XXXI
Tra le lenzuola erano intrappolate le sue paure e le sue speranze, mischiate tra loro nelle pieghe delle coperte, tra i capelli di Marina che dormiva accanto a lui. Era indescrivibile la sensazione che sentiva guardandola alle prime luci dell’alba, ma i suoi due giorni di lutto erano finiti e nonostante fosse sabato, doveva fare la sua mezza giornata in biblioteca. Sarebbe stato facile se non avesse dovuto fare una capatina a casa.
Nella stanza ancora buia, cercava i suoi vestiti e le sue scarpe, ancora intontito dal piacevole sonno dal quale aveva dovuto ridestarsi e il pensiero di tornare a casa sua era fastidioso, ma doveva andare. Lì c’era la sua copia delle chiavi della biblioteca e i suoi vestiti puliti.
Sospirò voltandosi verso Marina: era troppo bella per lui, ma non avrebbe rinunciato ai suoi baci e al suo amore per nulla al mondo. Forse nemmeno per la sua casa, ma quella era meglio tenerla. Così, si fece coraggio e tese le mani fino a lei.
- Marina? – sussurrò nel buio. – Devo andare.
- Ti prego, non fare così. – quasi rise lui. – Vorrei restare, ma devo andare al lavoro.
- Uhm. – continuò lei. – Ti lascio andare solo se stasera torni qui.
- Ne parliamo più tardi, va bene?
La prima sensazione che sentì montando in bici e cominciando a pedalare verso casa, fu la voglia irrefrenabile di tornare a letto da lei e poi fermare il tempo.
Ma non poteva. Quello era il primo giorno di guerra e doveva farsi forza.
Probabilmente Ben e Jef non lo avrebbero nemmeno sentito arrivare o andare via, ma dovette preparare comunque la colazione perché se al contrario uno dei due avesse capito che era stato lì, sarebbe finito nei guai. E l’ultima cosa che voleva era una dose di cazzotti.
Quando oltrepassò la porta, l’odore familiare della casa gli fece ricordare troppe cose, il profumo di sua madre, il viso di sua nonna. Per un attimo sentì il cuore incrinarsi mentre si sistemava i capelli scompigliati dal cappello tirato via.
Era davvero inspiegabile come il suo cuore riuscisse a reggere tutte quelle emozioni diverse tra loro: era ferito dalla perdita dei suoi cari, ma l’amore di Marina curava le sue cicatrici e gli donava una gioia che non aveva mai provato, fino a renderlo felice nonostante tutto, poi c’era la paura di perdere la casa e lo sdegno che provava verso Ben e verso se stesso. Ancora non capiva come non fosse impazzito.
Dopo aver messo la teiera sul fuoco, corse in camera sua per recuperare vestiti puliti e chiavi, ma ebbe una brutta sensazione quando giunse alla sua porta e la trovò aperta.
Era sicuro di averla chiusa prima di andare via l’ultima volta. Si fermò un attimo a contemplare l’immagine complessiva della sua stanza, cercando qualcosa fuori posto, ma sembrava tutto in ordine, esattamente come l’aveva lasciata.
Eppure, qualcosa non tornava: era quasi certo che qualcuno ci fosse entrato. Varcò definitivamente la soglia e si guardò di nuovo intorno. Niente, sembrava tutto normale.
Il fischio della teiera lo riscosse, ricordandogli che entro mezz’ora doveva essere al lavoro, così raccolse le sue cose – compreso il malloppo di documenti che aveva nascosto – e ridiscese le scale di corsa.
Al piano di sotto non c’era ancora nessuno, ma sentiva ancora il petto appesantito per la preoccupazione mentre poggiava la chitarra in un angolo e metteva il the in infusione. Non sapeva perché, ma aveva un cattivo presentimento. Continuò a guardarsi intorno con circospezione, alla ricerca di un dettaglio fuori posto, di un foglio dimenticato in giro, di qualsiasi cosa.
Pensò a Marina mentre mangiava qualche biscotto e ricordò il suo viso, il suo corpo, riuscendo finalmente a tranquillizzarsi. Sarebbe andato tutto bene – pensò, giocando con la collanina dorata e quando sentì Ben alzarsi, decise che fosse ora di dileguarsi. Lasciò la colazione sul tavolo e prese un bicchiere d’acqua dal frigo, poi infilò il cappotto e sgattaiolò all’esterno.
Non appena fu fuori, si sentì come risollevato, come se stando in quella casa si sentisse oppresso, vittima di un giogo di sentimenti negativi che lo schiacciavano. Guardò la facciata della casa, la vernice gialla che cominciava a scrostarsi e prese un profondo sospiro. La sua vita era un casino e lo aspettavano tempi duri, ma quella sera sarebbe tornato da Marina e avrebbe avuto il coraggio di affrontare ogni cosa.
Montò in sella alla bici e sfrecciò al lavoro con una certezza: avrebbe combattuto fino alla fine.
Per Henry.
Per Evangeline.
Per sua madre.
Per Marina.
Per se stesso.
Il rientro in biblioteca se lo aspettava diverso ed invece era come tutti gli altri giorni. Per qualche motivo aveva creduto che qualcuno lo aspettasse ed invece era stato ignorato da tutti: la sua popolarità di eroe era già terminata, proprio come aveva previsto. Poi la gente si chiedeva perché fosse così diffidente. Beh, ecco il motivo.
Aveva già risistemato il gran casino che il suo sostituto gli aveva gentilmente lasciato dietro al bancone, poi aveva ripreso le sue solite attività. La polvere dei libri non gli era mancata affatto, ma niente lo disturbava come la fila per i prestiti e quel giorno sembrava essere decisamente lunga. Ma cosa avevano tutti da studiare?
Di tanto in tanto sentiva qualcuno lamentarsi per l’attesa, disturbando il suo precario equilibrio psichico. Non si sentiva davvero in forma, quella mattina, nonostante avesse dormito come un sasso per due notti di fila e per più di 5 ore.
- Scrivi il tuo nome e la data di oggi. – indicò ad una ragazza che evidentemente non aveva mai preso un libro in prestito.
- Adesso scrivo il titolo del libro? – chiese la ragazza.
- U-uhm – riaprì gli occhi. – Sì.
Quando tornò indietro e si ritrovò davanti la persona successiva, si sfilò il maglione, senza pensarci due volte.
Era davvero confuso. Sentiva di perdere sempre di più il contatto con la realtà, ma dovette sforzarsi di controllarsi, ritrovandosi davanti il bellimbusto figlio di papà.
- Ciao, pel di carota. – Non aveva la forza nemmeno di guardarlo male. – Se aspettavo te per riempire il modulo facevamo notte.
Sentendo il cuore accelerare i battiti, si portò una mano al petto e alla gola. Dio, aveva sete. E gli mancava l’aria. E stava sudando nonostante fosse rimasto in t-shirt.
- Ti vuoi muovere? – insistette Philip, dall’altra parte del bancone.
- Dove stai andando? – urlò Philip.
Sentiva le gambe molli di passo in passo e il cuore salirgli in gola.
Quando fu sotto l’uscio dello stanzino, si aggrappò allo stipite, poggiandovi la testa. Non riusciva più a muoversi, ogni cosa girava come una trottola e quasi non sentiva più il vociare della gente, che invece si faceva sempre più intenso.
Mentre Ed perdeva la cognizione di se stesso, i presenti lo videro scivolare a terra sotto la porta e qualcuno si alzò per soccorrerlo.
- Si sente male! – disse una ragazza, raggiungendolo oltre il bancone.
Ed percepì quella presenza, ma non fu sicuro che fosse reale, troppo distratto dalla nausea e dalla mancanza d’aria. Non capiva più nulla. Era fuori di sé. Non sentiva più il suo corpo, non sapeva nemmeno se fosse ancora cosciente.
Intorno a lui, le persone si radunarono in cerchio per guardare, come se fosse un fenomeno da baraccone e intanto solo una persona era stata abbastanza coraggiosa da andare ad aiutarlo e chiamare l’ambulanza.
Poco prima che perdesse i sensi, si ricordò di Marina. Doveva avvertire Marina che c’era qualcosa che non andava, ma non fece in tempo a formulare un altro pensiero che svenne tra le braccia di quella sconosciuta.
L’aria entrava ed usciva dai suoi polmoni quasi graffiandole la gola, mentre correva verso l’ospedale. La paura le schiacciava il petto mentre risentiva la voce della segretaria che conosceva Edward rimbombarle nelle orecchie.
Ed è al pronto soccorso, ha perso i sensi.
Il terrore era tale da farla piangere, mentre oltrepassava le porte automatiche e incontrava immediatamente gli occhi di Stephany.
La donna, sapendo che lui non avesse nessuno, aveva recuperato il suo numero di cellulare dalla sua cartella clinica e l’aveva chiamata non appena lui aveva fatto il suo ingresso in barella.
Marina, con gli occhi spalancati e la gola stretta in una morsa, non riuscì a dire una sola parola quando Stephany le andò incontro.
- Calmati. – disse immediatamente quella, leggendo sul suo viso il panico. – Se ti presenti così non ti faranno entrare.
- Cosa… - ma dovette fermarsi per cercare di respirare. – Cosa è successo?
- Credono che si tratti di un’intossicazione. Ora è ricoverato al terzo piano, ma se fai così non ti lasceranno entrare!
- Intossicazione? – realizzò, alla fine.
- Non so dirti di più, mi dispiace.
- Devo andare da lui. – sussurrò.
Marina contava i secondi che l’ascensore impiegava a salire e cercò di respirare profondamente. Il neon bianco della cabina era lugubre e freddo sul suo viso pallido, ma le permise di non notare troppo il suo riflesso nello specchio. Quando l’ascensore si fermò al terzo piano, si fece largo tra la gente che doveva entrare e si guardò intorno, alla ricerca della direzione giusta. Tra i medici e le infermiere, individuò l’ingresso del reparto illuminato dalla luce del giorno e vi si inoltrò. Il rumore dei suoi passi veloci faceva eco oltre il chiacchiericcio sommesso di alcuni pazienti che sostavano in corridoio e che probabilmente sapevano perché fosse così di fretta.
35, 36, 37, 38…39.
Eccola, la stanza. Si passò una mano sotto agli occhi per cancellare le lacrime e senza più indugiare, entrò.
Non appena vide la sua figura, il suo cuore riprese a battere, come se fino a quel momento lo avesse creduto morto ed invece era lì e il suo petto si gonfiava e si sgonfiava sotto le lenzuola candide. Dormiva.
Per fortuna era solo in quella stanza, così potè entrare e accomodarsi accanto a lui.
In un attimo, i ricordi dell’incidente di poche settimane prima riportarono a galla la sensazione che si prova quando si sta in un letto d’ospedale e si sentì ancora peggio di prima al pensiero che non fosse con lui quando aveva perso i sensi. Invece, Edward era sempre lì quando aveva bisogno.
I suoi lividi spiccavano sulla pelle bianca, sbucavano da sotto i capelli ormai un po’ troppo lunghi e violavano il suo viso disteso. Gli prese la mano e la sentì piacevolmente calda.
Sentire la sua pelle sotto le dita e sentire il suo respiro, furono l’antidoto. Lentamente, i suoi battiti tornarono nella norma, il nodo allo stomaco si sciolse, perché lui era vivo, davanti a lei. Tuttavia, il suo calore non cancellò la paura. Non riusciva a capire cosa fosse successo, di che tipo di intossicazione si trattasse e come fosse possibile che fosse accaduto tutto nel giro di poche ore. Erano solo le 12.30 ed erano bastate sei ore per far precipitare la situazione.
Ripercorse mentalmente i loro pranzi e le loro cene ed era certa che non avessero mangiato nulla di avariato o simili. D’altronde, avrebbe dovuto star male anche lei, in quel caso, ma non era così. L’unico ad essere svenuto, era lui.
Voleva ringraziare chiunque l’avesse soccorso, ma prima di tutto voleva parlare con un medico.
Non riuscì a distaccarsi da lui per troppo tempo, troppo sollevata dal carezzargli la mano. Il suo Edward era in ospedale e lei non riusciva a smettere di desiderare di essere al suo posto.
Quando finalmente si decise, lasciò la stanza alla ricerca del medico indicato sulla sua cartella, posta ai piedi del letto. Vagò per troppi minuti senza risultati, così chiese ad un’infermiera di poterla aiutare.
- Cerco il dottor Rosenthal, sa dirmi dove posso trovarlo?
Si fermarono alla prima porta del reparto e attese poco distante.
- Dottore, c’è una ragazza che vorrebbe parlarle. – disse quella, sporgendosi all’interno di quello che doveva essere l’ufficio del medico.
- Arrivo subito. – disse una voce atona, fuoricampo.
- Salve, sono il dottor Rosenthal. – le tese la mano con disinvoltura.
- S-salve, Marina Bennett. – rispose lei, porgendogli la mano ancora fredda per lo shock.
- Come posso esserle utile? – fece quello, cercando qualcosa nelle tasche.
- I-il mio amico è stato ricoverato poche ore fa e vorrei sapere cosa gli sia successo.
- Nome?
- Edward Sheeran, è nella stanza 39.
- Ah, il ragazzo avvelenato.
- Come sarebbe a dire? – il suo viso era palesemente in preda alla confusione.
- Mi segua. – e quello si avviò verso la stanza, per poi riprendere a parlare. – Vede, quando il suo amico è arrivato con l’ambulanza era quasi morto. – Marina sobbalzò, credendo che sarebbe morta prima di arrivare da Ed. – Non aveva quasi più polso, la pressione era minima e le funzioni vitali erano quasi del tutto sparite. Ovviamente i paramedici hanno pensato ad un semplice mancamento, ma le flebo e la routine farmaceutica per le perdite di coscienza non sono serviti. È stato mantenuto in vita col respiratore e il defibrillatore mentre il laboratorio faceva le analisi ed abbiamo riscontrato un alto tasso di triossido arsenioso nel sangue.
- In poche parole, arsenico. Uno dei veleni più famosi e letali al mondo. È insapore, inodore e incolore. – spiegò, come se stesse ripetendo un paragrafo da dire all’esame. – Si tratta di qualcosa che è molto difficile da assumere per sbaglio. Molto probabilmente ha bevuto qualcosa di contaminato. In ogni caso – ed allora la guardò dritto negli occhi – la quantità di veleno presente nel sangue era davvero eccessiva e piuttosto…inusuale. Chi l’ha usata non deve essere molto esperto.
- C-cioè…lei crede davvero che sia stato avvelenato volontariamente? – lo sguardo gelido di Jef si presentò nella sua mente con una prepotenza inaudita e accanto a lui, l’idea di Ben.
- Diciamo che il mio lavoro non mi permette di fare una tale valutazione, ma…è bene che sappia che io ho questa impressione.
- Vede, signorina Bennett, al suo amico è stato somministrato immediatamente l’antidoto, ma se l’è vista brutta dato che la dose di veleno che aveva ingerito era particolarmente concentrata e l’antidoto stesso può diventare un potente veleno se assunto in quantità superiori alla norma consentita. È un miracolo che sia vivo. – ammise.
- Quindi, si riprenderà? – disse, fissando le mani immobili di Edward, poggiate sui lati del letto. Il pensiero che quelle dita avrebbero potuto non sfiorare mai più una chitarra era pesante, quasi inaccettabile. Insostenibile.
- Ci vorrà tempo e avrà bisogno di assistenza. Per il resto – disse, togliendo lo stetoscopio dalle orecchie e tornando a guardarla. – sta bene. È stato molto fortunato.
- La ringrazio, dottor Rosenthal.
Quando si accomodò di nuovo accanto a lui e gli prese la mano, cercò di trovare un senso logico alle parole del dottore.
Avvelenato volontariamente.
Ben.
La casa.
Era l’unica spiegazione possibile, ma quell’uomo era davvero arrivato a tanto?
Di una sola cosa era certa: Edward non poteva più tornare a casa.
Quando le infermiere la cacciarono per sistemare le sue flebo e le apparecchiature, si preoccupò di organizzare il tutto, per lui. Informò Pit della loro assenza di quella sera, scusandosi mille volte per la frequenza con cui stava capitando e ricevendo in risposta solo parole di consolazione. Aveva parlato al telefono con Nathan, che per qualche motivo era già al locale, aveva avvertito Jody e il comune, per il lavoro di Edward. Aveva già fatto la spesa quella mattina e cominciò a pensare di dover chiamare una supplente per la ripresa delle lezioni, ma forse era un po’ presto per quello.
Continuò a rimuginare sulle parole del dottore e ancora non riusciva a credere che tutto quello non fosse casuale, ma se quell’uomo si era curato di fargli notare quel dettaglio ben più di una volta, probabilmente non doveva sottovalutare che quell’ipotesi fosse verificabile e che Ben avesse tentato di uccidere il suo figliastro.
Con la testa poggiata nel palmo di lui, stretto tra le sue mani, sospirò pesantemente, indecisa sul da farsi. Probabilmente avrebbe dovuto chiamare Kadmon, ma non poteva farlo senza il suo consenso, quindi attese.
Dopo interminabili ore di silenzio e di preghiera, Edward diede segno di essersi svegliato. Mugugnava, probabilmente per la luce troppo forte e lentamente Marina vide i suoi occhi aprirsi. Immediatamente si sporse verso di lui, sorridendo.
- Sono qui. – lo rassicurò immediatamente, poggiando la mano sul suo viso.
- Perché sono qui? – disse flebilmente Ed, senza scostarsi dalla sua carezza. Vedere i suoi occhi era piuttosto rassicurante.
- Ti sei sentito poco bene. – cominciò a dire, ma lo sguardo di lui attendeva il resto della spiegazione.
- Che ben abbia cercato di uccidermi, non è tanto strano. Mi odia.
- Edward Christopher Sheeran? – disse un agente dallo sguardo distaccato.
- Sono io. – disse Ed, con un terribile presentimento. La stessa Marina cominciava a razionalizzare la paura e a capire perché potessero essere lì.
- Dovremmo farle qualche domanda. – continuò.
- Ha mai fatto uso di droghe?
Non appena era riuscita a recuperare il cellulare del rosso dal bagno, dove era stato conservato insieme al resto delle sue cose, aveva contattato Kadmon e lo aveva avvertito di ogni cosa. Non c’era tempo di parlare o di far ragionare il rosso, doveva farlo e così l’avvocato li stava raggiungendo all’ospedale. Intanto, Edward veniva messo sotto torchio dalla polizia e a giudicare dalle loro domande, dovevano aver saputo qualcosa su quella questione del corriere.
- Dove si trovava la notte tra il 15 e il 16 Dicembre?
- Perché ha cercato un lavoro all’Hawking Pub?
- Chi l’ha conciata in questo modo?
- Ha mai avuto problemi con la legge?
- È mai stato coinvolto in una rissa?
Marina rientrò nella stanza, cercando di simulare normalità, ma uno dei due poliziotti la squadrò, cercando sul suo viso il segno della paura e dell’incertezza. Così, non seppe come, sorrise e si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e tornò accanto ad Edward come se nulla fosse. Come se fosse normale ricevere la visita della polizia in ospedale. In realtà tremava e Edward lo sentiva mentre le stringeva a sua volta la mano. Era terribilmente agitato, ma la sua condizione di ricoverato faceva apparire il suo pallore come normale, niente a che fare con l’agitazione.
Il suo cuore palpitava all’impazzata e non sapeva più cosa dire.
- Cosa succede? – il dottor Rosenthal si precipitò nella stanza. – Siamo in un ospedale, non in caserma.
- Stiamo facendo solo qualche domanda.
- Non mi interessa, il mio paziente ha rischiato la vita poche ore fa e non deve subire alcun tipo di stress. – disse, severo quanto loro. – Vi prego di accomodarvi fuori.
- La signorina viene con noi. – disse inaspettatamente lo stesso poliziotto che fino a quel momento aveva parlato. Il suo tono continuava ad essere gelido.
Gli uomini in divisa attesero che lei si alzasse per seguirli. Guardò Edward negli occhi, impaurita e lui potè soltanto stringerle di più la mano, mortificato per averla messa di nuovo nei guai. Tuttavia, Marina accolse quella sua silenziosa stretta e portò via con sé tutta l’energia che le aveva trasmesso.
Non guardò il dottore, che invece la seguiva con lo sguardo, e lasciò la stanza, accomodandosi sulle sedie del corridoio. Non sapeva cosa avrebbe detto.
- Che rapporti ha col signor Sheeran?
- Uhm, siamo buoni amici. – disse soltanto.
- Da quanto tempo vi conoscete?
- A questa domanda – una voce che non era la sua si intromise nel discorso, risollevandola. – risponderà solo in mia presenza.
- La signorina Bennett e il signor Sheeran sono miei clienti e risponderanno alle domande solo tramite me. – dichiarò in modo del tutto professionale. Lei continuava a guardarlo troppo confusa. – Di cosa si tratta?
- Riteniamo che i suoi clienti siano coinvolti nello spaccio di droga che interessa la città. – Marina rabbrividì, dato che le sue paure si stavano realizzando.
- Quali sono le motivazioni che muovono le accuse? – chiese, tirando fuori la sua agenda dalla valigetta di pelle nera.
- Una denuncia anonima. – disse il poliziotto, avendo capito che l’avvocato gli aveva chiuso tutte le porte con una sola domanda.
- Molto bene. I miei clienti depositeranno in modo volontario non appena il signor Sheeran sarà dimesso, credo che sia il minimo che possiate concedere agli accusati. Infondo si tratta di una banale denuncia anonima. Dico bene? – chiese ai poliziotti, senza spezzare la lastra di ghiaccio che lo separava dalle autorità.
- Dice bene, avvocato. – una terza voce si aggiunse al coro e Marina la conosceva bene. – Sono Josh Tramp, agente sotto copertura.
- Seguo personalmente il caso da un mese, quindi non preoccupatevi. – disse ai suoi colleghi. – Potete andare.
- Scusa. – le disse. – Ma ti ho salvato. – sorrise poi.
- Nathan… - cercò di dire.
- Josh. – la corresse, passandosi le mani nel suo ciuffo di copertura.
- Lei è stato incaricato di sorvegliare il mio cliente? – intervenne Kadmon.
- Sì e so già che è innocente, non si preoccupi. – Annuì, puntando gli occhi su di lei e poi di nuovo su Kadmon, come per rassicurare entrambi. – Ora scusate, vado a vedere come sta Ed.
- Cosa diavolo succede?
- Non lo so. – Marina, nonostante le parole di “Josh” sull’innocenza di Edward, non poteva fare a meno di sentirsi presa in giro.
Kadmon la ascoltò senza interromperla per un solo istante, rendendosi conto che le possibilità di avanzare un’accusa di tentato omicidio fossero concrete, dovevano solo recuperare la prova. Non aveva idea di cosa avesse potuto bere Ed, ma per quello sarebbe bastato parlare con lui. Per la questione della droga, avevano il coltello dalla parte del manico, perché il suo cliente non aveva mai fatto uso di droghe. Mai. Il suo fratellastro, invece, probabilmente ne aveva anche nelle scarpe.
Cercò di tranquillizzare la ragazza, più innocente di un bambino in quella situazione e le assicurò che l’avrebbe tirata fuori da quella storia, sarebbe stato un gioco da ragazzi. E poi, avevano dalla loro parte un agente che già da solo poteva provare l’innocenza di Edward. Senza attendere oltre, raggiunse Ed e il poliziotto in borghese nella stanza, par far quadrare quella situazione assurda.
Quando Edward lo vide, si sentì ancora più confuso: lui era l’unico a non sapere ancora cosa fosse accaduto. In tre, si sedettero attorno a lui e lasciarono che Marina raccontasse di nuovo ogni cosa, rendendo finalmente Ed consapevole di tutto.
- Arsenico? – chiese infatti, cominciando a capire. I suoi capelli rossi si rizzarono.
- Cos’hai bevuto oggi? – chiese Kadmon.
- Solo dell’acqua. – disse, aggrottando lo sguardo.
- Dove? – chiese l’avvocato, spostando lo sguardo su Josh, i cui occhi erano già abbastanza eloquenti da non dover aggiungere alcuna parola.
- A casa. – disse Ed, guardandosi i piedi, parlando più a se stesso che a loro.
- Perché tu? – chiese, ancora all’oscuro di tutto.
- Perché io sono un poliziotto. – disse, senza tanti giri di parole. – E mi chiamo Josh, non Nathan.
- So tutto, Ed. Di Ben, di Jef, della casa. Sono mesi che ti seguo. – ma il suo amico continuava a guardarlo come se avesse appena visto un fantasma. Probabilmente credeva di essere ancora addormentato.
- In tal caso, signor Tramp, le chiedo da subito di intervenire a nostro favore. – lo interruppe Kadmon.
- Certo. – disse Josh e poi tornò a guardare il suo amico e sorrise dinanzi al suo viso sconvolto.
Ci vollero ore per giungere al punto della situazione ed organizzare prove e documenti, ma alla fine Kadmon assicurò a Ed che quella sera stessa avrebbe dato inizio alla causa e interrotto la compravendita tra Ben e il comune.
Dopo ore di conversazione e rimproveri del medico, Ed crollò e dormì profondamente. Quella notte Marina a stento chiuse occhio, piegata sul suo materasso, e pregò che ogni cosa andasse al suo posto. La confusione che avevano vissuto in quei giorni le annebbiava ancora la mente e non le permetteva di capire bene cosa stesse provando.
Sperò che l’indomani ogni cosa fosse più chiara e che Kadmon fosse l’uomo giusto.
Era l’ultima carta che gli era rimasta.
Angolo autrice:
Aiuto, sono ad un passo dalla ghigliottina.
Lo so, ormai non si capisce più nulla, è tutto confusionario, ma vi chiedo perdono in ginocchio.
Ditemi dove ho sbagliato, sono tutta orecchie!
Che ne pensate di Josh? Ho paura di aver osato troppo.
Anyway, crisi a parte, vi ringrazio tantissimo per le visite, scusate se non ho risposto alle recensioni - sono stata praticamente fuori casa 24h continuate - sappiate che siete bellissimi e vi amo. Non credevo certo di essere seguita da così tante persone e so di non meritarlo, quindi grazie davvero.
La storia è agli sgoccioli, mancano pochi capitoli e poi sarà finita. Quindi, prima di pentirvene, ditemi cosa ne pensate: sono ancora in tempo a rivederla!
Niente bonus, oggi, non ho trovato quello giusto. Se doveste averlo trovato voi, fatemelo sapere. :)
Intanto usate la vostra immaginazione.
A presto, Marinediani. :)
S.