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Autore: Laylath    04/12/2015    6 recensioni
Dal prologo:
"... Non lasciarmi!”
Quelle ultime due parole le procurarono un forte ed improvviso battito del cuore, risvegliandola bruscamente. Il buio era ancora attorno a lei, promessa di sicurezza ed oblio, ma qualcosa non andava.
Non riusciva più ad abbandonarsi ad esso come voleva.
Improvvisamente la sua memoria esplose di ricordi, di visi conosciuti, di voci che la chiamavano con insistenza...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Riza Hawkeye, Team Mustang
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Military memories'
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Capitolo 1
1899. Sola




 
Poco lontano da East City.
 
Non lasciarmi, non lasciarmi…
La bambina si lasciò scivolare contro il muro scrostato del corridoio, accovacciandosi sui talloni e tappandosi le orecchie con le mani nel vano tentativo di cacciare via il terrore che la stava attanagliando, rendendole difficile persino respirare. Le lacrime scorrevano copiose sulle sue guance pallide e scavate e poi cadevano sul pavimento di legno impolverato, dove avevano ormai formato una piccola chiazza più scura.
Si sentiva impazzire ad attendere accanto a quella porta ormai chiusa da ore, dalla quale continuavano a trapelare delle voci e soprattutto quella tosse così tremenda, spesso accompagnata da rantoli disperati.
Era terrorizzata all’idea di quanto stava accadendo dentro quella stanza, al pensiero di restare sola con lui in quella casa così grande e cupa.
Ma sua madre stava morendo, non c’era speranza.
Era perfettamente consapevole che il dottore non poteva fare niente.
L’aveva capito subito, sin da quando, qualche ora prima, l’aveva vista accasciarsi nel pavimento tossendo sangue. Era stato l’attacco più brutto a cui la bambina avesse assistito in quegli ultimi anni, da quando la malattia materna si era aggravata: mai il corpo sottile e fragile della donna era stato squarciato dalla tosse con una simile violenza, come se fili invisibili la strattonassero senza alcuna pietà.
“… non lasciarmi…” mormorò con voce flebile, quasi a cercare di cacciare via quella tremenda prospettiva che stava diventando ogni minuto più reale.
Si raggomitolò ancora di più su se stessa, iniziando a dondolarsi lievemente in un precario equilibrio. La stanchezza e il dolore la portarono a ripetere quella frase come fosse una litania, facendole perdere la cognizione del tempo, le sensazioni del suo corpo, gli stimoli del mondo esterno. La sua mente esausta si convinse che restando in quella posizione sarebbe stata in qualche modo protetta e che la situazione non si sarebbe spostata da quel limbo d’attesa che, tutto sommato, offriva ancora una labile speranza.
 
Non seppe per quanto tempo rimase in quella posizione quasi fetale.
Venne ridestata dalle voci che, improvvisamente, avevano alzato il loro tono, come se non ci fosse più bisogno di parlare sommessamente per evitare di disturbare la malata.
 “… povera donna, ma almeno adesso ha smesso di soffrire…”
La bambina riconobbe a malapena la voce della grassa vicina di casa che già diverse volte era venuta ad aiutare quando sua madre era stata male.
“… era solo questione di tempo – la voce più dura del medico sembrava parecchio irritata – Del resto l’avevo detto più volte alla signora: in una casa come questa la malattia sarebbe prima o poi degenerata. Le avevo suggerito di andare in un posto più idoneo alla sua costituzione delicata: con la tisi non si scherza.”
“Oh, parole buttate al vento, dottore, lo sa benissimo! Con quella specie di marito la sua salute era sicuramente agli ultimi posti per importanza. Poveraccia! Chissà cosa ha spinto una giovane così carina ed educata a sposare uno come quello… non si è fatto più vedere da quando siamo arrivati: è sicuramente chiuso nel suo studio! Eppure le condizioni della signora erano apparse da subito critiche.”
“Misteri di questa famiglia, mia cara signora. Forza, andiamo ad avvisarlo che è tutto finito.”
La porta venne aperta con un fastidioso cigolare dei cardini poco oliati, un rumore che ebbe il potere di far scorrere un brivido lungo tutta la spina dorsale della bambina. Si alzò in piedi con apatia, sentendo le gambe che formicolavano e protestavano per la posizione accovacciata assunta per troppo tempo.
“Oh, cara – la signora Berth si accorse della sua presenza e le posò una mano grassoccia sulla spalla – sei rimasta qui tutto il tempo? Ehi, Riza, mi ascolti?”
Riza Hawkeye si riscosse nel sentir pronunciare il suo nome: alzò gli occhi lucidi su quel viso flaccido, non riuscendo ad esprimere né dolore né rabbia. Nessuna emozione: erano state tutte prosciugate in quell’attesa così tremenda, snervante e senza speranza.
“Riza, la mamma non c’è più.”
Annuì appena a quella dichiarazione: che altro poteva fare? Lo sapeva benissimo che sua madre non c’era più, l’aveva capito da molto prima di loro.
“Posso vederla?” lo chiese con voce flebile, sentendo che le labbra tiravano fastidiosamente per quanto erano secche.
Vide i due adulti scambiarsi una rapida occhiata, probabilmente si stavano chiedendo se era appropriato che una bambina di nove anni appena vedesse una persona morta. A dire il vero nemmeno Riza era sicura di volerla vedere: il ricordo di quel viso deformato dagli spasmi della tosse e dalle labbra chiazzate di sangue l’aveva turbata tanto. Sicuramente, dopo tante ore di agonia, la situazione non poteva che essere peggiorata.
E poi… com’era sua madre da morta? La morte era una cosa brutta, tremenda, ma non aveva idea di come potesse cambiare una persona: in qualche modo la portava via, ma il corpo restava.
“Ma sì, cara – la signora Berth annuì con pazienza – è più che giusto che tu la veda. Mi raccomando, non ti spaventare troppo: ci sono diversi asciugamani sporchi di sangue come quando aveva le sue crisi e forse vederla ti farà impressione. Ma è sempre tua madre, non dimenticarlo. Vieni, andiamo pure.”
“Allora io andrò ad avvisare il signor Hawkeye: bisogna organizzare i funerali… con questo caldo torrido è meglio provvedere al più presto.”
Riza girò il viso ad osservare l’anziano dottore che si allontanava nel corridoio, di contrasto la mano della signora Berth la spinse con gentilezza verso quella soglia semichiusa oltre la quale proveniva uno sgradevole odore di disinfettante misto a sangue, sudore e qualcosa di nuovo che la bambina non riuscì a definire che col nome di morte.
“Coraggio, mia cara…”
Le parole della signora Berth sembravano provenire da molto lontano mentre la porta veniva aperta del tutto. Riza si irrigidì e puntò lo sguardo sul pavimento di legno tarlato, dove alcune pezze chiazzate di rosso spiccavano come bizzarri fiori. Voleva scappare da quella stanza: tutto il suo corpo la implorava di correre via, lontano da quel bizzarro odore che le faceva salire la nausea.
Ma nel frattempo la mano della donna la guidava lentamente ed inesorabilmente verso il letto.
Un passo dopo l’altro, i suoi piedi parevano muoversi per una forza esterna che cozzava contro la sua volontà. Si fermarono solo quando le lenzuola entrarono nel suo campo visivo.
Erano le lenzuola buone della mamma, quelle bianche con una fantasia di piccoli fiori gialli che lei stessa aveva ricamato sul bordo. Ci teneva sempre che fossero ben tirate e sistemate, ma questa volta non era così: erano stropicciate, chiazzate in più punti… non solo di sangue. L’idea che sua madre si fosse lasciata andare in quel modo fece salire un conato di vomito che Riza represse a stento.
Istintivamente spostò lo sguardo verso la testa del letto, ma si bloccò quando vide una mano bianca, stranamente rigida nel tentativo di tenere la presa sul lenzuolo.
Ansimò con disperazione e d’istinto, nonostante non fosse una bambina propensa al contatto fisico, si strinse alla vita della signora Berth.
Non voleva guardare oltre, non poteva guardare oltre. Sarebbe stato orribile, lo sapeva: già quella mano era tremenda da vedere, come un artiglio di una strega malvagia.
Ma ancora una volta il suo corpo fece il contrario di quanto la sua volontà le chiedeva: i suoi occhi castani continuarono la loro scalata… dalla mano, al braccio coperto dalla leggera camicia da notte, così innaturalmente spiegazzata. E poi i capelli biondi, tanto uguali ai suoi, che tuttavia avevano assunto un colore più bagnato, vicino al castano: così scompigliati e spettinati, appiccicati sulle spalle e sul cuscino.
“Forse avrei dovuto farti attendere fuori mentre la sistemavo un po’…” la voce della signora Berth parlò ancora da molto lontano. Questa volta troppo.
Riza era appena arrivata al viso di sua madre.
Non è la mamma… non è la mamma…
La sua anima gridò quelle frasi mentre cercava in quei lineamenti storpiati e contratti il sorriso dolce e stanco di sua madre. C’era ben poco di Elizabeth Hawkeye in quella grottesca visione i cui zigomi risaltavano in maniera così tremenda e il cui pallore era accentuato da alcune chiazze livide sotto gli occhi… ancora aperti, praticamente spalancati, a fissare un qualcosa di grandioso e terribile che solo i morti potevano vedere.
C’era un non so che di surreale in quelle pupille dilatate, in quelle iridi il cui castano aveva perso qualsiasi forma di calore, facendo sembrare gli occhi qualcosa di ultraterreno. Per un tremendo secondo Riza ebbe l’impressione che quel viso storpiato dalla morte si girasse improvvisamente verso di lei, che quelle labbra gonfie e sporche di sangue pronunciassero il suo nome.
“… non… non lasciarmi…”
Le sue labbra si mossero appena in quella silenziosa preghiera che l’aveva cullata per così tanto tempo.
Ma in quel corpo devastato che stava davanti a lei, in quel letto disfatto, non c’era più una persona.
Quella non era più sua madre.
Era sola.
 
I funerali di Elisabeth Hawkeye si svolsero quella sera stessa, poco prima del tramonto.
Nel primo pomeriggio un uomo era venuto in tutta fretta a prendere le misure per  poter fare la cassa di legno dove deporre la defunta. Nell’arco di due ore nella casa era risuonato il rumore del martello che chiudeva per sempre quel coperchio di assi chiare.
“Già l’ambiente è malsano, questo caldo farebbe il resto: bisogna provvedere subito alla sepoltura.”
Era stata questa la decisione del medico, avvallata anche dall’odore nauseante che aveva invaso quasi da subito la stanza della defunta. C’era stato giusto il tempo di dare un minimo di contegno a quel povero cadavere straziato dall’ultima crisi della malattia. La signora Berth aveva sistemato i capelli, composto le braccia, chiuso gli occhi che fissavano un mondo che non c’era, almeno per i vivi.
Ma Riza non aveva visto niente di tutto ciò.
Era rimasta in camera sua, sdraiata nel suo letto, raggomitolata su se stessa, incurante dei rivoli di sudore che le colavano sul collo. Aveva cercato di cancellare dalla sua mente l’immagine del viso di sua madre, ma non c’era stato sforzo che avesse ottenuto un minimo risultato. E così era scivolata in un tormentato stato di dormiveglia dal quale l’aveva destata la signora Berth qualche ora dopo, quando l’aveva scossa gentilmente e le aveva suggerito di lavarsi il viso prima di indossare un abito scuro per andare al funerale.
E ora Riza si trovava lì, in quel povero cimitero di campagna, poco lontano da casa sua, dove a farla da padrone erano radi alberi scheletrici che non trovavano mai la forza di fiorire, davanti a quella fossa che veniva riempita da un becchino che sicuramente non vedeva l’ora di terminare il suo lavoro data l’ora tarda. Non c’era stato il tempo di fare una lapide decente, si sarebbe provveduto nei giorni successivi: per ora ci si doveva accontentare di un bastone piantato nel terreno con un cartello che indicava i poveri dati della defunta.
Elisabeth Hawkeye 4 Aprile 1866 – 2 agosto 1899.
“Possa trovare la pace che non ha avuto in vita, povera donna.”
La voce della signora Berth accompagnò l’ultima badilata di terra, spezzando il silenzio surreale che aveva fatto da contorno a quella sepoltura. Nessuno aveva detto niente fino a quel momento: né il dottore, né il becchino… né lui.
Riza pensò che sua madre se ne andava così, senza nemmeno un soffio di vento a salutarla veramente, solo un torrido caldo che rendeva l’aria irrespirabile anche quando il rosso del tramonto iniziava a comparire. Si sarebbe ricordato di lei solo il becchino quando avrebbe messo la lapide al posto di quel povero cartello appeso a quel ramo secco.
Poi niente, tutto finito.
Era dunque questa la morte, almeno per quanto concerneva sua madre.
Questi cupi pensieri la tennero con gli occhi incollati al suolo, mentre i passi attorno a lei indicavano che il funerale era terminato. La mano della signora Berth la incitò a girarsi da quel cumulo di terra scura.
Non aveva pianto, non aveva supplicato: si sentiva esausta, svuotata di tutto quanto potesse provare, con un senso di solitudine che diventava sempre più incombente. Sembrava che fosse del tutto dipendente da quella grassa donna che la incitava a compiere anche le azioni più ordinarie come camminare.
Seguì passivamente la sua accompagnatrice fuori dal cimitero, rendendosi solo vagamente conto che davanti a loro camminava un’altra figura, quella che forse era stata la più silenziosa in quella surreale giornata.
“Signor Hawkeye – disse la signora Berth, quando ormai furono vicini alla vecchia villa – lei e la bambina non avete mangiato niente per tutto il giorno. Volete che venga a preparare qualcosa? Immagino che non siate molto propensi a cucinare.”
“No, non sarà necessario: ci arrangeremo. Torni pure a casa, signora e grazie per essersi presa cura di mia moglie.”
Quella voce parlò per la prima volta, bassa e tagliente sebbene ci fosse un tentativo di essere educata nei confronti della donna che aveva assistito Elisabeth. Ma Riza sapeva che era una voce che raramente era capace di esprimere sentimenti e che, le poche volte che succedeva, non erano certo buoni. Se doveva essere sincera, la bambina preferiva suo padre nella solita versione silenziosa con la quale aveva imparato a convivere.
“Oh bene, come preferisce – annuì la signora Berth con una nota di sollievo che l’orecchio acuto della bimba riconobbe – cercate di riposare, mi raccomando. E tu, cara, mangia qualcosa di leggero e poi vai subito a dormire. Fatti forza, coraggio. Pensa che almeno ora la mamma non soffre più.”
Ma mi ha lasciato sola…
Riza avrebbe voluto dire quella frase che esprimeva tutta la sua disperazione, ma riuscì appena ad annuire.
Sentì la mano grassoccia che le stringeva la spalla in un gesto goffo di conforto e poi rimase lì, in mezzo al sentiero polveroso, con suo padre a pochi metri da lei.
Per la prima volta alzò lo sguardo sul genitore, su quella figura quasi estranea che viveva sotto il suo stesso tetto. Aveva sofferto per la morte della mamma? Pure lui stava provando quella tremenda sensazione di vuoto che attanagliava lo stomaco?
Gli occhi azzurri erano stanchi, i lunghi capelli castano chiari pettinati alla bell’e meglio, il viso tirato. Ma non c’era alcuna espressione di dolore, solo rassegnazione. Come se anche lui fosse stato consapevole che questo momento sarebbe prima o poi arrivato, senza che loro potessero fare niente.
Era una forma d’amore? Riza non lo seppe dire.
E a dire il vero non aveva nemmeno voglia di pensarci.
 
Il calare del buio la trovò in cucina, davanti ad un piatto di minestra che si era cucinata da sola di malavoglia e che non aveva ancora toccato. Si disse che avrebbe dovuto mangiare, fare i piatti, lavarsi ed andare a letto, proprio come era abituata a fare quando la mamma stava troppo male per occuparsi delle faccende domestiche.
Ma questa volta era diverso: non era più per un periodo di tempo ridotto, sarebbe stato per sempre.
I piatti da lavare sarebbero stati due e non tre, così come i bicchieri e le posate. Non sarebbe più stato necessario andare nella camera matrimoniale ed annunciare che tutto era in ordine e che era arrivata l’ora di dormire.
Che cosa devo fare adesso?
Se lo chiese con ansia, osservando quel piatto vuoto davanti a lei, il cui proprietario non si era nemmeno degnato di comparire in cucina. Non che fosse strano: era più che normale che Berthold Hawkeye passasse ore e ore nel suo studio, perdendo la cognizione del tempo. Ma quel giorno era morta sua moglie, forse avrebbe potuto fare un’eccezione.
Sono sola…
Prese il cucchiaio e rigirò la sua minestra per qualche secondo.
Poi con un sospiro si alzò dal tavolo e andò in camera sua, buttandosi nel letto ancora vestita.
Non aveva lavato i piatti, né si era preparata per la notte.
Non importava a nessuno del resto.
Chiudendo gli occhi pregò che il ricordo del viso di sua madre non si presentasse nei suoi sogni.
Sarebbe stata l’unica grazia dopo quella giornata che aveva sconvolto la sua esistenza.




__________________
Eccomi qua con il primo capitolo che ci introduce nell'infanzia di Riza.
Ho prefertio creare delle dinamiche molto diverse sulla morte di Elisabeth rispetto a quelle più gentili di Un anno per crescere in quanto si tratta di due universi completamente separati. Ho solo tenuto il giorno di nascita e quello di morte, sebbene siano cambiati gli anni di riferimento.
E' più breve del mio solito, lo so, ma preferisco aspettare il capitolo successivo per introdurre ulteriormente la figura di quel "gran padre" che è Berthold.

 
  
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