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Autore: PyromaniacAlien    02/12/2015    1 recensioni
La guardai di sbieco e non capii cosa intendesse.
Mi disse che agli artisti bisogna parlare da artisti.
E le raccontai del mio dolore.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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All'età di tredici anni mi convincevo di essere pazza perché preferivo parlare con i muri della mia stanza piuttosto che con le mie compagne di classe, mi divertivo a bucarmi le braccia e ogni altra parte del corpo con qualunque oggetto appuntito che mi passasse tra le mani e mi eccitavo fissando il culo delle ragazze nello spogliatoio della scuola.
All'età di diciassette ho iniziato a farmi di Ero ai giardinetti e a diciotto ho appreso l'arte di far parte di un gruppo senza farne parte realmente ma per quanto riguarda le donne non credo di aver mai imparato ad amarle come si deve.
Le donne non le si può amare, sono furbe, talvolta scostanti e cercano attenzione, costantemente e continuamente, così tanta attenzione che a volte, quando ti dimentichi di darne abbastanza crea un gruzzolo di mancanze, come una protuberanza sotto al tappeto, che poi cresce e diventa sempre più grande e non sai più da dove partire per appiattirla perché ormai ha raggiunto il soffitto e devi uscire di casa se non vuoi che inglobi anche te.
Le donne le ami perché sono belle, vorresti amarle perché sono universi tutti da scoprire, ma non puoi amarle perché ti fanno fuori non appena ti azzardi anche solo a pensare che potrebbe essere possibile per te, amarle, capirle, sopportarle.
Le donne le ami anche quando non vorresti, ma fai finta di non accorgertene e ti riempi così tanto di bugie che alla fine scoppi e diventi patetico ed è lì che ti usano e ti schiacciano e poco ti rimane da fare.

Sono sempre stata una persona di poche parole, poche ma chiare, come direbbe mio padre se fosse qui.
Non che sia morto, o perlomeno non mi è giunta la notizia della sua dipartita e di questo ne sono grata, ma ci sono cose che ho lasciato andare per sempre e cose che, per sempre, hanno dovuto lasciar andare me.

Mio padre è una di quelle.

Mi chiamo Reinka, ma nessuno mi chiama più in quel modo e devo ammettere che un po' mi dispiace dato che Reinka non è poi un nome così orribile, tutto sommato.
Reinka, solo Reinka.
Corto, conciso e insolito, più simile a me di quanto mi faccia piacere ammettere.
Ora sono Raf, corto e conciso anche questo, perché i nomi lunghi li ho sempre detestati.
Non so quando è partito questo gioco dei nomi, troppi anni addietro perché io possa raggiungerli anche solo con la memoria e di nomi ne sono sovvenuti tanti, insieme ai loro periodi e alle cazzate che si sono trascinati dietro.
Solo io mi chiamavo con il nuovo nome, ma d'altronde solo io mi chiamavo quindi la cosa non faceva granché differenza né ai miei occhi, né a quelli disinteressati degli altri.
Avevo un'ossessione morbosa per cambiamenti d'umore, per il concetto di identità personale, l'idea di bere fino a dimenticarsi anche il proprio colore di capelli.
Mi divertivo a perdermi ma nessuno veniva mai a cercarmi.
Con il tempo ho imparato a tenere a mente la strada di casa per conto mio.

Sono le sette e questo significa che mancano cinque minuti esatti da quando imboccherò l'uscita di quella porta, che poi è la porta di casa mia, quella in legno, chiazzata di vernice color porpora che da quel che ricordo potrebbe anche essere sangue, per poi scendere i dieci scalini esatti che dividono il mio appartamento da tutto ciò che di brutto esiste al mondo.

Il mondo stesso.

Mancano dieci minuti esatti da quando mi ritroverò davanti al bar della signora Jaqueline, dieci minuti esatti da quanto sarò costretta ad entrare in quel rivoltante sgabuzzino dai muri sgargianti e alzare lo sguardo in quello acquoso e attento di Sebastian, che forse voi non lo sapete ma è il mio terapista.
Terapista nel senso che è il mio psichiatra, ma la questione non è così grave come vogliono farla sembrare quindi io mi limito a dire che si tratta del mio terapista e tanti cari saluti.
Sebastian è il mio terapista sotto smentite spoglie ma il rapporto che abbiamo potrebbe anche essere considerato come quello di un cliente con la sua escort di fiducia, dato che lui è costretto a sorbirsi le mie stronzate e in cambio io mi offro martire per dare gioia alle sue grazie.

Non ricordo quando tutto ciò è cominciato, in realtà.

Non mi piaceva il suo studio, quella poltrona rossa e impolverata che mi faceva starnutire, il gabinetto di servizio sul quale si affacciava la finestra della piccola stanza di quelli che definirò ben due metri quadrati solo e unicamente per carità di patria.
Ricordo che entrai e lo fissai divertita, schiacciato dentro a quella sedia troppo stretta per la sua corporatura statuaria e grondante per il caldo di agosto e gli dissi che in quella stanza mi sembrava un criceto che correva su una ruota in fiamme dentro una gabbia per formiche.
Mi rispose che avevo l'aria di una che era stata appena schiacciata da un tir e poi gettata nelle fogne ma vidi i suoi occhi brillare.
In effetti offrivo ben poco da guardare, a partire dai capelli crespi e oliosi fino alle infradito di canapa completamente distrutte.
Non ricordo nemmeno come mi ritrovai a girare così per la capitale, ricordo lo sguardo dei barboni che mi fissavano e sghignazzavano sotto i baffi.
Lo schifo riflesso negli occhi delle persone che incontravano il mio sguardo camminando per strada.

Questo ricordo, questo vi è dato sapere.

Se non altro perfino i miserabili proprio non ce la facevano a considerarmi come parte del loro gruppo e in qualche modo mi sentivo come se stessi dando un briciolo di speranza anche ai più disperati.
Non c'è mai fine al peggio perché il peggio che non finisce è anche immortale e si accumula, e crea una patina sulla tua pelle e attorno le tue cicatrici ma lascia scoperte le ferite, esposte e poi si infettano e peggiorano più che mai.
Il male, il male vero, non passa mai, ti si accolla, diventa parte di te per poi distruggerti e cibarsi delle tue ceneri avvelenate.
Lo so, gliel'ho visto fare.
Cinque albe dopo, o forse sei, mi risvegliai nel suo letto, con capelli puliti, i piedi nudi e una dolce brezza estiva a sfiorarmi i polpacci scoperti.
Mi voltai a fissarlo e capì che era bello, che il suo corpo mi piaceva, che i capelli neri tra i quali avevo lasciato correre le dita solo qualche ora prima, nel loro abbandonarsi stancamente sul cuscino, creavano un contrasto enorme con le lenzuola immacolate e con la sua pelle pallida e con la mia, ancora più pallida della sua ed era uno scenario che creava in me una sorta di ritrovata pace, un principio di luce in una scura foresta di rovi.
E i suoi occhi azzurri brillavano anche nascosti dietro l'ombreggiante viola livido che costellava le palpebre chiuse.
Sentì, come se lo avessi sempre saputo, che, forse per sbaglio, forse per inconscio bisogno, avevo scordato, sfilacciato dei cardini fondamentali di quella che avevo deciso sarebbe stata la mia vita una volta abbandonata Berlino e la sua stazione spettrale e, più di ogni cosa, le sbreccate case ottocentesche che torreggiavano sulle maschere laconiche della Shönhauser Allee .
Il suono ancora vivido della guerra che ancora strisciava sulla pelle degli abitanti.
Il ricordo di un passato dal quale non si poteva uscirne innocenti.
Guardai Sebastian e in lui vidi ciò che mi mancava e ciò che più di ogni altra cosa avevo premura di dimenticare che erano tante cose diverse e che, sopratutto, erano la stessa identica unità distruttrice.
La fonte dello stesso carnefice, la tana del medesimo attentatore.

La strofa più lenta della stessa canzone.

-Davis

-Becker. Ti trovo bene, e sì che non volevi proprio accettarli, i miei soldi.

La sua risata leggera sferza delicatamente l'aria e mi raggiunge, mi investe, mi mette a disagio sebbene la conosca come conosco il suono della mia voce o la carne aperta e torturata attorno alle mie unghie quasi inesistenti.

Il caffè è deserto, fortunatamente, ma ci sono quelle mura arancioni, poi verdi, poi gialle, che si rincorrono continuamente e mi danno fastidio, mi fanno venire mal di testa, mi alterano la vista già di per sé decadente.

Non ci vedo bene ma gli occhiali mi rifiuto di portarli, come i gioielli, gli anelli, qualunque monile che possa tenermi legata a una determinata scheggia del mio passato.
Appena mi accorgo di starmi affezionando a qualcosa, a qualcuno, semplicemente prendo e lo lascio andare o faccio in modo che se ne vada egli stesso.
È istinto di conservazione, l'arte di distruggere prima di venire distrutti, la paura di mostrare un cuore che valga la pena di gettare tra le braci ardenti.
Non devo cambiare, o morire e rinascere, né iniziarmi a una seduta di gruppo, né tanto meno trovare qualcuno per cui mi possa permettere di rischiare.
Non devo nulla a nessuno, se non a me stessa.
Sono nozioni che ho appreso con il tempo, rischiando e cadendo e sbattendo la testa contro lastre di ghiaccio.
Osservando i comportamenti che assume anche a peggiore delle belve quando viene illusa e ferita e accade  sovente che essa muoia e che la sua morte porti ad altra morte, più sofferta e involuta e che questa si ribelli al suo destino e spalanchi le fauci e si strappi via il cuore, gettandolo nel baratro.
Una volta perso è impossibile ritrovarlo.

Ma anche senza quello, in ogni caso, si può prendere e andare avanti per la propria strada.

Sebastian è vestito bene, ha i capelli lunghi, tirati all'indietro, la cravatta annodata al collo, la camicia estranea alla minima piegaura.
È impeccabile come sempre ma non sta andando da nessuna parte, non saprei spiegare perché, semplicemente ne sono conscia e consapevole.
Sebastian è vestito bene e tirato a lucido e lo è per se stesso, prima di ogni altra cosa, e poi lo è anche per me.
È una cosa che mi provoca disgusto, ma non posso fare nulla per evitarlo.
Perchè lui sa, sa tutto ciò che ho fatto, ciò che gli ho detto, che pensandoci potrebbero essere verità come i racconti di una visionaria depressa, perché lui sa ma si comporta così in ogni caso, come se non sapesse assolutamente nulla, che forse, dal suo punto di vista, forse è anche più conveniente.
Perchè se sai sei cosciente, vigile, ma comunque non sai ciò che ti potrebbe scappare, di bocca, di mano, semplicemente potresti sbagliare e sentirti in colpa il doppio di quanto ti sentiresti normalmente, perché sapevi e hai continuato ad atteggiarti da stolto.

Alcuni segreti sono tali perché semplicemente non andrebbero mai portati alla luce del sole.

Perché anche a esporli ti perseguiterebbero comunque, e perseguiterebbero coloro che li hanno scorti e allora non esisterebbe pace ma è anche vero che allora le persone forse ci penserebbero due volte, prima di aprire la bocca.
Ma, a volte, non si può fare altro, per quanto la buona volontà ti assista, che lasciarle inesorabilmente parlare.

Ed è così che si atteggia Sebastian, come se non conoscesse, come se davanti a lui il mondo fosse solo un immenso e complicatissimo testamento in codice e lui non avesse i mezzi per decifrarlo.
Sebastian è così, semplicemente e genuinamente e io mi sono stufata, stancata, di voler provare a cambiare le persone o l'impatto che hanno le loro azioni sulla mia vita.
Mi sono stancata di zittirle, o di tentare invano di aprire almeno il minimo spiraglio nelle loro menti contorte, o anche solo di chieder loro di smetterla, di torturarmi, come fossi una cavia di alcuni bambini inesperti che giocano a fare gli scienziati.
Ho deciso, decidevo tempo fa, in un periodo simile a questo, in un mese freddo, sotto un cielo plumbeo, in un posto distante da qui, che avrei smesso di porgere il coltello dalla parte del manico e di iniziare a sguainare la lama.
Decidevo e promettevo e prometto oggi, a quella che sono, che quando mi spoglierà e mi guarderà come fossi uno dei suoi gingilli migliori, qualcosa che da sempre gli appartiene, non lascerò che questo smuova qualcosa dentro di me.
Che alla fine prometto e prometto ma sono solo un essere umano e il mio destino è questo ed è sempre stato questo, e c'è poco o niente che posso fare per rendermi l'esistenza più dolce.

Che alla fine ho smesso di porre resistenza.

Che, alla fine, io sono solo stanca.

-Sta zitto, lo dici ogni volta che ci vediamo, ossia più o meno ogni pomeriggio da due anni a questa parte, dacci un taglio.

Sogghigna consapevole, dice "bevi in fretta, che poi ho altre cose da fare", ma io mi prendo il mio tempo comunque, come se lo volessi, come se mi servisse davvero, tutto questo tempo, quando invece ne ho così tanto che mi deturpa, che può prendersi tutte le libertà di girarmi attorno, di prendersi gioco di me.
Ne ho così tanto che lo venderei, prenderei da parte il primo passante che mi capita davanti e gli direi "ehi senti, ho troppo tempo qui, prendine un po', tanto a me non serve."
E lui mi guarderebbe allegro e mi direbbe "grazie Raf", anche se non conosce il mio nome.
Grazie Raf.
Nessuno mi ha mai ringraziato di nulla e si che di cose buone ne ho fatte tante per tanti.
Grazie Raf.
Che alla fine quanto può essere bello, un grazie, un sorriso, una pacca di conforto.
Quel minimo di calore umano che non mi accompagna più da tempo, che quasi mi evita, cambia traiettoria, va a scaldare le guance a qualcun altro, qualcuno che forse non lo merita, piuttosto che avere a che fare con me.
Grazie Raf.

Per il tuo tempo.

-Ci hai pensato alla fine?

"A cosa", chiedo, anche se so bene ciò al quale si riferisce.
Dice che mi sta uccidendo, tutto il tempo che sto donando, che a furia di darlo ad altri, il mio tempo, non ne resterà più per me.
Dice che sto morendo, eppure quanto mi piacerebbe, morire con il sorriso di qualcun altro negli occhi, con un ringraziamento tra le ciglia, con il calore di una mano a strofinarmi la spalla.
Quanto mi piacerebbe andarmene così, senza la cattiveria della quale sono stata condannata, senza fretta, senza limiti di tempo e spazio.
Senza "fai veloce, che poi ho altro da fare."
Senza ultimatum, senza orologi che ticchettano incessanti nelle orecchie, a ricordarti di ciò che hai dato e che non è mai arrivato e che quindi nessuno ha mai sentito il dovere di restituirti.
Vorrei andarmene e non tornare, sebbene me ne sia già andata tante volte e non sia tornata mai.
Vorrei avere abbastanza tempo per concedermi un ultimo viaggio, solo mio, senza essere spinta dall'urgenza di dover ritrovare qualcuno che si è perso, che probabilmente non ritornerà più.
Andarmene perché voglio, andarmene e ritrovarmi e sparire, ma ci sono questa mano e questo sorriso e questo grazie che cercavo e che sto cercando e che devo trovare, devo trovarli, prima di svanire per sempre.

-Non me ne andrò finché qualcuno non sarà gentile con me. Non ho fretta.

-Ieri dicevi "non me ne andrò finché qualcuno non mi offrirà un pacchetto di cracker, non ho fretta." Che c'è? Non ti interessano più i cracker, ora?

Ieri mi stavano a cuore i cracker, si, ma può succedere anche questo quando resti senza cibo per due giorni.
Ieri mi stavano a cuore i cracker e oggi no, oggi voglio altro, voglio un gesto carino, voglio sapere che conto per qualcuno, che non sono così irrecuperabile da non meritare nemmeno una parola di conforto, al posto dello sguardo saccente di Sebastian che, se ci penso bene, è la copia sputata del mio.

-La smetterai un giorno di rimandare la tua agonia, Reinka?

Lui non sa che non mi chiamo più così da tempo.
Non sa che il caffè mi piace con tre cucchiaini di zucchero, che quando allaccio le stringhe delle scarpe devo fare il nodo tre volte, che il segno rossastro sotto al mio seno destro non è una voglia ma una cicatrice.
Lui non sa nulla, ma si comporta come qualcuno che sa tutto e che fa finta di non sapere nulla, pensa di star recitando bene la sua parte, del uomo comprensivo, del dottore che ci tiene, che sta al gioco del suo paziente, ma non sa che sono io che sto giocando con lui, insieme a lui e contro di lui al tempo stesso.
Non sa che sono io che muovo, disfo, giro, che sono io che mento, non sa perché non conosce e non puoi spiegare che colore ha il tramonto a un cieco.
Non sa e io non ho voglia di spiegarmi, non più, perché sono stanca di regalare tempo a chi ne ha già fin troppo per conto suo.

Sono stanca di nascondere i suoi mille sguardi di scherno e disgusto con le sue due frasi comprensive e far finta che vada bene, far finta che mi vadano bene, le sue colpe e le sue mancanze che diventano inspiegabilmente le mie.

Sono stanca di giocare a fare lo zerbino, di lasciarmi plasmare, di tutte queste pretese.
Sono stanca e vorrei andarmene, ma è questo posto che mi tiene legata a sé, che non mi lascia scappare, è questo posto che odora di lei, del suo balsamo per capelli e delle sue sigarette economiche.

È la sua figura che lascia ombre e impronte lungo le staccionate, dietro gli angoli dei bar, che si dirige verso il vecchio cimitero, a implorarmi di restare, a indurmi a ricordare ancora una volta di più.

I suoi lunghi capelli neri, mossi dal vento, il suo sguardo indecifrabile che mi sorveglia quando sono troppo cosciente per accorgermene.

La mia pelle, che ormai ha lo stesso agrodolce profumo della sua, che ne ha assorbito la morbidezza durante quei lunghi pomeriggi sdraiate sul letto, senza maglia, a non fare nulla che valga la pena di trascrivere, e che ha permesso alla sua essenza di incarnarsi con la mia, la quale ne ha rubato le fattezze, i difetti e i segni che ai miei occhi la rendevano riconoscibile e inconfondibile.

E mi diranno che devo raccontare e io racconterò di lei così da farla vivere per sempre, nello sguardo corrucciato di disapprovazione dei passanti e sulla bocca contratta di chi non l'ha mai conosciuta davvero come ho potuto fare io.

Mi diranno di parlare della vita e del dolore e del tempo che fugge e dell'amore, che tanto caro sta alla gente e di tutte quelle cose troppo grandi da raccontare, quelle cose che tutti vorremmo conoscere bene, delle quali vorremmo una descrizione precisa, minuziosa, cosicchè da poterle riconoscere e da non lasciarsi travolgere quando, furiose e inattese busseranno alla tua porta eppure, anche vedendole arrivare all'orizzonte, ci si farebbe trovare comunque impreparati, come è naturale che sia.

Parlerò di cose piccole, in un contesto pieno di dettagli enormi, di vita e di dolore e di tempo e forse anche di amore, per quel poco che ne ho conosciuto.
Ne parlerò senza dirlo a nessuno e nessuno dovrà parlarne, perché alcuni segreti sono tali perché forse, semplicemente, non andrebbero mai portati alla luce del sole.

Parlerò di quel cielo grigio di Shönhauser Allee e delle promesse che gli feci e delle maschere che incontrai e di quelle che non fui abile a riconoscere.

E un giorno, forse, anche della mia, forse, se forse ne avrò voglia.
Ma quella forse, semplicemente, non riuscirò a riconoscerla mai.
   
 
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