VIII.
Conoscere
inizia col
domandare
Una fragranza particolare le solletica l’olfatto.
Impossibile
trovare parole per descriverla appieno, a qualcun altro o a se stessa,
tanto è sfuggente. Non saprebbe dire con certezza neppure se il
profumo ancora aleggi attorno a loro o se, semplicemente, si sia
insinuato nelle sue narici e lì si sia annidato dalla mattina
quando, di fronte all’altare di pietra imbrattato dal sangue dei
sacrifici, ne ha avvertito il primo sentore, mentre i semi d’orzo
piovevano loro attorno. [1]
Lo
ha percepito, sconosciuto e alieno, pure celato da quello dello
stucchevole, metallico liquido colato dalle gole spalancate di pecora e
scrofa, e, dopo, camuffato dai fumi inebrianti della carne arrostita
sul braciere mentre, tutti insieme, divinità e mortali, sedevano
a banchetto [2]; un retrogusto, sottile e pesante assieme, facile da
confondere con i teneri effluvi dei fiori spalancatisi alla nuova
stagione; ma Kore, che uno per uno li conosce, trova l’estraneo,
l’intruso tra essi.
Arriccia
il naso, dunque, mentre il lucore del Sole, che accende l’aria
immobile della danza di infiniti pulviscoli, le si insinua tra le
palpebre socchiuse. Ora, così vicine all’occhio di Helios,
il calore non è più una gentile carezza primaverile; si
è fatto quello dei più aridi mesi estivi e sotto il peplo
leggero, Kore sente il sudore pulito e salato raccogliersi sotto i seni
ancora gonfi di latte, sotto le ascelle, nella piega delle braccia che
stringono le ginocchia raccolte al petto.
L’argento
del carro di Selene pare attirare irresistibilmente la luce del
meriggio. Un lieve vapore emana dal sentiero di nuvole preparato per
loro da Nefele, un nebbia priva di consistenza sollevata dal passaggio
delle ruote e dalle enormi spire di Cicreide [3], mentre il drago
striscia silenzioso e lento, per non lasciare indietro il loro seguito
appiedato.
In
cerca di una distrazione qualunque, Kore posa lo sguardo sulle sue
ninfe a pochi passi di distanza, i loro calzari affondati nel sentiero
umido che si dipana sulla schiena di Urano. Stando ai racconti di
Ciane, una volta il mare stesso si apriva perché il cocchio di
Demetra l’attraversasse, e le onde si ritiravano senza neppure
bagnarle l’orlo della veste.
A
lungo aveva interrogato sua madre sulla natura dei dissapori con lo
Scuotitore di terra [4], ma non c’erano state risposte alle sue
curiosità infantili. Atena qualcosa ne sa, Kore ne è
certa, ma è troppo discreta per vuotare il sacco – e
troppo savia per rischiare di offendere Demetra.
Che, di segreti, ne ha più d’uno.
Imponendosi
di non guardare in basso, di non lasciare che l’Ellade che sfila
via sotto di lei le riporti la mente ai monti che celano il suo piccolo
Cacciatore Scalzo [5] – pure, Kore si concede di non incrociare
gli occhi con sua madre. Li tiene fissi su Ciane, invece, ritta davanti
al carro di Demetra, che conduce l’altro drago per la briglia,
seguita dalle poche ancelle che non sono rimaste indietro a curare la
stagione bella in vece loro.
Il
volto dai lineamenti delicati è composto nella medesima
espressione distratta che ha strappato ad Atena una smorfia di
disapprovazione, mentre, dopo il banchetto, si scambiavano gli ultimi
saluti; la medesima reazione, Kore ne è certa, avrebbe avuto la
Cacciatrice – se si fosse presentata a porgere loro i saluti.
Ma
no: sua sorella ha mandato Selene a imprestare loro il suo carro per il
viaggio sopra il letto di nuvole, e a disapprovare è stata
Demetra.
Kore
non si è soffermata su certe formalità; neppure sulla
fitta al petto nel toccare con mano la verità nei discorsi di
Atena.
No.
Invece, ha scrutato Selene.
Un
volto tondo e pallido, quasi l’argento del suo carro abbia
colorato anche lei della stessa tinta. Le morbide onde dei capelli
raccolte nella fascia, la falce di luna sulla fronte alta. Si è
chiesta come sarebbe, posare le proprie su quelle labbra pallide,
immergere le dita in quella chioma, liberata da ogni costrizione.
Si
è chiesta cosa abbia provato, Zeus, nel giacere con la Luna
– nel generare figli con quella creatura dall’aria dolce e
malinconica, che si inchinava, pronunciava le parole di rito come
nuotando in un invisibile oceano – ogni movimento, ogni gesto
soffuso di rarefatta eleganza.
Kore
tormenta con le dita la stoffa della veste, lo sguardo ancora su Ciane
– sugli inequivocabili segni dell’innamoramento nella
più cara delle sue ancelle. Chi è lei, che ha concepito
un figlio col proprio padre, per rimproverarla? Una padrona ipocrita,
se la rimbrottasse; e avvertirla, sebbene lo farà comunque,
servirà a poco.
Ciane
è destinata a soffrire come ogni altra di loro. Poiché
Demetra ha ragione: sono tutte uguali, le femmine infatuate, e
condividono una sorte sola.
E
infine, Kore la guarda: sua madre, china a parlottare
all’orecchio della ninfa che divide con loro l’onore di un
posto sul carro.
Kore mai ha veduto una Graia [6], ma, pensa, per forza devono somigliare alla creatura che le siede di fronte.
Fragile
come la tela di un ragno, segnata da rughe come crepe sul vetro;
infagottata nell’himation, nonostante il caldo soffocante. Il
biancore della sua chioma è più puro del sentiero di
nuvole trapassato dall’occhio del Sole.
Non
ha mai saputo che le ninfe potessero invecchiare – neppure le
riesce di immaginare Ciane, o Leuce, con un simile aspetto. Calligeneia
muove appena le labbra scarne, senza emettere suono; gli occhi di
nebbia sono lontani – svaniti, come la sua fonte, ad Eleusi, e il
suo senno.
La mano di Demetra appare enorme posata su una sua spalla fragile; le dita dorate quasi sporcano tutto quel candore.
Anche sua madre è una figlia.
Kore
la osserva di sottecchi, tormentando con le unghie il tessuto sudato
del peplo sulle ginocchia. Non per la prima volta, cerca di evocare
un’immagine di Demetra giovane: la dea fanciulla amata da Zeus,
prima che, assieme, la concepissero.
Scruta
i suoi tratti, così simili ai propri. Chronos, divorando anno
dopo anno, non deve averli mutati di molto. Non le appare una vecchia,
sua madre; solo, non le sembra una ragazza, un bocciolo appena
dischiuso.
I
petali di Demetra si offrono al sole spalancati e sgargianti, e Kore
è certa che, se smettesse gli abiti austeri e
l’espressione perennemente preoccupata che si è incisa sul
volto, non mancherebbero amanti pronti a rallegrarle i giorni e giacere
con lei nelle lunghe notti – ed altrettanto sicura è che
Demetra non li accetterebbe.
Che sua madre protegga la santità del matrimonio non cessa di farla sorridere, sorrisi che hanno preso una piega amara.
Sua
madre, che l’unione tra maschio e femmina l’ha sempre
rifuggita, che ha solo lodi per chi sceglie la verginità –
proprio lei divide l’onere con la grande sorella-moglie del suo
antico amante, nonché con la dea che più di ogni altra le
è lontana per indole.
Pafia.
Kore
si morde le labbra, l’eco delle parole di Ecate che le annoda lo
stomaco. Vorrebbe aprir bocca e, finalmente, scaricare in parte il
fardello che quasi fisicamente le piega le spalle sotto la sua mole.
Sposta lo sguardo sull’anziana Calligeneia, sui suoi occhi perduti nel luccichio di Urano.
Esita.
Di
nuovo torna a Demetra, che ora la ricambia – e vorrebbe
domandarle cosa ci sia a Pafo – ma quell’odore perforante,
il caldo che la soffoca, l’Ellade che si allontana; Selene e la
sua faccia di luna; Atena, che osserva con distacco quel figlio che non
è suo figlio, il simbolo di carne e scaglie di serpe del suo
disonore sfiorato [7]; Artemide, che da troppo tempo la rifugge; Ciane
e il suo cuore di innamorata, e Leuce, che l’ha lasciata per
sempre: Kore potrebbe piangere per tutto questo, e di più.
Il rombo lontano di un tuono rompe il silenzio esausto della processione – un rimprovero alla sua debolezza, perché lui può
sentirla, anche così separati. Kore percepisce la pioggia
tremare, nelle nuvole bianche al disotto del carro, e chiude intorno ad
essa dita invisibili, tenta di trattenerla dall’abbeverare la
Terra.
Demetra la fissa e, sotto quell’esame, Kore si fa aria col dorso della mano.
« Figlia mia, è troppo rosso, il tuo viso, perché sia segno buono. »
Sua madre allunga le dita e le posa sulla fronte di Kore, la consueta preoccupazione a incresparle la fronte.
«
Non è nulla di grave, davvero. » La voce le sfugge rauca
dalla gola, e Kore deglutisce lenta. « È questo odore
nell’aria, che mi confonde i sensi e fa dolere il capo. »
«
Devi aver ispirato troppo incenso », sentenzia Demetra
saggiamente, estraendo un otre dalla sacca abbandonata sui cuscini
accanto a Calligeneia.
Glielo
offre e Kore beve avidamente, lasciando che l’ambrosia le porti
un qualche sollievo mentre sua madre continua, lo sguardo su un punto
oltre le loro spalle. « Vorrei che tuo padre non ti avesse
trasmesso questa sua afflizione, che l’avesse tenuta per
sé solo. » Il tono è di biasimo, quasi Zeus potesse
udirla e vergognarsi di quella manchevolezza inconsapevole.
Kore
stacca l’otre dalle labbra, un’ultima occhiata distratta
all’aria persa della vecchia balia. « Hai parlato con lui
», dichiara, e si muove a disagio sui cuscini gonfi sotto le
terga, come sedesse su rovi di spine. Demetra riporta a lei
l’attenzione, contrariata. « Parole di troppo volano in
casa di Atena. »
« Credeva mi avessi portato i suoi rimproveri, che per questa ragione la pioggia fosse cessata. »
Non c’è accusa, ma le pare di vedere un cremisi vergognoso sulle guance di Demetra.
«
Nessun rimprovero per te, melissa [8]. Se qualcuno ha assaggiato il
bastone, sono stata io. Per le mie sciocche, irrispettose richieste.
» Una smorfia irosa le increspa le labbra. « Le Erinni
devono avermi ottenebrato la mente, per impetrare che tuo figlio stesse
con sua madre, secondo ogni legge di Natura. »
Un
verso scappa a Kore, che abbassa gli occhi, il cuore una bilancia
impazzita tra sollievo e dolore. « Non desideravo darti altri
crucci, per questo ti ho taciuto il suo ennesimo torto, figlia mia.
» Le dita sono sul suo mento, lo sfiorano in un gesto affettuoso.
Se solo sapesse, se solo sapessero tutti.
«
Ti ringrazio ugualmente per aver tentato », pigola, un uccellino
soffocato da una mano infantile, con la voce fievole e il cuore che
scoppia. « Ha avuto altre parole, su di me? Per me? »,
indaga poi. Follia sarebbe, se le avesse rivelato di questo sposo
segreto che non arriva, che Kore neppure attende più per
davvero, dopo averlo proibito lui stesso.
Ma sua madre starebbe già rovesciando cielo e terra, se così fosse.
Demetra
scuote lieve il capo, i polpastrelli che risalgono sulle sue tempie,
come per scacciare da lì il dolore in virtù del solo
tocco di madre.
«
Nient’altro che lodi per il tuo senno. Deve sentirsi generoso
all’eccesso: pensa che, sfidando le ire di mia sorella, ha
persino riammesso la sposa di Ares Distruttore [9] a banchetto in
Olimpo. »
Pare
osservarla più acuta, da dietro le iridi, e Kore ricambia
trepida, la domanda ancora sulla punta della lingua. Cosa
c’è a Pafo?
« Non è forse durato abbastanza il suo esilio? »
«
A non molte è mancata la vista delle sue belle natiche che
ondeggiano per il palazzo di Zeus, te lo posso assicurare. » Il
sorriso di Demetra è di scherno, ma è solo un attimo
prima che il suo viso torni liscio come l’olio scosso
nell’anfora. « Il nostro Padre Celeste cerca la lite con le
più indomite tra le sue sorelle. »
Di nuovo una smorfia, come inghiottisse una medicina amara.
«
Magari, i Mortali sono troppo dediti alle loro piccole guerre per
partorirgli belle figliole e giovinetti prestanti da portarsi nel
letto, e fornirgli uno spasso. Preferisce guardarci agitare sotto il
suo tallone, non vedo altro motivo per questo rifiuto ostinato di
compiacerci. »
Kore è tanto impegnata a rompersi la testa al pensiero di Pafia da non restare neppure ferita da quei commenti.
«
Perché mai offenderci a tal punto, infilando nelle nostre piaghe
il dito, se non per il solo piacere di contrariarci? »
Con
la coda dell’occhio Kore coglie un bagliore di consapevolezza
nello sguardo di Calligeneia – ma non è che un lampo, e
gli occhi della ninfa si fanno di nuovo distanti.
Kore torna a guardare Demetra.
«
Davvero non saprei, madre mia. Non lo conosco a sufficienza »,
replica senza tono, mentendo solamente a metà; senza rendersi
conto immediatamente dell’improvviso sollievo che si diffonde
nelle sue membra.
Non è la carezza delle dita amorose di sua madre, a farle cessare d’improvviso il dolore alla tempia.
Quell’odore,
tanto dolce, tanto infido, pare volatilizzarsi nell’aria
scintillante – e, come svanisce, a Kore pare già di averne
dimenticata l’essenza, ora che a gravarle il capo restano solo
domande a cui non sa dare risposta.
I
giorni si consumano, ma Kore lo riconosce subito, tuttavia, e si chiede
come sia stato possibile cancellarla dalla memoria, quella fragranza
tanto fatale, quando di nuovo la coglie – il giorno che, sotto i
suoi piedi, la Trinacria trema.
NOTE:
[1]: Coloro che materialmente non eseguivano il sacrificio lanciavano chicchi d’orzo per partecipare al rituale.
[2]:
La scrofa incinta e la pecora non tosata erano i sacrifici che Demetra
e Kore ed Atena rispettivamente ricevevano nei sacrifici animali per
propiziare i raccolti.
[3]: Uno dei draghi che tira il cocchio di Demetra.
[4]: Un epiteto di Poseidone.
[5]: Dioniso Zagreo, il cui nome ha il doppio significato di “cacciatore” e “a piedi nudi”.
[6]: Una creatura dal volto di donna anziana.
[7]:
Il figlio concepito da Efesto con Gea durante il tentato stupro di
Atena divenne re di Atene all’epoca dei fatti narrati. Si dice
che abbia portato la biga trai mortali, per celare le gambe di serpente.
[8]: Vezzeggiativo. Letteralmente, “ape”.
[9]: Epiteto omerico di Ares.