo mio tratto caratteriale andò per affievolirsi negli anni, dopo un traumatico evento. Avevo tredici anni, quando mio padre morì.

Dell'accaduto ho sia ricordi molto vividi che ricordi molto sbiaditi: ricordo la casa in ombra, quelle tende verde smeraldo che improvvisamente sembravano verde muschio; ricordo un viavai di persone sempre vestite in nero, mia madre con le lacrime agli occhi tutto il tempo, i miei fratelli distrutti, singhiozzanti. E quel portagioie che si impolverava, giorno per giorno, finché i ricami dorati impressi nella porcellana furono totalmente coperti da quel grigio topo della polvere. Ogni qualvolta suonava il campanello, eravamo certi che non era più papà che tornava dal lavoro, ma qualcuno che ci ricordava la sua assenza. 
Quelle immagini mi scorrono davanti agli occhi ogni volta che ripenso a quel periodo. Come se fossi davanti allo schermo di un film datato, con piccole voragini sull'immagine, a rappresentanza degli oggetti, persone o eventi che la mia memoria ha archiviato per sempre.
La situazione era così opprimente che il mio bisogno più grande fu cercare di uscirne. Ricordo che, da quel momento in poi, non scrissi più al prozio Albert, né tantomeno scrissi più a qualcun altro, o qualcos'altro. 

La cosa più sconvolgente per tutti fu il mio atteggiamento. Era come se la morte di mio padre mi avesse spenta a tempo indeterminato. In un primo momento versai tutte le lacrime di questo mondo, dopodiché smisi di parlare, di espormi più del dovuto. Restavo lì, inerme, a covare il pianto.

Grazie ad una grande famiglia rumorosa e vivace, tutti riuscimmo a riprenderci, anche se non subito. Ma da quel giorno, io non tornai mai più veramente ad essere la ragazzina che ero stata prima. Non so dire se fu semplicemente un cambiamento dovuto, so solo che andò così.

Dai miei tredici anni in poi, iniziai un improvviso cambiamento fisico non indifferente. 
I ragazzi iniziavano a trattarmi con un occhio di riguardo: mi aprivano le porte, mi rivolgevano parole di cortesia, mi ammiccavano. A volte, ero più alta degli stessi ragazzi che morivano per me e questo li inebriava in un modo malsano. Mi sentii lusingata e per la prima volta percepii quanto era tangibile il mio cambiamento, non solo estetico. Davo le risposte giuste, li facevo cadere ai miei piedi con quel pizzico di indifferenza che provavo circa verso tutto ciò che mi circondava, non più mossa dal mio caratterino. 
Ridevo, me la godevo, avendo quasi messo da parte quell'inerzia cominciata dalla morte di papà.

Quando ero alle superiori, seguendo una mia amica fissata con un attore molto in voga a quei tempi, mi iscrissi con lei al club di teatro, quasi casualmente. Di lì in poi ci fu la vera svolta. 
Trovarono nel potenziale in me, ed io trovai del potenziale nella recitazione.
Quando interpretavo dei ruoli, non ero più Laura. Ero innumerevoli persone, con innumerevoli storie, sentimenti, emozioni. Potevo fingere di essere chiunque, e questo mi fece sentire libera. Oltre tutto questo, c'è da riconoscere che il teatro mi spronò ad avere una chiacchiera automatica; mi liberai dell'incapacità di dialogare con sconosciuti molto in fretta. Ma, cosa più importante, diventai incapace di rivolgere parole sgradevoli alla prima persona che mi capitasse sotto lo sguardo, quasi innaturalmente.
A soli quindici anni iniziai la mia carriera teatrale a New York; ero entusiasta quanto acerba. Di lì in poi, fare l'attrice divenne il mio mestiere.

Dal '99 in poi, divenni una persona così positiva che decisi di abbracciare Scientology, che fissava i pilastri della pace interiore su una profonda introspezione, ignorando i particolari del mio movimento religioso che, a quei tempi, non mi toccavano neanche lontanamente.
Trovai conforto in tutto quello, trovai conforto nei partecipanti, illudendomi che fosse tutto rosa e fiori – com'era la mia vita, da un pezzo.
Però, molti anni dopo il 1999, dovetti ricredermi.

“Laura, va tutto bene?”.
Il calore rosso del camino irradiava gli occhi di mia madre, verde chiaro. Il suo sguardo apprensivo non era mai cambiato; lei era quella dolce, intelligente, che era riuscita a gestire una famiglia senza una persona accanto, con figli adolescenti.

Alla sua domanda, le immagini nella mia testa rievocarono quella pelle chiara, quei setosi capelli biondi che sbattevano sul mio seno, quelle mani che risalivano dalle radici del mio corpo fino al viso, accarezzandolo, come una droga assunta a piccole, inebrianti dosi… 

Tornando alla realtà, arrossii violentemente e scossi la testa.
“Tutto benissimo, mamma”.
“Dio, Laura, non sembra proprio. È la terza volta che te lo dico oggi. Ne possiamo parlare”.
“Certo che lo so”, risposi, mesta. Certo che lo so che non avrò mai il coraggio per farlo. Mia madre mi osservò a lungo, per poi tirare un sospiro.

Non riuscivo più a celare il mio malessere. Era assurdo. Avevo passato metà della mia vita a saper gestire ogni tipo di evento, problema o complicazione facendo finta di nulla, presentando agli altri lo stesso sorriso sicuro, scolpito. 
Per ciò che mi era capitato, non riuscivo a trovare via di fuga. Non riuscivo a pensarci per più di sette secondi di fila, il che m'impediva di analizzare ciò che mi creasse quel malessere incontrollato. Mi vergognavo del mio comportamento avuto con quella truccatrice, mi vergognavo di come avevo agito con la stessa… co-protagonista. Nella mia testa mi illudevo pensando fosse stato solo un incubo grottesco. 

“Se vuoi posso far venire Stephanie o Jocelyn. Sicuramente non avranno di meglio da fare”.
“Non sottovalutare le casalinghe”. Risi, ma non stavo ridendo davvero. “Non è niente di importante per far scomodare lo squadrone. Natale è vicino, lo sai, avremo diverso tempo per stare insieme”.
Non mi sentivo pronta neanche a pensare ciò che solo le immagini mi consentivano di elaborare senza provare imbarazzo e disgusto verso me stessa, come avrei potuto sfogarmi con una seconda persona? 

Percepii nuovamente il libro che avevo fra le mani, adagiata comodamente sul divano, che il mio senso del tatto aveva temporaneamente messo da parte, riportando alla memoria tocchi altrui. Continuai a fissare insistentemente le righe di Cime Tempestose di Brontë, senza però leggerne veramente alcuna parola. Lo feci solo per placare l'insistenza di mia madre; necessitavo di un attimo di pace. E se avevo creduto di ottenerlo stando lontano da quel pozzo di desideri proibiti, mi sbagliavo.
Con le sue domande acute ed insistenti, la signora Prepon non aveva fatto altro che assillarmi, in due giorni interi. 
“Credo di tornare al lavoro domani. Jenji Kohan sembra molto insistente”.
“Hai già imparato le tue battute?”.
“L'ho fatto da un pezzo”, ammisi, non staccando gli occhi dal libro.
“E allora, si può sapere perché non ti stai presentando a lavoro?”. Mi sembrò spazientita.
“Mamma, avevo bisogno di una pausa”. Risposi placidamente, come se si stesse parlando del tempo atmosferico.
“D'accordo”. Sembrò mollare definitivamente. Una pausa era umana, era accettabile. Una pausa non era gemiti, lamenti, improponibili posizioni del kamasutra per sesso lesbico in non-igienici camerini. 
Sbattei la mia faccia nel libro, pregando ancora una volta che fosse stato solo un orribile, creativo incubo. Uno degli incubi più eccitanti della mia vita.

La sera, decisi di andare a fare un giro al caffè più vicino. 
Il posto era caldo ma con colori abbastanza freddi. C'era poca gente; mi fece sospirare di sollievo. Ci mancava solo qualche fan petulante in un momento di stress come quello.

Dopo essermi accomodata, mentre aspettavo ciò che avevo ordinato, cacciai dalla mia borsa l'agenda e proprio mentre azzardavo il movimento, sentii una voce profonda che chiamava il mio nome. Alzai lo sguardo, pronta a subirmi un altro fanatico.
“Laura!”.
Il ragazzo-uomo mi stava rivolgendo un sorriso a trentadue denti. I riccioli castani e la pelle olivastra mi fecero immediatamente ricordare di lui.

“Oh mio Dio, Ricky Thompson?!”. Rimasi immobile, seduta. Il bambinetto che picchiavo di santa ragione alle elementari era di fronte a me, nel suo metro e novanta – grazie al cielo, finalmente un uomo che mi superava di statura. 
“Proprio così. Wow, Laura. Non pensavo ti ricordassi di me”.
Io gli rivolsi un altro sorriso, più ammiccante. 
“Lo sai, non ci si dimentica delle nostre vittime”, ribattei con una voce più calda di quanto avrei davvero voluto avere. Lui arrossì visibilmente, preso alla sprovvista. Ma sembrava particolarmente socievole – più di quanto ricordassi – e riprese subito a parlare.
“Non ti avevo riconosciuta senza i tuoi bellissimi capelli rossi. Ero rimasto un quarto d'ora a fissarti come un idiota per capire se fossi tu o meno”. Rise con gusto, poi mi poggiò casualmente una mano sulla spalla. “Stai benissimo mora, accidenti!”. A quel punto era chiaro che stesse flirtando.
“Ti ringrazio, Ricky. Mi fai compagnia?”. Decisi di dargli corda. Non riuscivo a non farlo, nelle mie condizioni – anche se stavo violando più regole del previsto. Era alto, era bello e quegli occhi neri mi scrutavano con un'eleganza non indifferente.

Perché no?

“Perché no?”. La sua risposta mi scatenò un altro sorriso. 
Si accomodò al mio fianco al tavolinetto rotondo e contemporaneamente arrivò il mio caffè freddo. Sentii la sua gamba che sfregava per mezzo secondo contro le mie calze coprenti. Ne apprezzai l'audacia.
“E allora, cosa ci fai nel New Jersey?”. Evitai di soffermarmi nuovamente su ciò che mi aveva immobilizzata a casa di mia madre come una stupida. Inventai una scusa a caso.
“Ci siamo presi qualche giorno di pausa, io e tutto il cast”.
“Stai girando una nuova serie… o un film?”. Mi chiese lui, tutto interessato. 
“Una nuova serie. Lo sai, teoricamente non ne potrei parlare troppo, finirei nei guai”. Mentre bevevo il caffè da una cannuccia, gli lanciai uno sguardo lussurioso. Se ero così sessualmente carica, era solo perché qualcosa mi aveva lasciata insoddisfatta. Lui sghignazzò.
“Amo le cattive ragazze”.
“Allora ti piacerà. Il tema è «lesbiche in prigione». Inaspettato, vero?”. Sembrò apprezzare l'idea che una tipa femminile come me interpretasse una pericolosa omosessuale. 
“Allettante, direi”. Gli poggiai una mano sulla gamba, ridacchiando. 
“Mi piace partecipare a cose allettanti”, dissi, facendo schioccare la lingua. Nel momento esatto in cui le mie mani finirono casualmente sulle sue cosce calde, percepii un brivido. La mia memoria tattile mi tradì nel peggiore dei modi, ma lasciai lì la mano.

Quanto era stato piacevole stringere, carezzare, graffiare quelle candide cosce lisce, perfette, toniche. Quel culo piccolo e rotondo, così soffice, delicato. Mi sentii eccitata, ma non verso l'uomo che avevo di fronte.
Ero rimasta insoddisfatta solo perché ne avrei voluto di più. Avrei voluto continuare per ore, in un letto caldo, con le lenzuola rosse. Avrei voluto restare sfinita ed affamata.

“Laura, tutto bene?”.
Ricky mi riportò alla realtà. Scostai la mano ed intravidi la sua erezione.
“Mi sono appena ricordata di un impegno”, farfugliai frettolosamente. “Ricky, è stato un piacere incontrarti, ma ora devo andare”. Mi alzai, riprendendo la borsa. Lui mi bloccò per un braccio.
“Devi andare per forza?”, bisbigliò supplicante. Io annuii, falsamente dispiaciuta. 
“Ciao, ci vediamo”.
Seppi esattamente perché non si era alzato per fermarmi. I tavolini erano senza tovaglia e la sua erezione non accennava a svanire. Stranamente, mi provocò un pizzico di disgusto.

Perché no.



Mi fissava dall'altra parte della mensa. Il suo sguardo guardingo e basta mi fece male. In quegli occhi celesti, avrei voluto trovare qualcosa che sapesse risolvere il puzzle.
Ma non era arrabbiato, triste, né felice o soddisfatto. 
“Bentornata, Prepon!”, mi urlò in coro un gruppo di tecnici. “Ci sei mancata”, ridacchiò un tipo grasso e con una faccia non molto rassicurante. 
“Grazie, ragazzi”. Risposi, lusingata. 
“Inizia a comportarti da Alex Vause, tesoro. Con quella postura sembri il prossimo angelo di Victoria's Secret”, rimbeccò Jenji, di passaggio. 

Piper – cioè, la mia co-protagonista – e quella stupida Jane Holden, che come un cagnolino affettuoso trottava perennemente al suo fianco, si stavano avvicinando. Mi sentii nervosa, ma mi imposi una calma assoluta. Potevo farcela, sapevo di potercela fare ed infine ce l'avrei fatta, volente o nolente. 
Decisi di non rivolgerle un altro sguardo, ma la mia forza di volontà aveva subito un estremo calo nel giro di pochi giorni. 
Holden le diceva qualcosa, pericolosamente vicina al suo orecchio. Lei si girò per riderle in faccia, ma le sue labbra erano pericolosamente vicine a quelle della ragazzina. Di nuovo, entrambe risero di cuore.
Mi infastidì al punto che il mio sopracciglio viaggiò di sua spontanea iniziativa. Le fissavo in modo arrogante, con quell'espressione che avevo trovato così adatta a me solo negli ultimissimi tempi. Forse era più giusto dire che mi sarebbe calzata a pennello quando ero davvero insofferente a tutto, una mia versione appartenente a secoli prima, nella mia testa. 

Il mio alter ego Alex Vause quattordicenne ed incazzato ammiccò in direzione della bionda, sfacciatamente. Incrociai le braccia, assumendo un'espressione scocciata.
La sua espressione fu impagabile: mi fissava con quegli occhi sorprendentemente grandi fuori dalle orbite, disorientata. 
Io non ero Alex Vause, ma Alex Vause era me.
Non ero io arrabbiata, delusa, o infastidita. Ma Alex Vause poteva esserlo per me.

“Ehi, Piper”.
“Ehi, Alex”.
La guardai. Non capii subito, ma scrutandola meglio compresi lentamente. Assunse uno sguardo a sua volta arrabbiato, ma anche non indifferente… l'aura che emanava lasciava intendere che qualsiasi cosa le avessi fatto, non riusciva a staccarsi da me. In quell'attimo ci immaginai come due calamite, capaci di attrarsi eppure respingersi con la stessa naturalezza.
Hai deciso di stare al gioco?, mi chiesi mentalmente. Non sapevo se la domanda l'avessi rivolta a me oppure a lei, seppure senza parlare.

Ero totalmente indifferente al mondo esterno, totalmente alienata da ciò che poteva succedere o stava succedendo in quel momento. 
Alzò una mano e le poggiò delicatamente vicino al mio seno. Quando ero sul punto di ritrarmi, capii che era in cerca della mia mano. Sciolsi le braccia e lei carezzò dolcemente il dorso, quasi solleticandomelo. Lasciai cadere la mano al mio fianco, come se un ferro incandescente avesse appena toccato la mia pelle, con i miei occhi fissi nei suoi – così grandi e innocenti eppure decisi e forti.
Lei intrecciò le sue dita alle mie e poi chiuse gli occhi, con le sopracciglia contratte, emettendo una specie di sospiro sollevato.
“Non sai quanto mi è mancato”.
Abbassai lo sguardo, con una sensazione totalmente nuova che albergava nel mio stomaco.
“Non sai quanto è mancato a me, Pipes”.
   
 
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