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Autore: Flora    05/12/2015    5 recensioni
Cerca di gridare – e sente l’eco riflessa della sua voce, ma non la sua voce. È questa, la notte che cala sugli occhi?
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India, regione malliana. Il Re è ferito, forse morente. Mentre Alessandro lotta per sopravvivere, Efestione deve affrontare l'attesa più lunga della sua vita.
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Ho nostalgia di te. L’ho sempre avuta, anche prima di incontrarti. Come si può volere così tanto qualcosa che ancora non si conosce? Tu lo sai, Alekos? Lo senti questo richiamo?
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Questa storia fa parte del mio ciclo di racconti su Alessandro il Grande.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
Capitoli:
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Ouranòs.




Gli uomini si sono radunati davanti alla sua tenda.
Non saprebbe dire quanti sono, da lontano gli appaiono come un indistinto groviglio di corpi, sagome appuntite stagliate contro i profili scuri dell’accampamento.
Per un attimo teme che siano solo ombre e si chiede se non stia ancora sognando, se tutto ciò non sia nient’altro che l’orribile conclusione di un incubo durato troppo a lungo.
La voce di Ptolemaios lo riscuote dal suo stordimento, riportandolo bruscamente alla realtà.
“Ci saranno almeno una trentina di soldati, Hephaistion. Forse di più. Era prevedibile. Ora che hai intenzione di fare?”
Hephaistion alza il viso e gli uomini sono ancora lì – li hanno visti avvicinarsi e adesso vengono loro incontro sparsi in piccoli gruppi, sguardi accesi e fiduciosi sulle facce stanche.
Hephaistion socchiude gli occhi, sforzandosi di delineare i volti, di richiamare i nomi alla memoria. Conosce quegli uomini. In un altro momento, di loro potrebbe elencare ogni singola ferita, ogni battaglia, persino il nome del loro cavallo. Uomini onesti, soldati fedeli e instancabili. Sono l’esercito che ha condotto tutti loro oltre montagne e pianure, fuoco e ghiaccio – attraverso terre ostili e cieli stranieri.
Uomini leali. I suoi uomini.
Eppure in questo momento non riesce a discernere un singolo nome, un qualche particolare che possa far affiorare un ricordo, una faccia, una parola amica scambiata davanti al fuoco di un bivacco o gridata nello schianto fragoroso della battaglia.
Vuoto. Tutto è vuoto umido e soffocante.
Sente che dovrebbe fare uno sforzo per ricordare, basterebbe un nome, uno soltanto. Pensa di dover loro almeno questo – i suoi uomini si aspettano qualcosa da lui, è tenuto a rammentarsi di loro. Ma crepe dolorose di memoria continuano ad aprirsi nella mente offuscata, lasciando solo tracce di rosso dietro le palpebre chiuse.
Intanto Ptolemaios si è fermato e i soldati paiono ignorarlo. Sono tutti concentrati su di lui, stanno tutti guardando lui – ma poi perché, nel nome degli Dei?
È pronto ad affrontare tutto ma non questo. Non queste facce interrogative, questi sguardi perduti che sembrano chiedere – esigere – risposte che non riesce a dare neppure a se stesso. Risposte a cui non vuole pensare.
Non ancora.
Fa un passo avanti, nonostante la sensazione che la terra stia per squarciarsi e inghiottirlo vivo, e apre la bocca per parlare – senza sapere che cosa dirà – ma i polmoni sembrano dilatarsi a vuoto, risucchiando aria in un rantolo.
Un uomo dai capelli biondi e gli occhi di un azzurro profondo si stacca dal gruppo e si avvicina a lui, esitante. Gli poggia una mano sulla spalla.
Un nome. Finalmente riesce a richiamare un nome e tutto sembra tornare alla memoria in un flusso impetuoso, la consapevolezza riassalirlo feroce come una lama di luce, con il suo carico di suoni, odori, voci, colori troppo vividi perché possa sopportarli.
Per un attimo prova la tentazione di tornare indietro e rituffarsi in quell’oblio ovattato di non-realtà. È meno dolorosa, è meno esigente e sembra avvolgerlo in una coltre tiepida e protettiva – anche se tutto puzza di morte.
Ma sa di non poterlo fare e si aggrappa di nuovo a quel nome, nitido e sonoro e familiare come il calore di un respiro in una mattina d’inverno.
Lysios.
Suo fratello.
Ha gli occhi cerchiati e il viso stanco, persino un accenno di barba sulla pelle liscia delle guance, ma è lui, non c’è dubbio, lo riconoscerebbe a occhi chiusi, suo fratello.
Annaspa per trovare le parole, aggrappandosi al calore della sua mano sulla spalla, e la gola riarsa sembra rivoltarsi contro di lui in una serie di conati di vomito.
È Ptolemaios che viene finalmente in suo aiuto. Caro, vecchio Ptolemaios, perennemente maldestro eppure così tempestivo allo stesso momento.
“Che cosa sta succedendo qui, Lysios? Sbaglio o questi fannulloni sono uomini del tuo squadrone?”
Lysios si volta verso di lui e, per un attimo, Ptolemaios ha la sconvolgente impressione di sentire il suo collo scricchiolare mentre ruota sul perno delle spalle.
Poi la sensazione passa, e resta solo Lysios con i suoi occhi stanchi e la pelle tirata sugli zigomi pallidi.
“No, non ti sbagli.”
Ptolemaios fa un gesto spazientito con la mano, mentre i soldati si raggruppano l’uno accanto all’altro, sempre in silenzio, sempre con la stessa espressione di stolido smarrimento sulle facce smagrite.
Hephaistion si passa una mano sulla fronte. Sente quegli sguardi su di lui, posarsi irrequieti sul suo volto, frugargli tra le pieghe della pelle, in cerca di risposte.
Ptolemaios è in torto: non ci sono solo gli uomini di Lysios; soldati del quarto Ilai di cavalleria, certo, ma anche uomini dei reparti di fanteria, ipaspisti sfregiati dalle cicatrici e cavalleggeri tessali dai ruvidi capelli rossi; opliti greci con le spade che penzolano dai fianchi e traci dipinti di blu; agriani dalle iridi cerulee e spalle robuste come orsi, e perfino qualche giovane scudiero troppo intimidito per fare qualcosa di più che puntare testardamente gli occhi verso il terreno.
Il dolore alla testa sembra tornare con la violenza di una piena. Sente la stretta di Lysios intensificarsi sulla sua spalla, farsi quasi dolorosa.
“Sei tu il loro comandante, Lysios.” La voce di Ptolemaios risuona stanca nell’aria notturna, “questa è la tua Ilai, ragazzo, e non sei il loro tetrarca per nulla, non certo per farli bivaccare davanti a questa tenda come un branco di scansafatiche. Dunque vorresti spiegarci che cosa…”
Hephaistion scuote la testa, impercettibilmente, e la frase di Ptolemaios resta troncata a metà, sospesa in mezzo a tutti loro.
“Immagino che siano qui per fare delle domande, non è così?”
Lysios si volta verso di lui, annuendo.
“È così, Hephaistion. Gli uomini erano nervosi e preoccupati. Non avevo altra scelta, mi dispiace. Vogliono parlare con te, è l’unico modo per… per farli calmare.”
Per un attimo Hephaistion sembra vacillare, come colpito da un schiaffo. Ptolemaios prova l’istinto di agguantarlo per un lembo del mantello, ma dopo un istante Hepahistion è di nuovo eretto, lo sguardo dritto davanti a sé, e Ptolemaios torna a chiedersi se non abbia immaginato anche questo.
Osserva il suo volto, le occhiaie profonde, la pelle segnata dalla stanchezza e si rende improvvisamente conto di quanto sia vicino al limite, di quanto poco gli manchi per crollare, una volta per tutte.
Come ha potuto non rendersene conto prima?
“Abbiamo già detto agli uomini tutto ciò che sapevamo,” scandisce a voce alta, lo sguardo ancora fisso su Hephaistion. “Non c’è nulla che né io né tuo fratello possiamo aggiungere in merito.”
I soldati, raccolti in cerchio attorno a loro, sembrano dare segni di nervosismo a quelle parole – piedi che si spostano nella polvere, armi che oscillano e tintinnano nel buio – ma il silenzio rimane palpabile. Assoluto.
“… Perdikkas ha inviato una lettera in cui ci informava che il Re è stato colpito da una freccia durante l’assedio al fortilizio dei malli, quattro giorni fa. Versa in condizioni gravi, ma è vivo, sebbene al momento del dispaccio non avesse ancora ripreso conoscenza…“ Ptolemaios sposta gli occhi sulla colonna dei soldati ma i loro sguardi sono ancora puntati su Hephaistion, che continua a tacere.
“… Al momento non possono dirci quando potrà raggiungerci, né abbiamo avuto nuove sulle sue condizioni, ma se ci fossero stati peggioramenti sta’ certo che l’avremmo saputo…” fa una pausa, trattenendo il respiro, poi aggiunge sottovoce: “… e non sono io a doverti ricordare che mantenere la disciplina tra i propri uomini è di vitale importanza, in un momento come questo.”
“Le voci che si sentono in giro per l’accampamento sono diverse, Ptolemaios, se solo tu ti prendessi la briga di ascoltarle,” lo interrompe Lysios in un bisbiglio. “Gli uomini credono che Perdikkas non abbia detto la verità. O che noi teniamo nascosto qualcosa…”
“Che sciocchezza!” Ptolemaios alza il tono tutto d’un tratto e il brusio che aveva cominciato a diffondersi tra le file dei soldati cessa di colpo. “Non c’è nulla che non sia stato letto o detto in pubblico. Il Re è ferito ma starà bene, e raggiungerà l’accampamento non appena gli sarà possibile. Al momento non sappiamo di più, e non c’è altro da aggiungere.”
Un vecchio si avvicina silenzioso, mettendosi davanti al cerchio dei soldati.
Hephaistion alza gli occhi e incrocia lo sguardo liquido e stanco dell’uomo. Sa bene chi è, un anziano arciere di sangue cretese che conosce da sempre, sin da quando era poco più che una recluta nei reparti di cavalleria al comando di Philippos.
Si chiama Koinus, si ricorda bene di quando gli insegnava a tendere l’arco – così tanti anni prima – le volte in cui i soldati venivano a prelevare lui e gli altri ragazzi a Mieza, per condurli al campo d’addestramento dove venivano educati alle armi. Ricorda la solida cittadella fortificata a non più di mezza giornata a cavallo da Beroia, a sud del fiume Haliakmon e vicino ad Aigai, dove era di stanza un contingente permanente incaricato di presiedere i confini attorno alla vecchia capitale. Venivano portati lì ogni mese, sotto il comando di Kleitos e Parmenion, affinché imparassero finalmente cosa voleva dire essere uomini.
Cosa voleva dire essere macedoni.
Koinus l’aveva visto ancora imberbe – un giovane soldato inesperto e dalle braccia troppo magre per scoccare una freccia o impugnare saldamente una spada – mentre adesso è il suo comandante, la sua unica guida in questo accampamento dimenticato dagli Dei e lontano miglia e miglia dalla sua terra.
È il suo comandante e deve qualcosa a Koinus, deve qualcosa a tutti coloro che, come lui, li hanno seguiti fin qui, destinati probabilmente a morire sotto cieli sconosciuti e stelle indifferenti. Alza il volto, fissando gli occhi in quelli azzurri del soldato.
“Parla, Koinus.”
La sua voce risuona chiara e sicura come sempre, lui stesso ne rimane sorpreso. Tutti gli sguardi sono di nuovo su di lui, anche quelli di Lysios e Ptolemaios, che hanno smesso di discutere.
“Parla, non avere paura.”
Il soldato raddrizza le spalle, si guarda attorno, poi torna a puntare le iridi azzurre nelle sue.
“Tutti abbiamo sentito quello che ha detto Ptolemaios. Il Re è ferito. Il Re tornerà. Ma tu…” Fa una pausa, fissando il volto del suo comandante, “tu, che cosa pensi veramente, Hephaistion? È tutto quello che vogliamo sapere. Tutto quello che ci serve di sapere in questo momento.”
Il silenzio è perfetto. Uomini per loro natura chiassosi e selvaggi sono annichiliti da una paura muta.
Hephaistion vorrebbe gridare che non sa nulla, vorrebbe voltare le spalle e nascondersi nel buio della sua tenda, fino a dimenticarsi di esistere. Ma questo non gli è permesso. L’angoscia per l’ignoto e gli sguardi svuotati, lo stupore muto e il terrore strisciante sono concessi ai soldati, non ai generali.
Non a lui, quantomeno.
Distende la schiena e solleva la testa, ritrovando la postura sicura che i soldati hanno imparato a riconoscere – e a seguire – in battaglia.
“Il Re sta bene,” scandisce, e anche la voce risuona ferma, taglia l’aria notturna come una lama affilata. “Abbiate fiducia in lui. È forte, lo è sempre stato, e lo sarà anche stavolta. Tornerà presto da tutti noi.”
Un brusio leggero sembra spandersi tra i soldati, correre di bocca in bocca come l’onda placida di una risacca. Le sue parole hanno l’effetto di un incantesimo, una formula arcana e segreta con il potere di distendere i volti e guarire i cuori feriti dal dubbio e dalla paura. Occhiate eloquenti corrono da un uomo all’altro, e bisbigli e sussurri, persino lo scoppio improvviso di una risata.
Koinus annuisce, poi si volta verso i compagni e si riunisce a loro, mescolandosi alla folla. Come guidati da un segnale silenzioso, gli uomini cominciano ad allontanarsi alla spicciolata, a disperdersi tra le ombre. Nel mormorio indistinto delle loro voci, a Hephaistion è parso di udire anche il salmodiare sommesso di una preghiera.
Si volta verso Ptolemaios e non si stupisce di leggergli l’incredulità negli occhi, oltre a un sollievo troppo grande per essere espresso a parole. Non dice nulla, si limita ad annuire, poi gli volta le spalle ed entra nella tenda, seguito dall’amico e da suo fratello.
I pochi attendenti e i segretari presenti all’interno si discostano per farli passare, poi, a un cenno di Ptolemaios, escono in silenzio, lasciandoli soli.
Hephaistion si lascia cadere sulla sedia davanti al suo tavolo e alza la testa al soffitto; la tenda è in penombra, rischiarata solo dal fuoco di un paio di bracieri lasciati accessi. La candela sulla scrivania illumina la pergamena che giace aperta, spiegazzata dalla foga delle troppe riletture. Chiude gli occhi, non sopportandone la vista; quel maledetto dispaccio dice tutto e niente: è vivo, ma non ancora cosciente. Troppo poco per la sua sanità.
Troppo poco per continuare a respirare.
Lysios e Ptolemaios sono rimasti in piedi, muti e a disagio; può sentirli a occhi chiusi mentre lo osservano, le borchie di bronzo che tintinnano nei movimenti impercettibili, le troppe domande che avvelenano anche loro, e a cui non può dare risposta.
Viene riscosso da una voce concitata fuori dalla tenda, un latrare rabbioso che riconoscerebbe anche nello schianto della battaglia. Apre gli occhi in tempo per vedere Krateros irrompere all’interno, seguito da Nearkhos e da un altro paio dei loro uomini più fidati.
“L’accampamento è allo sbando, rischiamo una rivolta!” abbaia Krateros, senza dar tempo a nessuno di rivolgergli un saluto, ”e voi tre cosa fate? Vi rintanate qui come volpi spaventate?”
Ptolemaios gli rivolge uno sguardo che è come una sferzata. “Grazie per essercelo venuto a dire, Krateros. Ci era sfuggito questo particolare.”
Krateros ringhia qualcosa a bassa voce, poi fissa Hephaistion, che è rimasto in silenzio. Si avvicina al tavolo e prende in mano il dispaccio, facendoci correre sopra lo sguardo.
“Maledetto Perdikkas,” inveisce, stringendo la lettera nel pugno, “cosa aspetta a mandare altre notizie? Lo farei a pezzi, se ce l’avessi davanti.”
“Forse non ci sono nuove da inviare, ci hai pensato?” risponde Lysios, “le sue condizioni sono gravi ma stabili, l’hai letto anche tu. Avremo un nuovo dispaccio non appena…”
“Te lo dico io cosa avremo!” urla Krateros, facendolo sobbalzare, “Aleksandros è morto, e quegli idioti non sanno come dircelo. Ecco qual è la verità!” Sbatte la lettera sul tavolo, nel silenzio generale; l’unico rumore, i suoi respiri pesanti e lo scoppiettio del fuoco nei tripodi.
“Dobbiamo mandare un altro dispaccio,” continua, la voce più bassa, “ad Antipatros. Se Aleksandros è morto, la reggenza deve averne notizia quanto prima.”
“È tutto quello a cui sai pensare adesso?” Hephaistion alza la testa, la voce arrochita dopo il lungo silenzio. Ma il tono è fermo. Ha sopportato lo strazio di una lenta agonia negli ultimi quattro giorni, non intende sopportare anche lui. “Il tuo squisito senso pratico ti fa onore, Krateros.”
Krateros inghiotte un respiro, poi scoppia in una risata nervosa, che è come un colpo alle orecchie stanche di Hephaistion.
“Tu non hai motivi per preoccuparti, vero?” lo incalza, guardando in basso verso di lui, “fossi in te comincerei a farlo, invece di ritirarti qua a guaire come un cane senza il padrone. Come farai quando lui non sarà più qua a proteggerti?” Un altro scoppio di risa cattive. “Non hai paura di rimanere senza il tuo potere, philaleksadros?”
Hephaistion si alza di scatto, rovesciando la sedia. Si sente salire in gola tutta l’esasperazione covata per giorni, lasciata a sobbollire nell’attesa e nell’impotenza. Ora vuole solo sputarla fuori in un grumo di veleno mortale, e questo maledetto gliene sta dando l’opportunità. Oh, sì.
Per un attimo potrebbe persino amarlo.
“Se Aleksandros muore, sei tu quello a perdere tutto,” sibila, facendo un passo verso di lui. “Sei tu l’amico del Re, non io, come mi hai ben ricordato.” Gli si pianta davanti, le vene che si gonfiano nelle mani strette a pugno. “Pensaci bene, Krateros. Pensa bene a quel che dici, prima di riaprire quella latrina che hai per bocca.”
Krateros si lascia di nuovo andare a una risata pesante, scheggiata di rabbia. Anche lui fa un passo avanti, il petto che ora quasi sfiora il suo. “Finalmente una reazione dall’altero Hephaistion, il prode Hephaistion, sempre così controllato e sicuro di ogni cosa. Fai vedere chi sei veramente una volta per tutte, figlio d’una troia ateniese!”
Ptolemaios si slancia verso di loro, intercettando lo sguardo omicida negli occhi di Hephaistion, ma è troppo tardi. Hephaistion l’ha già afferrato per il collo della tunica e sbattuto contro il tavolo, un boato rabbioso che gli sale dal petto.
“Stavolta ti ammazzo davvero,” ringhia, e sa di essere pronto a farlo, “un’altra parola e ti cavo gli occhi con le mie mani.”
È solo un attimo: in un urlo di rabbia, Krateros lo afferra per le braccia e lo spinge via, avventandosi contro di lui con le mani ad artiglio. Lo colpisce alla mandibola, torcendogliela con uno schiocco sinistro; Hephaistion grugnisce qualcosa, il sangue che gli ribolle in bocca, ma in un istante è di nuovo su di lui, agile e pronto, a sferrargli pugni nel ventre con tutta la forza che ha in corpo.
Krateros sbatte contro il tavolo e finisce a terra, rovinando come un cinghiale abbattuto – ed Hephaistion è subito su di lui, le mani strette al collo, mentre l’altro si dibatte furioso, gli occhi iniettati di sangue, la voce un rantolo rabbioso.
È vagamente consapevole delle urla di Ptolemaios e delle invocazioni di Lysios, le orecchie sono piene solo del rombo del sangue e del gorgoglio di Krateros sotto le sue dita.
Si sente afferrare da sotto le braccia e spingere indietro con violenza, la voce di Lysios che grida qualcosa – “Phai!” e per un attimo ha l’istinto di voltarsi e prendere a pugni anche lui.
Ptolemaios si è inginocchiato accanto a Krateros, e lo sta aiutando a rialzarsi. Quest’ultimo tossisce e sputa sangue mentre si rimette in piedi, sorreggendosi al compagno.
Hephaistion continua a dibattersi per liberarsi, grida e impreca – la nube opprimente di rabbia che non accenna a sciogliersi: è ansioso di gettarsi in quella tempesta fino a rendersi incosciente – fino a dimenticare tutto.
“Basta così!” L’urlo acuto di Ptolemaios lo riscuote da quella furia cieca con la violenza di uno schiaffo. “Vi sembra questa la circostanza di mettervi a fare a pugni come due ragazzine isteriche? Cosa direbbe Aleksandros se vi vedesse ora?”
Hephaistion sussulta a quel nome – l’unica parola in grado di riportarlo in sé, come un richiamo dei vivi nel regno dei morti – e sente le energie scivolargli via, le gambe farsi molli. È grato a suo fratello per sorreggerlo, l’unica cosa che gli impedisce di finire a terra in un cumulo pietoso, ma un attimo dopo ritrova la forza e raddrizza la schiena, avvertendo la stretta di Lysios farsi più leggera.
“Puoi lasciarmi,” dice, voltando appena la testa. Poi, rivolto a Ptolemaios: “Sono calmo ora.”
Ptolemaios tiene a sua volta una mano stretta attorno al polso di Krateros, che è rimasto immobile ad ansimare, i segni sul collo che stanno già diventando violacei. Anche lui, però, sembra aver ritrovato il controllo, nonostante l’odio che gli appanna gli occhi.
Quello, però, c’è sempre stato.
Hephaistion si stacca dal fratello e si passa una mano tra i capelli, tentando di ritrovare un contegno. “Mi dispiace,” ammette, scoccando un’occhiata a Krateros, “ho perso la testa. Non avrei dovuto.”
“È il nervosismo. Ma dobbiamo rimanere uniti in questo momento.” La voce di Ptolemaios è placida e monocorde, come parlasse a un bambino. “Soprattutto in questo momento.”
Nessuno ritiene prudente aggiungere altro. Ptolemaios e Krateros si scambiano uno sguardo, poi quest’ultimo si avvia borbottando verso l’uscita, la mano poggiata sul collo, seguito a breve distanza da Nearkhos e dai suoi uomini.
Anche Ptolemaios gli va dietro, non prima di aver rivolto un ultimo sguardo a Hephaistion. “Vedi di riposare un po’. Ci riaggiorneremo domattina all’alba.” Poi, senza aggiungere altro, esce anche lui.
Hephaistion sospira – un suono strozzato, più simile a un lamento. Si tocca la mandibola dolorante e inghiotte una sorsata di sangue. I denti sono ancora tutti lì, ma quel bastardo gli ha quasi disarticolato la bocca. Sputa a terra una boccata di saliva rossa e poi si siede su uno dei divani, prendendosi la testa tra le mani. Le tempie pulsano così tanto da stordirlo.
Si sente addosso gli occhi di Lysios, che dopo un attimo va a sedersi sul divano davanti al suo, uno sbuffo stanco mentre si lascia cadere sui cuscini.
“Non è da te,” esordisce dopo un po’, il tono guardingo, “perdere così la calma, voglio dire.”
Hephaistion sospira di nuovo. Alza la testa, lo sguardo che brucia. Sta per dirgli di andarsene e lasciarlo in pace una buona volta, ma poi ci ripensa. Suo fratello lo sta guardando con quegli occhi che ormai conosce bene, occhi davanti ai quali ogni stilla di severità cade miseramente.
E, assieme a quella, crolla ogni difesa, col fragore di una montagna che si polverizza.
“È davvero così che mi vedono tutti?” domanda d’impulso, senza pensare, “come un approfittatore? È questo che ho ottenuto, dopo una vita d’impegno?” Ricaccia indietro un singhiozzo. “Davvero pensate che io stia sfruttando Aleksandros per il mio interesse?”
La sua voce è quasi un grido. Lui stesso stenta a riconoscersi. Le parole gli bruciano nella gola; forse, semplicemente, era da troppo tempo che continuava a inghiottirle.
Lysios scuote il capo, lentamente. Si alza a prendere una pezzuola da uno dei bacili, la intinge nell’acqua e poi gliela porge.
“Nessuno ti vede così, a parte Krateros, s’intende,” dice, toccandogli la spalla. Torna a sedersi, mentre Hephaistion si passa la pezza bagnata sulla bocca, imbrattandola di sangue.
“Sei sempre il solito, Phai, non cambierai mai,” continua Lysios, allungandosi all’indietro sui cuscini, “sempre a prenderti la responsabilità di ogni cosa. Ti sentiresti responsabile anche di un foruncolo sul culo di Erakles.” Fa un pausa, fissandolo negli occhi. “La verità è che Aleksandros è rimasto in piedi solo grazie a te. Gli hai dedicato la tua vita. Per questo sei l’unico a cui i soldati danno ascolto.” Una smorfia dolorosa a queste parole. “Per questo sei l’unico che ha il diritto di dirci qualcosa.”
Hephaistion sente un gemito sfuggirgli dalle labbra, il muggito di una bestia ferita. L’angoscia, il terrore, la preoccupazione insopportabile – tutto questo lo riassale con la violenza di un fiume che rompe gli argini. Deve appoggiare i gomiti alle ginocchia per non cadere. Vorrebbe solo raggomitolarsi in un angolo e morire, ma sa che non può farlo. Che non deve farlo.
“Pensi che sia vivo?” dice finalmente, pronunciando le parole che ha tenuto seppellite per giorni come un segreto sacrilego.
“Lysios sospira. “E tu?”
“Sì.”
“Allora è vivo.”
La voce di suo fratello è piena di sollievo. Di convinzione. Vorrebbe poter condividere la stessa sicurezza, ma la verità è che adesso ha solo se stesso a cui potersi affidare. La luce abbagliante che ha guidato la sua esistenza è lontana, affievolita. Un bagliore nel buio. Spera solo che non si sia ancora spenta del tutto.
Appoggia la schiena al divano e si porta una mano agli occhi. La bocca pulsa e fa male, le labbra si stanno già gonfiando. Le sfiora appena, sentendole calde.
“Te lo ricordi quell’antico affresco in una delle sale del palazzo, a Pella?” domanda, dopo un po’.
Lysios sembra colto di sorpresa. “Quello che raffigurava Prometheos?”
Hephaistion annuisce. “Era terribile. Prometheos incatenato alla roccia, le viscere sparse sugli scogli.” Preme le dita sulle labbra, strappandosi un gemito. “E l’aquila che le beccava vorace, in quel suo pasto osceno.”
“Era tremendo, sì. Ma perché ci pensi adesso?”
“Prometheos fu punito per la sua ambizione,” risponde Hephaistion, ricordando l’orrore che aveva provato di fronte a quel dipinto. Aleksandros, invece, ne era affascinato. “A volte mi chiedo se non ci siamo spinti troppo il là,” sospira, “se lui non sia andato troppo oltre. Se tutta questa hubris non abbia attirato l’ira degli Dei, e ora ne stia pagando il prezzo.” Guarda il fratello, che è rimasto in silenzio. “Forse, avrei dovuto fermarlo quando ero ancora in tempo.”
“Sai che non era ciò che voleva.”
Hephaistion annuisce. “Lo so.” Ma sa anche quanto possa essere alto il prezzo di una tale sfida. Quanto può essere costato a lui.
Si passa una mano sul volto; per un attimo l’anello che indossa all’anulare brilla nella penombra. Lysios pare notarlo e gli rivolge un sorriso.
“Lo porti ancora?”
Hephaistion si irrigidisce mentre volta la mano a guardare il rubino incastonato nell’oro: un sole rosso in rilievo sfolgora sulla pietra, incandescente come la luce che c’era il giorno in cui l’ha trovato.
Lo ricorda bene.
“Già. È sempre al mio dito, come una maledizione.”
“Non avevi detto di avere fatto un voto?”
Hephaistion non risponde. Chiude gli occhi e ritorna a un giorno lontano nella memoria – così lontano che a volte ha temuto fosse solo un sogno, portato dagli Dei per ingannarlo e fargli credere in false e crudeli speranze.
Era solo un bambino, ed era stato scelto assieme ad altri ragazzi ateniesi per portare le corone di alloro ai vincitori dei giochi, nello stadio di Delphi.
Era la prima volta che si allontanava dalla città e sua madre l’aveva accompagnato. Ricorda bene l’eccitazione, la gioia nell’avvistare la città sacra ad Apollo, mentre il carro si apprestava alle mura e il tempio del Dio aveva sfolgorato del bianco dei marmi, nella luce abbacinante del mattino.
Aveva pensato a quel tempio – la casa del sole – la cella sacra che custodiva l’omphalos, l’ombelico del mondo intero – e si era sentito commuovere, mentre il carro entrava in città e attraversava le strade piene di gente festante e di mercanti chiassosi, di bestie e viaggiatori arrivati da ogni parte a celebrare Apollo.
La sera era rimasto seduto su uno dei colli antistanti il tempio, a osservare il sole che si allungava all’orizzonte in una striatura sanguigna, mentre i colonnati si coloravano di rosa e lo stadio veniva preparato per i giochi. Per un attimo, aveva udito una voce possente dentro di sé, un richiamo dolce e imperioso a cui non aveva potuto sottrarsi. Si era sentito benedetto dalla mano del Dio, e aveva pianto, ringraziandolo per tanta, immeritata benevolenza.
Il giorno dopo, sua madre aveva trovato un anello su uno dei banchi del mercato, un piccolo monile d’oro con l’effige del sole, e glielo aveva comprato, dando probabilmente fondo a quel che restava dei suoi pochi averi. L’aveva fatto perché aveva visto il modo in cui lui aveva guardato quel gioiello – era un segno di Apollo, un richiamo segreto rivolto a lui – e lui soltanto.
L’aveva custodito come la cosa più cara: appeso al collo, quando ancora gli andava largo – e poi al dito, una volta uomo. E quando era arrivato in Macedonia, e aveva visto l’effige solare sugli scudi e sulle insegne di Philippos, aveva capito.
Era da sempre stato destinato ad Aleksandros. Il Dio gli aveva indicato la strada e lui aveva saputo seguirla, senza timore di abbracciare il suo fato.
Aveva giurato che avrebbe consacrato la sua vita ad Apollo, se gli avesse dato la forza di proteggere il suo astro – se avesse protetto Aleksandros. Ma presto si era reso conto che quel giuramento era al di là delle sue forze di mortale.
Aleksandros ha in sé sangue divino, e chi è lui, invece? Un semplice uomo, incapace persino di aiutarlo a esaudire il suo desiderio. Il suo sogno più grande. Ricorda ancora gli occhi di Aleksandros, quando – davanti all’ultimo limite – ha dovuto voltare le spalle, tornare indietro, sospinto dalla codardia dei soldati, dalla stanchezza dei corpi e la viltà delle anime.
Non ha potuto far niente se non seguirlo di nuovo – come sempre – ma non se l’è mai perdonato.
Quando sognava il fuoco, e si svegliava gridando, lui che faceva se non abbracciarlo e cullarlo, per farlo calmare? Quando le lance e le spade si conficcavano nelle carni del divino figlio di Zeus, cosa mai poteva fare lui, figlio di mortali, per alleviare il suo dolore?
E ora Aleksandros è lontano – forse morto davvero – e ancora è impotente, ancora può solo attendere e sperare che Aleksandros si salvi da solo – come ogni volta.
“È diventato stretto, non riesco più a toglierlo,” risponde finalmente, lasciando ricadere la mano. “E dovrei farlo. Quel voto è stato sciolto molto tempo fa.”
Lysios sospira, poi scuote la testa, lentamente. “Non essere sciocco. Tu l’hai salvato dalla sua pazzia.”
Ed Hephaistion vorrebbe piangere a quelle parole – vorrebbe scagliare via quell’anello che gli brucia al dito – vorrebbe baciarlo e implorare Apollo di avere pietà di lui, dei suoi dubbi di uomo fatto di carne e sangue, della sua viltà.
Vorrebbe chiedergli solo di riportarlo a casa.
Ma tace. Sfiora di nuovo il rubino, piccola pietra fredda del colore del sangue, e ricaccia indietro ogni parola.
“È stato lui a salvare me,” dice, rialzando la testa. “Io l’ho soltanto seguito.”
“E ne sei pentito?”
Una lunga pausa, mentre entrambi si fissano negli occhi. “Mai.”
Con un sospiro, Lysios si alza dal divano e si stiracchia, gemendo piano. “Credo che ora me ne andrò a dormire,” annuncia, avvicinandosi a lui e toccandogli una spalla. “E faresti bene a farlo anche tu. Ptolemaios ha ragione.”
Hephaistion annuisce, mentre stringe la mano del fratello e poi lo guarda avviarsi verso l’ingresso e uscire fuori, nella notte scura.
Si riadagia sui cuscini, la testa che pulsa, la bocca dolorante. Porta una mano alla fronte e la sente calda, essiccata. Non un filo d’aria filtra nella tenda, e il lucernario sul soffitto mostra solo uno spicchio di cielo brillante di stelle.
Da qualche parte, fuori, qualcuno sta suonando il flauto. È un suono sommesso, ovattato, che si insinua all’interno, raggiungendolo in flebili volute malinconiche.
La musica cresce, e poi cala – gli ricorda il moto delle maree, quando le osservava dalla cala del Falero e si domandava che cosa davvero facesse respirare il mare. Lo turbava e lo commuoveva al tempo stesso.
Volevi vedere il mare, pensa, la gola chiusa da un groppo di lacrime che non è mai sceso – volevi toccare il limite. E io volevo darti tutto, ma l’unica cosa importante non ho potuto impedire che ti fosse strappata. Avrei dato la vita per farti arrivare al mare, Alekos. Ora la darei soltanto per vederti tornare.
Sente le palpebre farsi pesanti, la notte che invecchia poco a poco, lenita dal fluire della musica e cullata dal sonno.
Ho nostalgia di te. L’ho sempre avuta, anche prima di incontrarti. Come si può volere così tanto qualcosa che ancora non si conosce? Tu lo sai, Alekos? Lo senti questo richiamo?
Hephaistion si lascia andare alla deriva nel suono di una cantilena che arriva da lontano – dai confini reconditi di un sogno mai sognato. E nel rumore calmo delle onde.
Si risveglia con la luce che gratta dietro le palpebre, il corpo indolenzito, le labbra un bozzo di carne gonfia e infiammata. Fa per toccarsele ma viene riscosso dal vociare rumoroso degli uomini all’esterno che gridano e invocano, urla sguaiate che gli si conficcano nelle tempie doloranti.
Si solleva dal divano un attimo prima che Ptolemaios irrompa nella tenda, seguito da Lysios e da Krateros. In mano ha un astuccio di cuoio e lo guarda con la faccia arrossata, gli occhi così sgranati che paiono volergli uscire dalle orbite.
“Che succede?” quasi grida Hephaistion; il torpore del sonno scivola via in un istante.
“È arrivato un nuovo dispaccio,” risponde Ptolemaios, mangiandosi le parole, “è stato consegnato adesso.”
Glielo porge. Hephaistion glielo sfila dalle mani e per un attimo sente tremare le sue. Sa perché Ptolemaios non l’ha ancora aperto, quel dispaccio. È convinto, come tutti, che debba essere lui a leggerne per primo il contenuto.
Qualunque esso sia.
Con gesti lenti, come maneggiasse un groviglio di serpenti, scioglie il laccio che tiene chiuso l’astuccio – poi lo apre, facendosi scivolare la pergamena nel palmo. La spiega, e poi legge.
La rilegge. E poi la legge ancora.
Le gambe gli cedono, ed è costretto a sedersi – la pergamena gli sfugge dalle mani, finendo a terra in uno svolazzo.
“Che gli Dei ti maledicano!” E questo è Krateros. “Ci vuoi dire che c’è scritto, sì o no?”
Hephaistion soffoca un singhiozzo; si porta una mano alla fronte e per un attimo vorrebbe che tutti loro sparissero – che lo lasciassero solo per non dover rialzare il viso e mostrare al mondo quanto sia inerme – quanto sia fragile e vulnerabile in questo momento.
Ma Krateros ha ragione. Non è qualcosa che possa tenere solo per sé, sebbene lo desideri. Sebbene voglia solo piangere, fino a sfinirsi.
Si china a raccogliere la pergamena. Poi, si rimette in piedi e dà l’annuncio, ritrovando la sua voce di sempre.
“Aleksandros è vivo.” La gioia trabocca da lui, al di là del pudore e di ogni contegno. La lascia fluire libera, in un unico fiotto dissanguante. “E sarà qua tra tre giorni.”
Tutto il resto non conta.











  
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