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Autore: Curleyswife3    12/12/2015    1 recensioni
[M.A.S.K.]
[M.A.S.K.][M.A.S.K.]Il 30 settembre 1985 veniva trasmesso negli USA il primo episodio di M.A.S.K.
Oggi, trent'anni dopo, fioriscono le iniziative per festeggiare un compleanno tanto impegnativo e io voglio dare il mio piccolo contributo con questo racconto.
Che è soprattutto una storia d'amore, ma non solo. È anche una storia sull'amore, il monello con le ali che tutto vince e tutto sconvolge. Sulle sue sorelle maggiori - colpa, redenzione, speranza - e sul suo fratello più ingombrante, il dovere.
Su ciò che siamo o non siamo disposti a mettere in discussione per amore.
Un racconto che ha l'ambizione di dare alla serie ciò che gli autori non hanno ritenuto necessario, vale a dire un finale. Un finale vero, corale, in cui ciascuno trova il suo posto come le tessere di un puzzle riuscito.
Al racconto è agganciata una playlist di canzoni (a ogni capitolo corrisponde un titolo) che potete già ascoltare su youtube nel mio account, che ha lo stesso nickname: è una specie di "sommario emozionale" della storia, fatemi sapere se l'idea di piace! Vi lascio di seguito il link.
https://www.youtube.com/playlist?list=PLTL5afe9YpdjzGwDOuNpkZymR_g9EL4qp
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Vi siete mai chiesti come mai il rombante veicolo di Vanessa si chiama Manta? Forese è venuto il momento di scoprirlo, insieme a qualcosa di importante sul passato della nostra cattiva preferita.  
 
APOLOGIZE
 
Mentre l’aereo si preparava ad atterrare, Vanessa ripensò all’ultima volta che aveva messo piede nel suo paese: erano passati solo un paio d’anni, eppure le sembrava tutto così sfocato, così lontano!
Era stata lei a proporre a Mayhem di rubare i gioielli della corona. Forse, considerò, l’idea di violare la Torre di Londra le sembrava divertente, le dava l’impressione di godersi la sua vittoria contro tutto un mondo che odiava e da cui si era sempre sentita rifiutata.
Ripensandoci adesso…Santo Dio, che idea folle e assurda!
Eppure erano arrivati vicinissimi a farcela, se non fosse stato per Matt e i suoi: all’epoca era stata così furiosa contro di loro che, se li avesse avuti tra le mani, gli avrebbe volentieri torto il collo.
E invece ora si sorprendeva a ringraziarli mentalmente, giacché le avevano impedito di fare una cosa di cui si sarebbe pentita per il resto della sua esistenza.  
Sospirò e si appoggiò al sedile, chiudendo gli occhi.
Aveva guardato dentro lo specchio della sua anima e ciò che vi aveva visto riflesso non le era piaciuto: aveva visto una donna piena di paura e di rancore, che per punire chi l’aveva fatta soffrire aveva finito col punire solo se stessa.
Si era circondata di persone di cui non le importava poi molto e che di certo non le volevano bene; delinquenti da quattro soldi, disgraziati, uomini meschini.
E lei non era poi migliore di loro. Anzi, forse era peggiore.
Anche se non conosceva molto delle vite dei suoi compagni di avventure - tra loro nessuno aveva voglia di parlare del passato e la discrezione era considerata necessaria per la sopravvivenza quotidiana - sapeva che a differenza di lei non avevano avuto l’occasione di vivere in maniera diversa.
Lei, al contrario, aveva scelto consapevolmente di andare a fondo, di percorrere una strada che sapeva l’avrebbe condotta sull’orlo dell’abisso. Solo per rabbia e desiderio di vendetta.   
Aveva voltato le spalle alla sua terra, alla sua famiglia, aveva lasciato la sua casa senza farvi più ritorno…e per che cosa?
Vanessa Warfield amava la solitudine, spesso per lei era stata addirittura un’esigenza, eppure in tutta la sua vita non si era mai sentita sola come in quel momento.
Adesso vedeva dentro di lei con impressionante chiarezza: ogni gesto, ogni singola scelta, si stagliavano limpidi davanti a lei ed era impossibile ignorarli o fare finta che fosse andata diversamente. 
 
***

“Ciao, papà” disse a mezza voce.
“Torno qui dopo tanti anni e non ho portato nemmeno un mazzo di fiori… mi dispiace”
Sorrise amaramente.
“Ma del resto lo sai… non sono mai stata una figlia perfetta, la figlia che tu avresti voluto. O che avresti meritato”.
“L’ultima volta che ti ho visto mi hai detto che prima o poi sarei tornata. Allora non ci credevo, e invece hai avuto ragione”.
Esitò un attimo.
La piccola cappella era in penombra e tutto d’intorno non si udiva alcun rumore tranne il triste ticchettio della pioggia sul tetto.
Gli occhi le si riempirono di lacrime.
“Perdonami” mormorò “i-io non riuscivo a capire perché tu fossi sempre così freddo, così ostile con me…perché sembravi sempre in lotta contro il mondo intero.
Non capivo che quando la mamma era morta, una parte di te era morta con lei.
Non credevo fosse possibile, perché non avevo idea di cosa significasse amare qualcuno più della propria stessa vita”.
“Io non potevo capirlo, no…”
Adesso le lacrime le rigavano le guance.
“Ero solo una bambina che avrebbe voluto essere amata e invece si è sempre sentita rifiutata…ora so che non era colpa tua, che non ce la facevi, che il dolore ti soffocava. Era più forte di tutto il resto”.
“Sono scappata di qui perché non volevo diventare come te e in tutti questi anni mi sono detta che non avrei avuto mai bisogno di nessuno, che sarei stata in grado di bastare a me stessa per sempre.
Perché dentro di me sentivo che amare qualcuno così profondamente era un rischio terribile e io non volevo correrlo.  
E invece…”.
Si asciugò gli occhi.
“E invece alla fine è successo. Nonostante io avessi fatto di tutto per evitarlo”.
È successo e io sono stata incredibilmente felice, come non avrei ma sperato di essere. Anche se dentro di me sapevo che non poteva durare”.
Scosse il capo, tristemente.
“Lo sapevo, ma quando è finita ho provato un dolore così vivo e forte da farmi temere che non sarei più riuscita a venirne fuori.
Poi ho tentato di ricominciare, di riprendere in mano la mia vita dal punto in cui si era interrotta, ma era come se qualcosa si fosse spezzato dentro di me.
Così alla fine ho capito… ho capito perché tu stavi così male, perché mi trattavi in quel modo: non perché odiassi me, ma perché odiavi la vita stessa e ogni singolo giorno che dovevi passare senza la mamma”.
Deglutì.
“Sai, papà, sono stata in prigione” esalò alla fine.
“È stato orribile.
Era come se la vita si fosse fermata, per me, come se il tempo descrivesse un cerchio incessante attorno a un centro di dolore.
Lì dentro ogni momento - mangiare, bere, dormire, camminare - era scandito da regole e tempi immutabili e inflessibili. Io non sapevo cosa accadeva fuori, fuori il cielo poteva essere azzurro oppure d’oro, ma la vetrata dalle sbarre di ferro delle nostre celle lasciava entrare solo una povera luce sporca”.
“Dentro le celle c’è sempre la penombra del crepuscolo” disse con voce appena udibile.
“Il crepuscolo ha invaso pure il mio cuore”.
Sollevò gli occhi verso il medaglione circolare che ritraeva il volto di suo padre come era stato da giovane e lo fissò con intensità.
“Ma adesso sono qui.
Sono qui per raccogliere i pezzi della mia vita e ricominciare da capo”.
Per un istante, si guardò la pancia appena appena evidente sotto il maglione.
“Questo posto, la mia famiglia, questo bambino… ecco, è tutto ciò che mi resta.
È la mia più grande scoperta, è il punto di partenza di una vita nuova.
È una verità che si è formata nel mio cuore.
Se qualcuno me ne avesse parlato, se tu mi avessi detto che sarebbe accaduto, non ci avrei mai creduto. Anzi, forse mi sarei arrabbiata, l’avrei rifiutata.
Ma siccome l’ho trovata io stessa è necessario averne cura e ascoltarla.
È l’unica cosa che ha in sé i germi della vita, di una nuova esistenza per me.
L’ho conquistata a patto di rinunciare a tuto ciò che possedevo.
Quando tutto era perduto, mi sono accorta di averla guadagnata”.
Sospirò e si avviò verso la porta.
“Ora che ho capito che è dentro di me, io vedo assai chiaramente ciò che devo fare”.
Era appena uscita quando le nuvole temporalesche si diradarono per un istante e un tenue, ma chiaro, raggio di sole le attraversò.
Entrò dalla vetrata colorata e andò a illuminare esattamente il volto di bronzo del defunto barone.
Unica chiazza di luce nella penombra, sembrava quasi che sorridesse.
 
***

Mentre il taxi percorreva il viale, Vanessa sentiva il cuore batterle all’impazzata nel petto.
Gli alberi avevano tronchi massicci e chiome fitte: erano antichi, considerò, almeno quanto la casa. Se quattro uomini avessero cercato di abbracciarli, toccandosi la punta delle dita, c’era da dubitare che ci sarebbero riusciti.
E lei era lì, con la testa fuori dal finestrino a fissare il vecchio palazzo che si stagliava cupo sull’orizzonte.
All’improvviso, dopo una svolta, se lo trovò davanti.
Era esattamente come lo ricordava: un imponente edificio grigio e nero, con enormi travi scure che lo attraversavano e ampi frontoni bianchi sporgenti che parevano rivolti al cielo. Su di loro erano incise figure di alberi, in modo così preciso che si sarebbe potuto contarne le foglie.
I vetri esterni, smerigliati, davano su una grande anticamera e tutte le finestre avevano persiane vecchio stile.
Solo poche di esse erano aperte: anche questo lo ricordava, giacché pure quando era bambina in quel grande palazzo non abitavano che poche persone e la maggior parte delle stanze era chiusa.
Pagò in silenzio e scese.
Oramai il temporale si era placato lasciando il posto a un tramonto dolce, vellutato.
Respirò l’aria fresca, pulita dalla pioggia, piena di profumi che credeva di aver dimenticato per sempre.
La ghiaia del vialetto scricchiolava sotto le sue scarpe.
Aprì il vecchio cancello di metallo, che si lagnò con un penoso cigolio, ed entrò nel cortile, vasto e signorile. Lo ricordava circondato da quello che un tempo era stato un rigoglioso giardino e che invece adesso era ridotto a uno squallido prato stopposo.
La vasca asciutta dell’antica fontana di marmo, qualche albero da frutto devastato e incolto le rammentarono come in passato quello fosse stato un angolo delizioso in cui riposare all’ombra degli alberi, circondati dalla bellezza dei fiori e dal dolce mormorio dell’acqua.
Invece adesso tutto sembrava grigio, opaco, come se gli anni e l’abbandono avessero ricoperto ogni cosa con una patina sottile.
Avanzò, mentre la luce pian piano si spegneva.
A sinistra scorse l’ombra di un basso edificio che aveva ospitato le stalle: una fitta di nostalgia la scosse all’improvviso… quanto tempo era che non pensava più a quel periodo della sua vita?
Inizialmente, quando suo padre le aveva imposto di prendere lezioni di equitazione perché nel loro ambiente - aveva proprio detto così - era impensabile che una ragazza a quattordici anni non sapesse ancora andare a cavallo, aveva storto il naso. Aveva protestato tutto il suo disinteresse, si era ribellata, fino a che lo stalliere non le aveva mostrato una splendida puledra bruna che avevano da poco regalato a suo padre.
Giovane e selvaggia, proprio come lei.
“Una vera discendente di Eclipse!” si era vantato il gentiluomo, come se la cosa potesse essere importante. 
Aveva passato giorni e giorni tentando di stabilire un contatto con lei e quando alla fine era riuscita a metterle la sella e a salirle in groppa aveva provato una felicità inebriante.    
Non aveva ancora un vero nome, tranne quello noiosissimo inserito nello Stud Book, e Vanessa aveva a lungo riflettuto su come chiamarla durante le loro infinite galoppate nei dintorni.
Poi aveva notato una macchia scura, proprio sul collo: di un bruno quasi violaceo, con due estremità allungate che parevano ali rotonde, le richiamò subito alla mente una delle illustrazioni che aveva guardato distrattamente sul libro di biologia.
Corse a cercarla, scoprendo che si trattava di uno strano pesce esotico dal pessimo carattere e dall’aspetto minaccioso: le piacque subito.
Manta birostris o diavolo di mare.
Sorrise.
Certo, se qualcuno dei suoi ex colleghi si fosse preso la briga di domandarle come mai avesse scelto proprio quel nome per il suo veicolo da battaglia, sarebbe rimasto incredibilmente sorpreso.
Avanzò nella penombra, ricordando quanto avesse sofferto quando, durante un salto, era caduta rovinosamente spezzandosi una zampa. A lei era andata meglio e quella brutta avventura le aveva lasciato solo una cicatrice: ancora una volta il suo pensiero corse dove non avrebbe dovuto, verso chi era troppo lontano da lei, in ogni senso. Scosse la testa con decisione e si costrinse a rimuovere quel ricordo. Avevano deciso di sopprimerla, nonostante i suoi pianti e le sue urla.
La morte di quel cavallo era stata il primo vero dolore della sua vita.
D’un tratto, un rumore di passi alle sue spalle la fece trasalire.
“Chi c’è?” gridò una voce femminile piuttosto allarmata.
Vanessa udì il suono metallico di un cane che veniva armato e si rammaricò di essersi fatta cogliere di sorpresa in quel modo, come una stupida dilettante.
Si voltò con cautela e guardò la donna che era appena uscita dal palazzo.
Era piuttosto alta e snella, con una folta chioma di capelli bianchissimi acconciati in maniera impeccabile. Avvolta in un impermeabile verde, imbracciava un vecchio fucile da caccia, molto malconcio, e la fissava con gli occhi spalancati.
Come se avesse appena visto un fantasma.
Poi, d’improvviso, posò l’arma a terra e le si avvicinò velocemente.
Prima che Vanessa potesse rendersene conto le aveva gettato le braccia al collo e la stava abbracciando.
Per un istante rimase impietrita, le braccia rigide lungo i fianchi.
Poi, esitante, ricambiò l’abbraccio.
“Vanessa” disse l’anziana donna, levando su di lei gli occhi lucidi.
 “Vanessa, non posso crederci… sei proprio tu?”.
“Cara, cara, quanto tempo è passato? Credevo davvero che non ti avrei più rivista”.
La strinse forte e per la ex ladra il suo profumo di lavanda mista a lacca per capelli fu come una personalissima madeleine.
D’un tratto seppe di nuovo che le dame, all’epoca della regina Elisabetta, cucivano nelle loro sottogonne dei piccoli sacchetti contenenti fiori di lavanda per emanare una piacevole scia profumata al loro passaggio.
I ricordi la travolsero.
Zia Rose era stata quanto di più simile a una madre Vanessa potesse ricordare della sua infanzia. Durante i periodi che aveva trascorso con loro la sua energica allegria aveva reso la vicinanza dell’ombroso barone, così malinconico e arcigno, quasi sopportabile.
Forse - si era domandata più di una volta - se fosse rimasta lì, se si fosse occupata di lei, se suo marito non l’avesse reclamata… ecco, forse le cose sarebbero andate diversamente per lei.
Ma adesso non poteva tornare indietro, metà della sua vita l’aveva stupidamente sprecata e tutti gli errori che aveva commesso li portava sulle spalle come un peso troppo gravoso da sostenere.
Il dolore e la vergogna la paralizzavano, non riusciva a dire nulla.   
Fissò l’anziana lady con le labbra tremanti.
Per fortuna, invece, Rose Warfield era un fiume in piena.
“Ti prego” disse mentre le lacrime le velavano i grandi occhi grigi “ti prego, perdonami…”
Vanessa sbatté le palpebre, incredula: lei le stava chiedendo di perdonarla?
“Avrei dovuto starti più vicina, capire quanto tu e mio fratello aveste bisogno di me… e invece mi sono lasciata influenzare troppo da Arthur.  
Lui diceva che il posto di una buona moglie è accanto al marito, e io dovevo… dovevo stargli accanto, nonostante tutto”.
La ex ladra deglutì, senza ancora riuscire a parlare.
“Poi lui si è ammalato e io non sono più riuscita a lasciarlo. Solo quando è morto ho potuto tornare in questa casa e occuparmi di Wynstan… ma ormai era troppo tardi, tu eri già scappata” aggiunse con amarezza.
Il suo tono non la accusava né la rimproverava, ma tradiva solo una profonda tristezza.
“Ascolta zia, io devo dirti qualcosa”.
Esitò un istante, distogliendo lo sguardo da lei.
“Quando sono andata via… in tutti questi anni,  io…”
“Mia cara” la interruppe con energia l’altra, come indovinando il suo disagio “non c’è bisogno che tu dica nulla adesso. Se e quando vorrai raccontarmi cosa è accaduto, io ti ascolterò”.
La abbracciò di nuovo.
“Ma non ha importanza, ora. L’unica cosa che conta è che tu sia tornata.
Che tu sia qui.
E che resterai”.
 
 
Note&credits: I ricordi iniziali di Vanessa richiamano l’episodio n. 44 (Riddle of the Raven Master), mentre il titolo rende omaggio alla bellissima canzone di Timbaland. Le parole di Vanessa davanti alla tomba del padre sono una rielaborazione di alcune frasi de “La ballata del carcere di Reading” di Oscar Wilde. 
   
 
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