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Autore: Michan_Valentine    02/12/2015    1 recensioni
La nascita e l'evoluzione di un rapporto in cinque momenti diversi della vita. Il viaggio di una ragazza alla scoperta di se stessa.
✩Questa storia ha partecipato al "Random Contest" indetto da Fabi_Fabi sul forum di EFP✩
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Vincent Valentine, Yuffie Kisaragi
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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  Capitolo 2 - Prima Fermata
Yuffie sollevò il capo e fissò il crepaccio dal basso.
I bordi irregolari della roccia si stagliavano sul cielo grigio e indaco, a tratti scosso da strali di energia verdastra che sembravano tagliarlo di netto per brevi, intensi istanti. Lifestream? Forse. O forse era solo la manifestazione del potere di Sephiroth. O entrambe le cose indissolubilmente legate.
Rabbrividì e rilasciò un piccolo fiato che si trasformò in una nuvoletta di vapore. Ma se fosse il freddo o il timore a stringerla in una morsa non seppe dirlo. Si allacciò le braccia al corpo e seguitò a fissare il cielo, in cerca di una risposta. In cerca di certezze. Beh, una ce l’aveva: aggirarsi per il Northern Crater in top e pantaloncini non poteva considerarsi propriamente la furbata dell’anno! E il naso congelato – lo sapeva, lo sentiva – le si sarebbe presto staccato dalla faccia per lasciare un… cratere, manco a farlo apposta.
Una macchia rossa in lontananza, appena tratteggiata dalla vista periferica, la richiamò all’attenzione.
“Ehi,” chiamò.
Si morse le labbra l’istante seguente. Le era venuto spontaneo e se n’era già pentita; ma quando il proprietario di quel colore continuò dritto per la sua strada senza degnarla di uno sguardo, fu l’indignazione a dar fiato al successivo e non contemplato richiamo – nonché indubbiamente più stridulo del precedente.
“Eeeeeeehi! Pronto? C’è nessuno in casa? Toc, toc! Pianeta chiama Vincent Valentine!”
La macchia s’arrestò.
Dalla sua postazione protetta – il vento era troppo, troppo gelido per chi come lei indossava i suddetti pantaloncini – Yuffie osservò lo stoccafisso guardarsi attorno. Perciò allungò la mano oltre le pareti di roccia per rivelare la posizione e gli fece cenno di avvicinarsi alla frattura.
Il fossile – quello che aveva circa un milione di anni e ne dimostrava solo due – restò piantato come un chiodo in mezzo alle intemperie per un lunghissimo momento, il mantello rosso che fluttuava da una parte all’altra a seconda della corrente. Poi – sorpresa delle sorprese – la raggiunse.
“Per Leviathan, sei venuto davvero! Se non fossi surgelata fin nel midollo potrei quasi saltare dallo stupore! E solo per oggi credo di poter affermare con certezza che trovo assai affascinante – e allettantissima – la tenda rossa che ti porti sempre dietro, sì sì. Sei contento? Dovresti ringraziarmi. Ti ho fatto un… complimento, sì. Più o meno,” esordì.
Chiuso tanto nel silenzio quanto nelle cinghie del mantello, Vincent Valentine guardò a lei dall’alto e batté le palpebre. Yuffie roteò gli occhi al cielo, sbuffò clamorosamente e s’ingobbì. Se non avesse avuto così freddo avrebbe anche lasciato penzolare le braccia in avanti, tanto lo sconforto.
“Tu sì che sai sempre come togliere la gioia da ogni piccola cosa, vero?” osservò; e inarcò il sopracciglio.
“Credevo che la tua missione di vita fosse starmi lontana,” ribatté lo stoccafisso monocorde, peraltro insensibile alle sue proteste.
Colta alla sprovvista – e clamorosamente sul vivo – Yuffie saltò effettivamente sul posto, puntò Valentine con l’indice e spalancò la bocca… senza tuttavia trovare una pronta e brillante risposta che avrebbe ribattuto l’illazione al mittente. Specie perché si era beatamente dimenticata di quella sua vecchia affermazione. E di quanto lo spaventapasseri in rosso fosse pignolo e saccente.
“Eeeer…” esitò, mentre il tempo scorreva e alimentava l’imbarazzo – nonché il rossore sulle guance. “È colpa tua. Ovviamente,” disse infine, senza sapere di preciso dove andare a parare. “Sì. Perché… perché sei stato tu a infrangere le distanze. Ah-ha! Beccato! Certo, io ti ho chiamato… ma potevi ignorarmi, se non sbaglio. Perciò i conti tornano e il responsabile… Ah!” esclamò; e quasi gl’infilò l’indice accusatore nel naso. “Non ti azzardare a sospirarmi in faccia come al solito. No, no. E poi no! So che stavi per farlo, te l’ho visto scritto in fronte – anche se tecnicamente la tua fronte è coperta dalla fascia rossa e non si vede, ma il punto non è questo e mi stai facendo perdere il filo...”
Con uno svolazzo da parte del mantello, Valentine le diede le spalle e si allontanò nella direzione da cui era venuto.
“Aspetta, aspetta, aspetta!” gli strillò dietro, agitando le braccia per aria come se dovesse far atterrare un’aereonave. “Cazzo, Valentine! Il mondo sta per finire, c’è una meteora grossa quanto il culo di Godo sulle nostre teste e tu non hai niente da dire? Io ne ho un pacco grooooosso così di cose da dire!” strepitò; e a dispetto del freddo divaricò completamente le braccia per sottolineare la quantità. “Cose da capire, anche, ora o mai più. Mai, mai e maaaaaai più. Specie se Sephiroth ci affetta tutti come prosciutti! Ad esempio, perché quella volta al Gold Saucer non hai fatto la spia?”
Lo stoccafisso chinò leggermente la testa, senza tuttavia voltarsi a guardarla.
“Sarebbe venuto fuori comunque, prima o poi,” rispose quindi.
Era stato spicciolo e neutro. In sostanza una vera e propria delusione. Dato il momento critico si era forse aspettata di più, una confessione, un segreto. Qualcosa, almeno. E invece niente. Ciononostante evitò di soffermarsi sulla natura di quell’inaspettato languore.
Yuffie richiuse la bocca e incrociò le braccia al petto.
“Beh, è proprio da te,” convenne quindi, annuendo fra sé. “Ma, ammettiamolo, così è stato più divertente. Certo, Cloud e co. non sanno stare agli scherzi – e bada bene che si è trattato solo di uno scherzo, un piccolo e innocente scherzetto – ma giocare ad acchiapparello per le strade di Wutai non ha prezzo! Ovviamente vi avrei restituito tutte le Materia, sarebbe stato una sorta di… prestito, diciamo. Siete voi che avete pensato male. E che siete dei tirchi. Tirchissimi, altroché!”
Valentine non si mosse, né replicò. Eppure attese, forse aspettando di capire se avesse altro da dirgli. In qualche modo se ne stupì.
“E comunque,” riprese, “quel tizio gibboso, la scimmia brutta con gli occhiali, lo scienziato pazzo che ha fatto ‘kaboom’ sul Sister Ray. Insomma, quello! Ecco… lui… meritava di morire,” affermò. “Sai, il mondo sta per finire, magari domani non ci sarà più Lifestream né gelato alla nocciola… e ti ho già specificato le dimensioni di quella Meteora? Beh, in ogni caso… ecco… Volevo dirtelo,” soggiunse; e si passò le dita tra i capelli alla base del collo.
Il silenzio seguì l’affermazione. Come sempre quando si parlava con Valentine – ovvero si eseguivano monologhi degni del palcoscenico. E degli oscar, pure! Soltanto il vento che s’infilava fra i crepacci andava, di tanto in tanto, a interrompere la quiete col suo sordo fischio.
Nondimeno Yuffie notò le spalle dell’altro incurvarsi sotto il peso delle parole – e del concetto che esprimevano. Non si stupì quando lo spaventapasseri scarlatto voltò il capo e l’adocchiò da sopra la spalla. Il suo profilo si disegnò tagliente sull’ambiente circostante, a dispetto dell’ampio e alto collo del mantello con cui spesso e volentieri si trincerava. E a ben vedere il rosso spiccava sulla neve caduta di fresco – e sulla pelle del suo viso – come una dolorosa e pulsante macchia di sangue…
“Gli altri si sono già allontanati,” le disse. “Dovresti andare anche tu.”
Yuffie fece spallucce.
“Tecnicamente – permettimi d’imitarti e di fare la pignola – Cloud e Tifa sono ancora lì a turbare come due candidi colombi,” precisò. “E poi la fa facile lui, il porcospino biondo, ci manda a spigolare allegramente per i campi e si aspetta pure che torniamo per partecipare briosi alla fine di… tutto? Cazzo, io ho solo sedici anni! Sedici anni e la fine del mondo sulle spalle. Che culo! E che cosa dovrei fare, io?” domandò; al vento, a Valentine. A se stessa.
Per la prima volta da che si era rintanata in quel crepaccio a guardare il cielo scuro sopra di sé, Yuffie si accorse di aver paura e che il tremore alle mani e alle ginocchia non dipendeva unicamente dal gelo pungente. Niente a che vedere con l’interlocutore che si ergeva innanzi a lei. Insensibile alle intemperie, al tono incrinato della sua voce, all’incertezza del domani.
Insensibile a tutto, probabilmente.
Andare, restare. Vivere, morire. Per chi non aveva niente – o aveva passato trent’anni in una bara – non doveva poi essere una scelta difficile. O spaventosa. Ed entrambe le opzioni erano accettabili. Per un attimo Yuffie si chiese dove l’uomo in rosso stesse andando, da chi; e l’immagine di una donna racchiusa in un cristallo – di una salma tanto bella quanto fredda –le balenò alla mente.
“Non ho una risposta che possa piacerti,” disse lo spaventapasseri.
“Tornerai per combattere al fianco di Cloud?”
Ancora una volta a risponderle fu il fischio del vento.
“Lo immaginavo,” commentò Yuffie; e arricciò le labbra in un sogghigno. “Anch’io avevo tutt’altri progetti quando mi sono unita al gruppo di allegri avventurieri. Non m’importava niente di voi o di cosa inseguivate. Ma viaggiare assieme è stato… fico, sì. Più o meno. Insomma, tu ad esempio fai paura e sei strano – ma strano forte! – e Cloud ha le sue emicranie e Cid mi manda sempre a quel paese, per cui…” ridacchiò; poi le labbra assunsero le sfumature di una smorfia. “Non mi sarei mai aspettata che le cose sarebbero andate a finire in questo modo, né che lei sarebbe morta… o che io mi sarei sentita… così…”
Era una guerriera, non un’eroina, una martire come Aeris. Aveva uno scopo nella vita, anzi, un’ambizione che le bruciava nel cuore e nella mente da che era bambina. Una speranza per il suo paese devastato dalla guerra e per l’orgoglio della sua gente tutta, costretta a chinare il capo innanzi all’esigenza e all’invasore. Un obbiettivo che avrebbe raggiunto a qualsiasi costo, a dispetto di quello che Valentine o gli altri compagni avrebbero potuto pensare di lei. Anche se era difficile. Anche quando faceva male.
Strinse i denti e i pugni.
“Accidenti!” sbraitò. “Dovrei darmela a gambe, altroché! Non so nemmeno che ci faccio qui, col naso per aria a rimirare i lampi spaventosi che deturpano il cielo – o in alternativa a parlare da sola con te! Ho delle responsabilità, io, un sacco di cose da fare e tutta la vita davanti – e sono sicura che se Cloud riesce a gestire la sua chioma puntuta in tempi come questi può battere Sephiroth anche con una benda sugli occhi e un braccio legato dietro la schiena! Perciò io me la squaglio. VA-DO. Mi dileguo. Addio. È stato un piacere, arrivederci a mai più. Buona morte a voialtri fessi!”
Richiuse la bocca, il petto che le si alzava ed abbassava in cerca d’aria per via del dire impetuoso – o a mitraglietta, come diceva sempre Wallace. Tuttavia gli attimi si protrassero all’infinito e restò piantata coi piedi per terra, perché i passi da compiere per rispettare i propositi millantati erano troppo pesanti perfino da concepire. Così scosse la testa e ridacchiò di sé.
“Ok, ok,” ammise; e sollevò le mani in segno di resa. “Stavo… bluffando, sì, per vedere la faccia che avresti fatto – cioè la solita. Ci sei cascato? Io dico di sì, con tutta la mantella, l’artiglio di metallo e le simpatiche – e confortevoli – scarpine appuntite,” scherzò. Dirimpetto Valentine ricacciò dalla bocca una nuvoletta di vapore e non cambiò espressione, né si mosse. Tipico. “Lo sai? Il punto è che mi sono ricordata di una cosa e non so perché ora non riesco a togliermela dalla testa,” riprese. “Quand’ero piccola anche il cielo di Wutai era sfregiato. C’erano sempre delle colonne di fumo scuro che risalivano dai villaggi. E case annerite, divorate dalle fiamme,” disse. “Ogni giorno la brava gente faceva del suo meglio per ricostruire quanto la Shinra aveva distrutto, col sudore sulla fronte, i calli nelle mani e il vuoto nel cuore. E fidati che a Wutai, d’estate, può fare davvero – daaaaaavvero – caldo!”
I lineamenti le si distesero lievemente al ricordo della patria e quasi le sembrò di sentire il tepore del sole sulle guance. Sorrise; stavolta senza malizia. Forse solo con un pizzico di nostalgia.
“Così, ingenuamente, presi l’abitudine di portare granita fresca a tutti. Alla mela, alla fragola… alla menta!” elencò, tenendo il conto con le dita; poi s’illuminò ed effettuò un saltello sul posto. “La menta è fica perché poi la lingua diventa tutta verde e puoi fingere di essere un mostro di muffa sbavante – e scommetto che a te che piace il rosso non ti è mai venuto in mente che il verde potesse essere fico!” disse, guardando all’interlocutore come se potesse trasmettergli il proprio entusiasmo – e la propria passione per il verde. Fece spallucce. “Ma, ehi, mi accorsi in breve che la granita si scioglieva con la stessa rapidità dei sorrisi che riusciva a strappare. Forse è stato allora che ho deciso di diventare più forte, di fare di più… di tutto per rendere alla mia gente e alla mia terra la sua antica fierezza – poi Godo ha trasformato Wutai in una meta turistica, anche se questa è un’altra storia e ci sto ancora lavorando... ma, ecco, se ora voltassi le spalle a Cloud e co. che senso avrebbero gli sforzi compiuti finora? Se io tornassi a casa da mio padre e il mondo finisse domani, a che sarebbe servito ribellarsi e combattere? Le miglia percorse finora equivarrebbero a nulla, come se il treno scorresse al contrario sui binari della mia esistenza. E la domanda continua a rimbombarmi nel cervello, ora come in passato, senza tregua: Vuoi passare il resto della tua vita a vendere acqua zuccherata, o vuoi la tua occasione per cambiare il mondo?”
“Credo che tu abbia già la tua risposta,” osservò Vincent Valentine, secco e preciso come al solito.
Annuì. In qualche modo era sempre stata lì, faceva parte di lei, del suo modo di affrontare il mondo; e nel realizzarlo – nel riscoprire la propria determinazione – persino il tremore agli arti si affievolì.
Lo spaventapasseri non attese oltre. Le offrì la schiena e proseguì lungo il cammino senza dire una parola di commiato, diretto chissà dove. Probabilmente dai fantasmi del suo passato.
Yuffie si portò le mani sui fianchi e sorrise, non vista.
“Grazie tante, eh!” gli urlò dietro, portandosi le mani ai lati della bocca. “Pensavo che una persona della tua età – un vecchio noioso e spocchioso, parliamoci chiaro – fosse più sapiente! Chessò, avesse dei consigli, delle perle di saggezza per gli aitanti e confusi giovincelli! E invece mi sbagliavo, a dormire per trent’anni in una bara s’impara solo a riconoscere la tappezzeria per interni – anche se, lo ammetto, parlare da sola con te è stato molto illuminate! E a tal proposito lascia che te la dica io una cosa, signor mi-vesto-rosso-dolore-e-non-so-che-pesci-pigliare: dovresti tornare anche tu!”
Il suono stridulo della sua voce si spense, come assorbito dalle pareti di roccia del Northern Crater. Ciononostante era certa che il messaggio fosse arrivato ugualmente forte e chiaro alle orecchie dell’interlocutore – anche quando quest’ultimo faceva finta di non sentire. O di non curarsene. Ciò pensando si passò l’indice di traverso sotto il naso e lo guardò sparire in lontananza, tra la foschia e il nevischio dell’ambiente: poco ma sicuro, avrebbe rivisto quel babbeo entro sera.
   
 
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