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Autore: r_clarisse    09/12/2015    1 recensioni
Africa, 148.000 aC.
Due ragazzi innamorati, David e Steven, contemplano la bellezza del loro nuovo mondo dopo quattro anni di esodo nella Flotta Coloniale.
Il loro viaggio è terminato e ricominceranno da capo, a partire da quel momento, insieme.
David racconta in prima persona la loro storia, la loro vita insieme nelle Dodici Colonie e la corsa disperata per la sopravvivenza dopo la loro distruzione per mano dei Cyloni.
Non ha la pretesa di essere un grande racconto, ne un'opera di fantascienza, ma spero possa far trasparire in qualche modo quella che è la semplicità dell'amore che può unire due persone, attraverso lo spazio e il tempo.
"Eravamo finalmente a casa, la nostra nuova casa, e non dovevamo più scappare.
Certo, avremmo dovuto ricominciare da zero in un nuovo mondo, ma questo non mi spaventava; non mi spaventava la mancanza di cibo, il doverci arrangiare, il costruire tutto da capo.
Dopo quello che avevamo passato sarebbe stato sciocco preoccuparsi per il futuro.
Sapevo che ce l’avremmo fatta."
Genere: Drammatico, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi Tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 4: Principio

4.1 – “Fortuna?”
Ad un certo punto della mia vita ho iniziato a dar credito ad alcuni pensieri che da tempo aleggiavano nella mia testa; non sono mai stato un fatalista e non ho mai creduto alla fortuna o alla sfortuna, non in senso stretto almeno, ma ciò che ho passato, ciò che tutti noi abbiamo vissuto in questi quattro anni, ha sensibilmente deviato il mio modo di vedere le cose.
Può essere che mi sbagli, può essere che tutti si pongano certe domande, ma vedere la caduta delle Dodici Colonie mi ha reso più pragmatico.
Può darsi che alcuni di noi siano semplicemente più fortunati di altri. Sembra che mi contraddica da solo ma non è così.
Non credo  che le nostre vite siano affidate al caso, ne che siamo soli in questo mondo di lacrime, ma bisogna ammettere che la vita non concede a tutti le stesse opportunità e le stesse gioie; per alcuni la felicità arriva, per altri è dietro angolo, per altri ancora non si fa proprio vedere.
Anche le disgrazie non sono eque.
Alcuni vi scampano, riescono per un pelo a non portarne il pesante carico sulle proprie spalle, a divincolarsene e a cavarsela unicamente con piccoli problemi; altri invece, ne sono oppressi.
Mi sono sempre chiesto da dove arrivi quest’ordine così caotico e causale che di ordinato non ha proprio nulla, chi decida per noi, chi stabilisca quali persone debbano soffrire e quali poche fortunate possano essere felici.
Chi possa essere felice? E’ forse una concessione?
E di chi? Degli Dei? Di Dio? Del Destino?
Chi ha deciso chi si sarebbe salvato dall’attacco dei Cyloni?
Chi ha deciso che di trenta miliardi di persone che vivevano su dodici pianeti se ne dovessero salvare solo cinquanta mila?
E chi ha deciso che tra di loro dovessimo esserci io e Steven?
E chi ha deciso che io possa svegliarmi ogni mattina e trovarlo accanto a me, che io possa sentirmi tanto felice e grato per la fortuna che mi è stata concessa?
Mi è stato concesso?
Beh, se è stato così, se mi è stato concesso, chiunque l’abbia deciso sappia che avrà sempre la mia totale gratitudine.
 
4.2 - “Pianeti oceanici e colazioni solitarie”
Quell’atteso Venerdì era finalmente arrivato.
Aprì gli occhi alle prime luci dell’alba, com’ero solito fare nei giorni in cui attendevo qualcosa di importante, non riuscivo a continuare a dormire sentendo l’eccitazione e l’energia dentro di me.
La luce del sole filtrava non proprio timidamente tra le fessure delle persiane socchiuse e la mia camera, piuttosto spaziosa per una sola persona e piena di ninnoli della mia infanzia, era pervasa dal cinguettio degli uccelli all’esterno e dal rombo molto lontano delle astronavi che sfrecciavano tra le nuvole.
Mi stropicciai gli occhi con le mani e controllai il cellulare: erano soltanto le 7:30, decisamente troppo presto per alzarsi essendo in piena estate; ma come ho già detto, quando l’eccitazione è troppa diventa difficile rimanere immobile nel letto ad attendere.
Mi alzai e trovai un post-it rosa appiccicato sulla tastiera del mio pianoforte digitale:
“Sono in banca, la cena è già pronta, scusa se non ci sarò oggi, ci vediamo stasera, baci, Jennifer”
Si scusava addirittura.
Mi sentivo davvero in colpa per come lei si prodigava per me, avrei voluto rendermi più utile nei suoi confronti, alleggerire il suo lavoro, ma al di là dell’aiutarla in casa non potevo fare molto.
Aveva bisogno di lavorare molte ore al giorno, era la sua valvola di sfogo per una vita piatta come quella che aveva avuto.  
Accesi la televisione per avere una voce amica mentre stavo da solo in casa.
Sullo schermo apparve la figura di una donna con un tailleur lilla e con un microfono in mano, in piedi sulla banchina di un porto di Queenstown, la capitale del piccolo mondo di Picon.
“In diretta da Queenstown, Playa Palacios, dallo Star Tribune di Picon! Allora Playa, quali sono gli ultimi aggiornamenti dalle tue parti?”
“Grazie Jeremy! L’aria qui è molto tesa da quando il sindaco ha dichiarato chiusa la trattativa per il riciclaggio del carburante nei porti. Il sistema monetario non è mai stato tanto instabile quanto oggi!”

La guardavo, mentre sgranocchiavo dei cereali al miele per colazione, e pensavo a quanto dovesse aver faticato per raggiungere la sua posizione attuale; Playa era una delle più famose giornaliste di Picon, se non di tutte le Colonie stesse, e la rivalità, l’aggressività e la competitività che probabilmente aveva affrontato sul lavoro non dovevano essere state certamente indifferenti.
Inoltre, non avrebbe potuto immaginare in quel momento che, un giorno, sarebbe giunta laddove nessuna giornalista prima di lei era arrivata prima.
Le vetrate dei grattacieli dietro di lei risplendevano quasi come di luce propria mentre nel porticciolo erano ormeggiate decine di barche e yacht lussuosissimi. Il biondo caldo dei suoi capelli creava un piacevole contrasto con il turchese acceso del cielo e dell’oceano, quell’oceano che ricopriva la quasi totalità della superficie di Picon.
Picon, il pianeta dalle acque turchesi.
Ricordo che era quella la didascalia sopra la sua foto sul libro di Geografia astrale alle elementari.
Spesso a scuola ci avevano fatto leggere storie provenienti da quel pianeta, forse per l’incredibile vena artistica dei suoi scrittori, considerati unici all’unanimità.
Ci avevo messo meno di tre giorni per leggere “Omicidio su Picon”, in seconda superiore:  non ero mai stato un lettore incallito ahimè, ma quel giallo mi aveva letteralmente catturato.
“Avremo sicuramente un’idea più chiara della situazione dopo la pubblicazione ufficiale del bilancio alla fine del mese, ma per adesso ci affidiamo ai fatti.”
“Beh, non vediamo l’ora Playa, questi intrighi sono sempre gustosi per i nostri denti. Ed ora passiamo ad altro: il presidente Adar ha indetto un decreto sulla costruzione di nuove strutture minerarie per l’estrazione di Tylium nelle colonie esterne…”

Mentre deglutivo il latte con i cereali mi resi conto che da lì a poche ore avrei dovuto incontrare Steven e in quel preciso istante sentì una fitta allo stomaco, non di dolore, più una specie di brivido.
“Miei Dei aiuto, che faccio?” continuavo a chiedermi.
Improvvisamente il mio guardaroba mi sembrò incredibilmente scarso e pieno di stracci.
 Non una sola t-shirt che mi piacesse, ne un paio di jeans che andasse bene; ero quasi tentato di restarmene in casa ed inventarmi una scusa per sfuggire all’incombente impegno, ma nello stesso momento in cui pensai questa cosa fui colto dal malsano desiderio di prendermi a schiaffi.
“Richard David Jenkins” pensavo “vedi di smettere di piangerti addosso all’istante o sono guai per te, ti avverto!”
Effettivamente sono sempre stato molto bravo a parlare da solo, come uno psicopatico.
Forse sono uno psicopatico.
In quel momento avevo decisamente bisogno di un parere amico, perciò presi in mano il telefono ed inviai un messaggio a Cassie, sperando che, nonostante dalle sue parti fosse piena notte, fosse magari colta da insonnia e mi rispondesse subito.
A pensarci bene è un ragionamento egoista.
“Cassie, aiutami, sono molto in ansia per oggi pomeriggio…” –R.David Jenkins [Eneris, Canceron; 8:12 AM]
“Hey, buona sera canceroniano..!” –Cassie Talbot [Oniana, Sagittarian; 8: 13 AM]
“In realtà è mattina qui… che ore sono da te?” –R.David Jenkins [Eneris, Canceron; 8:15 AM]
“Le due di notte genio. Vedrai che andrà benissimo!” –Cassie Talbot [Oniana, Sagittarian; 8: 16 AM]



In fondo tutti gli amici dicono che “andrà benissimo” quando hai un appuntamento, tutti ti augurano il meglio e danno per scontato che sposerai quella persona; come se fosse così facile poi. Tu invece non riesci a non vedere te stesso impelagato in una serie di figuracce concatenate e quindi ad una porta sbattuta in faccia.
O forse succedeva solo a me?
Ah, ripensando a quei momenti mi vedo così giovane ed ingenuo; nonostante siano passati soltanto cinque anni mi sento come invecchiato di dodici. E’ già una buona cosa che non abbia i capelli bianchi.
Ad ogni modo, decisi di vivere la situazione con fermezza e tranquillità: in fondo era soltanto un appuntamento, un’uscita con un amico.
Un’uscita con un amico? Oh dei, era soltanto un mio amico o voleva di più? L’ansia saliva nuovamente, ma mi ero appena raccomandato di stare tranquillo.
Il cellulare vibrò.
Un nuovo messaggio.
“Hey ciao! Allora oggi ci si vede?” Come se non bastasse la tensione che già stavo vivendo in quel momento.
Avevo ancora sette ore prima di quell’uscita, perciò dovevo davvero darmi una calmata se volevo sperare di arrivarci vivo; Will se ne stava appollaiato sul mobile e, mentre riempiva la stanza con il rumore delle sue fusa, mi guardava dritto in faccia. Aveva una strana espressione, se si può chiamare espressione quella di un gatto, come se mi stesse giudicando.
“Non ti ci mettere anche tu eh!” Dissi guardandolo negli occhi dall’altra parte della stanza.
“Vorrei proprio vedere se ci fossi tu nella mia situazione che faccia faresti!”
Oh miei dei, stavo discutendo con il gatto! Sono davvero uno psicopatico.

Riscaldai gli avanzi di pizza fredda della sera precedente e mangiai di fretta e nervosamente nonostante avessi tutto il tempo di farlo. Quando sono in ansia mi si chiude lo stomaco, e fu così anche quel giorno, tant’è che dopo due fette striminzite dovetti lasciar perdere l’idea di pranzare – se volevo evitare di vomitare il tutto poco dopo-.
Dovetti prendere l’autobus perché Jennifer non mi aveva lasciato l’automobile: sebbene ci volesse meno di mezz’ora per raggiungere Lewdan, mi sembrò un viaggio infinito in cui non riuscì a pensare ad altro che alle gaffe che avrei sicuramente fatto da lì a breve.
4.3 - “Artista”
Era una bellissima giornata, il sole splendeva, faceva caldo –fin troppo- e non accennava a peggiorare.
Ed ecco, l’autobus parcheggiò nello spiazzo di fronte alla stazione dei lev: Steven era sul marciapiede ad aspettarmi ed io lo vidi immediatamente ancora prima di scendere.
“Ok David, ci siamo, adesso vai e dim…AUCH” Sbattei la testa contro il corrimano accanto al mio sedile mentre mi alzavo: ancora oggi non so se lui se ne sia accorto, ma comunque quel piccolo gesto è ciò che più mi rappresenta; il mio terzo nome dovrebbe essere sbadataggine.
“Beh, ciao!” Disse sorridendo e tendendomi la mano –nonostante ci fossimo già scambiati una stretta al primo incontro-.
“Finalmente ci rivediamo!” Risposi ridendo.
“Finalmente? Ma sono passati solo tre giorni, non un secolo, David cominci subito??” Dicevano le voci nella mia testa. Riuscì a silenziarle facendo un leggero sforzo di volontà.
“Beh, dove ti andrebbe di andare?” Chiese mettendosi una mano sulla nuca; come la prima volta, mi persi per un secondo ad osservarlo, in modo discreto ovviamente, ma attento.
Era davvero bellissimo, e si era vestito bene per l’occasione.
Io con una t-shirt blanda ed abbastanza usurata, lui con una camicia bianca con le maniche rimboccate.
Questo mi fece sentire per un secondo a disagio, ma sperai di non fargli una brutta impressione.
“Non saprei, facciamo due passi mentre ci pensiamo?”
Così iniziammo a camminare verso il centro; io pensavo disperatamente a cosa dire per non lasciare momenti di silenzio imbarazzanti, Steven sembrava invece più tranquillo, decisamente più tranquillo.
Quasi due anni dopo, mi avrebbe rivelato che in realtà fosse più agitato di me, ma c’era ancora tempo per scoprirlo.
Ci sedemmo su una panchina nel centro del parco di Artemide; di fronte a noi era pieno di bambini che correvano felici sull’erba o che si divertivano sulle altalene, alle nostre spalle, un monumento ai caduti della Prima Guerra Cylone si ergeva per tre metri di altezza.
“Allora, che cosa fai di bello nella vita?” Chiese appoggiandosi con il braccio destro allo schienale della panchina.
“In questo momento nulla di particolare, ho appena finito il liceo e vorrei prendermi una pausa prima di scegliere quale college frequentare.”
“Hai delle idee?” Insistette.
“Beh in realtà si” mi appoggiai a mia volta con il fianco sinistro.
“Vorrei diventare un insegnante ma con tutte le riforme che hanno indetto dovrei studiare almeno per altri quattro anni.” Mi fermai per un momento e mi voltai sentendo un bambino ridere a squarciagola.
“Non che non lo voglia fare, amo i bambini, ma voglio rifletterci bene. Nel frattempo potrei iniziare a lavorare e dare una mano a Jenn… alla mia madre adottiva diciamo.”
Steven si voltò per un attimo verso i bambini per poi rispondermi.
“Oh… mi dispiace, non lo sapevo! E come va… se posso?” Colsi un filo di tristezza nella sua voce, o forse era più una forma di imbarazzo dovuta alla paura di essere stato indelicato.
“Ma no, figurati! Va tutto bene ormai! La mia famiglia ha una storia molto lunga, non vorrei annoiarti..”
“Mettimi alla prova!” Rispose accennando  un mezzo sorriso, la sua solita espressione a metà tra l’introverso e la sfida. So di averlo già detto in precedenza.
A quel punto posi lo sguardo verso i palazzi oltre il parco, alti quasi ottanta metri e ricoperti di metallo grigio e vetro-cemento.
“I miei genitori sono morti quando avevo un anno.”
“Mi dispiace..”
“ Io sono nato qui su Canceron ma loro erano di Virgon.”
Steven sobbalzò.
“Virgon? Dei, wow! Hai sangue virgano nelle vene?”
“Eh già!” Risi “La cosa buffa è che non ci sono mai stato! Non sono mai uscito da questa fogna di pianeta” Dissi in modo ironico.
Io non odiavo affatto Canceron, non lo sentivo realmente la mia casa, ma non lo odiavo, ne tantomento consideravo una fogna, anzi vi ero affezionato.
Detestavo il fatto che fosse il pianeta più affollato delle Colonie, e non sopportavo che avesse uno dei più alti tassi di povertà ed indigenza che lo ponevano in terza posizione dopo Sagittarian ed Aerilon.
Se soltanto il governo avesse dedicato più risorse e denaro alle opere umanitarie come il risanamento delle baraccopoli o come i servizi di volontariato per i meno fortunati, anziché solo alla gestione dei pozzi di trivellazione mineraria, la situazione sarebbe stata sensibilmente diversa e avrebbe fatto di Canceron un mondo migliore –che in realtà avrebbe avuto molto da offrire-.
“Dai, questa fogna non è così male in fondo!” Rispose ridendo a sua volta.
“Beh, per noi forse no, ma ci sono zone veramente lasciate al loro destino… ma non parliamo di questo adesso!”
“Giusto!”
“Beh te lo dico, il mio sogno più grande è di poter vedere Virgon un giorno e chissà, magari trasferirmici.” Mi resi conto di non averlo mai detto a nessuno, nemmeno a Jennifer. In quello stesso istante pensai che lei aveva lasciato quel pianeta per me, ed ora io, sognavo di ricompensarla andandomene e lasciandola lì da sola. Mi sentì terribilmente egoista, ma il mio conflitto interno fu interrotto dal discorso con Steven che nel frattempo proseguiva.
“Mi sembra un bel progetto!” Disse facendo cenno di si con la testa. Poi si avvicinò leggermente ed iniziò a gesticolare.
“Comunque in fondo, siamo quasi connazionali se ci pensi. Voglio dire, si ora lo siamo, ma lo saremmo anche per quanto riguarda le origini! Virgon e Leonis orbitano attorno alla stessa stella e hanno collaborato molto spesso nella storia!”
“Si… nei momenti in cui non si combattevano.” Scoppiammo a ridere entrambi. I nostri pianeti si erano combattuti aspramente diverse volte, agli albori della colonizzazione. Da quando l’umanità aveva lasciato Kobol ed era arrivata su questi mondi aveva vissuto una serie di prevaricazioni continue per il dominio dei degli uni sugli altri.
Fortunatamente, quegli eventi appartenevano ad epoche lontane, diverse e meno civili della nostra.
“Beh ma… dimmi qualcosa di più di te! Vieni da Leonis e? Aneddoti? Sogni per il futuro?”
Gli chiesi interessato appoggiandomi nuovamente allo schienale.
Ora una piacevole brezza ci accarezzava gentilmente.
“Oh si certo. Beh, come ti dicevo i miei genitori hanno divorziato quando ero piccolo… mio padre non c’era mai. Mai.” Quel “mai” fu pronunciato in tono quasi solenne.
“Hai detto che lavora nella flotta, giusto?”
“Si, è un ufficiale della Flotta Coloniale, è in servizio sulla Yashuman da sei anni. In questo momento probabilmente è in orbita attorno a Caprica o Tauron.” Il tono della sua voce si fece leggermente aspro.
“In passato è stato di ruolo su altre navi, ha viaggiato per tutte le colonie, ma il luogo dove non è mai stato è a casa con noi… a questo punto non vorrei essere io ad annoiarti con questa storia.” Al chè chinai il capo e gli risposi “Ma no, figurati!”
Lui però non ne voleva davvero parlare, lo notai dallo sguardo nei suoi occhi.
“Ho vissuto ad Erima per otto anni” Disse “E’ una città di mare ai piedi di un vulcano inattivo, è vicina all’equatore.”
“Come mai siete finiti anche voi quaggiù, se posso?” Gli domandai.
“Dopo il divorzio mia madre voleva ricominciare da capo… non che avesse molto da dimenticare, lo dico onestamente. Le sue sorelle vivevano su Canceron già da anni e allora fu una decisione quasi scontata.”
Si grattò per un secondo la barba.
“Capisco!”
“Lui ci invia un assegno ogni mese, beh, sostanzioso diciamo. Ha anche proposto di pagarmi gli studi..”
Questo intermezzo mi consentì di aprire una nuova parentesi.
“Cosa vorresti fare dopo il liceo?”
A quel punto, il sorriso ritornò sulle sue labbra donandogli un aspetto meraviglioso.
“Vorrei cantare! Cioè.. io già canto! Sono un cantante ma vorrei esserlo a livello professionale! Sai, formarmi definitivamente, magari riuscire a sfondare!”
Un cantante! Stavo uscendo con un cantante, questo rese Steven ancora più interessante di quanto non fosse già di per se.
“Wow, è fantastico! E’ il miglior mestiere che conosca Steve!”
Steve. Era la prima volta che lo chiamavo per nome e già gli davo un diminutivo; un secondo dopo averlo pronunciato guardai in basso sorridendo.
“Assolutamente!” Disse ridacchiando “E’ esattamente come la pittura! Cioè, in un certo senso. Ti permette di esprimere te stesso con la voce e le parole..” In pratica avevo davanti un artista.
“L’unico problema è che qui sarebbe un po’ difficile per me, passami il temine…spiccare il volo…
“Come mai?” Chiesi.
“Non ci sono accademie musicali valide su Canceron, per quanto riguarda l’arte in generale siamo davvero poveri.. dovrei trasferirmi altrove..”
“Trasferirti?”
“Si… su una colonia il cui settore artistico sia più evoluto. Non saprei, Caprica, tornare su Leonis… o Virgon!”
Sgranai gli occhi: avevo appena accennato al mio desiderio di andarci e lui se ne saltava fuori con questa cosa.
“I Virgani sono i primi artisti delle Colonie, lo saprai meglio di me immagino! La loro moda! I loro capi d’abbigliamento sono venduti ovunque, tanto per dire!”
“Si hai ragione, mio padre era uno stilista infatti!”
“Ecco! Questo intendo, voi siete probabilmente l’incarnazione dello spirito artistico!”
Quella sua affermazione mi fece quasi arrossire. Era un complimento generale per il mio popolo… o per me? E perché dopo così poco sembravano già esserci le premesse per un futuro? Addirittura avevamo la stessa meta in mente? Potevo essere davvero così fortunato? Potevano queste combinazioni essere tutte a mio, a nostro favore?
Mi persi a guardarlo mentre parlava animosamente dei suoi interessi, dei suoi cantanti preferiti, dei generi che amava; mi resi conto di essere totalmente rapito dalla sua figura gesticolante –gesticolava davvero tanto nei momenti in cui parlava di cose che lo interessavano-.
Non mi sentivo in quel modo da tanto, si da tanto.
Così tanto da non ricordarmi quando fosse stata l’ultima volta… in realtà non ce n’era una.
Era la prima volta che mi sentivo in quel modo, dissi a me stesso mentre lo ascoltavo in silenzio.
Sorridevo, annuivo, gli facevo cenno di continuare.
Sorridevo.
Probabilmente era già nato tutto in quel momento, su quella panchina nel parco verde in mezzo a bambini allegri. Era già nato tutto allora.
Era già tutto vero per me.
“Scrivo anche canzoni!”
“…Cos..cosa?”
“Ho detto, scrivo canzoni!”
Mi ero perso per qualche minuto; richiamato alla realtà risposi:
“Oh wow! Vorrei sentirle!”
Imbarazzato, si passò una mano tra i capelli
“Magari più avanti dai!”
“Guarda che ci conto!” replicai con insistenza.


4.4 –“Enchanted”
Camminammo per le strade della cittadina per diverse ore per poi ritrovarci nuovamente di fronte alla stazione dei treni Lev, dove i nostri rispettivi autobus ci avrebbero riportato a casa.
Ricordo quanto mi piacesse quel viale alberato, e quanto il verde delle piante di Lewdan facesse sembrare diversa la città dal resto del pianeta, come se fosse un’isola felice, come al suo esterno se non ci fossero inquinamento e grigiore. La luce del sole del tardo pomeriggio filtrava delicatamente tra le foglie e proiettava timidi raggi sulla strada, dove le automobili procedevano velocemente ed incessantemente.
“Mi ha fatto davvero piacere conoscerti!” Disse Steven incrociando le braccia.
“Anche a me! Se ti va di rivedermi potremmo…”
“Certo!” Non mi lasciò nemmeno finire la frase.
“Beh… allora ci vediamo!” Ero incerto se farlo o meno, ma mi avvicinai a lui e provai ad abbracciarlo –uscì una cosa strana a dir la verità, una sorta di abbraccio incerto e timido ma allo stesso tempo sentito e soprattutto, corrisposto-.
“Non so abbracciare!” Disse ridendo “E’ imbarazzante!” Quanto meno mi sentivo meno solo nel mio disagio.
Salimmo entrambi sui nostri mezzi e ci salutammo dal finestrino.
Ricorderò sempre la sensazione che provai mentre me ne stavo seduto sul mio sedile guardando la campagna in movimento all’esterno, come se avessi realizzato proprio in quel momento come mi sentissi a riguardo.
Avevo il sole in faccia e sorridevo. Sorridevo, come in auto tre giorni prima, sulla stessa strada, di ritorno dallo stesso luogo.
Scesi dall’autobus e mi guardai attorno: sembrava che gli alberi e gli edifici vicini fossero tutti partecipi della mia felicità. Oh dei, ero felice? Per così poco? Così in fretta? Si, lo ero.
Ero felice.
Quel giorno vide l’inizio della mia felicità che, tra alti e bassi, non se ne sarebbe mai andata. Mai.
Ero stupefatto, ed arrossivo sulla via di casa.
Ero incantato.

Quell’incanto si sarebbe trasformato, un giorno, nella mia ragione di vita.
Continua…
   
 
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