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Autore: Annabel_Lee    13/12/2015    9 recensioni
Federico è sempre stato più assorbito dal suo dolore, dalla sua rabbia, per prestare attenzione a quella altrui: ma qualche volta succede, e ti ritrovi uno sguardo intrappolato in testa e non sai più che fartene, perché sembra che niente te lo possa strappare di dosso.
Lo sguardo, neanche a farlo apposta, è quello di Michael.
[Midez]
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Fedez, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 Le anime nude sono sempre cose miserabili.
-Francis Scott Fitzgerlad.  
 

IV

La Petite Mort
 

Federico si sveglia insieme al trillo del campanello, e per un istante sbatte gli occhi ancora impastati di sonno e guarda il vuoto, il soffitto bianco, le ombre della strada che attraverso le finestre disegnano arabeschi giallastri sulle pareti della stanza.
E' sera, e Federico si passa una mano sugli occhi, cerca di ritrovare il filo dei propri pensieri, e tutto quello che sente è il pulsare leggero del livido che Michael gli ha lasciato sul collo e il rumore secco della porta che ancora sbatte dietro a Giulia. Si tira su piano, e il dopo sbornia si è esaurito quanto basta per rendersi conto che muore di fame, e che deve smetterla di addormentarsi sul divano, perché quel dolore insistente vicino alla scapola continua a tormentarlo.
Il campanello, ancora, più forte, e Federico lo sente rimbombare nel cervello, e non vuole alzarsi, e non vuole sapere. Vuole chiudere gli occhi, dormire, non pensare.
Ma che cazzo di ore sono?
Ributta la testa sul cuscino, e al campanello si aggiunge un bussare rumoroso e doloroso, e Federico chiude gli occhi e si trascina in piedi, perché magari è importante, magari è Giulia che torna.
Sua madre lo guarda con occhi sgranati.
“Si può sapere che cazzo fai?”
Federico non risponde. Si limita a scostarsi e a lasciarla passare, e lei entra in casa come una furia, ed è preoccupata, e lui si accorge che le tremano le mani.
“Prima sparisci giovedì sera, poi stacchi il telefono e scompari per dodici ore. Ma cosa ti passa per la testa, eh?” e poi “Perché è tutto buio in questa casa?”
“Calmati ma'. Va tutto bene, davvero.”
“Ti conosco, non dire cazzate. Ti sei perso un'intervista e ti aspettavamo in studio per le sei, e non solo fai finta che il lavoro non conti un cazzo, ma sparisci nel nulla senza avvisare nessuno. Dov'è Giulia?”
“Fuori.”
Il cappotto di Giulia è ancora appeso all'appendiabiti in soggiorno, e Federico abbassa gli occhi, guarda distratto il pavimento di legno, e ha la vista appannata e un saporaccio in bocca. Rivede occhi gonfi e uno sguardo perso, si passa una mano sul collo, e il segno è ancora lì, leggermente in rilievo sotto le dita.
“Puzzi di fumo. E di vino.”
“Ma'...”
“Federico.”
Gli somiglia molto, sua madre. Federico questo lo sa, e non ha bisogno di vedere i suoi occhi o di sentire il tono supplicante della sua voce per percepire l'ansia che le divora il petto, che le inghiotte il cuore. E' la stessa con cui combatte ogni giorno, e non vorrebbe mentirle. Vorrebbe urlare, graffiarsi il viso, confessare: non vivo Mamma. Non amo, e non so che mi sta succedendo, e mi sento ancora il suo odore addosso, e davvero, non mi dispiace per niente.
Vuoi dire questo, Federico?
“Vatti a fare una doccia.” dice sua madre, dopo un silenzio che gli echeggia nel petto per un po'. Federico si passa una mano tra i capelli, abbassa gli occhi. “Ti annullo gli impegni per domani, ti lascio un piatto di pasta e poi me ne vado. Non voglio sapere niente delle tue stronzate, non sono affari miei, ma non fare cazzate. Per favore.”
“Mamma va tutto....”
“Ho detto niente cazzate. Vai.”


 

Il getto della doccia è troppo caldo sul viso, la testa gli scoppia e pulsa dolorosamente, il suono dell'acqua che echeggia nella stanza gli riempie il cervello. Fa male da guardare persino la luce bianca che si riflette sulle piastrelle bagnate, e Federico chiude gli occhi, immerso nel niente di una coscienza in subbuglio, di un flusso di pensieri che non riesce a seguire. Si perde nella sensazione di gocce pesanti che gli scivolano addosso, le mani abbandonate lungo i fianchi, la pelle arrossata dal calore che dovrebbe essere troppo e lo intorpidisce e basta. Continua a sentire troppo, Federico. Nel desiderio che gli è rimasto addosso, nella consapevolezza che si è cacciato nel casino più grande della sua esistenza, lui che non si è mai pentito di una scopata e che adesso non sa più neanche cosa vuole. Si perde, Federico, perché sente troppo e non sa come fare.
Il ricordo nitido di una porta che sbatte e occhi chiari pieni di lacrime, una risata tutta denti e riccioli scuri tra le dita. Sarebbe più facile avere il cuore vuoto e non sentire né colpa né voglia: perché Giulia ancora non è tornata e ormai è rassegnato ad avere Michael impigliato nella testa, nelle mani, sulla pelle che più tenta di lavare più rimane macchiata e sporca delle sue parole e dei suoi baci.
Poggia la testa contro le piastrelle della doccia, sospira forte.
 Michael, che parla ad occhi chiusi di musica, che lo ascolta parlare di Giulia, che è quanto di più diverso possa esistere da lui e lo capisce meglio di chiunque altro. Giulia, che non è tornata.
L'acqua è troppo calda, il silenzio troppo spesso, lo strato di condensa sullo specchio comincia a colare. Federico sente il respiro incastrarsi in gola nel fantasma di un singhiozzo, e se non comincia a piangere è soltanto perché ha già gli occhi pieni di acqua bollente. Sbatte un pugno contro il muro, cerca di non soffocare.
“Cazzo,” sputa a mezza voce, perché improvvisamente gli manca l'aria, in tutto quel vapore. La testa gli scoppia e una paura infame e malata gli pulsa nel collo, a ritmo col suo cuore impazzito.
Si aggrappa al muro e cerca di respirare, di calmarsi, ma non ci riesce. Spalanca gli occhi e i polmoni si gonfiano senza riempirsi, mentre si volta con violenza e arranca fuori dalla doccia, alla ricerca d'aria. Si aggrappa al lavandino e il brivido che gli corre lungo la schiena è tanto di nausea quanto di freddo: ansima fissando gli occhi nella figura sfocata che oltre lo strato d'umidità lo guarda attraverso lo specchio. Un contorno vago che non riconosce, che sbiadisce un paio di volte, fino a quando non riesce a ritrovare se stesso, nel lavandino bianco, nello scrosciare che ancora riempie la stanza. Le nocche intorno alla ceramica sono sbiancate, e Federico fissa lo scarico del lavandino con la bocca socchiusa e respira forte, e gocce d'acqua gli scivolano negli occhi e gli offuscano la vista. Respira, e cerca di calmarsi, e ancora il cuore gli esplode impazzito nelle orecchie.
Due colpi secchi alla porta. “Federico, io vado via.”
Chiude gli occhi, cerca di controllarsi, e la voce trema comunque un po' quando riesce a rispondere, e il suo riflesso lo osserva distorto nelle scie lasciate sullo specchio dalle gocce d'acqua condensata.

La cena che sua madre gli ha preparato non la tocca neanche, perché ha lo stomaco chiuso in una morsa ed è convinto che, anche se provasse a mangiare qualcosa, si ritroverebbe a vomitare senza dignità, inginocchiato davanti al cesso, e davvero, è troppo stanco per tutto questo. Si avvolge un accappatoio addosso e si getta sul letto senza neanche rivestirsi, la testa impegnata a contare i propri respiri, perché l'ultima volta che ha avuto un attacco di panico il tremito gli è rimasto addosso per giorni, e Giulia ancora neanche la conosceva, e la colpa era di una striscia di troppo in un sabato sera balordo come tanti.
Federico chiude gli occhi, e tutta la stanchezza che si sente addosso pesa nelle palpebre serrate, nelle labbra dischiuse, nelle lacrime di frustrazione che gli si addensano agli angoli degli occhi. Il sonno lo trova così, e lo avvolge leggero e agitato: quando si sveglia nella stanza vuota è perché ha sentito lo scattare della serratura, il rumore della porta che si apre e si richiude.
Giulia, che torna.
Con le guance in fiamme per il freddo, una giacca presa in prestito gettata sulle spalle, e il passo leggero di chi rientra nelle ore più infami del mattino, quando il buio è denso come la vergogna e il silenzio è rotto da fanali gialli e dal rombare di motori, lungo una strada di periferia.
Federico sente il frusciare di vestiti che accompagna la stanchezza di lei, intravede il riverbero bianco della luce sulla sua pelle nuda. Non la guarda cambiarsi, tiene gli occhi serrati: e non gli sfugge lo sbuffo di vecchio profumo che lo raggiunge, la sensazione di calore di un corpo vicino al suo che lo lascia indifferente.
“Federico.”
Quando riapre gli occhi, lei è in piedi davanti alla sponda del letto, e ne distingue appena le guance scavate, la bocca socchiusa. Lei lo guarda e aspetta minuti per una risposta, una qualsiasi, ma l'aspettativa cade nel silenzio vuoto di Federico, che anche volendo non riuscirebbe a trovarle le parole giuste per quella notte bianca che si avvolge intorno a loro.
“Per favore,” ed è un sussurro.
Chiude gli occhi, affonda la testa nel cuscino, e soffoca la voglia di piangere prima ancora che gli si bagnino gli occhi, nell'ansia che gli mangia il petto quando sente quella voce spezzata, nel mal di testa che ancora pulsa nelle tempie.
Un sospiro, e un corpo che piano si stringe dal lato opposto del letto, attento a non sfiorarlo. Al risveglio Federico è solo, e di Giulia rimane soltanto l'odore leggero sulle lenzuola.

Michael sorride con gli occhi e a bocca chiusa, le labbra strette ed incurvate, le ciglia scure che incorniciano uno sguardo che promette, e promette, e non lo lascia andare.
Il corridoio si affolla di sguardi indiscreti, di microfoni, di telecamere. Li separa e li allontana, ed è passata una settimana dall'ultima volta che sono rimasti soli insieme, e Federico non riesce a staccargli gli occhi di dosso, a frenare le sensazioni che gli scivolano sulla pelle, e neanche si sforza più di capire il perché. Ed è stanco, è svuotato, e il mondo gli sembra pesare un po' meno quando il brivido dello sguardo di Michael lo investe, e non ha più neanche il tempo di convincersi che tra loro è solo un gioco sbagliato. Non ce la fa più a raccontarsi stronzate, perché quello che sente è inequivocabile.
E quindi sorride, di rimando.
“Il vestito è un omaggio ad Alba Parietti?”
Sua madre sta gridando alle sue spalle, la truccatrice gli chiede di star fermo, Michael alza un sopracciglio, e Federico è sicuro che non abbia idea di chi sia Alba Parietti e trattiene una risata.
Il più grande fa qualche passo avanti, attraversa il corridoio e continua a guardarlo con occhi grandi e maliziosi, e Federico neanche fa caso alla ragazza bionda delle sigarette che sfreccia alle sue spalle e gli lancia un saluto affrettato, alla truccatrice che insiste e gli chiede scocciata di chiudere un momento gli occhi. Michael lo guarda e non c'è nient'altro, oltre al calore che gli inonda le vene, alla voglia che lo assale e che dopotutto lo spaventa ancora, perché Michael è un uomo, perché Giulia è rimasta a casa ed è una settimana che Federico non riesce neanche a toccarla, a farsi toccare da lei.
“Non ti piacciono le mie bocche?” dice Michael, allungando le braccia e sfoggiando il completo bianco, e vorrebbe mordergli le labbra fino a farlo sanguinare.
“Le tue bocche sono bellissime Mika, non ti preoccupare.”
Elio compare col sorriso sulle labbra e un gesto di finta comprensione, e Michael finalmente distoglie gli occhi e ride arricciando il naso e commentando poco cortesemente la parrucca dell'altro uomo. Federico sbatte le palpebre un paio di volte, e si dà dell'idiota, quando Michael gli posa quasi per caso una mano sulla spalla, mentre li riprendono per l'ante-Factor e la sente bruciare anche attraverso i vestiti.
 

Rape Me Federico se la ricorda dai tempi del liceo, tra sigarette fumate di nascosto nel cortile della scuola e canzoni che rimanevano in testa per giorni, settimane, e si perdevano nelle prime sbornie del sabato sera e in nottate scure, che finivano nel retro sporco di locali di cui adesso ricorda a malapena il nome. Anni in cui il rap era il modo più facile per sputare via in rime e parole la rabbia vuota di un ragazzino troppo pieno di sé e di insicurezze. Sembra quasi una vita fa.
E' nervoso, Federico, un po' perché quella canzone gli smuove ancora dentro cose a cui non è mai riuscito a dare un nome, un po' perché sugli Urban punta tutto, e davvero, non ha intenzione di sputtanare la loro carriera per un'assegnazione azzardata. Il nodo in cui si stringono le sue viscere si stringe un po', quando Michael gli sfiora il ginocchio sotto il tavolo, e mentre le luci si abbassano si china verso di lui. Ed è sicuro che il modo in cui gli sfiora appena l'orecchio con le labbra, in un sussurro basso che lo fa tremare, non è assolutamente un caso.
“E' una canzone Forte, questa”
Federico annuisce, “Senti come la fanno,” mormora, e la risata lieve di Michael mentre si allontana è un brivido sulla pelle.
Gennaro comincia a cantare, quando il teatro si tinge di rosso e i fari della scenografia gli tingono il viso di un pallore spettrale, con i capelli scompigliati, gli occhi pieni di una luce strana e magnetica che si perde nelle parole violente che gli escono dalle labbra con una dolcezza stonata. Federico si rilassa sulla sedia soltanto quando Alessio entra in controcanto, quando vince la musica e si dimentica della competizione, dell'arena, delle telecamere accese, e nel teatro cade il silenzio che solo una canzone del genere riesce a portare. Vaga con la testa, e non è mai un bene: e nel gemere violento di chitarre strette in mani emozionate, si ritrova a guardare il profilo di Michael. Finisce sempre lì e, a questo punto, non dovrebbe più stupirsi.
La canzone gli scivola addosso come acqua bollente, le macchine di scena vomitano fumo sul palco e la vista si appanna un po', mentre sfiora con gli occhi la pelle dell'altro, la linea dura della mascella e delle labbra sottili.
Colpi sordi, note distorte, frasi rabbiose e lo sguardo che i ragazzi sul palco si lanciano all'inizio del primo ritornello e Federico non vede, la canzone che rimbomba nelle cuffie premute sulle orecchie, nel battito impazzito del cuore mentre guarda Michael e tutto quello che sente è sordo, è sbagliato, è un errore in più di cui non è ancora pronto a pentirsi. Voglia di pelle e calore, e quando Michael si accorge di lui, mentre la canzone imbocca il crescendo finale il suo sguardo è liquido negli occhi sgranati, nelle labbra dischiuse.
Federico gli tocca una spalla, gli fa cenno di avvicinarsi, la voce di Gennaro si spezza mentre grida gli ultimi versi, Michael scosta le cuffie e per poco non le lascia cadere. Federico quasi non se ne accorge che anche a lui tremano le mani.
“Dopo, Fuori?” e la canzone finisce nel cenno di assenso di Michael, nella mano che sfiora il dorso della sua nell'istante di buio prima che le luci si riaccendano, che le telecamere li inquadrino.
“Non hanno fatto bene, però,” dice Michael, e Federico lo liquida con un gesto, gli occhi fissi sulla scaletta, il cuore che gli esplode nelle orecchie, una risata nervosa che gli increspa le labbra.


Quando rientra in camerino, stanco, svuotato, con la testa ancora piena di Michael, dei suoi occhi, del suo modo discreto di sfiorarlo di nascosto sotto il tavolo, Giulia lo guarda con occhi grandi e pallidi, e davvero, non è la serata giusta.
Federico gela sulla porta, ed è come avere davanti un fantasma.
“Non dovevi restare a casa?”
Non è cattiveria, quella che gli macchia la voce. Non è rabbia, non è neanche colpa. Ma quando lei lo guarda così, è come se qualcosa dentro di lui scattasse, e improvvisamente quegli occhi sono un peso troppo grande da sopportare. Guarda un punto indefinito tra il collo e la spalla di lei, e vorrebbe soltanto uscire e cercare Michael, perdersi in qualcosa che sembra più facile di quegli occhi tremanti che gli perforano l'anima.
“Avrei dovuto?”
“Non lo so. Dimmelo tu.”
Le tremano le labbra. La tensione le irrigidisce le spalle sottili, continua a martoriarsi le mani in grembo, e la sua voce è troppo fredda sulla pelle. Federico se la sente strisciare addosso, con tutto il peso delle sue implicazioni, e non fa male, non come dovrebbe. Ed è questa la cosa peggiore.
“Pensavo ti importasse,” dice “una volta mi imploravi di venire con te. Dicevi che ti veniva l'ansia.”
“E' lavoro Giulia.”
“Ora si chiama così?”
“Di che cazzo parli?”
Non risponde. Non risponde e sanno entrambi di quello di cui sta parlando, perché il segno che Michael gli ha lasciato adesso è solo una macchia di un paio di toni più scura della sua pelle, e non si vede quasi più, ma è sempre là, in mezzo a loro. Giulia ce l'ha stampata negli occhi, e Federico lo vede nel modo in cui stringe pugni e le lunette rossastre delle unghie le rimangono stampate sul palmo delle mani.
La lascia sola così. Si sbatte la porta alle spalle e non guarda indietro, e fa finta di non vedere le lacrime che le annebbiano lo sguardo. Quelle sono troppo anche per lui da sopportare.

Fuori piove.
Piove, di una pioggia fitta e leggera, che quasi non si vede e invece ti inzuppa in un attimo, che ti entra nelle ossa e gela l'anima. Federico respira profondamente, l'acqua fredda che gli scava le guance. Sospira e fissa il cielo nero che lo sovrasta, che lo inghiotte. Soffoca una bestemmia fra le labbra quando si brucia con l'accendino, mentre cerca di accendersi una sigaretta, e maledice le lacrime che gli si affollano negli occhi: si morde a sangue le labbra e lotta contro la voglia di gridare nel buio, contro quel cielo scuro che gli pesa sulle spalle e quella sensazione che lo sguardo ferito di Giulia gli ha lasciato addosso.
“Federico,”
La voce di Michael è un sussurro nel buio, e non riesce a trattenere un sospiro quando sente la sua mano posarsi leggera sulla spalla. Ha gli occhi stanchi e lo sguardo accigliato, le occhiaie sotto gli occhi profonde quanto le sue. E Federico lo guarda e lo tira verso di sé, perché non pensa più, perché ormai il mare che aveva dentro ha rotto gli argini e, davvero, non gliene frega più un cazzo di niente.
Vuole sentire, e sentire è difficile con la testa piena delle parole di Giulia, del suo dubbio, della consapevolezza che tutto questo è sbagliato e che non gli interessa. Le labbra di Michael sono morbide, sono calde. E' così facile, dimenticare.
“Easy,” mormora l'altro contro la sua bocca, quando lo morde un po' troppo forte e si aggrappa alle sua guance, gli affonda le unghie nel collo. Federico continua a baciarlo, a cercare calore in una bocca sbagliata. Non c'è altro: solo Michael e il modo in cui lo stringe all'altezza delle spalle, mentre indietreggia e ondeggiano insieme, e rischiano di cadere, e la pioggia si infittisce sotto i lampioni, e il bacio si fa così profondo da togliere il respiro. Michael trema, ne è quasi sicuro, quando gli prende la testa fra le mani.
Lo allontana quanto basta per posare la fronte sulla sua, e Federico si accorge di aver serrato gli occhi e li riapre stupito, confuso.
“Non possiamo qui,” dice Michael, ed è un sussurro roco, e Federico si sente morire, la voragine nel petto che inghiotte ogni cosa.
“Andiamo via.”

 L'appartamento di Michael ha mura di stucco bianco, pochi quadri appesi alle pareti, le finestre serrate. La luce dimenticata accesa nell'ingresso si riflette sui colori delle stampe eccentriche e le fa sembrare quasi grottesche, in quella penombra che sfuma in un corridoio buio, nel ritmo spezzato di sospiri e bocche che cercano, baciano, mordono.
Le mani di Michael sono bollenti, quando gli artiglia la pelle dei fianchi e quasi gli strappa la maglietta di dosso, e Federico è perso, lo lascia fare, non capisce più niente. C'è riuscito, alla fine, a smettere di pensare.
La foga di scoprire sotto le dita una pelle diversa, la fame che preme nella gola quando sfiora il l'altro e trema, perché non ha mai fatto una cosa del genere con un uomo e sembra tutto così surreale, in quell'amalgamarsi confuso di sensazioni, in quelle parole spezzate che si perdono nel suono umido di baci disordinati, in quelle sensazioni che lasciano senza respiro.
E ride, Michael. Ride e gli prende le guance fra le mani, gli affonda le dita tra i capelli, mormora qualcosa contro il suo collo, Federico si stringe un po' di più alle sue spalle magre, e anche attraverso le finestre ancora serrate e le tapparelle chiuse, il suono di un tuono inghiotte quella risata che è quasi casa. È il gesto delicato di una carezza, l'irruenza che per poco non li fa cadere mentre Michael lo spinge contro una porta chiusa, contro un letto che sa di pulito e ha le lenzuola azzurre, fresche contro la schiena nuda.
La stanza è buia, e Federico intravede la luce bianca dell'ingresso che filtra lungo la porta aperta. Tocca, si lascia toccare, e tutto brucia sotto le palpebre chiuse.

Si accascia sul cuscino senza fiato, gli occhi chiusi e l'orgasmo che per qualche secondo gli annulla il cervello e lo lascia solo con la sensazione di intorpidimento che segue subito dopo, e quasi non si accorge delle labbra di Michael che lo baciano in mezzo alle scapole, del modo in cui il respiro dell'altro trema un po' prima che si allontani da lui, e che l'aria pesante della stanza gli scivoli su pelle e sudore.
L'altro si scosta quasi subito, e sente un brivido di freddo sulla pelle là dove fino ad un istante prima c'era Michael, e sente la gola secca mentre annaspa alla ricerca d'aria.
L'ha fatto davvero.
Nel buio Federico socchiude gli occhi, e intravede il volto di Michael, sdraiato supino affianco a lui, gli occhi spalancati fissi al soffitto, i capelli umidi di sudore appiccicati alla fronte.
Per un istante la stanza sembra più vuota senza i suoni osceni di carne che si cerca, si perde, dei loro cuori impazziti che adesso riprendono, lentamente, a battere normalmente: e Federico guarda Michael e si tira su piano, la sensazione appiccicosa che il sesso gli ha lasciato addosso fastidiosa sulla pelle, e davvero non riesce a spiegarsi le emozioni che gli scorrono sotto la pelle, la voglia di andarsene e allo stesso tempo di rimanere sdraiato su quel letto per il resto della sua vita.
Il più grande chiude gli occhi per un istante, una mano sul petto e l'altra che scosta ricci scuri dalla fronte, le labbra gonfie e il respiro irregolare. Sembra quasi fragile, adesso che è tutto finito, e Federico sente le palpebre pesanti e la stanchezza di troppe notti insonni sulle spalle.
“Tutto bene?”
Michael lo guarda dal basso, il lenzuolo azzurro che gli si increspa addosso, il respiro ancora un po' spezzato, gli occhi liquidi anche nella penombra della stanza. Lui annuisce, sospira piano: il mondo gira più lentamente, l'universo si ferma in quella bolla di emozioni che si sente ancora addosso, che lo avvolge, che lo fa sentire lontano da ogni cosa. Persino da se stesso.
“Non avevo mai...”
“Lo so,” la voce di Michael è quasi un sussurro, e quando allunga una mano e gli sfiora la fronte con la punta delle dita, Federico sente qualcosa che gli si incrina nel petto, e si ritrae lentamente, perché è qualcosa di troppo intimo, di troppo caldo sulla pelle.
Si siede sulla sponda del letto, e una fitta inaspettata lo irrigidisce un istante.
Fedé?”
“Posso fumare?”
Non lo guarda. Fissa la striscia di luce che inonda il corridoio oltre la porta socchiusa, il materasso si muove al suo fianco, l'ombra di un sospiro lo sfiora da lontano. “Apri la finestra, però.”
Raccoglie da terra i propri vestiti, li indossa in fretta prima di cercare il pacchetto di sigarette accartocciato nella tasca della giacca. Si sente gli occhi di Michael fissi tra le scapole, mentre spalanca la finestra e le tapparelle, e l'aria gelida gli ferisce le guance e fa quasi male. La prima boccata di fumo gli chiude gli occhi e rilassa le spalle, e cerca di nasconderlo, ma le dita che tengono stretta la sigaretta tremano lo stesso, e non può farci niente.
“Fumi troppo, comunque.”
Riderebbe, Federico, non fosse per il nodo che sente stretto in gola. “Sembri mia mamma.” dice, e guarda il cielo, oltre il profilo degli altri palazzi, oltre la luce dei lampioni. Ha smesso di piovere.
“Cazzo, Mic.”
“What?”
“Cosa stiamo facendo?”
Quando si volta trova Michael seduto contro la testiera del letto, le spalle magre che sembrano ancora più sottili, gli occhi socchiusi e la testa reclinata contro il muro, il lenzuolo intrecciato disordinatamente sulle gambe.
“Io sto bene con te, Fede.” E non apre gli occhi, non muove un muscolo, e c'è qualcosa di terribilmente dolce nel modo in cui socchiude gli occhi quanto basta per guardarlo, nel sospiro che un istante dopo gli sfugge dalle labbra insieme ad un'imprecazione lanciata contro il soffitto, contro il cielo che si intravede dalla finestra e alla luna sempre più grande, sempre più bella man mano le nuvole si diradano. Sembra quasi voglia schiacciarli.
Federico getta la sigaretta dalla finestra.
Anche io, ma fa male.


 

 

La pluie coule sur mes tempes
La foudre chante ta descente
Blottie contre ma vie
Ton rire résonne et puis s’enfuit

Je crois qu’il est trop tard
Pour te dire que ça fait mal
Mon coeur n’est plus comme avant
Car il s’endort tout doucement.*

 








Note:
*La pioggia cade sulle mie tempie,
il fulmine canta la tua discesa,
rannicchiata contro la mia vita
la tua risata risuona e poi fugge.

Penso che sia troppo tardi
per ammettere che sto male.
Il mio cuore non è più come prima,
perché si addormenta dolcemente.

Mi dispiace. Veramente. 
Se guardo la data in cui ho aggiornato il capitolo precedente mi viene voglia di sotterrarmi, visto che mi ero ripromessa di essere puntuale con la pubblicazione dei capitoli, e invece eccomi qua, in osceno ritardo e con un capitolo che neanche mi soddisfa completamente. Davvero, sono una persona orribile e non mi merito neanche una di tutte quelle meravigliose recensioni dei capitoli precedenti (21 recensioni per tre capitoli? Ma stiamo scherzando gente?)
Il problema principale, oltre ai vari impegni scolastici che non mi hanno dato il tempo materiale per scrivere, è stato che questo capitolo è stato un inferno da buttar giù. Un po' perchè il tema era il sesso, ed è talmente facile scriverlo male che ogni volta che mi trovo a confrontarmici davanti alla pagina bianca è un dramma, un po' perchè la struttura stessa del capitolo non mi convinceva per niente, un po' perchè siamo esattamente a metà storia e più mi avvicino alla fine più tutto diventa difficile da scrivere. Dovrei trovare una beta disposta a sorbirsi le mie pippe mentali durante la stesura, ma dubito che esista qualcuno di tanto santo da potermi sopportare. 
Insomma, scusatemi davvero. 

Parlando della storia ci sono un sacco di cose, che vorrei dire. Ma non voglio annoiarvi troppo, quindi cercherò di essere coincisa. 
Questa volta ho scelto una canzone francese.  La Petite Mort  di Coeur de Pirate l'ho scoperta piuttosto recentemente, e penso che tutti sappiano che "La petit Mort" è un modo molto elegante per indicare l'orgasmo: e il testo della canzone è molto bello proprio perchè gioca sulla contrapposizione di questo significato con quello letterale di "Piccola Morte", con un'eleganza che sinceramente trovo meravigliosa. Sulla citazione non mi voglio soffermare troppo (considerato che l'autore è lo stesso di quella del prossimo capitolo e avrà moolto più senso discuterne la prossima volta) ma viene da uno dei miei romanzi preferiti (Di qua dal Paradiso), e ci sono particolarmente affezionata. 
Ringrazio tutti quelli che sono arrivati fin qui, dopo tutto questo tempo. 
Un bacio, e alla prossima!

Edit 23/12/15: Capitolo betato da emitea 

 

 
  
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