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Autore: serClizia    06/12/2015    6 recensioni
Mental institution!AU in cui l'ospedale è un po' un purgatorio, un po' l'inferno.
Entrambi saranno costretti a fare i conti con i demoni nella propria testa.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Sam Winchester
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione
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8.

There's one life I've ever known
Much I've changed but not outgrown
I'm trying to make a go
Alone
But I can't see without your stare
 When your voice is never there
There's a void hang in the air
At home



Dean tamburellò con le dita sulla scrivania.
Stava meglio senza sedativi, e finalmente lucido si era alzato da quel dannato letto, anche se era riuscito a fare solo tre passi prima di dover collassare sulla sedia per riprendersi (contava comunque come miglioramento). Passare le giornate da solo nella sua stanza era una palla totale, ma almeno non era più legato. Ci era voluto un po’ a convincere Zack a ridurre le dosi, e Dean sospettava che ci fosse lo zampino di Sam. Doveva essere passato durante la sua visita settimanale, e non trovandolo… Cas sicuramente gli aveva detto qualcosa. Dean poteva vedere chiaramente il suo fratellino tirare fuori gli artigli e fare un casino per tutto l’ospedale finché non avesse stanato Zack e si fosse fatto spiegare la situazione. E richiesto di vederlo. E se non poteva vederlo, che almeno gli togliessero le cinghie, perché suo fratello non era un animale.
Quando avesse visto Cas quella sera - ormai era una visita fissa, ogni notte scivolava silenzioso nella sua stanza - glielo avrebbe chiesto. I primi giorni, troppo intontito dai medicinali per stare sveglio più di qualche minuto alla volta, Dean se lo trovava lì quando apriva gli occhi, immobile e rigido su quella seggiolina, lo sguardo un po’ fuori fuoco che ritornava lucido quando si rendeva conto che Dean fosse sveglio. Probabilmente si sentiva anche lui solo, a stare tutto il giorno in quella saletta senza Dean a tenergli compagnia. Ironico, no? Si erano invertiti i ruoli.
I fogli erano sparpagliati a caso per tutta la scrivania, ma Dean sapeva più o meno cosa fossero, in quel modo particolare che hanno le persone disordinate di saper localizzare le cose nel mezzo del casino perché il subconscio, in qualche modo, sa dove trovarle. Prese un po’ di carta straccia dove aveva abbozzato qualche disegno nei momenti di noia - momenti pre-Cas, non aveva più toccato matita da quando si era votato alla crociata di far rinsavire quella testa dura – e qualche schizzo di Sam e Bobby, qualcosa di John (che però non aveva mai finito), qualche riga buttata giù a mo’ di diario personale, un po’ parlando a se stesso e un po’ a Sammy.
Prese un altro foglio bianco, stringendo il tappo della penna tra le dita e facendolo picchiettare sul legno.
Non aveva comunque altro da fare, no? Cas non sarebbe arrivato fino a tarda sera, quando i turni di guardia diventavano meno frequenti (sul serio, era più una prigione che un ospedale), e avrebbe dovuto trovare un modo di ammazzare il tempo, visto che di muoversi intorno alla stanza non c’era verso. Ripensò alla scrivania di Cas, ricolma di lettere. Si ricordava di aver immaginato che fossero dirette alla sua famiglia, a sua madre – pensò di chiedergli anche questo quella sera.
Il tappo sapeva di un qualcosa di ferroso sulla lingua, mentre lo mordicchiava.
Finalmente si decise. Posò la punta sul foglio, e tergiversò scrivendo la data sul margine in alto a destra.
Prese un profondo respiro.
‘Ehi mamma, sono io. Dean.’

**


Cas lo trovò a letto, quella sera. Si era stancato comunque, anche se non aveva fatto altro che scrivere tutto il pomeriggio – dannati sedativi. Alla fine si era accasciato sulle coperte, col cervello talmente sfinito che era stato quasi tentato di chiedere all’infermiera di imboccargli la cena.
Era nel dormiveglia quando sentì la porta richiudersi, e aprì un occhio. Cas era impalato nel suo solito modo, lo sguardo attento su di lui.
“Ehi, Cas.”
Si stropicciò gli occhi e si accomodò con la schiena sui cuscini, mentre Cas continuava a sorvegliarlo, cercando segni di recupero o di cedimento. Che mammina apprensiva. Il pensiero della mamma gli contrasse un po’ lo stomaco, ma lo ributtò giù, dietro tutto gli organi, dove non poteva fare male a nessuno.
“Stai bene?”
“Alla grande. Ho persino fatto una passeggiata fino alla scrivania, oggi.”
Cas si voltò verso il cumulo di fogli, valutando la distanza dal letto al tavolo con un cipiglio e probabilmente chiedendosi come fosse riuscito ad arrivarci, date le sue condizioni zombifiche.
“Ho… ehi, posso chiederti una cosa?”
Cas annuì, confuso dalla domanda - Dean gliene aveva sparate tante senza mai preoccuparsi di chiedere il permesso, prima d’ora – e si sistemò con la sedia di fronte al letto, come d’abitudine.
“Quelle lettere che sono in camera tua…”, Cas si irrigidì appena, “sono per tua madre?”
Un lieve cenno di assenso fu tutta la risposta che l’altro riuscì a dargli.
“Bene. Voglio dire… bene che vuoi rimanere in contatto con lei. Sono sicuro le faccia piacere, e…”
“No, non…”, Cas lo interruppe, e si leccò le labbra dallo sforzo che gli costava parlarne. “Non le ho mai spedite.”
“Perché no?”
“Perché a differenza tua, non sono affatto sicuro che le farebbe piacere.”
“Andiamo, è tua madre…”
L’irritazione scattò fulminea agli occhi di Cas. “Ho ucciso tutti i suoi figli, Dean.”
“Non li hai uccisi tu! E per la miseria, anche tu sei suo figlio.”
Si strinse nelle spalle. “Non più.”
Dean si stropicciò mento e bocca con il palmo, un fastidio enorme allo stomaco per quanto la rassegnazione di Cas lo facesse stare… male. E stava cercando di non ribattere e dirgli quanto tutto quello che aveva detto fosse una stronzata. Ma alla fine chi era lui per giudicare i rapporti familiari? O giudicare qualunque cosa a prescindere? In più, discuterne non sarebbe servito a nessuno dei due.
“Non è… non è qui che volevo arrivare con questa storia. Anche se, credimi, non mi fa piacere sentirti dire che non appartieni alla tua stessa famiglia…”
“Come a me non piace sentirti dire che hai dei demoni nella testa,” tagliò corto Cas.
“Giusto,” Dean azzardò un sorriso che Cas riuscì quasi a contraccambiare – si era un po’ rilassato, almeno.
Era strana quella situazione, Dean avrebbe voluto sentirsi diverso. Dopo quel break down emotivo, il minimo sarebbe stato provare disagio. E c’era certo una specie di imbarazzo di base nell’essere stati visti al proprio punto più basso – o almeno uno dei più bassi – invece di disagio non ne trovava traccia. Forse era per via di tutto quel tempo speso a far riaffiorare Cas, a volerlo proteggere. Forse perché sapeva che Cas non l’aveva guardato e visto debole, ma solo… rotto, come lui. Forse quando si conoscono le crepe degli altri, è più facile non avere vergogna delle proprie.
“Quello che volevo dire è…”, tentò di ricominciare. “Te l’ho chiesto perché… perché oggi ho scritto una lettera anch’io.” Studiò il volto di Cas, che rimase inespressivo, sebbene in ascolto. “A mia madre.”
Qualcosa gli si accese nello sguardo, un guizzo in quel mare di blu. “Davvero.”
Non era nemmeno una domanda, anche se raramente con lui lo erano.
“Davvero,” si costrinse a non stropicciare le coperte per il nervosismo come una ragazzina. Questo era un argomento mai toccato prima, tabù con papà e conseguentemente con Sam. “Se ti può consolare, nemmeno questa verrà spedita.”
Riprovò con un altro sorriso, ma a questo Cas non pareva intenzionato a reciprocare. “Non mi porta nessuna consolazione, Dean.”
Per la prima volta si ritrovò ad abbassare lo sguardo sotto la ferrea rigidità di Cas, anche se con un sorriso a mezza bocca. Una morsa gli stringeva lo stomaco, perché quel tipo di sguardo era proprio quello che nel pomeriggio, in un momento di pausa dalla scrittura, aveva buttato giù in un ritratto che ora giaceva nascosto tra la rete fredda del letto e il materasso.

**

Era stato un paziente modello per giorni – ok, se si escludeva l’aver cercato di andarsene dal letto prima del tempo consigliato dal dottore, ma cazzo se si annoiava – e finalmente lo lasciarono uscire dalla sua stanza per tornare insieme a tutti gli altri residenti. (Già, residenti, come se cambiare il nome li facesse sentire meno prigionieri, là dentro).
Dean si trascinò per il corridoio, le spalle ricurve sotto gli ultimi effetti dei sedativi. Si raddrizzò appena quando un infermiere passò con un carrello pieno di bicchierini e medicine, lanciandogli un sorriso e un mezzo saluto con la mano, per poi incurvarsi di nuovo su se stesso non appena fu di nuovo solo.
Raggiunta la soglia della saletta si affacciò, appoggiandosi allo stipite bianco della porta a vetri. Cas era lì. Al suo solito posto, le mani rigidamente posate sulle cosce, la testa proiettata chissà dove tra le fronde degli alberi del giardino. Dean ebbe un dejà-vu di Cas al suo primo giorno di ricovero. Sembrava ugualmente perso come allora. Ma prima di andare ad annunciargli la buona notizia della sua recente liberazione, c’era un’altra cosa che Dean doveva fare. E non sarebbe stato divertente.
Dean si trascinò via, mettendo tutta la sua risoluzione nella camminata.

“Pronto?”
“Sam.”
“Dean! Oh, grazie al cielo… Sono giorni che cerco di vederti! I dottori non mi permettevano di-”
“Sam, basta con le stronzate.”
“Cosa? Che stronzate?”
Quell’idiota sembrava genuinamente sorpreso. E un po’ ferito, forse.
“Bobby è venuto a trovarmi.”
“Sì… Uh, lo so, la scorsa settimana.”
“Esatto. E indovina cosa mi ha detto?”
Una pausa. Una lunga pausa. “Non lo so, cosa?”
“Tutto, Sammy. Mi ha detto tutto.”
Di nuovo il silenzio. Dean si immaginava troppo bene Sam con una mano tra i capelli, ed era un’immagine che faceva schifo, ma così stavano le cose.
“Come hai potuto non dirmelo!”
“Dean...”
“No, Dean un cazzo. Hai perso tutto, Sam!”
“Non ho perso te.”
“Cosa?”
Oddio, Dean sperava non fosse un altro di quei momenti hippie di Sam. Odiava i momenti hippie di Sam.
“Non posso- senti…”, si schiarì la voce. “Dean, c’è una cosa sola che non posso perdere, e quella cosa sei tu.”
Dean appoggiò la fronte contro la plastica fredda della cabina telefonica dell’ospedale, gli occhi chiusi.
“Sam…”
“No, ascoltami. Lo so che adesso sei incazzato, e lo capisco, ok? Ma non c’era assolutamente nient’altro che potessi fare. Pensi davvero che sarei riuscito a tornare a scuola? A seguire una vita normale, con te là dentro?”
Stavolta era il turno di Dean di fare una pausa. “E Jess?”
“Ci abbiamo provato. A distanza. Non ha funzionato.”
Dean poteva capirlo. Con una stretta di pugni, riuscì anche a capire l’impulso di traferirsi per stargli più vicino. Dannazione, era la stessa cosa che avrebbe fatto anche lui, no?
“Ok, senti. Sto cercando di farmi andare giù tutto, e non è facile, ma ehi, non è niente che non abbia fatto anch’io in passato, più o meno.”
Sam ridacchiò lievemente, sicuramente ricordando anche lui tutte le volte in cui Dean aveva messo Sam in cima alla lista delle sue priorità, dalla morte della mamma fino a quando era partito per Stanford.
Anzi, soprattutto quando era partito per Stanford, visto che Dean lo aveva lasciato andare via e farsi una vita, facendolo scappare dalle assurdità di John.
“Ma non è il modo di vivere, amico.”
“Sto perfettamente bene.”
“Ah, sì? Quand’è stata l’ultima volta che ti sei fatto una doccia?”
“Uh…”
“Esattamente. E il motel…”
“È un modo come un altro di fare soldi…”
“…non puoi vivere in una topaia…”
“…se tu non fossi così occupato a giudicare…”
“Oh, andiamo, Sam, non prendermi per il culo!”
“Winchester!”, l’addetta alla reception fece trasalire Dean, che si impegnò per non prenderla a male parole quando gli fece cenno di abbassare la voce.
“…te ne renderesti conto e mi lasceresti essere un adulto, cosa che, se non te ne fossi accorto, sono già,” stava intanto dicendo Sam.
Dean si voltò per dare la schiena alla receptionist. “Sam, hai 22 anni, non sei un adulto.”
“Finiscila. Sono perfettamente in grado di prendermi cura di me stesso.”
“E allora ricordati di farti la doccia!”
“Me la faccio! Dio, sei peggio di…”
Sam si bloccò bruscamente.
“Peggio di cosa?”
“Dean…”
“Coraggio, voglio sentirti finire quella frase.”
Sam lasciò andare un lungo sospiro. “Lo sai che cosa volevo dire e sai anche che non era veramente quello che intendevo.”
“Non lo so, a me sembrava molto che tu stessi per dire che sono peggio di papà. Il che sarebbe piuttosto fottutamente ironico.”
Sam rimase in silenzio ancora qualche momento, Dean sentì un movimento che associò alle dita che grattano una barba non fatta da giorni. “Lo sai che non è vero.”
“Lo so?”
“Cristo, Dean, se dopo tutti quei mesi là dentro non sei ancora giunto a questa conclusione, magari l’unica cura possibile è prenderti a calci.”
“Mmh. Tough love*. Mi piace.”
Ridacchiarono entrambi come due idioti. Sam aveva ragione, non esisteva nessuna versione del mondo in cui lui fosse uguale a papà. Idiota, sì, incasinato nel cervello, certo, ma quanto John? Mai.
“Dean…”
“Senti, Sam…”
Avevano di nuovo cominciato a parlare contemporaneamente.
“Prima tu,” gli concesse Sam.
“Va bene. Io… sto veramente cercando di guarire, qui, ok? E con Cas e tutto… non è facile, ma ci stiamo lavorando. Ma non posso farlo se tu non sei con me, se vivo col pensiero di te in uno schifo di posto a fare dei lavori di merda.” Dean poteva chiaramente sentire un sorriso di scherno sulle labbra del fratello. “Devi lavorare con me, amico. Se io mi devo fare il culo per stare meglio, devi farlo anche tu, ok?”
La voce di Sam si era addolcita notevolmente quando parlò di nuovo, con l’ombra di un sorriso che vi aleggiava dentro. “Certo, Dean.”
“Bene. E un’altra cosa.”
“Cosa?”
“Devi farmi una promessa solenne. Croci sul cuore e tutto.”
“Certo, qualunque cosa.”
Dean lasciò che salisse ancora un po’ l’anticipazione.
“Fatti una doccia.”
Sam scoppiò a ridere. “Coglione.”
“Stronzo.”

**

Dean stava pensando seriamente di arrivare alle spalle di Cas, afferrarlo e urlare: “Buuh!”, ma non era del tutto certo che l’ex soldato non l’avrebbe ucciso subito dopo con una super mossa militare. Si limitò a sedersi con (immaginaria) fluidità sulla sua solita seggiolina e godersi l’espressione sorpresa di Cas, tutta occhi spalancati e blu.
“Ehi, Cas.”
“Dean. Come hai-“
“Sono stato rilasciando ufficialmente. Per buona condotta.”
Castiel piegò le labbra in un sorriso lieve. “Ne dubito seriamente.”
“Ok, va bene, non per buona condotta. Perché, non sei felice di vedermi qui?”
“Certo che ne sono felice. Avevo solo paura ti fossi…”
“Cosa?”, Dean ridacchiò. “Che mi fossi auto-assolto?”
“Non hai bisogno di assoluzione, Dean.”
Certo che se Cas lo diceva così seriamente, così onestamente, finiva per crederci anche lui.
“Come ti pare. Com’è andata, qui? Ci sono novità? Vedo che Sue sta ancora cercando di decorare le pareti con le sue feci, che cosa carina.”
Castiel non si voltò nemmeno a guardare, rimanendo fisso su di lui (come se lasciassero veramente prendere in mano le proprie feci a qualcuno, andiamo gente!).
“Tu come stai, Dean?”
“Come un fiore,” intrecciò le mani davanti a sé, sul tavolino. “Ho chiamato Sam.”
Castiel annuì, concentratissimo.
“Abbiamo parlato,” Dean scrollò le spalle. “Va tutto bene. Penso che starà bene.”
“Lo penso anch’io.”
La sicurezza nel suo tono fece qualcosa alle viscere di Dean, un annodamento particolare e caldo. E quello sguardo così preso, così – devoto, gli sarebbe venuto da dire – dolce, ma attento, ecco, quello sguardo era uno di quelli che lo lasciavano senza parole, capace solo di fissarlo di rimando, con nessuna precisa indicazione su quale espressione avesse messo su la sua faccia.
Probabilmente fu per quello, per quella quieta osservazione da entrambe le parti – il soldato, rigido sulla sedia con le spalle ricurve, e il guerriero, con le mani sul tavolo e il cuore in gola – che Dean non si rese conto dell’avvicinarsi di un qualcosa di drastico, una di quelle che cambiano il corso di una vita.
Anzi, quando si accorse dell’arrivo dell’altra presenza al loro tavolo, era già troppo fottutamente tardi, e non c'era modo di tornare indietro, o fuggire.
“Dean,” disse John. “Ciao.”
John Winchester.
Suo padre.




Note dell’autrice:
Primo:
TAN TAN TAN TAAAAAAAAAAAAAAAAAAN!!!
Secondo: come sempre, scusate del ritardo. Ho avuto qualche problema di feels, vita privata, e troppa roba da scrivere. Sono stata sveglia finora (4 AM) per concludere questo capitolo, quindi spero possiate chiudere un occhio – soprattutto se trovate degli errori.
Terzo: quel “tough love”* non ha una traduzione italiana decente quindi lo lascio così. Sostanzialmente, è un'espressione che indica quando ti intrometti nella vita di una persona, rivolgendoti a loro in modo rude e a volte anche crudele, ma per il loro bene. Più o meno. Ve l’ho detto che non c’è una traduzione decente, no?
Quarto:
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