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Autore: HannibalLecter    06/12/2015    2 recensioni
Liam Carter Wright è un giovane avvocato esperto in divorzi e furiosi litigi, tipico topo di città la cui unica idea di contatto con la natura comprende un dissetante cocktail servito in una noce di cocco, calda sabbia bianca e donne dalla pelle dorata dal sole.
Felicity Van Houten, testa tra le nuvole e lentiggini, invece lavora quotidianamente immersa nel verde e ogni sera si rifugia nella sua casetta di campagna alquanto malandata, circondata da un vero e proprio paradiso fiorito, che la tiene impegnata a tal punto da farle scordare di fare la spesa o pagare le bollette.
Il sole stava calando e tutto il giardino aveva assunto una deliziosa sfumatura aranciata. Diressi il getto dell'acqua verso il cespuglio di azalee e mi misi a canticchiare tutta allegra:
«Le rose sono rosse
le viole sono blu
Liam Carter Wright è una testa di cactus
e presto lo scoprirai anche tu!»
Passai al rododendro che tenevo in un bellissimo vaso di terracotta decorata e innaffiai abbondantemente anche lui.
«Miss Van Houten, lei è una poetessa sublime»
Mi voltai di scatto e mi trovai di fronte in tutto il suo splendore Mr. Testa di Cactus meglio conosciuto come Liam Carter Wright.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Felicity

 

«Sono veramente felice che tu sia riuscito a raggiungerci. Ormai non ci speravo più...», esclamai al settimo cielo, allungando una mano per sfiorare una guancia ad un Theo più sfolgorante del solito.

Abituata a vederlo sempre nei panni dimessi da professore universitario rimasto legato alla moda di quando dietro ai banchi ci stava lui stesso, la sua figura fasciata da un elegante completo da sera scuro era una piacevole scoperta.

«Donna di poca fede!», mi riprese sorridendo e passandomi un braccio attorno ai fianchi per trascinarmi più vicina a lui. «A proposito: chi era quel tizio?»

Era gelosia per caso quella che percepivo? Mi detti della sciocca da sola; era più probabile che Victoria's Secrets mi arruolasse come angelo per una delle sue sfilate di lingerie rispetto al fatto che Theo fosse possessivo nei miei confronti e si accorgesse del fatto che anche altri uomini oltre a lui potessero trovarmi interessante.

Voltai il capo ma i miei occhi trovarono solo il giardino in penombra e il mare solitario come sfondo.

Lui non c'era più.

Per un attimo mi mancò il respiro nel ricordare quello che era successo tra noi. O meglio, quello che sarebbe successo se il mio caro fidanzato non fosse spuntato dal nulla. Quando si dice tempismo perfetto...

Cercai di scacciare dalla mente l'immagine di quegli occhi così grandi e così profondi. Per un attimo mi era parso che tutto intorno a noi si cristallizzasse, un attimo perfetto, fermo immagine. Poi Theo era arrivato ed era come se qualcuno avesse premuto il tasto play, mettendo fine al momento di pausa irreale. Le cicale avevano ripreso a cantare, il vento a far danzare le fronde degli alberi e la musica a raggiungerci attutita da dentro casa.

«Solo...solo un cliente, te ne ho parlato ricordi? Mr. Carter Wright, l'avvocato che vive dietro casa mia», cercai di spiegargli sapendo già che non aveva la più pallida idea di chi stessi parlando dato che,  quando gliene avevo accennato, durante una chiamata Skype un po' di tempo prima, lui stava correggendo dei test. Ti ascolto, ti ascolto, mi aveva assicurato, la fronte aggrottata e una pila altissima di scartoffie che assorbivano interamente la sua attenzione.

«Devo averlo scordato», liquidò lui la questione con una scrollata di spalle. «Entriamo, ti va? Vorrei scambiare due parole con quell'amico di tuo padre che è stato recentemente in Amazzonia». Senza aspettare la mia risposta, si incamminò verso la porta finestra, spingendomi gentilmente come incoraggiamento a seguirlo.

Non appena superai la soglia e ritornai tra la confusione di persone danzanti, battiti di mano, auguri entusiasti strillati da ospiti brilli e luci colorate venni letteralmente travolta da una figura che mi gettò le braccia al collo, rischiando di soffocarmi tanto potente era la sua stretta.

Risposi all'abbraccio al colmo della gioia, accarezzando quei capelli neri come la più buia delle notti.

Cinsi affettuosamente quel corpicino così esile che, nella buona e nella cattiva sorte, aveva sempre rappresentato un punto cardine della mia vita.

«Ti prego dimmi che non sparirai all'improvviso non appena ti accorgerai di non poter sopportare mamma e i suoi lamenti continui su calli e ritenzione idrica, ti prego!», la supplicai staccandomi da lei in modo da guardarla per bene negli occhi facendo ricorso al mio miglior sguardo persuasivo.

«D'accordo tesoro!», esclamò alzando le mani in segno di sconfitta e sorridendo. «Se però ricomincia con la storia del matrimonio combinato tra me e l'orribile amico dell'ancor più orribile cugino Philip giuro che emigro a Cuba!»

Conoscendola ne sarebbe stata capace ma a mio parere sottovalutava la determinazione di Madre, capace di sedurre il ministro degli affari esteri e chiedere l'estradizione della figliola dalla bella isoletta e il suo ritorno scortato alla corte di Sua Maestà Grace Van Houten.

«Vedremo di...ehm...contenerla, per quanto possibile», la rassicurai, sapendo benissimo quanto contenere nostra madre equivalesse a sbattere ripetutamente la testa contro una parete di cemento armato sperando di abbatterla.

Zoe, di nuovo regina dei ghiacci dopo quel raro slancio di affetto, giunse finalmente ad accorgersi della presenza di Theo al mio fianco.

Dire che tra i due scorreva buon sangue equivaleva a dichiarare che US e Russia fossero migliori amici, come la nostra storia dimostrava ampiamente.

«Oh, ci sei anche tu. Ancora», commentò quasi schifata mia sorella squadrando storta il mio compagno.

Lui le rivolse un sorrisetto compiaciuto, non ritenendo probabilmente degna di risposta la sua constatazione al vetriolo.

«Magari i botanici fossero come le piante. Tutto un fiore durante la bella stagione e poi morti stecchiti al primo gelo invernale. E alla seguente primavera via con una nuova piantina!»

«Zoe!», la ripresi, non pronta ad assistere ad un ennesimo battibecco tra i due.

Theo, lo sguardo distratto da qualcosa o qualcuno, mi disse di non preoccuparmi e si scusò allontanandosi in direzione del piccolo gruppo che circondava mio padre e suo fratello.

«Non dire niente», supplicai mia sorella vedendo i suoi occhi carichi di rimprovero. «Piuttosto dimmi come mai sei arrivata così tardi?»

Squadrai gli anfibi infangati di Zoe, le gambe nude e scheletriche come sempre e l'abitino rigorosamente nero che la fasciava.

Lei si accigliò e iniziò ad inveire contro le compagnie aeree, contro il ministro dei trasporti, contro Cristoforo Colombo, contro i dinosauri, il viso sempre più paonazzo mano a mano che proseguiva nella sua invettiva.

Un quarto d'ora di insulti e minacce di morte e tutto ciò che riuscii a carpire da quello strampalato discorso alla Zoe fu che le avevano smarrito il bagaglio e lei si era avventata furiosa dall'altra parte del bancone che proteggeva il povero impiegato aeroportuale che le aveva comunicato la lieta novella per scuoterlo come se fosse un alberello di ciliege. Dopodiché, dalle numerose imprecazioni rivolte alla polizia e agli addetti di sicurezza, dedussi che doveva essere stata bloccata con la forza e multata.

«Oh la mia figliola montagnola!»

Una nuvola di una costosa fragranza al lillà ci informò dell'arrivo della nostra genitrice. Dagli occhi decisamente più lucidi del solito e dal tono di voce più strascicato immaginai che la composta Grace quella sera avesse passato più tempo con l'amico champagne di quanto fosse sua normale abitudine.

Zoe mi lanciò un'occhiata rassegnata mentre si chinava a baciare la guancia di Madre. Il loro rapporto era sempre stato complicato e conflittuale. Zoe non era esattamente la figlia raffinata e tipicamente borghese che si sarebbe aspettata. Non si era mai laureata, lei al college si era dedicata a sedute spiritiche e proteste a seno nudo per protestare contro il sessismo e appoggiare il movimento ucraino delle FEMEN. Non aveva mai avuto un ragazzo istruito, cordiale e serio da presentare a casa, aveva sempre frequentato scombinati chitarristi fatti da mattina a sera o squattrinati  artistoidi che vedevano in lei la loro musa ispiratrice. Non era andata a vivere in una deliziosa villetta con giardino e non aveva adottato un bambino asiatico, mia sorella viveva in montagna, in un paesaggio aspro e gelido, da sola, con l'unica eccezione di occasionali animali selvatici ospitati per qualche tempo.

Zoe era una persona solida, difficile e pericolosa come la dura roccia di cui erano fatte le montagne che lei tanto amava. Non perdonava facilmente e tendeva a covare rancori e alimentare faide per lungo tempo. Amava la solitudine assoluta, il silenzio più puro e il cielo grigio e sconfinato. Leggeva autobiografie di serial killer o di pazzi che raccontavano la vita in manicomio, si tagliava i capelli da sola e sosteneva di non avere bisogno di niente e di nessuno.

I suoi libri stazionavano per settimane e settimane nella classifica dei bestsellers del New York Times e Rolling Stones l'aveva definita l'erede di Stephen King, il re dei libri dell'orrore. Zoe scriveva sotto pseudonimo, parlava con il suo editore solo tramite email e non incontrava mai i suoi lettori né leggeva mai le recensioni dei critici. I suoi racconti erano cupi, tormentati e strazianti. Parlavano di persone che intraprendevano una ricerca della pace, della verità, della conoscenza, destinata puntualmente a fallire, oppressi dal peso di una vita violenta, crudele, che non lasciava mai vincere l'essere umano con la sua fragilità intrinseca.

«È passato quasi un anno dall'ultima volta che sei scesa dal tuo cucuzzolo. Ti trovo pallida e sciupata come al solito quindi deduco che stai più che bene...», osservò nostra madre senza distogliere lo sguardo dal viso di quella figlia che amava con tutto il cuore ma che non era mai riuscita a comprendere.

Zoe abbozzò un sorrisetto ironico, «Esattamente. Dovrai iniziare a preoccuparti quando mi vedrai abbronzata e rubiconda».

Cioè mai. Molto probabilmente si sarebbe sposata con l'orribile amico dell'ancora più orribile cugino Philip piuttosto che prendere il sole su una spiaggia caraibica con temperature tropicali. E per il rubiconda era lo stesso; mia sorella faceva parte di quell'odiosissima categoria di persone che possono permettersi di mangiare di ogni e in gran quantità senza doversi preoccupare della bilancia e del girovita che lievitava.

Nostra madre scrutò con occhio critico l'abbigliamento di mia sorella ma oltre ad un lieve sospiro tacque e decise saggiamente di non commentare l'incommentabile. Optò piuttosto per una proposta agghiacciante: «Zoe tesoro, stasera c'è anche quel delizioso ragazzo, amico di tuo cugino Philip, quello che fa il reverendo in una parrocchia qui vicino...»

Lasciò quella frase carica di sottintesi incompleta ma sia io che Zoe capimmo benissimo che la tradizione consisteva in un ordine perentorio. Ma Grace Van Houten non si sarebbe mai sognata di dire Muovi il tuo bel culetto privo di grasso e cellulite e vai a sposarti quel reverendo!, perciò si limitava a consigliarlo in modo molto elegante e cordiale.

Capivo gli sforzi di mamma ma Zoe sposata ad un uomo di chiesa era la barzelletta dell'anno. Quest'ultimo si sarebbe ritrovata a cercare di estirpare il suo lato malvagio due minuti dopo le nozze, nell'esatto momento in cui Zoe gli avrebbe rivelato che era una seguace della Wicca, non era pura ed illibata da ormai molto anni e che voleva il divorzio in tre, due, uno...

Mia sorella esclamò con nonchalance, «Oh, c'è un angolo bar e io non l'ho ancora visitato...», prima di dirigersi proprio lì lasciando a me l'ingrato compito di sorbirmi le lamentele di Madre,  indignata e furiosa.

Allungò una mano e mi sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Felicity tesoro, tu sei sicura di non volere il reverendo?»

La guardai storto e mi sottrassi al suo tocco ridecchiando incredula. «Da quando sei diventata così pia e devota da sognare un genero sacerdote?», la interrogai ironicamente, «Tu in chiesa ci andavi solo per ammirare le vetrate di Chagall o gli stucchi barocchi».

Lei mi dedicò una smorfietta offesa e fece quello che le usciva meglio quando era spalle al muro ma non voleva ragionare e ammettere di essere in torto: fece un gesto incurante con la mano ingioiellata e con voce zuccherina mi disse, «Non dire sciocchezze, cara».

Finiva sempre così. Mamma che faceva la fiancata all'auto di papà e poi, alle urla di lui, rispondeva: «Non dire sciocchezze, Monty». E quando lui la portava a vedere la vernice metallizzata completamente rovinata sulle portiere dal lato del passeggero lei sarebbe stata capace di sostenere che era stato il muro a scontrarsi con lei e non il contrario pur di non ammettere il suo misfatto.

D'altra parte mamma adorava dare l'idea di essere una donna di classe, sempre imperturbabile e sempre nel giusto. E una donna di classe non può confessare di essere un'autista terribile e che l'ultima volta che aveva partecipato ad una funzione religiosa era per il battesimo della minore delle sue figlie.

No, Grace Van Houten era la regina dell'élite di Tampa. Organizzava cene di beneficenza, salotti letterari in cui discutere di Renoir e Dumas, raccolte di vecchi vestiti e accessori per i meno fortunati ed era la presidente della locale associazione per la lotta al alcolismo e alla dipendenza da droghe. Avvolta in completi dalle raffinate tinte pastello, scarpe abbinate, sorriso cordiale sulle labbra si dava da fare senza sosta e la sua immagine di donna generosa, irreprensibile risplendeva sempre più.

Ma le sue amiche del circolo del bridge non sapevano che mamma aveva difficoltà ad uscire dal garage di casa senza scontrarsi con qualcosa, che quando le succedeva di inciampare in uno spigolo o scottarsi con una padella rovente imprecava così forte da poter essere scambiata per una ragazzaccia di strada cresciuta nei sobborghi di una metropoli, che odiava il contatto fisico con gli estranei, ossessionata dall’igiene com’era, e per lei stringere la mano ad uno sconosciuto equivaleva poi a cinque docce decontaminanti e due check-up completi dal suo medico di fiducia.

Ogni volta che conosceva qualche persona nuova o veniva presentata a Tizio e Caio lei sorrideva, porgeva la sua mano ben curata e ricambiava vigorosamente la stretta in modo cordiale ma dentro di lei l’immagine dei mille piccoli germi che ballando si trasferivano dall’epidermide dell’uomo di fronte a lei alla sua la tormentava senza sosta.

Io lo sapevo perché ero cresciuta con lei e i suoi folli incartamenti di cellophane in ogni stanza di albergo in cui avevamo soggiornato. Insisteva sempre per portare le sue lenzuola, lenzuola che poi puntualmente donava alla casa per ragazze madri di Tampa, perché essendo venute a contatto con un materasso non suo e soprattutto non sterilizzato lei non ci avrebbe mai più dormito sonni tranquilli tra di esse.

«Ha delle mani incredibilmente pulite», osservò cercando quel pover’uomo tra la folla.

Mia madre non metteva al primo posto tra le caratteristiche dell’uomo perfetto il conto in banca, l’impiego, l’aspetto e il carattere. No, lei guardava se le sue unghie fossero accuratamente limate, se il colletto della camicia fosse di un bianco più candido della neve e se profumava. Sì, Madre annusava le persone. Dopo anni di matrimonio ci confessò che all’inizio era incerta se accettare di uscire con mio padre ma poi lo aveva annusato e da lì erano successe molte cose…tra cui Zoe e la sottoscritta.

La fissai allucinata, «Tu deduci che sia un buon partito dalla pulizia delle sue mani? Che razza di gente frequenti di solito?»

Lei aprì la bocca per zittirmi con la sua solita frase ma io la anticipai. «Mamma, hai una macchia sull’orlo della manica…»

E mentre i suoi occhi si riempivano d’orrore e partivano alla ricerca di quella macchia impertinente che aveva osato manifestarsi sulla seta lucida e costosa del suo abito da cocktail, io ne approfittai per svignarmela nel minor tempo possibile.

Non andai lontano perché una mano afferrò con gentilezza il mio braccio nudo. Voltai il capo e incontrai un paio di occhi nocciola che mi fissavano curiosi e leggermente titubanti.

«Lei è Ms. Felicity Van Houten?», chiese con voce incerta.

Destino crudele, vuoi rivelarmi quale peccato così grave ho commesso da meritarmi tutta questa tua cattiveria?

Il colletto tipico dell’abbigliamento ecclesiastico non lasciava spazio a dubbi.

Mi feci di lato, sfuggendo gentilmente alla presa della sua mano.

Sarà pur stata molto pulita ma avevo colto l’occhiata non molto felice che Theo mi stava rivolgendo dall’altro lato della sala. Mi domandai per la seconda volta se non fosse davvero gelosia quella che lo stava spingendo a scusarsi con il suo interlocutore per attraversare la stanza nella mia direzione. Oh, oh!

Mi voltai rapidamente per negare in fretta e furia qualsiasi mio legame di parentela con Ms. Felicity Van Houten e svignarmela a gambe levate, stranamente preoccupata per il cipiglio più severo del solito che turbava il viso normalmente impassibile di quel nuovo Theo in avvicinamento.

«Mi dispiace, deve aver sbagliat-»

«Felicity, c’è qualche problema qui?».

Perché? Perché sempre a me?

Theo mi passò un braccio attorno alle spalle e rivolse un’occhiata sul minaccioso andante al povero prete. Quel duello di sguardi, la cui causa scatenante sfuggiva alla mia comprensione, durò per una decina di secondi e giunse al capolinea quando l’amico del cugino Philip dichiarò di avermi scambiata per un’altra persona e si congedò rapidamente.

«Ti sembra il modo di trattare un innocente sacerdote dalle mani pulite?!», apostrofai infastidita dal suo comportamento Theo.

Lui per tutta risposta rafforzò la stretta sulle mie spalle scoperte e mi zittì con un perentorio: «Ora stai con me».

Il resto della serata fu un calvario. Theo sembrava essersi eletto a mio fido cane da guardia, Zoe si scolò tre bicchieri di whisky prima di eclissarsi senza salutare nessuno con grande disappunto di Madre, la quale splendente in un nuovo abito lindo lindo color acquamarina si affrettò a raccontare a tutti gli ospiti delle terribili emicranie di cui soffriva la sua primogenita e del suo dispiacere nell’essere costretta ad abbandonare così improvvisamente il party.

Gli unici che parevano godersi la festa erano mio padre, alticcio e in vena di baldorie in compagnia dei suoi vecchi compagni di malefatte del college, e Mr. Liam Carter Wright.

Sì, perché quella faccia di bronzo aveva l’ardire di bisbigliare all’orecchio della attempata signora di rosso vestita, una mano sfacciatamente posata sul suo ginocchio, decisamente troppo in alto per essere classificata come carezza amichevole e priva di secondi fini, e risate a non finire scaturite da lui che la imboccava con le olive presenti nei loro Martini.

Non avevo nessuna ragione per essere indispettita da quella scenetta. Tra me e Mr. Mangia-Le-Mie-Olive non c’era stato nulla e mai ci sarebbe stato. Io ero fidanzata. Theo era un uomo solido, di sani principi, grande lavoratore e molto attento all’igiene (sì, mamma, le tare sono spesso ereditarie, grazie). Il Signor Allungo-Ancora-Un-Po’-La-Mano-E-Arrivo-All’-Ombelico invece era un uomo dal carattere insopportabile, prepotente, borioso e con la brutta abitudine di allungare le mani sulle cosce delle signore a quanto pareva.

Quella serata sembrava non finire mai, come se una strega cattiva avesse fermato il tempo, cristallizzando le stelle in cielo, inchiodando la luna alla sua cupola fatta di oscurità, e mentre tutto fuori giaceva sotto l’effetto dell’incantesimo noi eravamo destinati a sopportare l’eterno tormento di questa festa senza fine.

L’orologio a pendolo che svettava nell’angolo più a ovest del salone grande mi informò che era ancora troppo presto per levare le ancore, gettare quelle stupide scarpe torturatrici nell’armadio, sciacquarmi il viso, infilarmi una vecchia t-shirt e cedere al sonno.

«…abbiamo un campo da hockey, uno da squash, dei corsi di scrittura creativa. L’offerta formativa prevede anche…». Theo stava facendo pubblicità al campus universitario in cui insegnava stordendo di chiacchiere una povera coppia che aveva fatto l’errore di confessare di avere un figlio in piena crisi pre diploma.

Io avrei voluto esclamare E chi non lo è stato?, ma Theo era partito con una filippica su ‘questi ragazzi di oggi che non sanno cosa vogliono dalla vita e si accontentano della via più facile’. Lui sosteneva di essere nato con la vocazione all’insegnamento ma io sapevo benissimo che era stato costretto a diventare docente per potersi permettere di pagare l’affitto e di acquistare quei brutti pantaloni a costine che erano must have del suo guardaroba.

Aveva sognato in grande, come tutti: laurea, dottorato in Europa, anni di esplorazione e ricerca.

Gli era andata bene tutto sommato. Aveva la sua cattedra di botanica, aveva una serra e un piccolo laboratorio malmesso a sua disposizione e aveva la passione necessaria per riuscire.

Ma non riuscivo a concentrarmi sulle parole del mio fidanzato; i miei occhi erano come calamitati dalla quella maledetta mano posata proprio dove lo spacco dell’abito scarlatto si apriva e la pelle chiara della coscia faceva capolino.

Era un maleducato. Quale signore degno di questo nome si sarebbe mai permesso di toccare a quel modo una donna perbene appena conosciuta? In pubblico per di più!

Ricordati che tu gli hai quasi permesso di infilarti la lingua in bocca, non fare tanto la santarellina!

Oh taci, Coscienza, taci!

Si allungò, il naso tra i suoi capelli, le labbra a sussurrare e accarezzare il suo lobo adorno di un orecchino scintillante, una pressione maggiore di quella mano sulla coscia…e non ci vidi più.

Mi scostai da Theo e gli dissi che sarei andata a prendere qualcosa da bere e lui, così assorbito dalla conversazione, non si rese conto chi ci fosse sulla mia traiettoria e annuì.

Scivolai tra le coppie che ballavano, tra bicchieri tintinnanti e risate argentine fino a giungere con curata nonchalance alle spalle del Signorino Ho-Trenta-Anni-Suonati-Ma-Adoro-Fare-Il-Ragazzino-Arrapato e mettermi in posizione d’attacco.

Afferrai un bicchiere mezzo pieno abbandonato sul bancone e mi voltai di scatto facendo in modo di urtare, in modo assolutamente casuale e per nulla intenzionale, la spalla di Mr. Liam e rovesciare, per sbaglio ovviamente, quel liquido ambrato direttamente sul cavallo dei suoi bei pantaloni sartoriali.

Lui balzò in piedi scostandosi immediatamente dall’arpia. «Ma che-»

«Oh no! Mi dispiace, non l’avevo proprio vista! Sono così sbadata…», esclamai dando fondo al mio talento attoriale e fingendomi immensamente dispiaciuta.

Acciuffai un paio di tovagliolini dal ripiano lì accanto e mi chinai come se fossi intenzionata ad aiutarlo ad asciugarsi proprio per vedere come avrebbe reagito.

Mi bloccò il polso con una presa ferrea e voltandosi verso la sua compare si scusò e si diresse a passo deciso verso l’ingresso trascinandomi con sé.

Arrivati di fronte alla porta d’ingresso si arrestò bruscamente e si voltò verso di me, senza accennare a mollare il mio polso che stava iniziando a sentirsi indolenzito.

«Noi due dobbiamo fare una bella chiacchierata. Dov’è il bagno?»

Sollevai impertinente il mento, sfidandolo. «Noi due non dobbiamo fare proprio nulla. Al massimo sei tu quello che deve cambiarsi i pantaloni dato che si è sbrodolato proprio come un bamb-»

«Dove è il bagno?», mi sibilò in viso furioso.

Indicai con un cenno la scalinata che portava al piano superiore, dove stavano le nostre camere e i tre bagni privati. Meglio che Madre non captasse la marea di parole cattive che prevedevo in arrivo.

Approdati alla zona notte gli feci strada fino alle due porte in fondo al corridoio, facendogli segno di aprire quella di sinistra.

Una volta dentro chiuse a chiave e mi spinse contro la parete di fredde piastrelle a mosaico color celeste. Anche l’altro mio polso venne imprigionato dalla sua mano e mi ritrovai spalle al muro, braccia inchiodate al muro dalla sua presa ferrea.

«Mmh, tutto questo fa molto Cinquanta Sfumature di Grigio…», lo presi in giro rivolgendogli un sorriso beffardo.

«Ti piacerebbe. Ma sono che se ti sculacciassi ora non urleresti certo di piacere», mi rispose lui con voce fintamente dolce.

Le sue iridi erano quasi fosforescenti e i capelli, prima perfettamente impomatati, apparivano ora alquanto scarmigliati. L’idea che fosse stata quella sottospecie di nonna dagli ormoni impazziti a spettinarlo e a passare più e più volte le dita tra quella chioma così lucida e invitante mi fece vedere rosso. E mi arrabbiai ancora di più di fronte alla mi incapacità di restare impassibile e impermeabile a quella gelosia scadente e patetica che scorreva nelle mie vene e mi faceva desiderare in modo del tutto inopportuno quell’uomo di fronte a me.

«Sono terrorizzata. Perché non facciamo una prova?», lo sfidai nonostante mi trovassi senza dubbio in una posizione svantaggiata.

«Magari un’altra volta. La mia stanza delle torture dista centinaia di kilometri da qui e tu meriti di essere punita immediatamente». La stretta sui polsi si allentò ma solo per permettergli di sollevarmi le braccia per poi inchiodarle nuovamente sopra alla mia testa. Il contatto delle mie spalle nude ora spalmate sulla fredda ceramica mi fece rabbrividire, così come il suo viso ancora più vicino e minaccioso.

«Per aver interrotto il tuo civettare con quella che avrebbe potuto essere la tua bisnonna?»

«Per il tentativo di evitare che mi portassi a letto una donna che non fossi tu. E ancora di più per la tua incapacità di ammetterlo. Il caro Theodore ne è al corrente?»

Nel sentir nominare il nome del mio fidanzato mi riscossi e cercai di liberarmi con uno strattone ma il mio tentativo fallì miseramente.

«Perché mai dovrei parlargli delle sciocche fantasie di un mio cliente?», lo interrogai, la voce carica di cattiveria.

Improvvisamente lasciò andare i miei polsi e le mie braccia ricaddero sui miei fianchi, ma non feci in tempo a realizzare di essere stata liberata che mi ritrovai schiacciata tra la parete e il petto di Mr. Liam, che aderiva sfacciatamente al mio.

Chinò il capo e mi soffiò piano sul collo. Io ero immobile e mi stavo sforzando di non mostrarmi minimamente coinvolta. Non mi sarei mai potuta perdonare se avessi ceduto due volte nella stessa sera. Soprattutto ora, cosciente della presenza di Theo al piano di sotto.

«Forse perché non sono così sciocche o forse perché so riconoscere chi mente…», sussurrò, il suo fiato che fece danzare leggera la ciocca di capelli sfuggita alla mia acconciatura ormai quasi sciolta. «O forse perché hai il respiro affannoso e posso sentire il tuo battito cardiaco senza bisogno di toccarti…». Due dita calde premettero sulla mia gola, proprio all’altezza della mia carotide.

Quello era troppo. Se non ero in grado di controllare il mio corpo l’unica soluzione possibile rimaneva quella: la fuga.

Accadde tutto in un istante. Scostai poco aggraziatamente la gonna del mio abito e sollevai all’improvviso il ginocchio, cercando di colpire il più forte possibile. Capii di aver centrato il bersaglio quando la pressione sul mio petto svanì e Mr. Liam si piegò in due da dolore di fronte ai miei occhi.

Mi staccai rapida dalle piastrelle fredde avanzai verso di lui. Mi fermai accanto a lui e gli sussurrai suadente, «Mi pare che anche lei abbia il respiro un po’ affannoso e il battito accelerato, Mr. Liam!». E con un sorriso trionfante mi detti alla fuga prima che avesse il tempo di riprendersi.

 

***

 

Zoe si era installata con armi e bagagli nella mia soffitta da ormai ben due settimane e la primavera era quasi pronta a cedere il passo ad un’estate che si preannunciava rovente sotto tutti i punti di vista.

Fido cappello di paglia calato in testa, vecchi jeans tagliati al ginocchio e t-shirt scolorite avevo lavorato sodo per quei quindici giorni nel giardino della casa dei Carter Wright. Io e Donovan eravamo riusciti ad estirpare tutte le erbacce e, dopo lunghe ed estenuanti lotte, avevamo avuto la meglio su un infido ceppo infestante della stessa  famiglia della tradizionale edera rampicante, che pareva crescere come per magia di notte solo per farci dispetto. Avevamo deciso di non toccare nessuno degli alberi presenti con l’unica eccezione di un meraviglioso faggio, che purtroppo era malato e destinato a spegnersi piano. Quasi piansi mentre Donnie tagliava uno a uno quegli splendidi rami, una volta così folti e maestosi. Il frutteto sul retro era stato danneggiato dalla trascuratezza ma sia io che Judith Carter Wright eravamo d’accordo sul fatto di cercare di salvarlo e di potenziarlo.

Ecco, a proposito di Judith; dallo sciagurato giorno della festa di compleanno di papà non ero più fortunatamente incappata nel maggiore dei fratelli Carter Wright ma ero stata prontamente incappata nella sua sorellina, esserino davvero energico ed entusiasta. Lavorando a Cambridge cercava di dividersi equamente tra i suoi calcoli astrusi al M.I.T. e la rinascita del giardino della casa che era stata di suo nonno e alla quale sembrava senza dubbio più legata rispetto a suo fratello. Judy era senza dubbio un genio dell’informatica ma era di poco aiuto nei nostri lavori; trovava tutto bellissimo, straordinario, sensazionale e io e Donnie non eravamo ancora riusciti ad estorcerle un commento negativo o una critica sul nostro operato.

Zoe non aveva voluto sentire ragioni e aveva ignorato di proposito la camera per gli ospiti che le avevo preparato, dirigendosi tranquilla verso quella soffitta polverosa e dal basso soffitto che usavo come ripostiglio per ogni tipo di cianfrusaglia. Dormiva sul vecchio divano in velluto bordeaux che era appartenuto al proprietario precedente, usava un’usurata scarpiera rovesciata come scrivania ed era andata in città per procurarsi una prolunga di svariati metri di lunghezza in modo da attaccare la spina nella camera da lei snobbata e portarsi il portatile nel suo nascondiglio.

Odiava il sole e il bel tempo e negli ultimi quindici giorni non si era visto altro, perciò lei si era rintanata sul suo cucuzzolo e quando tornavo a casa per una doccia o uno spuntino sentivo un costante battere di tasti e una martellante musica heavy metal. Una volta avevo osato spingermi fino alla sua tana ma ero fuggita a gambe levate in seguito alle sue urla isteriche e i suoi discorsi strillati sulla solitudine necessaria a scrivere di un bell’assassinio sanguinolento.

Il povero gatto Felix che si era portata appresso quando era arrivato aveva l’aria più infelice di questo mondo ma ora, dopo settimane in mia compagnia, appariva come rinato. Non mi era difficile immaginare gli stenti a cui poteva essere stato sottoposto sotto le ‘cure’ di mia sorella. Si dimenticava di nutrire sé stessa figurarsi di sfamare un’altra creatura. E poi Zoe, per quanto amante dell’orrido, era terribilmente schizzinosa e non ce la vedevo proprio a pulire quotidianamente la vaschetta di Felix e a cambiare la sabbietta.

Le speranze di Donovan di amoreggiare con mia sorella naufragarono miseramente la prima volta che si incontrarono, il che accadde due giorni fa, cioè ben quattordici giorni dopo l’arrivo di Zoe qui a Plymouth. Essendo entrambi soli io e il mio braccio destro avevamo l’abitudine di cenare insieme tre volte a settimana, quando stanchi e impolverati staccavamo dal lavoro. Ci facevamo entrambi una doccia per toglierci sudore e terra dalla pelle e ci gettavamo famelici sul cibo. Zoe non scendeva mai per cena e non ci tenevo assolutamente a ricevere un piatto in testa perciò mi limitavo ad aspettare che fosse lei stessa a decidere di scendere per mangiare, il che solitamente succedeva verso le due di notte.

Donnie insisteva con questa storia di volerla conoscere o almeno vedere una volta ma io sapevo benissimo che con mia sorella funzionava il proverbio non svegliare il can che dorme, nel suo caso scrive. L’altro ieri eravamo in veranda e ci stavamo dividendo un barattolo di gelato al caramello quando un’ombra comparve alle mie spalle.

«Flick, hai visto quello stupido gatto?»

Mi voltai scioccata e lanciai un’occhiata all’orologio. Erano le otto di sera, il cielo non era ancora buio. Da quando i vampiri escono con la luce?

Ovviamente il mio compare di merende si voltò a sua volta, era un’occasione troppo ghiotta per non essere colta al volo. Vedere la famigerata sorella di Felicity doveva essere un cruccio che non gli permetteva di dormire la notte.

Abituata alla trasandatezza di mia sorella per me non era certo una novità vederla in quelle condizioni ma Donovan rimase scioccato. Giusto stamattina mi stava dicendo di aver fatto un incubo che aveva come protagoniste quelle terribili calze antiscivolo gialle e arancio con decorazioni di teste decapitate che indossava quella sera Zoe.

Oltre alle calze alla moda, probabile regalo di un lettore zelante e psicotico, il look consisteva in un paio di scoloritissimi pantaloni alla zuava color vomito, dagli elastici smollati e gli orli sfilacciati, una t-shirt, macchiata di quella che pareva senape, che recitava Sono uno psicopatico e quando tu avrai finito di leggere tutto ciò sarai già morto, gli occhi arrossati dalle troppe ore passate di fronte allo schermo del computer, profonde occhiaie violacee, un brufoletto sulla punta del naso e per concludere i capelli più sudici dell’intero mondo, secondi forse solo a quelli di Severus Piton.

Effettivamente era da un tre, quattro giorni che non trovavo mutande e calzini troppo neri e troppo usurati persino per me per poter essere miei sparsi per il bagno al piano di sopra.

«Chi sei?», aveva domandato Zoe, per nulla turbata dall’idea che uno sconosciuto, per giunta uomo, potesse vederla in quella che non era certo la sua forma più smagliante.

Donnie impiegò un attimo a riprendersi da quella visione non proprio celestiale, «Donovan. Lavoro con Flick…».

Lei aveva annuito e poi era sparita nuovamente nella casa in penombra.

Il mio amico era leggermente deluso, probabilmente si aspettava una fascinosa donna tutta curve e charme, anche se guardando me avrebbe potuto arrivarci già da sé che nelle donne Van Houten le curve scarseggiavano.

Sia io che Zoe eravamo più spigoli e angoli che morbide curve burrose e seducenti. Eravamo sempre state secche e i reggiseni imbottiti erano fin dall’inizio dei tempi i nostri migliori alleati.

Donovan non aveva più accennato a quell’episodio fino a un paio di ore prima, quella mattina il sole non si decideva ad uscire dalle spumose nuvole azzurrognole che punteggiavano il cielo e gli uccellini parevano più silenziosi del solito. Avevamo finito l’aiuola che decorreva sul lato ovest della casa e avevamo concimato tutto il giardino in attesa di seminare.

Ora il sole stava calando e tutto il giardino aveva assunto una deliziosa sfumatura aranciata.

Diressi il getto dell'acqua verso il cespuglio di azalee e mi misi a canticchiare tutta allegra:
«Le rose sono rosse, le viole sono blu, Liam Carter Wright è una testa di cactus e presto lo scoprirai anche tu!»

Passai al rododendro che tenevo in un bellissimo vaso di terracotta decorata e innaffiai abbondantemente anche lui.

«Miss Van Houten, lei è una poetessa sublime»

Mi voltai di scatto e mi trovai di fronte in tutto il suo splendore Mr. Testa di Cactus meglio conosciuto come Liam Carter Wright. Aveva il sole esattamente alle spalle e tutta quella luce pareva incorniciarlo, rendendolo ancora più imponente e terribilmente affascinante di quanto già non fosse normalmente.

Il caldo doveva aver fatto breccia persino su di lui e i suoi completi impeccabili dato che quella sera era senza cravatta e giacca. I pantaloni erano sempre impeccabili così come la camicia di una delicata fantasia a quadrettini di un tenue azzurro.

Stizzita constatai nel mio intimo che quella mascella severa sempre contratta in un broncio e le sopracciglia perennemente aggrottate di quell’uomo mi erano mancate. Così come il suo sarcasmo pungente, le rughette a lato degli occhi così profondi da farmi sentire sempre sotto esame o la sua brutta abitudine di cogliermi sempre impreparata.

«Lo so. Quando ero alle elementari un mio componimento in rima vinse il primo premio», gli risposi tornando ad annaffiare il mio rododendro.

Non contento di non avere la mia completa attenzione, mi girò attorno fino a trovarsi proprio di fronte a me. Ora gli ultimi raggi  del sole splendevano proprio sul suo volto e si tuffavano nel severo grigio dei suoi occhi rendendolo più caldo.

«Non mi hai più chiamato», asserì neutro, tornando a darmi del tu e non mostrando la minima emozione.

Lo facevo già con Theodore e mi ero ripromessa di non farlo più con nessun’altro. Ero stanca di essere sempre quella destinata a rincorrere le persone, sempre quella che scriveva o chiamava per prima, sempre quella che si ricordava di compleanni, anniversari, ricorrenze, sempre quella presente, attiva, coinvolta. Ero stanca di essere parte di relazioni a senso unico.

«Neanche tu lo hai fatto», ribattei decisa a non mostrarmi debole e a non cedere per prima.

Lui per un attimo parve a disagio ma subito si ricompose, «Però hai chiamato Judy».

Annuii. «Sì, mi piace Judith», dissi semplicemente chinandomi a posare l’annaffiatoio vuoto e a tastare la terra del vaso con le dita.

Sentii scricchiolare la ghiaia e quando alzai gli occhi incontrai il suo sguardo, tra le foglie del rododendro e i suoi boccioli.

«E io non ti piaccio?»

Rimasi ferma in quella posizione a fissarlo per un attimo che parve infinito prima di rialzarmi e sancire la fine definitiva di quel giochetto destinato a non portarci da nessuna parte. O perlomeno non destinato a portarci dove avrei voluto io.

«Non mi devi piacere, Mr. Liam. Sei stato proprio tu, durante il nostro primo incontro, a specificare che avresti preferito mantenere le distanze. Smettiamola con questi giri di parole e limitiamoci alle questioni professionali», risposi freddamente.

Lui non si scompose, si rimise in piedi a sua volta passandosi le mani sui calzoni immacolati e mi rivolse uno sguardo risoluto. «Bene. Quell’aiuola che hai fatto…bè non mi piace. Non la voglio».

Cosa?!

Mi avvicinai di un passo e gli puntai un dito  contro il petto, la rabbia che iniziava a ribollire e a offuscare la mia mente. «Ho lavorato sodo per completare quell’aiuola. Mi sono punta decine di volte per piantare quelle rose. Ho passato ore e ore inginocchiata sotto il sole. Ho fatto un buon lavoro, so che è così. Judith la adora e io ne sono soddisfatta. Quindi mettiamo per un attimo in pausa il proposito appena espresso e permettimi di dirti una cosa…»

Lui alzò gli occhi al cielo ed esclamò, «Sentiamo…»

«Vaffanculo Liam Carter Wright», sibilai a denti stretti, prima di voltarmi e incamminarmi a grandi passi verso la veranda di casa mia.

Ovviamente non poteva permettersi che ad avere l’ultima parola fossi io e decise di rovinare la mia grandiosa uscita di scena rincorrendomi e afferrandomi un polso. Doveva decisamente piacergli fare il prepotente.

«Sei così infantile»

«Disse il bambino capriccioso…», gli risposi per le rime.

«Ehi! Lascia andare Flick!». Una voce familiare giunse da dietro le mie spalle e Mr. Carter Wright si affrettò a lasciarmi andare.

Donovan ci raggiunse in fretta, i guanti da lavoro ancora infilati, e mi cinse le spalle con fare protettivo. «Che sta succedendo qui?», domandò fissando di traverso l’uomo di fronte a lui.

Un trambusto improvviso interruppe qualsiasi tentativo di giustificazione da parte di Liam. «Flick, sei pronta?», strillò una voce impaziente.

Un ticchettio di tacchi sul legno del pavimento della veranda ci annunciò l’identità della nuova arrivata. «Cosa state combinando? Siamo già in ritardo!»

Mi voltai, liberandomi dall’abbraccio di Donnie, e rimasi a bocca aperta di fronte ad una Zoe sfavillante e completamente restaurata.

I capelli neri acconciati in un morbido chignon splendevano, il viso era leggermente truccato, le palpebre colorate con un tenue ombretto color vinaccia, tinta che richiamava la sfumatura del corto abito dalla gonna in pelle e il corpetto in maglia con inserti di pizzo. Smanicato, un profondo scollo sul davanti e l’orlo sopra al ginocchio. Rock e raffinato allo stesso tempo.

«Ch-chi sei tu?», domandò senza parole Donovan, la bocca aperta dallo stupore.

«Quella delle calze con ricamate la testa decapitata di Maria Antonietta, Anna Bolena & Friends. Ora mi volete spiegare perché non siete pronti? Venite tutti quanti?», esclamò scocciata lanciando un’occhiata al piccolo orologio che portava appeso al collo con una sottile catenella.

«Zoe, si può sapere di cosa stai parlando?», la interrogai facendomi portavoce anche di Donovan, ancora sotto shock, e di Liam, leggermente confuso dall’apparizione di quella che per lui era una sconosciuta.

Lei sbuffò, «Te l’ho detto un paio di mesi fa. I miei lettori hanno organizzato un super party a tema gotico ispirato al mio ultimo romanzo dato che avevo comunicato che sarei stata nei pressi di Boston in questo periodo. Mi scrivono sempre che sono irraggiungibile, dispersa lassù nel Montana, e così ne approfitto per incontrare alcuni di loro durante questo mio breve ritorno alla civiltà. Che ne dite di venire tutti? Sì, anche tu sconosciuto dai pantaloni così ben stirati da apparire inquietanti. Dicono sempre che sono un lupo solitario senza amici, perciò voi verrete e smentirete quelle voci infondate!».

Nessuno di noi si mosse, intenti com’eravamo ad assimilare il senso di quel suo discorso.

Lei batté le mani sempre più spazientita, «Susu! Che state aspettando? Cambiatevi e partiamo. Parlo di Flick e del suo amico insudiciato di terra. Tu sei già perfetto direi», osservò rivolta a Carter Wright, il quale la omaggiò di un sorriso bellissimo, un sorriso che a me non aveva mai rivolto.

Venti minuti più tardi eravamo tutti pigiati sull’Audi di Liam, tanto bella quanto piccola e scomoda per quattro persone. Mi ero infilata al volo un vestitino dalle stampe geometriche e un paio di anfibi un po’ consunti ma comodi.

Zoe e Mr. Liam avevano fatto subito amicizia, dopo solo due minuti di conoscenza mia sorella si era già rivolta a lui una decina di volte dandogli della checca isterica quando si era rifiutato, preoccupato per la sorte della sua piccolina, di farle guidare la sua preziosa auto.

Avevamo imboccato a tutto gas la superstrada diretti verso le luci di Boston, quando Zoe si girò ed esclamò, «State tranquilli! Sembrate così tesi…Ci divertiremo, vedrete. Solitamente durante serate come queste il clima è abbastanza calmo e disteso e la polizia interviene al massimo un paio di volte e chiamiamo il 911 solo cinque volte e solitamente per cose meno gravi, tipo amputazioni o perdita di bulbi oculari…»

A che razza di festa ci stava portando quella sciroccata?

 

  
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