Felicity
«Sono
veramente felice che tu sia
riuscito a raggiungerci. Ormai non ci speravo
più...», esclamai al settimo
cielo, allungando una mano per sfiorare una guancia ad un Theo
più sfolgorante
del solito.
Abituata
a vederlo sempre nei panni
dimessi da professore universitario rimasto legato alla moda di quando
dietro
ai banchi ci stava lui stesso, la sua figura fasciata da un elegante
completo
da sera scuro era una piacevole scoperta.
«Donna
di poca fede!», mi riprese
sorridendo e passandomi un braccio attorno ai fianchi per trascinarmi
più
vicina a lui. «A proposito: chi era quel tizio?»
Era
gelosia per caso quella che
percepivo? Mi detti della sciocca da sola; era più probabile
che Victoria's
Secrets mi arruolasse come angelo per una delle sue sfilate di lingerie
rispetto al fatto che Theo fosse possessivo nei miei confronti e si
accorgesse
del fatto che anche altri uomini oltre a lui potessero trovarmi
interessante.
Voltai
il capo ma i miei occhi
trovarono solo il giardino in penombra e il mare solitario come sfondo.
Lui
non c'era più.
Per
un attimo mi mancò il respiro nel
ricordare quello che era successo tra noi. O meglio, quello che sarebbe
successo se il mio caro fidanzato non fosse spuntato dal nulla. Quando
si dice
tempismo perfetto...
Cercai
di scacciare dalla mente
l'immagine di quegli occhi così grandi e così
profondi. Per un attimo mi era
parso che tutto intorno a noi si cristallizzasse, un attimo perfetto,
fermo
immagine. Poi Theo era arrivato ed era come se qualcuno avesse premuto
il tasto
play, mettendo fine al momento di pausa irreale. Le cicale avevano
ripreso a
cantare, il vento a far danzare le fronde degli alberi e la musica a
raggiungerci attutita da dentro casa.
«Solo...solo
un cliente, te ne ho
parlato ricordi? Mr. Carter Wright, l'avvocato che vive dietro casa
mia»,
cercai di spiegargli sapendo già che non aveva la
più pallida idea di chi
stessi parlando dato che, quando
gliene
avevo accennato, durante una chiamata Skype un po' di tempo prima, lui
stava
correggendo dei test. Ti ascolto, ti ascolto, mi
aveva assicurato, la
fronte aggrottata e una pila altissima di scartoffie che assorbivano
interamente la sua attenzione.
«Devo
averlo scordato», liquidò lui
la questione con una scrollata di spalle. «Entriamo, ti va?
Vorrei scambiare
due parole con quell'amico di tuo padre che è stato
recentemente in Amazzonia».
Senza aspettare la mia risposta, si incamminò verso la porta
finestra,
spingendomi gentilmente come incoraggiamento a seguirlo.
Non
appena superai la soglia e
ritornai tra la confusione di persone danzanti, battiti di mano, auguri
entusiasti strillati da ospiti brilli e luci colorate venni
letteralmente
travolta da una figura che mi gettò le braccia al collo,
rischiando di
soffocarmi tanto potente era la sua stretta.
Risposi
all'abbraccio al colmo della
gioia, accarezzando quei capelli neri come la più buia delle
notti.
Cinsi
affettuosamente quel corpicino
così esile che, nella buona e nella cattiva sorte, aveva
sempre rappresentato
un punto cardine della mia vita.
«Ti
prego dimmi che non sparirai
all'improvviso non appena ti accorgerai di non poter sopportare mamma e
i suoi
lamenti continui su calli e ritenzione idrica, ti prego!», la
supplicai
staccandomi da lei in modo da guardarla per bene negli occhi facendo
ricorso al
mio miglior sguardo persuasivo.
«D'accordo
tesoro!», esclamò alzando
le mani in segno di sconfitta e sorridendo. «Se
però ricomincia con la storia
del matrimonio combinato tra me e l'orribile amico dell'ancor
più orribile
cugino Philip giuro che emigro a Cuba!»
Conoscendola
ne sarebbe stata capace
ma a mio parere sottovalutava la determinazione di Madre, capace di
sedurre il
ministro degli affari esteri e chiedere l'estradizione della figliola
dalla
bella isoletta e il suo ritorno scortato alla corte di Sua
Maestà Grace Van
Houten.
«Vedremo
di...ehm...contenerla, per
quanto possibile», la rassicurai, sapendo benissimo quanto
contenere nostra
madre equivalesse a sbattere ripetutamente la testa contro una parete
di
cemento armato sperando di abbatterla.
Zoe,
di nuovo regina dei ghiacci dopo
quel raro slancio di affetto, giunse finalmente ad accorgersi della
presenza di
Theo al mio fianco.
Dire
che tra i due scorreva buon
sangue equivaleva a dichiarare che US e Russia fossero migliori amici,
come la
nostra storia dimostrava ampiamente.
«Oh,
ci sei anche tu. Ancora»,
commentò quasi schifata mia sorella squadrando storta il mio
compagno.
Lui
le rivolse un sorrisetto
compiaciuto, non ritenendo probabilmente degna di risposta la sua
constatazione
al vetriolo.
«Magari
i botanici fossero come le
piante. Tutto un fiore durante la bella stagione e poi morti stecchiti
al primo
gelo invernale. E alla seguente primavera via con una nuova
piantina!»
«Zoe!»,
la ripresi, non pronta ad
assistere ad un ennesimo battibecco tra i due.
Theo,
lo sguardo distratto da
qualcosa o qualcuno, mi disse di non preoccuparmi e si scusò
allontanandosi in
direzione del piccolo gruppo che circondava mio padre e suo fratello.
«Non
dire niente», supplicai mia
sorella vedendo i suoi occhi carichi di rimprovero.
«Piuttosto dimmi come mai
sei arrivata così tardi?»
Squadrai
gli anfibi infangati di Zoe,
le gambe nude e scheletriche come sempre e l'abitino rigorosamente nero
che la
fasciava.
Lei
si accigliò e iniziò ad inveire
contro le compagnie aeree, contro il ministro dei trasporti, contro
Cristoforo
Colombo, contro i dinosauri, il viso sempre più paonazzo
mano a mano che
proseguiva nella sua invettiva.
Un
quarto d'ora di insulti e minacce
di morte e tutto ciò che riuscii a carpire da quello
strampalato discorso alla
Zoe fu che le avevano smarrito il bagaglio e lei si era avventata
furiosa
dall'altra parte del bancone che proteggeva il povero impiegato
aeroportuale
che le aveva comunicato la lieta novella per scuoterlo come se fosse un
alberello di ciliege. Dopodiché, dalle numerose imprecazioni
rivolte alla
polizia e agli addetti di sicurezza, dedussi che doveva essere stata
bloccata
con la forza e multata.
«Oh
la mia figliola montagnola!»
Una
nuvola di una costosa fragranza
al lillà ci informò dell'arrivo della nostra
genitrice. Dagli occhi decisamente
più lucidi del solito e dal tono di voce più
strascicato immaginai che la
composta Grace quella sera avesse passato più tempo con
l'amico champagne di
quanto fosse sua normale abitudine.
Zoe
mi lanciò un'occhiata rassegnata
mentre si chinava a baciare la guancia di Madre. Il loro rapporto era
sempre
stato complicato e conflittuale. Zoe non era esattamente la figlia
raffinata e
tipicamente borghese che si sarebbe aspettata. Non si era mai laureata,
lei al
college si era dedicata a sedute spiritiche e proteste a seno nudo per
protestare contro il sessismo e appoggiare il movimento ucraino delle
FEMEN.
Non aveva mai avuto un ragazzo istruito, cordiale e serio da presentare
a casa,
aveva sempre frequentato scombinati chitarristi fatti da mattina a sera
o
squattrinati artistoidi
che vedevano in
lei la loro musa ispiratrice. Non era andata a vivere in una deliziosa
villetta
con giardino e non aveva adottato un bambino asiatico, mia sorella
viveva in
montagna, in un paesaggio aspro e gelido, da sola, con l'unica
eccezione di
occasionali animali selvatici ospitati per qualche tempo.
Zoe
era una persona solida, difficile
e pericolosa come la dura roccia di cui erano fatte le montagne che lei
tanto
amava. Non perdonava facilmente e tendeva a covare rancori e alimentare
faide
per lungo tempo. Amava la solitudine assoluta, il silenzio
più puro e il cielo
grigio e sconfinato. Leggeva autobiografie di serial killer o di pazzi
che
raccontavano la vita in manicomio, si tagliava i capelli da sola e
sosteneva di
non avere bisogno di niente e di nessuno.
I
suoi libri stazionavano per
settimane e settimane nella classifica dei bestsellers del New
York Times e
Rolling Stones l'aveva definita l'erede di Stephen
King, il re dei libri
dell'orrore. Zoe scriveva sotto pseudonimo, parlava con il suo editore
solo
tramite email e non incontrava mai i suoi lettori né leggeva
mai le recensioni
dei critici. I suoi racconti erano cupi, tormentati e strazianti.
Parlavano di
persone che intraprendevano una ricerca della pace, della
verità, della
conoscenza, destinata puntualmente a fallire, oppressi dal peso di una
vita
violenta, crudele, che non lasciava mai vincere l'essere umano con la
sua
fragilità intrinseca.
«È
passato quasi un anno dall'ultima
volta che sei scesa dal tuo cucuzzolo. Ti trovo pallida e sciupata come
al
solito quindi deduco che stai più che bene...»,
osservò nostra madre senza
distogliere lo sguardo dal viso di quella figlia che amava con tutto il
cuore
ma che non era mai riuscita a comprendere.
Zoe
abbozzò un sorrisetto ironico,
«Esattamente. Dovrai iniziare a preoccuparti quando mi vedrai
abbronzata e
rubiconda».
Cioè
mai. Molto probabilmente si
sarebbe sposata con l'orribile amico dell'ancora più
orribile cugino Philip piuttosto
che prendere il sole su una spiaggia caraibica con temperature
tropicali. E per
il rubiconda era lo stesso; mia sorella faceva parte di
quell'odiosissima
categoria di persone che possono permettersi di mangiare di ogni e in
gran
quantità senza doversi preoccupare della bilancia e del
girovita che lievitava.
Nostra
madre scrutò con occhio
critico l'abbigliamento di mia sorella ma oltre ad un lieve sospiro
tacque e
decise saggiamente di non commentare l'incommentabile. Optò
piuttosto per una
proposta agghiacciante: «Zoe tesoro, stasera c'è
anche quel delizioso ragazzo,
amico di tuo cugino Philip, quello che fa il reverendo in una
parrocchia qui
vicino...»
Lasciò
quella frase carica di
sottintesi incompleta ma sia io che Zoe capimmo benissimo che la
tradizione
consisteva in un ordine perentorio. Ma Grace Van Houten non si sarebbe
mai
sognata di dire Muovi il tuo bel culetto privo di grasso e
cellulite e vai a
sposarti quel reverendo!, perciò si limitava a
consigliarlo in modo molto
elegante e cordiale.
Capivo
gli sforzi di mamma ma Zoe
sposata ad un uomo di chiesa era la barzelletta dell'anno. Quest'ultimo
si
sarebbe ritrovata a cercare di estirpare il suo lato malvagio due
minuti dopo
le nozze, nell'esatto momento in cui Zoe gli avrebbe rivelato che era
una
seguace della Wicca, non era pura ed illibata da ormai molto anni e che
voleva
il divorzio in tre, due, uno...
Mia
sorella esclamò con nonchalance,
«Oh, c'è un angolo bar e io non l'ho ancora
visitato...», prima di dirigersi
proprio lì lasciando a me l'ingrato compito di sorbirmi le
lamentele di
Madre, indignata e
furiosa.
Allungò
una mano e mi sistemò una
ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Felicity tesoro, tu sei
sicura di non
volere il reverendo?»
La
guardai storto e mi sottrassi al
suo tocco ridecchiando incredula. «Da quando sei diventata
così pia e devota da
sognare un genero sacerdote?», la interrogai ironicamente,
«Tu in chiesa ci
andavi solo per ammirare le vetrate di Chagall o gli stucchi
barocchi».
Lei
mi dedicò una smorfietta offesa e
fece quello che le usciva meglio quando era spalle al muro ma non
voleva
ragionare e ammettere di essere in torto: fece un gesto incurante con
la mano
ingioiellata e con voce zuccherina mi disse, «Non dire
sciocchezze, cara».
Finiva
sempre così. Mamma che faceva
la fiancata all'auto di papà e poi, alle urla di lui,
rispondeva: «Non dire
sciocchezze, Monty». E quando lui la portava a vedere la
vernice metallizzata
completamente rovinata sulle portiere dal lato del passeggero lei
sarebbe stata
capace di sostenere che era stato il muro a scontrarsi con lei e non il
contrario pur di non ammettere il suo misfatto.
D'altra
parte mamma adorava dare
l'idea di essere una donna di classe, sempre imperturbabile e sempre
nel
giusto. E una donna di classe non può confessare di essere
un'autista terribile
e che l'ultima volta che aveva partecipato ad una funzione religiosa
era per il
battesimo della minore delle sue figlie.
No,
Grace Van Houten era la regina
dell'élite di Tampa. Organizzava cene di beneficenza,
salotti letterari in cui
discutere di Renoir e Dumas, raccolte di vecchi vestiti e accessori per
i meno
fortunati ed era la presidente della locale associazione per la lotta
al
alcolismo e alla dipendenza da droghe. Avvolta in completi dalle
raffinate
tinte pastello, scarpe abbinate, sorriso cordiale sulle labbra si dava
da fare
senza sosta e la sua immagine di donna generosa, irreprensibile
risplendeva
sempre più.
Ma
le sue amiche del circolo del
bridge non sapevano che mamma aveva difficoltà ad uscire dal
garage di casa
senza scontrarsi con qualcosa, che quando le succedeva di inciampare in
uno
spigolo o scottarsi con una padella rovente imprecava così
forte da poter
essere scambiata per una ragazzaccia di strada cresciuta nei sobborghi
di una
metropoli, che odiava il contatto fisico con gli estranei, ossessionata
dall’igiene com’era, e per lei stringere la mano ad
uno sconosciuto equivaleva
poi a cinque docce decontaminanti e due check-up completi dal suo
medico di
fiducia.
Ogni
volta che conosceva qualche
persona nuova o veniva presentata a Tizio e Caio lei sorrideva, porgeva
la sua
mano ben curata e ricambiava vigorosamente la stretta in modo cordiale
ma
dentro di lei l’immagine dei mille piccoli germi che ballando
si trasferivano
dall’epidermide dell’uomo di fronte a lei alla sua
la tormentava senza sosta.
Io
lo sapevo perché ero cresciuta con
lei e i suoi folli incartamenti di cellophane in ogni stanza di albergo
in cui
avevamo soggiornato. Insisteva sempre per portare le sue lenzuola,
lenzuola che
poi puntualmente donava alla casa per ragazze madri di Tampa,
perché essendo
venute a contatto con un materasso non suo e soprattutto non
sterilizzato lei
non ci avrebbe mai più dormito sonni tranquilli tra di esse.
«Ha
delle mani incredibilmente
pulite», osservò cercando quel
pover’uomo tra la folla.
Mia
madre non metteva al primo posto
tra le caratteristiche dell’uomo perfetto il conto in banca,
l’impiego, l’aspetto
e il carattere. No, lei guardava se le sue unghie fossero accuratamente
limate,
se il colletto della camicia fosse di un bianco più candido
della neve e se
profumava. Sì, Madre annusava le persone. Dopo anni di
matrimonio ci confessò
che all’inizio era incerta se accettare di uscire con mio
padre ma poi lo aveva
annusato e da lì erano successe molte cose…tra
cui Zoe e la sottoscritta.
La
fissai allucinata, «Tu deduci che
sia un buon partito dalla pulizia delle sue mani? Che razza di gente
frequenti
di solito?»
Lei
aprì la bocca per zittirmi con la
sua solita frase ma io la anticipai. «Mamma, hai una macchia
sull’orlo della
manica…»
E
mentre i suoi occhi si riempivano
d’orrore e partivano alla ricerca di quella macchia
impertinente che aveva
osato manifestarsi sulla seta lucida e costosa del suo abito da
cocktail, io ne
approfittai per svignarmela nel minor tempo possibile.
Non
andai lontano perché una mano
afferrò con gentilezza il mio braccio nudo. Voltai il capo e
incontrai un paio
di occhi nocciola che mi fissavano curiosi e leggermente titubanti.
«Lei
è Ms. Felicity Van Houten?»,
chiese con voce incerta.
Destino
crudele, vuoi rivelarmi quale
peccato così grave ho commesso da meritarmi tutta questa tua
cattiveria?
Il
colletto tipico dell’abbigliamento
ecclesiastico non lasciava spazio a dubbi.
Mi
feci di lato, sfuggendo
gentilmente alla presa della sua mano.
Sarà
pur stata molto pulita ma avevo
colto l’occhiata non molto felice che Theo mi stava
rivolgendo dall’altro lato
della sala. Mi domandai per la seconda volta se non fosse davvero
gelosia quella
che lo stava spingendo a scusarsi con il suo interlocutore per
attraversare la
stanza nella mia direzione. Oh, oh!
Mi
voltai rapidamente per negare in
fretta e furia qualsiasi mio legame di parentela con Ms. Felicity Van
Houten e
svignarmela a gambe levate, stranamente preoccupata per il cipiglio
più severo
del solito che turbava il viso normalmente impassibile di quel nuovo
Theo in
avvicinamento.
«Mi
dispiace, deve aver sbagliat-»
«Felicity,
c’è qualche problema qui?».
Perché?
Perché sempre a me?
Theo
mi passò un braccio attorno alle
spalle e rivolse un’occhiata sul minaccioso andante al povero
prete. Quel
duello di sguardi, la cui causa scatenante sfuggiva alla mia
comprensione, durò
per una decina di secondi e giunse al capolinea quando
l’amico del cugino
Philip dichiarò di avermi scambiata per un’altra
persona e si congedò
rapidamente.
«Ti
sembra il modo di trattare un
innocente sacerdote dalle mani pulite?!», apostrofai
infastidita dal suo
comportamento Theo.
Lui
per tutta risposta rafforzò la
stretta sulle mie spalle scoperte e mi zittì con un
perentorio: «Ora stai con
me».
Il
resto della serata fu un calvario.
Theo sembrava essersi eletto a mio fido cane da guardia, Zoe si
scolò tre
bicchieri di whisky prima di eclissarsi senza salutare nessuno con
grande
disappunto di Madre, la quale splendente in un nuovo abito lindo lindo
color
acquamarina si affrettò a raccontare a tutti gli ospiti
delle terribili
emicranie di cui soffriva la sua primogenita e del suo dispiacere
nell’essere
costretta ad abbandonare così improvvisamente il party.
Gli
unici che parevano godersi la
festa erano mio padre, alticcio e in vena di baldorie in compagnia dei
suoi
vecchi compagni di malefatte del college, e Mr. Liam Carter Wright.
Sì,
perché quella faccia di bronzo
aveva l’ardire di bisbigliare all’orecchio della
attempata signora di rosso
vestita, una mano sfacciatamente posata sul suo ginocchio, decisamente
troppo
in alto per essere classificata come carezza amichevole e priva di
secondi
fini, e risate a non finire scaturite da lui che la imboccava con le
olive
presenti nei loro Martini.
Non
avevo nessuna ragione per essere
indispettita da quella scenetta. Tra me e Mr. Mangia-Le-Mie-Olive non
c’era
stato nulla e mai ci sarebbe stato. Io ero fidanzata. Theo era un uomo
solido,
di sani principi, grande lavoratore e molto attento
all’igiene (sì, mamma, le
tare sono spesso ereditarie, grazie). Il Signor
Allungo-Ancora-Un-Po’-La-Mano-E-Arrivo-All’-Ombelico
invece era un uomo dal
carattere insopportabile, prepotente, borioso e con la brutta abitudine
di
allungare le mani sulle cosce delle signore a quanto pareva.
Quella
serata sembrava non finire
mai, come se una strega cattiva avesse fermato il tempo,
cristallizzando le
stelle in cielo, inchiodando la luna alla sua cupola fatta di
oscurità, e
mentre tutto fuori giaceva sotto l’effetto
dell’incantesimo noi eravamo
destinati a sopportare l’eterno tormento di questa festa
senza fine.
L’orologio
a pendolo che svettava
nell’angolo più a ovest del salone grande mi
informò che era ancora troppo
presto per levare le ancore, gettare quelle stupide scarpe torturatrici
nell’armadio, sciacquarmi il viso, infilarmi una vecchia
t-shirt e cedere al
sonno.
«…abbiamo
un campo da hockey, uno da
squash, dei corsi di scrittura creativa. L’offerta formativa
prevede anche…».
Theo stava facendo pubblicità al campus universitario in cui
insegnava
stordendo di chiacchiere una povera coppia che aveva fatto
l’errore di
confessare di avere un figlio in piena crisi pre diploma.
Io
avrei voluto esclamare E chi non lo
è stato?, ma Theo era
partito con una filippica su ‘questi ragazzi di oggi che non
sanno cosa
vogliono dalla vita e si accontentano della via più
facile’. Lui sosteneva di
essere nato con la vocazione all’insegnamento ma io sapevo
benissimo che era
stato costretto a diventare docente per potersi permettere di pagare
l’affitto
e di acquistare quei brutti pantaloni a costine che erano must have del
suo
guardaroba.
Aveva
sognato in grande, come tutti:
laurea, dottorato in Europa, anni di esplorazione e ricerca.
Gli
era andata bene tutto sommato.
Aveva la sua cattedra di botanica, aveva una serra e un piccolo
laboratorio
malmesso a sua disposizione e aveva la passione necessaria per riuscire.
Ma
non riuscivo a concentrarmi sulle
parole del mio fidanzato; i miei occhi erano come calamitati dalla
quella
maledetta mano posata proprio dove lo spacco dell’abito
scarlatto si apriva e
la pelle chiara della coscia faceva capolino.
Era
un maleducato. Quale signore
degno di questo nome si sarebbe mai permesso di toccare a quel modo una
donna
perbene appena conosciuta? In pubblico per di più!
Ricordati
che tu gli hai quasi permesso di infilarti la
lingua in bocca, non fare tanto la santarellina!
Oh
taci, Coscienza, taci!
Si
allungò, il naso tra i suoi
capelli, le labbra a sussurrare e accarezzare il suo lobo adorno di un
orecchino scintillante, una pressione maggiore di quella mano sulla
coscia…e
non ci vidi più.
Mi
scostai da Theo e gli dissi che
sarei andata a prendere qualcosa da bere e lui, così
assorbito dalla
conversazione, non si rese conto chi ci fosse sulla mia traiettoria e
annuì.
Scivolai
tra le coppie che ballavano,
tra bicchieri tintinnanti e risate argentine fino a giungere con curata
nonchalance alle spalle del Signorino
Ho-Trenta-Anni-Suonati-Ma-Adoro-Fare-Il-Ragazzino-Arrapato e mettermi
in
posizione d’attacco.
Afferrai
un bicchiere mezzo pieno
abbandonato sul bancone e mi voltai di scatto facendo in modo di
urtare, in
modo assolutamente casuale e per nulla intenzionale, la spalla di Mr.
Liam e
rovesciare, per sbaglio ovviamente, quel liquido ambrato direttamente
sul
cavallo dei suoi bei pantaloni sartoriali.
Lui
balzò in piedi scostandosi
immediatamente dall’arpia. «Ma che-»
«Oh
no! Mi dispiace, non l’avevo proprio
vista! Sono così sbadata…», esclamai
dando fondo al mio talento attoriale e
fingendomi immensamente dispiaciuta.
Acciuffai
un paio di tovagliolini dal
ripiano lì accanto e mi chinai come se fossi intenzionata ad
aiutarlo ad
asciugarsi proprio lì
per vedere come
avrebbe reagito.
Mi
bloccò il polso con una presa
ferrea e voltandosi verso la sua compare si scusò e si
diresse a passo deciso
verso l’ingresso trascinandomi con sé.
Arrivati
di fronte alla porta
d’ingresso si arrestò bruscamente e si
voltò verso di me, senza accennare a
mollare il mio polso che stava iniziando a sentirsi indolenzito.
«Noi
due dobbiamo fare una bella
chiacchierata. Dov’è il bagno?»
Sollevai
impertinente il mento,
sfidandolo. «Noi due non dobbiamo fare proprio nulla. Al
massimo sei tu quello
che deve cambiarsi i pantaloni dato che si è sbrodolato
proprio come un bamb-»
«Dove
è il bagno?», mi sibilò in viso
furioso.
Indicai
con un cenno la scalinata che
portava al piano superiore, dove stavano le nostre camere e i tre bagni
privati.
Meglio che Madre non captasse la marea di parole cattive che prevedevo
in
arrivo.
Approdati
alla zona notte gli feci
strada fino alle due porte in fondo al corridoio, facendogli segno di
aprire
quella di sinistra.
Una
volta dentro chiuse a chiave e mi
spinse contro la parete di fredde piastrelle a mosaico color celeste.
Anche
l’altro mio polso venne imprigionato dalla sua mano e mi
ritrovai spalle al
muro, braccia inchiodate al muro dalla sua presa ferrea.
«Mmh,
tutto questo fa molto Cinquanta
Sfumature di Grigio…», lo presi in giro
rivolgendogli un sorriso beffardo.
«Ti
piacerebbe. Ma sono che se ti
sculacciassi ora non urleresti certo di piacere», mi rispose
lui con voce
fintamente dolce.
Le
sue iridi erano quasi
fosforescenti e i capelli, prima perfettamente impomatati, apparivano
ora
alquanto scarmigliati. L’idea che fosse stata quella
sottospecie di nonna dagli
ormoni impazziti a spettinarlo e a passare più e
più volte le dita tra quella
chioma così lucida e invitante mi fece vedere rosso. E mi
arrabbiai ancora di
più di fronte alla mi incapacità di restare
impassibile e impermeabile a quella
gelosia scadente e patetica che scorreva nelle mie vene e mi faceva
desiderare
in modo del tutto inopportuno quell’uomo di fronte a me.
«Sono
terrorizzata. Perché non
facciamo una prova?», lo sfidai nonostante mi trovassi senza
dubbio in una
posizione svantaggiata.
«Magari
un’altra volta. La mia stanza
delle torture dista centinaia di kilometri da qui e tu meriti di essere
punita
immediatamente». La stretta sui polsi si allentò
ma solo per permettergli di
sollevarmi le braccia per poi inchiodarle nuovamente sopra alla mia
testa. Il
contatto delle mie spalle nude ora spalmate sulla fredda ceramica mi
fece
rabbrividire, così come il suo viso ancora più
vicino e minaccioso.
«Per
aver interrotto il tuo civettare
con quella che avrebbe potuto essere la tua bisnonna?»
«Per
il tentativo di evitare che mi
portassi a letto una donna che non fossi tu. E ancora di più
per la tua incapacità
di ammetterlo. Il caro Theodore ne è al corrente?»
Nel
sentir nominare il nome del mio
fidanzato mi riscossi e cercai di liberarmi con uno strattone ma il mio
tentativo fallì miseramente.
«Perché
mai dovrei parlargli delle
sciocche fantasie di un mio cliente?», lo interrogai, la voce
carica di
cattiveria.
Improvvisamente
lasciò andare i miei
polsi e le mie braccia ricaddero sui miei fianchi, ma non feci in tempo
a
realizzare di essere stata liberata che mi ritrovai schiacciata tra la
parete e
il petto di Mr. Liam, che aderiva sfacciatamente al mio.
Chinò
il capo e mi soffiò piano sul
collo. Io ero immobile e mi stavo sforzando di non mostrarmi
minimamente
coinvolta. Non mi sarei mai potuta perdonare se avessi ceduto due volte
nella
stessa sera. Soprattutto ora, cosciente della presenza di Theo al piano
di
sotto.
«Forse
perché non sono così sciocche
o forse perché so riconoscere chi
mente…», sussurrò, il suo fiato che
fece
danzare leggera la ciocca di capelli sfuggita alla mia acconciatura
ormai quasi
sciolta. «O forse perché hai il respiro affannoso
e posso sentire il tuo
battito cardiaco senza bisogno di toccarti…». Due
dita calde premettero sulla
mia gola, proprio all’altezza della mia carotide.
Quello
era troppo. Se non ero in grado
di controllare il mio corpo l’unica soluzione possibile
rimaneva quella: la
fuga.
Accadde
tutto in un istante. Scostai
poco aggraziatamente la gonna del mio abito e sollevai
all’improvviso il
ginocchio, cercando di colpire il più forte possibile. Capii
di aver centrato
il bersaglio quando la pressione sul mio petto svanì e Mr.
Liam si piegò in due
da dolore di fronte ai miei occhi.
Mi
staccai rapida dalle piastrelle
fredde avanzai verso di lui. Mi fermai accanto a lui e gli sussurrai
suadente, «Mi
pare che anche lei abbia il respiro un po’ affannoso e il
battito accelerato,
Mr. Liam!». E con un sorriso trionfante mi detti alla fuga
prima che avesse il
tempo di riprendersi.
***
Zoe
si era installata con armi e
bagagli nella mia soffitta da ormai ben due settimane e la primavera
era quasi
pronta a cedere il passo ad un’estate che si preannunciava
rovente sotto tutti
i punti di vista.
Fido
cappello di paglia calato in
testa, vecchi jeans tagliati al ginocchio e t-shirt scolorite avevo
lavorato
sodo per quei quindici giorni nel giardino della casa dei Carter
Wright. Io e
Donovan eravamo riusciti ad estirpare tutte le erbacce e, dopo lunghe
ed
estenuanti lotte, avevamo avuto la meglio su un infido ceppo infestante
della
stessa famiglia
della tradizionale edera
rampicante, che pareva crescere come per magia di notte solo per farci
dispetto. Avevamo deciso di non toccare nessuno degli alberi presenti
con l’unica
eccezione di un meraviglioso faggio, che purtroppo era malato e
destinato a
spegnersi piano. Quasi piansi mentre Donnie tagliava uno a uno quegli
splendidi
rami, una volta così folti e maestosi. Il frutteto sul retro
era stato
danneggiato dalla trascuratezza ma sia io che Judith Carter Wright
eravamo d’accordo
sul fatto di cercare di salvarlo e di potenziarlo.
Ecco,
a proposito di Judith; dallo
sciagurato giorno della festa di compleanno di papà non ero
più fortunatamente
incappata nel maggiore dei fratelli Carter Wright ma ero stata
prontamente
incappata nella sua sorellina, esserino davvero energico ed entusiasta.
Lavorando a Cambridge cercava di dividersi equamente tra i suoi calcoli
astrusi
al M.I.T. e la rinascita del giardino della casa che era stata di suo
nonno e
alla quale sembrava senza dubbio più legata rispetto a suo
fratello. Judy era
senza dubbio un genio dell’informatica ma era di poco aiuto
nei nostri lavori;
trovava tutto bellissimo, straordinario, sensazionale e io e Donnie non
eravamo
ancora riusciti ad estorcerle un commento negativo o una critica sul
nostro
operato.
Zoe
non aveva voluto sentire ragioni
e aveva ignorato di proposito la camera per gli ospiti che le avevo
preparato,
dirigendosi tranquilla verso quella soffitta polverosa e dal basso
soffitto che
usavo come ripostiglio per ogni tipo di cianfrusaglia. Dormiva sul
vecchio divano
in velluto bordeaux che era appartenuto al proprietario precedente,
usava un’usurata
scarpiera rovesciata come scrivania ed era andata in città
per procurarsi una
prolunga di svariati metri di lunghezza in modo da attaccare la spina
nella
camera da lei snobbata e portarsi il portatile nel suo nascondiglio.
Odiava
il sole e il bel tempo e negli
ultimi quindici giorni non si era visto altro, perciò lei si
era rintanata sul
suo cucuzzolo e quando tornavo a casa per una doccia o uno spuntino
sentivo un
costante battere di tasti e una martellante musica heavy metal. Una
volta avevo
osato spingermi fino alla sua tana ma ero fuggita a gambe levate in
seguito
alle sue urla isteriche e i suoi discorsi strillati sulla solitudine
necessaria
a scrivere di un bell’assassinio sanguinolento.
Il
povero gatto Felix che si era
portata appresso quando era arrivato aveva l’aria
più infelice di questo mondo
ma ora, dopo settimane in mia compagnia, appariva come rinato. Non mi
era
difficile immaginare gli stenti a cui poteva essere stato sottoposto
sotto le ‘cure’
di mia sorella. Si dimenticava di nutrire sé stessa
figurarsi di sfamare un’altra
creatura. E poi Zoe, per quanto amante dell’orrido, era
terribilmente schizzinosa
e non ce la vedevo proprio a pulire quotidianamente la vaschetta di
Felix e a
cambiare la sabbietta.
Le
speranze di Donovan di amoreggiare
con mia sorella naufragarono miseramente la prima volta che si
incontrarono, il
che accadde due giorni fa, cioè ben quattordici giorni dopo
l’arrivo di Zoe qui
a Plymouth. Essendo entrambi soli io e il mio braccio destro avevamo
l’abitudine
di cenare insieme tre volte a settimana, quando stanchi e impolverati
staccavamo dal lavoro. Ci facevamo entrambi una doccia per toglierci
sudore e
terra dalla pelle e ci gettavamo famelici sul cibo. Zoe non scendeva
mai per
cena e non ci tenevo assolutamente a ricevere un piatto in testa
perciò mi
limitavo ad aspettare che fosse lei stessa a decidere di scendere per
mangiare,
il che solitamente succedeva verso le due di notte.
Donnie
insisteva con questa storia di
volerla conoscere o almeno vedere una volta ma io sapevo benissimo che
con mia
sorella funzionava il proverbio non
svegliare il can che dorme, nel suo caso scrive.
L’altro ieri eravamo in
veranda e ci stavamo dividendo un barattolo di gelato al caramello
quando un’ombra
comparve alle mie spalle.
«Flick,
hai visto quello stupido
gatto?»
Mi
voltai scioccata e lanciai un’occhiata
all’orologio. Erano le otto di sera, il cielo non era ancora
buio. Da quando i
vampiri escono con la luce?
Ovviamente
il mio compare di merende
si voltò a sua volta, era un’occasione troppo
ghiotta per non essere colta al
volo. Vedere la famigerata sorella di Felicity doveva essere un cruccio
che non
gli permetteva di dormire la notte.
Abituata
alla trasandatezza di mia
sorella per me non era certo una novità vederla in quelle
condizioni ma Donovan
rimase scioccato. Giusto stamattina mi stava dicendo di aver fatto un
incubo
che aveva come protagoniste quelle terribili calze antiscivolo gialle e
arancio
con decorazioni di teste decapitate che indossava quella sera Zoe.
Oltre
alle calze alla moda, probabile
regalo di un lettore zelante e psicotico, il look consisteva in un paio
di
scoloritissimi pantaloni alla zuava color vomito, dagli elastici
smollati e gli
orli sfilacciati, una t-shirt, macchiata di quella che pareva senape,
che recitava
Sono uno psicopatico e quando tu avrai
finito di leggere tutto ciò sarai già morto, gli
occhi arrossati dalle
troppe ore passate di fronte allo schermo del computer, profonde
occhiaie
violacee, un brufoletto sulla punta del naso e per concludere i capelli
più
sudici dell’intero mondo, secondi forse solo a quelli di
Severus Piton.
Effettivamente
era da un tre, quattro
giorni che non trovavo mutande e calzini troppo neri e troppo usurati
persino
per me per poter essere miei sparsi per il bagno al piano di sopra.
«Chi
sei?», aveva domandato Zoe, per
nulla turbata dall’idea che uno sconosciuto, per giunta uomo,
potesse vederla
in quella che non era certo la sua forma più smagliante.
Donnie
impiegò un attimo a
riprendersi da quella visione non proprio celestiale,
«Donovan. Lavoro con
Flick…».
Lei
aveva annuito e poi era sparita
nuovamente nella casa in penombra.
Il
mio amico era leggermente deluso,
probabilmente si aspettava una fascinosa donna tutta curve e charme,
anche se
guardando me avrebbe potuto arrivarci già da sé
che nelle donne Van Houten le
curve scarseggiavano.
Sia
io che Zoe eravamo più spigoli e
angoli che morbide curve burrose e seducenti. Eravamo sempre state
secche e i reggiseni
imbottiti erano fin dall’inizio dei tempi i nostri migliori
alleati.
Donovan
non aveva più accennato a
quell’episodio fino a un paio di ore prima, quella mattina il
sole non si
decideva ad uscire dalle spumose nuvole azzurrognole che punteggiavano
il cielo
e gli uccellini parevano più silenziosi del solito. Avevamo
finito l’aiuola che
decorreva sul lato ovest della casa e avevamo concimato tutto il
giardino in
attesa di seminare.
Ora
il sole
stava calando e tutto il giardino aveva assunto una deliziosa sfumatura
aranciata.
Diressi
il
getto dell'acqua verso il cespuglio di azalee e mi misi a canticchiare
tutta
allegra:
«Le rose sono rosse, le viole sono blu, Liam Carter Wright
è una testa di
cactus e presto lo scoprirai anche tu!»
Passai
al
rododendro che tenevo in un bellissimo vaso di terracotta decorata e
innaffiai
abbondantemente anche lui.
«Miss
Van
Houten, lei è una poetessa sublime»
Mi
voltai
di scatto e mi trovai di fronte in tutto il suo splendore Mr. Testa di
Cactus
meglio conosciuto come Liam Carter Wright. Aveva il sole esattamente
alle
spalle e tutta quella luce pareva incorniciarlo, rendendolo ancora
più
imponente e terribilmente affascinante di quanto già non
fosse normalmente.
Il
caldo
doveva aver fatto breccia persino su di lui e i suoi completi
impeccabili dato
che quella sera era senza cravatta e giacca. I pantaloni erano sempre
impeccabili così come la camicia di una delicata fantasia a
quadrettini di un
tenue azzurro.
Stizzita
constatai nel mio intimo che quella mascella severa sempre contratta in
un
broncio e le sopracciglia perennemente aggrottate di
quell’uomo mi erano
mancate. Così come il suo sarcasmo pungente, le rughette a
lato degli occhi
così profondi da farmi sentire sempre sotto esame o la sua
brutta abitudine di
cogliermi sempre impreparata.
«Lo
so.
Quando ero alle elementari un mio componimento in rima vinse il primo
premio»,
gli risposi tornando ad annaffiare il mio rododendro.
Non
contento di non avere la mia completa attenzione, mi girò
attorno fino a
trovarsi proprio di fronte a me. Ora gli ultimi raggi del
sole splendevano proprio sul suo volto e
si tuffavano nel severo grigio dei suoi occhi rendendolo più
caldo.
«Non
mi
hai più chiamato», asserì neutro,
tornando a darmi del tu e non mostrando la
minima emozione.
Lo
facevo
già con Theodore e mi ero ripromessa di non farlo
più con nessun’altro. Ero
stanca di essere sempre quella destinata a rincorrere le persone,
sempre quella
che scriveva o chiamava per prima, sempre quella che si ricordava di
compleanni, anniversari, ricorrenze, sempre quella presente, attiva,
coinvolta.
Ero stanca di essere parte di relazioni a senso unico.
«Neanche
tu lo hai fatto», ribattei decisa a non mostrarmi debole e a
non cedere per
prima.
Lui
per un
attimo parve a disagio ma subito si ricompose,
«Però hai chiamato Judy».
Annuii.
«Sì,
mi piace Judith», dissi semplicemente chinandomi a posare
l’annaffiatoio vuoto
e a tastare la terra del vaso con le dita.
Sentii
scricchiolare la ghiaia e quando alzai gli occhi incontrai il suo
sguardo, tra
le foglie del rododendro e i suoi boccioli.
«E
io non
ti piaccio?»
Rimasi
ferma in quella posizione a fissarlo per un attimo che parve infinito
prima di
rialzarmi e sancire la fine definitiva di quel giochetto destinato a
non portarci
da nessuna parte. O perlomeno non destinato a portarci dove avrei
voluto io.
«Non
mi
devi piacere, Mr. Liam. Sei stato proprio tu, durante il nostro primo
incontro,
a specificare che avresti preferito mantenere le distanze. Smettiamola
con
questi giri di parole e limitiamoci alle questioni
professionali», risposi
freddamente.
Lui
non si
scompose, si rimise in piedi a sua volta passandosi le mani sui calzoni
immacolati e mi rivolse uno sguardo risoluto. «Bene.
Quell’aiuola che hai fatto…bè
non mi piace. Non la voglio».
Cosa?!
Mi
avvicinai di un passo e gli puntai un dito
contro il petto, la rabbia che iniziava a ribollire e a
offuscare la mia
mente. «Ho lavorato sodo per completare
quell’aiuola. Mi sono punta decine di
volte per piantare quelle rose. Ho passato ore e ore inginocchiata
sotto il
sole. Ho fatto un buon lavoro, so che è così.
Judith la adora e io ne sono
soddisfatta. Quindi mettiamo per un attimo in pausa il proposito appena
espresso e permettimi di dirti una cosa…»
Lui
alzò
gli occhi al cielo ed esclamò,
«Sentiamo…»
«Vaffanculo
Liam Carter Wright», sibilai a denti stretti, prima di
voltarmi e incamminarmi
a grandi passi verso la veranda di casa mia.
Ovviamente
non poteva permettersi che ad avere l’ultima parola fossi io
e decise di
rovinare la mia grandiosa uscita di scena rincorrendomi e afferrandomi
un
polso. Doveva decisamente piacergli fare il prepotente.
«Sei
così
infantile»
«Disse
il
bambino capriccioso…», gli risposi per le rime.
«Ehi!
Lascia
andare Flick!». Una voce familiare giunse da dietro le mie
spalle e Mr. Carter
Wright si affrettò a lasciarmi andare.
Donovan
ci
raggiunse in fretta, i guanti da lavoro ancora infilati, e mi cinse le
spalle
con fare protettivo. «Che sta succedendo qui?»,
domandò fissando di traverso l’uomo
di fronte a lui.
Un
trambusto improvviso interruppe qualsiasi tentativo di giustificazione
da parte
di Liam. «Flick, sei pronta?», strillò
una voce impaziente.
Un
ticchettio
di tacchi sul legno del pavimento della veranda ci annunciò
l’identità della
nuova arrivata. «Cosa state combinando? Siamo già
in ritardo!»
Mi
voltai,
liberandomi dall’abbraccio di Donnie, e rimasi a bocca aperta
di fronte ad una
Zoe sfavillante e completamente restaurata.
I
capelli
neri acconciati in un morbido chignon splendevano, il viso era
leggermente
truccato, le palpebre colorate con un tenue ombretto color vinaccia,
tinta che
richiamava la sfumatura del corto abito dalla gonna in pelle e il
corpetto in
maglia con inserti di pizzo. Smanicato, un profondo scollo sul davanti
e l’orlo
sopra al ginocchio. Rock e raffinato allo stesso tempo.
«Ch-chi
sei tu?», domandò senza parole Donovan, la bocca
aperta dallo stupore.
«Quella
delle calze con ricamate la testa decapitata di Maria Antonietta, Anna
Bolena
& Friends. Ora mi volete spiegare perché non siete
pronti? Venite tutti
quanti?», esclamò scocciata lanciando
un’occhiata al piccolo orologio che
portava appeso al collo con una sottile catenella.
«Zoe,
si
può sapere di cosa stai parlando?», la interrogai
facendomi portavoce anche di
Donovan, ancora sotto shock, e di Liam, leggermente confuso
dall’apparizione di
quella che per lui era una sconosciuta.
Lei
sbuffò, «Te l’ho detto un paio di mesi
fa. I miei lettori hanno organizzato un
super party a tema gotico ispirato al mio ultimo romanzo dato che avevo
comunicato che sarei stata nei pressi di Boston in questo periodo. Mi
scrivono
sempre che sono irraggiungibile, dispersa lassù nel Montana,
e così ne
approfitto per incontrare alcuni di loro durante questo mio breve
ritorno alla
civiltà. Che ne dite di venire tutti? Sì, anche
tu sconosciuto dai pantaloni
così ben stirati da apparire inquietanti. Dicono sempre che
sono un lupo solitario
senza amici, perciò voi verrete e smentirete quelle voci
infondate!».
Nessuno
di
noi si mosse, intenti com’eravamo ad assimilare il senso di
quel suo discorso.
Lei
batté
le mani sempre più spazientita, «Susu! Che state
aspettando? Cambiatevi e
partiamo. Parlo di Flick e del suo amico insudiciato di terra. Tu sei
già
perfetto direi», osservò rivolta a Carter Wright,
il quale la omaggiò di un
sorriso bellissimo, un sorriso che a me non aveva mai rivolto.
Venti
minuti più tardi eravamo tutti pigiati sull’Audi
di Liam, tanto bella quanto
piccola e scomoda per quattro persone. Mi ero infilata al volo un
vestitino
dalle stampe geometriche e un paio di anfibi un po’ consunti
ma comodi.
Zoe
e Mr.
Liam avevano fatto subito amicizia, dopo solo due minuti di conoscenza
mia
sorella si era già rivolta a lui una decina di volte
dandogli della checca
isterica quando si era rifiutato, preoccupato per la sorte
della sua
piccolina, di farle guidare la sua preziosa auto.
Avevamo
imboccato a tutto gas la superstrada diretti verso le luci di Boston,
quando
Zoe si girò ed esclamò, «State
tranquilli! Sembrate così tesi…Ci divertiremo,
vedrete. Solitamente durante serate come queste il clima è
abbastanza calmo e disteso
e la polizia interviene al massimo un paio di volte e chiamiamo il 911
solo
cinque volte e solitamente per cose meno gravi, tipo amputazioni o
perdita di
bulbi oculari…»
A
che
razza di festa ci stava portando quella sciroccata?