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Autore: VV_23    08/12/2015    4 recensioni
"Aveva parlato al plurale. Aveva sottinteso un noi. Un minuto prima ero sola, apatica, pronta ad accogliere la morte in ogni istante. Lui, con una semplice parola, aveva reso di nuovo possibile ipotizzare di riaccogliere la vita"
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Paint'
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                Capitolo II

 

“Voglio scrivere un libro”.

Peeta, Sae e Haymitch sollevano lo sguardo dai loro piatti, e mi guardano incuriositi.

“Voglio scrivere un libro” ripeto “per non dimenticare”.

Non dimenticare Prim, Rue, Finnick, Cinna, Boggs. Non dimenticare la sofferenza, le perdite; e per far sì che il loro sacrificio non sia stato vano, perché altri sappiano, imparino: per far sì che certi errori non vengano più ripetuti, che questa possa davvero essere “quella volta buona” di cui aveva parlato Plutarch. Non sono mai stata una tipa ottimista, ma ora devo esserlo. Lo devo a loro, ai morti della rivoluzione, ai tributi della libertà.

Haymitch abbozza un sorriso.

“Buona idea, dolcezza. Io ne ho un sacco, di cose da dire”.

Peeta e io ci guardiamo. I suoi occhi non sembrano più così spaventati quando è con me, e lo sguardo che ora ci scambiamo ha in sé un'intensità che è in grado di annullare tutto quello che ci circonda.

“Anche io” afferma.

 

Così, nel giro di qualche giorno, dalla Capitale arrivano carta e penne, giornali e riviste, ma anche immagini e testimonianze. Il materiale è ricco, e non fa che crescere. E, nel momento in cui ci mettiamo a scrivere, ci rendiamo conto che questo libro non sarà solo una raccolta degli orrori della guerra, ma sarà soprattutto un'antologia di memorie, di ricordi positivi, di immagini legate alle persone che abbiamo amato. Le persone grazie alle quali noi siamo qui, stanchi e spezzati, ma vivi.

Mi rendo conto di quale fosse la verità, quale fosse quella cosa che mi stava tenendo bloccata senza via di fuga in un mondo fatto di apatia e depressione: avevo paura. Paura di qualcosa di assolutamente irrazionale e insensato, paura di dimenticare Prim. Di dimenticare il suo volto, la sua treccia bionda, i suoi occhi azzurri, la sua attitudine alla medicina, le sue parole così sagge per un bambina di tredici anni, paura di dimenticare tutto di lei. Lo realizzo solo nel momento in cui scrivo il suo nome sul foglio, e, per alcuni secondi, rimango bloccata con la penna sospesa tra le dita e un enorme vuoto nella testa. Ti ho dimenticata?

Ma poi, quando butto giù le prime parole, le altre vengono da sé, senza bisogno di cercarle troppo. Quel terrore folle si dissolve nel momento in cui i pensieri vengono srotolati e messi poco alla volta nero su bianco. Scrivere di Prim e della sua bontà, e, successivamente, scrivere dell'irriverenza di Finnick, del talento di Cinna, scrivere della bellezza che ho visto negli occhi delle persone a me care, dedicarmi a rievocare la loro memoria ha un effetto incredibilmente terapeutico su di me, e mi restituisce qualcosa. Mi restituisce una scintilla di speranza nel futuro, speranza di vedere ancora così tanta bellezza nel mondo che mi aspetta – ed essere un po' più ottimista si rivela non semplice, ma quantomeno possibile. Sono viva per questo, per vedere la bellezza anche per loro che non possono più.

La presenza silenziosa ma forte di Peeta al mio fianco è uno stimolo per proseguire nel mio lavoro: vedere la sua mano che disegna paesaggi e volti e particolari, e che riesce a rendere ancora più giustizia alle storie che scriviamo, mi fa sentire che non sono sola in questo percorso. I suoi colori donano colore e serenità a questo racconto – il nostro racconto – una serenità che, in qualche modo, riesce ad avvolgere un poco anche in me. Peeta è in grado di rendere tutto migliore.

Mi ritrovo a osservargli le ciglia bionde e lunghe, come facevo quando aggiornavamo il libro delle piante della mia famiglia, e noto alcune leggerissime rughe d'espressione agli angoli degli occhi, segno che sta crescendo. Crescendo bene, precisa la mia mente con un po' di malizia. Lui mi guarda e io abbasso gli occhi, imbarazzata per i miei stessi pensieri inconsci e per esser stata beccata a spiarlo: riconosco questa come una sensazione che ho già provato, e che, stranamente, in qualche modo, mi dà sollievo. Di per sé so che è assurdo provare sollievo nell'imbarazzo, ma mi rendo conto che ogni sentimento semplice, legato al mio rapporto con le persone e con Peeta nello specifico, è come recuperare un pezzo di vita, un pezzo di normalità. È come se, in un modo piuttosto bizzarro, mi stessi riappropriando di tutte quelle sensazioni che la gente normale dovrebbe provare, sensazioni che non siano legate alla paura di morire di fame o di soccombere a causa del freddo o di essere puniti ingiustamente da qualche Pacificatore. È come se, per la prima volta in tutta la mia vita, vivessi davvero la mia età.

Lo sento sorridere, ma non fa alcun accenno al fatto che io spenda il mio tempo a ossessionarmi per le sue ciglia o per il suo viso o per le sue mani che disegnano. Semplicemente, mi chiede:

“Abbiamo già fatto qualcosa di simile. Il libro delle piante di tuo padre. Vero o falso?”.

Sai, credo che questa sia la prima volta che facciamo qualcosa di normale insieme. Qualcosa di carino, per cambiare.

Ogni ricordo che emerge nella sua mente è come un passo in più verso la luce.

“Vero”.
 

Le giornate si svolgono metodiche, tutte uguali, ma la quotidianità non mi dispiace. Gli imprevisti dell'ultimo anno e mezzo mi fanno apprezzare questa apparente monotonia, anche se ci sono alcune cose che vorrei cambiassero.

Ogni giorno Peeta viene a casa con il pane fresco e facciamo colazione insieme: lui mi osserva attentamente quando mangio, e registra tutte le mie preferenze e i miei gusti, e quando nota che una cosa mi piace particolarmente me la ripropone il giorno dopo. Realizza un menù personalizzato esclusivamente per me, e sembra molto soddisfatto nel vedermi mangiare con gusto tutto quello che mi propone. Mi rendo conto che è il nostro modo personalissimo di conoscerci di nuovo – io che lo osservo quando disegna, lui che mi studia mentre mangio – un modo che sembra non comprendere l'uso del linguaggio: infatti, tutto si svolge sempre in quasi totale silenzio, le parole che ci scambiamo sono poche e ancora molto legate alla circostanza, piuttosto che alla volontà di intavolare una vera conversazione.

Un'altra cosa che manca totalmente nel nostro rapporto è il contatto fisico, che è sparito del tutto dopo quella mia leggera carezza alla sua mano davanti alle macerie della panetteria: ritrovo in me quella sensazione di solitudine che avevo vissuto nella prima Arena e che avevo sopito solamente quando avevo trovato in Rue un'alleata e un'amica, e avevamo passato la notte abbracciate l'una all'altra; adesso come allora sento davvero la mancanza di calore umano, ma faccio fatica ad andare d'accordo con questo pensiero, dal momento che so, inconsciamente, che quello che vorrei di più è il calore di Peeta, le sue braccia così come le ricordo – forti e delicate, sicure e confortanti. Non so dove mi porterebbe accettare questo mio bisogno. Non mi sento pronta per farlo.

Dopo colazione, lui si reca alla panetteria, mentre io vado a caccia e Sae viene da me per occuparsi della casa. All'ora di pranzo raggiungo i ragazzi del Distretto e, dopo un leggero pasto, riprendiamo a lavorare tutti insieme. Ed è lì che, un giorno come un altro, le cose cambiano. Ma non come desideravo io.
C'è una bella ragazza bionda che sta lavorando con noi alla ricostruzione della panetteria: si chiama Asia, ha un'aria straordinariamente spensierata per essere una che è sopravvissuta alla distruzione del Distretto 12, e la cosa che più me l'ha fatta notare è che sembra apprezzare molto il ragazzo del pane. Non perde occasione per chiacchierare con lui, fargli qualche battuta, e, ogni tanto, la vedo azzardare una carezza o una presa o una spinta giocosa. Peeta mi sembra allegro come non lo vedevo da tempo, divertito e a suo agio, ma tutto questo non mi dà nessuna gioia. Sento come un tarlo che mi mangiucchia l'interno, e un martellare continuo alla testa, ma non specificatamente nel punto dove Johanna mi aveva colpito. Mi riscopro quasi ossessionata da quella ragazza – le sue braccia non presentano alcuna cicatrice, il suo viso non è scavato, la sua indole non è silenziosa e diffidente – e, nel giro di qualche giorno, il fatto che Peeta preferisca passare del tempo insieme a lei piuttosto che insieme a chiunque altro diventa un pensiero costante; ma non posso fare niente – non ne hai alcun diritto, mi dice una voce saggia e maligna nella mia testa – posso solo guardarli giocare e scherzare, e pensare a quanto – con i loro capelli dorati, i loro sorrisi allegri, le loro voci divertite – stiano bene insieme.


 

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Nello scrivere questa storia ho voluto mettere l'accento sulle cose da cui Katniss, secondo me, deve ripartire per tentare di avere una vita normale; ma anche su altre piccole cose di cui i nostri protagonisti sono stati privati: la gelosia adolescenziale è uno di questi, se escludiamo quei piccoli accenni che vengono fatti nel caso di Madge. Partendo da qui, cercheremo di regalare comunque qualcosa di bello a questi poveri ragazzi! :)

Ringrazio tantissimo chi ha letto il primo capitolo e chi vorrà continuare! :)

VV**

  
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