Crossover
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Autore: Darik    03/03/2009    0 recensioni
La loro guerra durava ormai da migliaia di anni, secondo i parametri umani. E questa guerra sembrava destinata a finire con lo sterminio totale. E invece stava per giungere ad un inaspettato punto di svolta, dalle molteplici implicazioni. Nota: l'aspetto dei Transformers è quello del film del 2007, tuttavia la mia storia vuole essere un omaggio all'intera saga, quindi ci saranno citazioni anche delle altre serie sugli eroi di Cybertron. Ma state tranquilli, non è necessario conoscere quest'ultime per capire la trama.
Genere: Azione, Avventura, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Anime/Manga, Film
Note: Alternate Universe (AU), Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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3° CAPITOLO

Il preside dell’istituto Mahora stava nel suo studio, da solo.

Le mani incrociate, l’aria afflitta.

Spesso spostava gli occhi dal telefono sulla scrivania alla porta e viceversa.

Davanti a lui, alcune lettere.

Qualcuno bussò.

Il preside, speranzoso, disse di entrare.

Ma il volto della professoressa Shizuna spense subito qualunque speranza.

“Nessuna novita, giusto?”

“No, preside, mi dispiace. Sono venuta solo per sapere se le serve qualcosa”.

“Eh, mia cara, l’unica cosa che potrebbe risollevarmi sarebbe ricevere una buona notizia”.

“Non deve perdere la speranza, preside. Sono passati solo tre giorni. Tutto è ancora possibile”.

“Lo so. Ma i segni che riceviamo purtroppo fanno pensare al peggio”.

“Non hanno trovato alcun relitto. Forse sono approdati su qualche isola”.

“Disgraziatamente l’area che stavano sorvolando quando sono scomparsi era priva di isole. Ipotizzano che l’aereo che trasportava la nostra classe sia esploso in aria, disintegrandosi. E che i frammenti siano affondati”.

La donna tacque.

Poteva rispondere che si trattava di ipotesi.

Che non c’erano certezze sulla tragica sorte delle alunne della III A.

Quante volte questo era stato detto ai genitori che in tre giorni, direttamente o tramite lettere, avevano tempestato il preside di accuse per aver voluto quella gita a sorpresa.

E quante volte lei aveva dovuto dirlo al preside stesso, che sembrava diventato la personificazione del senso di colpa.

A furia di ripeterlo, era quasi diventato nauseante. E cominciava pure a suonare come falso.

Certe ipotesi vengono confermate dallo scorrere del tempo.

E questo sembrava proprio il loro caso.

La professoressa allora fece un inchino e lasciò il preside solo.


“Andiamo, Konoka, non puoi continuare cosi”.

Asuna, ormai completamente ristabilitasi, osservava la sua amica seduta per terra, davanti al televisore. Al suo fianco un telefono portatile.

Da quando era avvenuta quella sparizione, Konoka si era chiusa in se stessa: passava il tempo davanti al televisore, a guardare solo i telegiornali.

E quando il telegiornale finiva, se ne stava per ore a fissare il telefono.

Le uniche volte che si muoveva da lì era per mangiare e andare al bagno.

E cercava persino di dormire il meno possibile.

Spesso Asuna l’aveva beccata a bere una decina di lattine di caffè la sera e altre al mattino presto.

Come risultato, le stavano venendo le occhiaie.

Decisamente, non poteva continuare cosi.

Asuna si chinò davanti a lei. “Konoka, ascoltami. Perché non vai fuori a prendere una boccata d’aria? E’ una splendida giornata. Se ci sono novità, ti informo io. Non dimenticare che il professor Takahata, Kotaro e diversi altri professori si sono recati ad Okinawa per indagare”.

“No, preferisco restare qui” rispose impassibile l’altra.

“Ma non puoi comportarti in questo modo. Se fai cosi, l’ansia ti distruggerà. Dai, vieni”.

Asuna tentò di sollevarla, inutilmente.

Konoka era come un peso morto.

Asuna allora sospirò e uscì dalla stanza.

Rientrò dopo qualche minuto e andò a sedersi davanti alla sua amica.

Poi squillò il telefono.

Konoka fulminea mosse la mano per rispondere.

Però Asuna fu ancora più veloce e afferrò lei la cornetta.

“Dammela!” ordinò Konoka.

“Non se ne parla!”

“Come osi? Dammela subito!”

Konoka saltò addosso ad Asuna, cercando di toglierle il telefono.

Le due ragazze lottarono per un po’, rotolando sul pavimento, con Konoka che sembrava quasi volersi arrampicare sul corpo di Asuna per strapparle dalle mani quella cornetta.

“Vedo che se vuoi sai ancora reagire!” commentò allora Asuna.

Konoka la guardò storta. “Che… che vuoi dire?”

“Che devi smetterla di deprimerti! Reagisci! Passare tutto il tempo in attesa di notizie che chissà quando arriveranno potrebbe portarti alla paranoia! Fai qualcosa! Qualunque cosa! Ma reagisci!”

“Sta zitta! Non capisci niente!”

“Cosa non dovrei capire, eh?”

Asuna piegò le gambe e spinse via Konoka, facendola finire incolume sul letto.

Fatto questo, parlò al telefono. “Grazie per avermi fatto questo favore. E scusa il disturbo”.

Konoka capì e la guardò impietrita.

Asuna si rimise in piedi fissandola negli occhi. “Guarda che io ti capisco benissimo. Cosa credi? Quelle sono anche le mie compagne, le mie amiche. E se tu sei preoccupata particolarmente per Setsuna, io lo sono particolarmente per Negi. Anche io odio questa attesa, dovermene stare qui anziché aiutare le squadre di ricerca. Ma non possiamo per questo limitarci ad aspettare soltanto. Dobbiamo continuare a vivere. Altrimenti finiremmo per impazzire!”

“Non…. Non è questo il mio problema…” mormorò Konoka.

“E quale sarebbe allora?”

“Io… io mi sento in colpa”.

“E perché?”

“Se fossi… se fossi andata con loro…”

“Saresti scomparsa anche tu. Non sappiamo cosa è successo. Cosa ti fa pensare che avresti potuto fare la differenza?”

“E cosa ti fa pensare… che non avrei potuto farla? Dicono che il mio potenziale magico è unico… magari potevo salvarli…”

“E’ inutile angosciarti con queste domande, Konoka. Ti infliggerai solo dolore”.

“Forse è inutile… questo. Ma c’è dell’altro…. E questo è sicuramente colpa mia…”

“Ovvero?”

Konoka piegò la bocca in una smorfia e scoppiò a piangere.

Asuna prontamente andò da lei e l’abbracciò.

“Setsuna… e Negi… io… sono io che li ho convinti a partire! Forse ho condannato le altre… e loro due li ho condannati con le mie mani!!” esclamò Konoka tra i singhiozzi.

“Non dire cosi. Ti prego! Vedrai che stanno bene. Devono star bene” disse Asuna con gli occhi lucidi.


Il citofono sulla scrivania del preside suonò.

“Chi è?” domandò l’anziano uomo.

“Preside, ci sono due uomini che chiedono di lei. Dicono di essere investigatori assoldati dalla compagnia di viaggi” spiegò la voce di un segretario.

“Ah si? Li faccia passare”.

Dopo un po’ entrarono due uomini occidentali, piuttosto robusti e vestiti in modo casual.

Uno dei due si presentò porgendo la mano al preside. “Piacere di conoscerla, signor Konoe. Io sono Jess Harnell. E lui è il mio collega Jim Wood”.

L’altro salutò con un cenno del capo.

Il preside strinse la mano di Harnell. “Piacere di conoscervi, signori. Cosa posso fare per voi?”

Harnell si schiarì la voce.“Be, innanzitutto vogliamo farle sapere che ci dispiace molto per quello che è successo. E’ certamente un evento davvero tragico la scomparsa di tutte quelle persone”.

“Ah, capisco. Voi due siete l’aiuto extra che la compagnia Welker ci ha promesso quando ci ha telefonato per comunicarci che avrebbero ufficializzato la sparizione”.

“Esatto. Non ci aspettiamo di fare miracoli, comunque siamo due professionisti che tenteranno il tutto per tutto. Anche nella peggiore delle ipotesi”.

“Non ci sono ancora prove che siano morti” ribatté il preside.

“Naturale. Tutti noi lo speriamo, mi creda. E infatti io mi riferivo ad un’altra ipotesi”.

“Ovvero?”

Harnell si guardò in giro, per poi avvicinarsi ulteriormente al preside. “E’ un ipotesi che da noi circola ultimamente. Forse si renderà conto che non tutte le agenzie viaggi mandano investigatori in un altro continente, se non per casi veramente gravi. E’ questo potrebbe essere un caso grave: un sequestro”.

“Un sequestro? E per opera di chi?”

“Se lo avessimo scoperto, le sue allieve sarebbero già ritornate qui. Ma non è una ipotesi cosi improbabile. Non si dimentichi che su quell’aereo c’era Ayaka Yukihiro, ereditiera di una della famiglie più ricche del mondo. Nonché Chao Lin Shen, ereditiera altrettanto ricca di una famiglia cinese. C’è quanto basta per organizzare un sequestro, non le pare?”

“Ma non sono arrivate richieste di riscatto” replicò ancora il preside.

“Per il momento no. Ma è ancora possibile. E inoltre, chi dice che i sequestri debbano per forza servire per un riscatto? I sequestratori possono avere miriadi di motivazioni. E per essere riusciti a far sparire cosi un aereo, devono essere veri professionisti”.

Il preside era dubbioso. “Lei è davvero convinto di questa ipotesi?”

“Assolutamente. Non mi risulta che un aereo possa sparire cosi, senza lasciare alcune traccia”.

Il preside rimuginò su quella possibilità: in effetti prima non l’avevano considerata perché data la presenza di soggetti fortissimi in quella classe, un rapimento era davvero improbabile. Tuttavia, proprio la presenza di quei soggetti fortissimi poteva aver portato dei nemici altrettanto forti a compiere quel rapimento.

Quindi era una possibilità concreta.

“Va bene, signor Harnell” disse il preside mettendosi in piedi “Come possiamo aiutarvi?”

“Per cominciare, vorremmo parlare con una delle ragazze rimaste di quella classe, Satomi Hakase. Qualunque indizio potrebbe esserci utile”.

“Ma certo, chiamo la professoressa Shizuna e vi faccio accompagnare da lei”.


Asuna e Konoka stavano passeggiando per il parco.

Konoka era ancora abbattuta, ma almeno un po’ di aria fresca le avrebbe fatto bene.

“Ehi, Konoka, mi è venuta un’idea. Perché non andiamo a trovare Hakase? Deve essere preoccupata quanto noi”.

“Però da quando è tornata due giorni fa, non è mai venuta a trovarci”.

Asuna notò un certo astio nella sua amica. “Non giudicarla. Hakase vive in un mondo tutto suo. Di conseguenza, ha un modo tutto suo di preoccuparsi. Andiamo a trovarla in laboratorio, parlando con qualcuno potremmo aiutarci a vicenda”.


La professoressa Shizuna e i due investigatori entrarono nel laboratorio di Hakase, un bizzarro concentrato di tecnologie di ogni epoca: dai modernissimi computer ad un orologio a pendolo.

Tuttavia il laboratorio era deserto.

La donna rimase un po’ stupita. “Strano. Dato che non era nella sua camera, ho pensato che fosse qui. Vi chiedo di aspettare qui, signori, mentre io vado a cercarla. Tornerò subito”.

Quando Shizuna se ne fu andata, i due uomini diedero prima un’occhiata a quell’ambiente.

Poi si guardarono l’un l’altro.


“Computer, ricomincia”.

Satomi Hakase sedeva davanti ad un grosso monitor di forma rettangolare, in un enorme spazio sotterraneo pieno di apparecchiature ancora più tecnologiche di quelle del suo laboratorio ‘ufficiale’.

In quel momento si trovava infatti nel laboratorio segreto che aveva costruito insieme a Chao per testare un tipo di tecnologia decisamente troppo futuristica per quell’epoca.

Sullo schermo, circondato da molti altri schermi più piccoli, apparve una ricostruzione di parte della costa giapponese.

Si aprì poi un riquadro puntato sulla zona di Okinawa.

“Dunque è qui che il loro aereo è scomparso. A quando risale l’ultima comunicazione?”

Un numero apparve in un riquadro più piccolo.

“Calcolando la rotta e la velocità, e il momento in cui sono cessate le comunicazioni, in quale punto esatto potrebbero essere caduti?”

L’immagine della zona di Okinawa compì uno zoom, puntandosi su una zona in mare aperto.

“Sempre lì. Ormai è assodato: dopo ben dodici ricostruzioni, la zona è sempre quella. Ma se sono caduti, dove sono i rottami dell’aereo? Qualcosa che galleggia rimane sempre”.

Hakase represse un brivido.

Gli occhi da tempo ormai le bruciavano, tanto era il tempo passato davanti a quei monitor per ricostruire la dinamica dell’incidente.

E ogni volta era sempre lo stesso risultato.

Che però non portava da nessuna parte.

Se l’aereo era esploso o si era inabissato, dov’erano i rottami?

Forse era stato dirottato?

Ma quell’aereo non aveva un’autonomia molto lunga, non era in grado di allontanarsi troppo dalle coste giapponesi.

E poi per quale motivo farlo?

Senza contare che a bordo c’erano delle persone potentissime nella magia, che di conseguenza avrebbero sicuramente potuto fare qualcosa.

Già Evangeline valeva quanto un esercito.

Ma se l’aereo, per un qualunque motivo, era caduto in mare ai margini della sua autonomia, la situazione si complicava ancora di più, perché la zona dove cercare si espandeva a tutta la fascia oceanica a ovest del Giappone.

Hakase si tolse gli occhiali per massaggiarsi gli occhi.

Si attivò una spia sonora.

Hakase su uno schermo più piccolo fece apparire una mappa del laboratorio segreto.

Una sezione, denominata S-1, era illuminata di rosso.

“Ora non ho tempo per quella cosa. Devo scoprire cosa è accaduto alle mie compagne di classe. Di qualunque cosa si tratti, può aspettare” pensò distaccata.

Si rimise gli occhiali e ricominciò il suo lavoro.

Dopo un po’, risuonò ancora la spia sonora.

La ragazza rimase infastidita. “Ancora?”

Ma quando richiamò nuovamente la mappa del laboratorio, vide che l’avviso riguardava l’uscita di emergenza e l’accesso principale.

“Ma che succede? Nessuno conosce l’ubicazione del laboratorio, e specialmente quella della uscita d’emergenza!”

La ragazza cercò di inquadrare i due accessi per scoprire di chi si trattava.

Ma i monitor delle telecamere mostravano solo scariche.

E lo stesso valeva per tutte le altre telecamere.

Stando al computer, si trattava di un disturbo causato da un misterioso segnale esterno.

Preoccupata, Hakase premette un pulsante con su scritto ‘SECURITY’.

Subito dopo, tutta la struttura fu sconvolta da due esplosioni.

Il fumo di quest’ultime riempì gli ampi corridoi che conducevano al laboratorio centrale.

Hakase andò a nascondersi dietro un generatore, mentre i robot della sorveglianza, in tutto venti e piuttosto grossi, alcuni di forma umanoide e altri dalla forma vagamente ragnesca, uscirono da scompartimenti celati nelle pareti per dirigersi rapidamente contro gli intrusi nei due corridoi.

Si udirono alcune piccole esplosioni, raffiche laser, tonfi e rumori di lamiera piegate.

Infine, grossi pezzi metallici furono scagliati dai corridoi dentro il laboratorio, quasi sparati.

Hakase si affacciò e riconobbe terrorizzata i resti dei robot di sorveglianza.

“Mio Dio! Quei robot valevano quanto un piccolo esercito! Chi può averli distrutti cosi rapidamente?!”

Dal corridoio dell’entrata principale arrivò un terribile fracasso accompagnato da un mucchio di polvere che andò ad aggiungersi al fumo della prima esplosione.

Mentre dal secondo corridoio si sentirono dei passi, regolari e molto pesanti.

Hakase si rannicchiò in un angolino nascosto tra le tante apparecchiature, sbirciando per vedere il nemico.

Poi il soffitto del corridoio centrale crollò, e il responsabile era un enorme robot antropomorfo, di colore marrone chiaro.

La giovane scienziata calcolò che doveva essere alto almeno sette metri.

Troppo per il corridoio, quindi era avanzato distruggendo il soffitto.

Dall’altro corridoio arrivò un secondo robot antropomorfo, di circa cinque metri e di colore nero.

A lui per attraversare il corridoio doveva essere bastato chinare la testa.

Hakase era sia spaventata che affascinata.

Quei misteriosi robot non avevano certo buone intenzioni e sulle loro facce imperscrutabili perché non troppo composte secondo una fisionomia umana, svettavano degli occhi illuminati da una maligna luce rossa.

Però il suo io scientifico non poteva non tentare di analizzare quegli esseri, perciò la ragazza si muoveva, stando sempre dietro il suo nascondiglio, per trovare una buona visuale che le permettesse di esaminare meglio quei corpi quasi interamente corazzati. Che solo in alcuni punti, come le ginocchia, lasciavano intravedere qualche meccanismo interno.

I due invasori si guardarono intorno, poi cominciarono ad avanzare: proprio verso di lei!

“Dannazione! Devono avere dei sensori di rilevamento!” pensò allarmata.

I due giganti si fecero strada facendo a pezzi come niente tutto il materiale del laboratorio.

Hakase attese il momento giusto, e quando i due robot furono proprio davanti al suo nascondiglio, cercò di scappare scattando in avanti e passando sotto le gambe del gigante marrone.

Ma l’altro gigante la intercettò e con la mano le diede una spinta che la fece volare contro una parete.

La ragazza cadde a terra svenuta.

Il gigante marrone si rivolse al suo compagno. “Le informazioni erano esatte, Barricade. Ed è stato veramente facile”.

“Bonecrusher, cosa ti aspettavi da questi mucchietti di carne organica?” rispose Barricade. “Cercare di fermarci con questa tecnologia primitiva… una sciocchezza. Per usare i loro termini, è come sfidare un carro armato usando una bicicletta”.

Bonecrusher afferrò Hakase per le gambe e la sollevò, lasciandola penzolare dalla sua mano. “Guarda quanto sono fragili. Ormai li conosciamo da tanto tempo, eppure mi chiedo ancora come facciano ad essere in vita da millenni”.

“Tu non sei fatto per pensare, Bonecrusher. Prendiamola e andiamocene” lo incalzò Barricade.

“In fondo è una fortuna non dover usare l’altro mezzo”.

“Lei ci serve per se stessa. Ma dubito che gli umani considerino una fortuna la marchiatura”.

“Intendevo dire che è una fortuna per me. Quell’altro metodo mi provoca sempre un tremendo ribrezzo” replicò Bonecrusher.

“Ehi, luridi mostri lasciatela stare!”

I due Decepticons si voltarono verso uno degli ingressi.

A parlare era stata Asuna, con in mano la sua spada gigante.

Barricade e Bonecrusher si guardarono.

Poi Asuna rabbrividì: perché pur non riuscendo a capire bene come fosse composta la faccia di quegli esseri, ebbe la netta impressione che stessero sogghignando.

“E’ arrivato il bersaglio successivo. Bonecrusher, portala pure via” disse Barricade.

Il robot marrone incominciò ad avviarsi con Hakase verso l’altro ingresso.

“Dannazione! Lasciala andare subito!” gridò Asuna lanciandosi contro i due nemici con un fendente.

Un fendente che Barricade parò semplicemente mettendo davanti un avambraccio.

E nell’impatto la spada di Asuna si sbriciolò come se fosse di vetro.

“Asuna!” gridò spaventata Konoka, che stava nascosta dietro alcune grosse macerie.

Asuna rimase sbalordita. “Eehhh?! Ma come… Konoka! Ti avevo detto di restare fuori. Vai a chiamare aiuto, presto!”

Barricade sferrò un pugno contro Asuna, che mise le mani in avanti e venne scagliata contro Konoka.

La spinta del pugno fu tale che entrambe le ragazze sbatterono violentemente contro un muro, rimanendo tramortite.

Barricade si avvicinò e le esaminò. “Asuna Kagurazaka è abbastanza in gamba. Ha accompagnato il mio colpo in modo da ridurre i danni. Comunque ci hanno fatto un favore, lei e Konoka Konoe, venendo loro da noi”.

“Allora possiamo rinunciare alla copertura. Io sistemo questa, tu mettile dentro di te, cosi le portiamo alla base” ordinò Bonecrusher.

“Un momento!” esclamò Barricade.

“Che succede? Sbrighiamoci ad andarcene, questo ambiente cosi umano mi sta dando la nausea”.

“I miei sensori di movimento rivelano qualcosa dietro quella parete”.

Barricade indicò una parete blindata, simile ad una paratia, che stava dietro di loro.

“Io non sento niente, immagino perché impegnato nel processo. Ma anche se fosse, di che ti preoccupi? Sarà un altro degli pseudo-robot creati dagli umani” replicò Bonecrusher alquanto seccato.

“No, è qualcosa di più grosso, quanto noi, anzi di più”.

“Ti preoccupi per niente” ribatté Bonecrusher, che lasciò cadere Hakase e trasformò un braccio in una sorta di cannone.

Sparò alcuni colpi contro la paratia, già il primo perforò come niente il metallo corazzato, e altri sette piombarono dentro quella stanza.

Ci fu un rimbombo di esplosioni.

“Ecco, qualunque cosa fosse, è andata” concluse il Decepticon.

Lasciatele andare” ordinò una voce proveniente dall’interno di quel locale.

Barricade e Bonecrusher rimasero impietriti.

Non per le parole in se o per la loro provenienza.

Ma perché quella voce aveva parlato in cybertroniano.

  
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