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Autore: Ater_Hailie    11/12/2015    0 recensioni
William è sempre stata diversa rispetto agli altri, anche solo attraverso quel nome, e mai avrebbe desiderato diventare come i suoi coetanei, evitando ogni loro contatto e ogni opportunità.
Semplicemente lei voleva esser così.
Diversa. Strana. Nerd. Chiamatela come volete, visto che anche i suoi chili di troppo e la bellezza non troppo invidiabile accentuavano quel suo modo di essere.
Ma purtroppo, come le Leggi Universali spiegano, nella sua vita subentra, senza preavviso, una forza che scatenerà una serie di eventi per lei apocalittici.
Il suo nome? Fidanzato di suo fratello, il Centro di Gravità.
Genere: Comico, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Tutta questione di Karma

Non diciamo stronzate,
tutta questione di me e te.
 
 
In quel momento, sdraiata a terra, a guardarlo dritto negli occhi con le mani che stringevano il cemento, tutto sembrava ruotare sotto e sopra di me. Il suo volto, perfettamente scolpito, il cielo color pioggia, il freddo a contatto con la mia pelle e perfino me stessa, che quasi vivevo un istante da ragazza normale. Ma io non volevo ritrovarmi in quella situazione, con un semidio della sponda dubbia che mormorava sopra di me quelle parole ambigue con quella dannata bocca tentatrice, se non dispensatrice di insulti poco creativi.
Ferma per pochi istanti che mi sembrarono eterni, a fulminarlo con i miei occhietti da assassina, con probabilmente le guance arrossate, aspettando che si levasse. Ma lui, ritardato com’era, nemmeno con le mie sopracciglia alzate lo aveva capito, e stava lì, a guardarmi con semplicità, come se fosse un qualcosa di normale.
Ucciderlo, ripeto fino alla mia morte, non sarebbe manco peccato.
- Levati – Sbottai, quando ormai tutta la mia speranza di provare a comunicargli qualcosa senza parlare era svanita, e non mi scomposi, rimasi la solita e fredda asociale sociopatica dei bei tempi ormai remoti. Il Tacchino, stupito dal mio comportamento e reso stupido dalla sua esistenza, non disse proprio nulla, ma semplicemente si alzò e mi porse la sua mano come aiuto, che naturalmente ignorai con una certa grazia da acida.
Non me la raccontava giusta, anche se a parte quelle tre paroline non aveva detto nulla. Fino a due ore prima mi aveva preso in giro e si era sdraiato, ridendo come una iena, sul mio banco, a godersi la scena di una povera ragazza spiaggiata sul pavimento, e ora era lì a sorridermi come se fosse nulla?
Uno odiavo i contatti fisici con lui, visto che cadevo sempre e mi ritrovavo con tante piccole macchie sulla mia pelle, e due, quel sorriso genuino era più finto delle creme dimagranti o delle barrette senza zuccheri. Aveva gli occhi troppo svegli, la bocca troppo sgargiante, e aveva agito con me in modo totalmente differente rispetto a quello ormai solito, dove quasi si nascondeva in una tuta per radiazioni. Perfino, dopo avermi inseguito, aveva fatto pure quell’insulso gesto con quella manina spocchiosa da nobile, cercando di spacciarsi per il buono di turno. Un buono a cui piaceva cader sopra le persone come minimo.
- Perché quello sguardo? – Mi domandò, inclinando la testa come se fosse una persona simpatica. Si, simpatica quanto una verifica a sorpresa o i compagni di banco lecca deretano. Finalmente però, senza dover parlare, aveva capito qualcosa probabilmente spiaccicato in faccia, con tanto di luci, ma non era una gran cosa, perché ancora faceva finta di esser una candida anima del paradiso.
- Cosa vuoi da me? – Rifilai subito, con quel bellissimo tatto che a me mancava, pregando dei pagani e non che la sua stupidità non fosse così irrimediabilmente diffusa.
Un secondo, poi due. Poi altro tempo di totale silenzio, in cui quell’ebete era capace solo a sorridere. Altro che bionde, lui le batteva tutte con quel suo ritardo mentale, e io come una stupida lì a provare perfino a portare lodi agli dei dell’Olimpo. Speranza nell’umanità? Persa del tutto.
Ero perfino pronta a renderlo nuovamente pelato se il silenzio fosse continuato, ma appena avevo accennato un movimento di dita, lui mi rispose, con tanto di gote rifatte e occhietti luccicanti.
- Non posso solo aver voglia di vederti? –
Voce falsa, atteggiamento da fantoccio, occhi che presto si sarebbero tramutati in quelli di un bassotto. Ma ancora credeva che con me certe tecniche attaccassero? E dire che non ero l’unica nerd con cui aveva a che fare.
- E tu pensi che io creda a certe cazzate? Ragazzo, il tuo ritardo mentale è disturbante. – E dicendo ciò, con la voce che ormai era puro cianuro, allungai le mani, per allontanarlo ancora un po’ da me, visto che quel suo piede allungato dava tanto l’idea di una mossa con reazioni molto violente. Lui rimase naturalmente, come ormai ci avevo fatto l’abitudine, perplesso e senza dire una parola, incominciò a scuotere il capo, abbassato verso il cemento per nascondere la sua espressione. Probabilmente, e non lo dico io ma il C.E.R.O., lui aveva creduto troppo nei suoi ferormoni, che per questioni di fisica avrebbero dovuto attirarmi verso di lui e rendermi una sua specie di schiavetta personale, ma non aveva fatto i conti con i miei anni di allenamenti al distacco sociale e all’isolamento che mi avevano reso quasi totalmente aria. Plebeo.
I momenti di silenzio in quella giornata erano mancati, ma in quella strada sembravano fin strazianti, con una povera ragazza che aspettava un qualcosa che mai sarebbe arrivato. A pensarci, quel momento avrebbe potuto descrivere il resto della mia vita, lì, ad aspettare ciò che mai sarebbe arrivato. Ma questo, lo capirete in seguito.
Mi girai, con un sospiro pesante simile a quello di Darth Vader, e decisa a chiuderla lì, feci per andarmene, dandogli per l’ennesima volta le spalle che mi sembravano fin troppo leggere. Stranamente lui non mi fermò come il suo solito, ma anzi, sembrava essersi allontanato dalla parte opposta rispetto alla mia, e ciò poteva solo rendermi più sollevata. Che avesse deciso di uscire dalla mia vita definitamente?
Eppure mi sembrava improbabile, anzi, impossibile. Era stato troppo semplice, troppo veloce e indolore, senza litigi, senza sguardi. A saperlo, l’avrei fatto prima, ma in fondo ero convinta che non sarebbe finita così. Parlavamo di me, e il soggetto era lui.
Girai un poco la testa, per controllare le mie supposizioni, e subito mi accorsi che il mio sesto senso era davvero peggiore di una Panda militare degli anni ’90: Alexander James non aveva deluso le mie aspettative, con il suo cappuccio da stupratore sulla testa e i suoi occhietti da bassotto visibili perfino da lì. Pensava che fossi tornata indietro solo per lui? Bella quella.
Feci per tornare a guardare avanti, quando naturalmente presi l’unico palo di quella fottutissima strada in piena faccia, per meglio dire sul povero occhio destro. Naturalmente caddi, cosa ormai fin troppo scontata per quella dannata giornata, e subito sentii le sue maledette risate riecheggiare tra quelle poche macchine che passavano, cosa che mi mandò in bestia. Quel ragazzo aveva lo stesso umore di una donna mestruata, se non incinta: prima ride, poi implora un qualcosa di incomprensibile per poi tornare a ridere sulla sua futura morte, tutto con una semplicità che faceva accapponare la pelle.
- Vai a fare in culo! – Urlai con tutto l’amore che provavo per lui, rimanendo sdraiata a terra e alzando un dito medio al cielo, e constatai che quei poveri occhiali mascheratori di verità si erano rotti, con tanto di lente uscita dalla montatura e finita chissà dove. Giornata di merda, il ritorno.
Cosa poteva aggiungersi a quel piccolo e schifosissimo momento? La cartella mancante, naturalmente. E dov’era? Provate a indovinare.
Di scatto girai il mio sguardo, che per poco non era iniettato di sangue e demoni, e la vidi bella che sdraiata come la sua proprietaria di fianco a quell’individuo dalla dubbia vita, che stava ghignando soddisfatto. Ecco perché non mi aveva inseguito, bastardo.
Afferrai tutti i pezzi degli occhiali, per poi infilarli nelle tasche della felpa, e con una specie di raptus da impossessata/indemoniata, mi alzai, camminando a grandi passi verso di lui. Rideva, fino a quando i metri tra di noi divennero cinque, per poi cancellare quel sorrisetto malefico dal suo volto e lasciare una certa preoccupazione nella sguardo, facendomi godere di quella trasformazione repentina a cui assistevo ogni volta che mi vedeva. Continuai a camminare, fissandolo intensamente con occhi seri e infuocati di rabbia, sfidando così il destino che mi si parava davanti con tanto di ostacoli a terra, fino ad arrivare a meno di un metro da lui. Senza cambiare espressione, rimasi qualche secondo ferma a continuare quel contatto visivo, per poi chinarmi di scatto e prendere la cartella, finemente buttata a caso a lato della strada e ben coperta di fango e chissà cos’altro. Proprio l’unica pozza di fango doveva beccare?
Poi, come se nulla fosse, tornai sui mei passi, ripercorrendo per l’ennesima volta quella strada ormai diventata fonte di sciagure, sperando e supplicando che quello stupido umano uno venisse a rompere nuovamente. Secondo voi?
Per l’ennesima e stupidissima volta mi afferrò per un polso, e tenendolo ben stretto, mi fece voltare verso di lui, nonostante io stessi cercando di liberarmi. Un abbraccio, il secondo di quella giornata, e mi ritrovai spiaccicata contro il suo petto, con le sue pesanti braccia a gravarmi sulle spalle e con le labbra quasi appoggiate al mio orecchio. A ogni respiro, mi salivano i brividi lungo la schiena, e a ogni singolo movimento, sentivo il suo cappuccio sulla mia pelle, leggermente accapponata dalla situazione. Provai a spingerlo via, con la poca forza che avevo, ma tutto fu estremamente vano appena lui incominciò a parlare.
- Non andartene, ho bisogno di te – Mormorò.
Si, semplicemente mormorò, ma quelle parole moleste rimasero attaccate come sanguisughe ai miei brividi, che si erano intensificati. La sua voce aveva preso nuovamente una nuova sfumatura, che quella volta era reale. Niente finzioni, niente apparenze, sentivo la verità a un centimetro dal mio orecchio e il mio cuore che batteva all’impazzata per colpa di quella stupida creatura. Ma non ero sicura della sua serietà, perché anche i giorni precedenti mi aveva fregata con quelle stesse parole. Ma perché doveva fare così? Perché mandarmi così tanto in confusione?
Cosa avevo fatto di male per doverlo conoscere?
- L’hai detto anche l’altra volta – Sussurrai secca, smettendo però di dimenarmi tra le sue braccia, e aspettando silenziosamente la sua risposta, ascoltai i suoi respiri alternati, che sembravano fin tesi, preoccupati per qualcosa. In quel momento, i miei dubbi divennero sicurezze, e l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era la sua situazione, la sua relazione con mio fratello. Avevano fatto una cazzata, sicuro come l’oro.
- Questa volta per davvero, credimi – Mi rispose, per poi staccarsi da quel maledetto abbraccio, che mi sembrò estremamente un’arma letale, e ci guardammo, senza più bisogno di parole. In fondo, c’era di mezzo mio fratello, anche se ancora non lo aveva menzionato, e per quanto lo odiassi, mi sembrava in una posizione troppo indifesa per poterlo lasciare da solo. Era proprio come un cucciolo di cane, quel piccolo bastardino, e io, impegnandomi, non riuscivo a rimaner indifferente.
Forse ero troppo buona in quella settimana.
Lo afferrai per un lembo del giubbotto e lo trascinai nello stesso vicolo in cui l’altro giorno aveva ripetuto quelle parole, e continuai a camminare, senza parlargli o guardarlo. Conoscevo un posto dove potevamo parlare indisturbati, in cui andavo da piccola a leggere i libri quando mia madre mi portava incautamente al parco giochi, che naturalmente io detestavo. Non era lontano, ma in quel silenzio, e in quella situazione dove ero obbligata a toccare indirettamente quella persona mi sembrarono chilometri in salita e silenzio agonizzante, e ogni singola parola che vorticasse in testa era spenta o senza significato. Non riuscivo più a capirlo, e nel farlo, non capivo nemmeno me stessa.
Alla prima panchina, che grazie al freddo di Ottobre era ben libera, mi sedetti, e subito lo guardai con tutta l’apatia che mi era rimasta. Dentro stavo morendo di preoccupazione, ma non potevo cedere alla tentazione di mostrarlo a quello lì, conosceva troppo di me, troppe mie debolezze che avevo custodito gelosamente.
- Cos’è successo? – Chiesi subito, visto che le sue parole tardavano ad arrivare, e portandomi le ginocchia al petto, lo osservai, in tutta la sua insicurezza. Era amore quello che lui provava?
Che strano sentimento, se fosse stato così. Ti fa sentire onnipotente per poi renderti pappa per cani, tutto in meno di un secondo. Eppure tutti lo lodavano come se fosse la cosa più bella di questo mondo. Va bene che in quel Complesso divinizzavano i senza cervello e le bionde munite di airbag, ma esser devoti a una così grande autodistruzione mi sembrava assurdo. Stupido, proprio come quel ragazzo.
Lui non rispose, naturalmente senza mai posare il suo piccolo sguardo sui miei occhi ben freddi e distaccati, che già respiravano un’aria di rabbia che avevo deciso di non usare in quel momento. Stando zitto cosa credeva di ottenere, di preciso?
- E’ coinvolto anche mio fratello direi – Sospirai, provando a stuzzicarlo per ottenere una qualche frase di senso che raramente riusciva a formulare, ma l’unica cosa che riuscii ad ottenere fu la sua testa che dondolava su e giù lentamente, con le sue gote che si coloravano di un bel rosa accesso.
Dio Santo, era proprio innamorato, e perfino una profana come me lo capiva.
In quel momento sembrò bello, ma non quella bellezza che ti fa salire gli ormoni, ma quella semplice espressione che ti fa sentire tutto, ogni singolo timore e ogni grammo di felicità provata, ogni piccola coincidenza dovuta dall’amore. Era bello, indifeso nel suo sentimento, e la cosa non poteva far nulla se non farmi riflettere. Chi era realmente Alexander?
Un bravo bugiardo, un ragazzo strafottente e arrogante, colui che si credeva un dio sceso in terra e che non temeva di ridere. Fragile, innamorato, troppo legato alle apparenze da dover mentire costantemente sia agli altri che a sé stesso, senza mai poter prendere un momento di libertà. Alexander James era una maschera, un inganno per saziare i viventi del C.E.R.O. Perché?
Continuai a guardarlo, mentre inconsapevolmente rivelava aspetti di lui che mai avrei immaginato, e con una voce strozzata dalla preoccupazione, si girò verso di me, e mi disse tutto.
- Ci hanno visto mentre ci baciavamo, Will. –
Occhi lucidi, labbra che tremavano, e uno sguardo perso che provava a trovarsi dentro di me.
Merda.
   
 
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