Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Segui la storia  |       
Autore: _Frame_    13/12/2015    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
---
[On going: dicembre 1941]
---
[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

N.d.A. Da questo momento in poi, la situazione per quanto riguarda la toponimia si fa parecchio spinosa. In ogni libro, giornale, enciclopedia, documentario in cui studiavo per raccogliere informazioni, trovavo almeno tre nomi diversi per indicare la stessa città, o lo stesso fiume, o lo stesso monte. Non essendoci un vero e proprio modo giusto o sbagliato di chiamare un determinato luogo, anche perché dipende tutto da quando è stato fatto l’adattamento, da chi l’ha fatto e da come è stato fatto, eccetera, ho dovuto prendere io stessa delle decisioni e mantenere quelle stesse per tutto il corso della fiction.

Esempio pratico: Gianina, Giannina, Ianina, Ioanina, Ioannina, Joanina... sono tutti nomi dati alla stessa città greca. Io decido di mantenere il nome Gianina (perché nelle mappe su cui ho tracciato gli schemi è indicata in questo modo XP), ma lo faccio per convenzione, non perché sia più giusto degli altri.

Se avessi sempre seguito alla lettera i nomi scritti sui libri in cui studiavo, avrei addirittura dovuto chiamare Versailles ‘Varsaglia’ (lol!).

Se ovviamente ci fossero consigli, suggerimenti o perplessità riguardo certe scelte che compirò con il corso della storia, non esitate a farmelo sapere!

Grazie a tutti per la collaborazione. ^_^

 

 

N.d.A.(2) Colgo inoltre l’occasione per scusarmi dell’eccessiva lunghezza di questo capitolo.

Ho meditato a lungo se tagliarlo, spezzarlo, eliminare alcune parti, tuttavia alla fine ho deciso di tenerlo intero.

Non ho voluto togliere dettagli poiché mi sembrano tutti molto importanti da evidenziare, in vista di quello che poi succederà con il corso della storia e considerando che torneranno tutti fuori. Non ho voluto nemmeno spezzarlo in due perché avrei davvero ‘ucciso’ il ritmo del capitolo che, per come l’ho organizzato, non presenta interruzioni o ‘prese di fiato’.

Di nuovo scusatemi. Spero che apprezziate lo stesso. ^_^

 

.

 

62. Nord e Sud

 

 

Diari di Italia

 

Alla fine, gli disobbedii un’altra volta.

Ero consapevole di stare facendo proprio quello che lui mi aveva detto di non fare, ma allo stesso tempo, dentro di me, ero davvero convinto che tutto sarebbe andato per il meglio, che io sarei riuscito a vincere, a portare a termine la battaglia senza farmi del male, senza mettere in pericolo l’alleanza o me stesso, e che così lo avrei reso orgoglioso di me e delle mie azioni. Io gli avrei disobbedito ma, se avessi vinto, Germania non avrebbe potuto comunque arrabbiarsi con me e quindi saremmo stati felici tutti e due come volevo che fosse.

Ogni tanto ci ripenso e domando a me stesso se il mio fosse effettivamente coraggio, il coraggio di andare contro le proprie paure e di superarle per la persona a cui vuoi più bene. A quel tempo lo credevo sul serio, e solo dopo mi resi conto che il mio non era coraggio, ma era paura. È sempre stata solo la mia paura a guidarmi nelle mie decisioni.

Io avevo purissima che Germania potesse abbandonarmi, che mi avrebbe lasciato indietro se un giorno io non gli fossi più stato utile. Ed è stato questo a spingermi a fare quello che poi ho combinato. La paura, non il coraggio. Credo fu per questo che alla fine tutto andò male, perché io combattevo assalito dai miei timori e con il solo scopo di farmi vedere forte e coraggioso da Germania. E io non ero né forte né coraggioso.

Poi nacquero altri dubbi.

Io stavo facendo tutto quello per Germania o per me stesso?

Dentro di me, io lo facevo solo ed esclusivamente per Germania, ma questo lo capii tanto, tanto tempo dopo. Io mi volevo convincere che stavo lottando per me stesso, per Romano e per il nostro paese solo per trovare una scusa valida, solo per nascondere questo: il fatto che era solo per Germania che combattevo.

Germania lo sapeva, però. Lo sapeva meglio di me. E me lo aveva anche detto.

Ecco perché si rifiutava così tanto di farmi combattere. Non perché fossi semplicemente debole e pauroso, ma per il fatto che non sapessi cosa vuol dire lottare per se stessi e, combattendo per qualcun altro, non sarei mai riuscito a vincere, oppure avrei vinto nella maniera sbagliata. Comunque fosse andata, non avrei mai tratto nulla di buono dalle mie azioni.

Forse Germania avrà fatto tanti errori durante quei brutti anni, ma su questo non ha mai sbagliato. Lo so che il disastro che ho provocato io è stata una delle prime cose che hanno fatto andare male tutto il resto, e di questo mi pento davvero tantissimo. A distanza di così tanti anni, la notte, a volte, ho ancora gli incubi a riguardo.

Comunque, se solo avessi dato retta a Germania come avrei dovuto, forse le cose non sarebbero andate a finire male per noi come poi è accaduto.

Ora che ci penso, forse è stato davvero un bene, allora.

Intendo, bene per il mondo.

 

.

 

15 ottobre 1940, Roma

 

“Signori.” Il generale avanzò di un passo; piedi uniti con uno schiocco, schiena dritta e spalle larghe. Sfilò un braccio da dietro la schiena e aprì la mano tendendola verso il petto di Italia. “Sono il generale responsabile del coordinamento delle truppe in Albania.” Strinse la manina di Italia che svanì inghiottita in quell’intreccio di dita, e gli scosse due volte il braccio. Il generale sollevò lo sguardo e rivolse un’occhiata dura ma sorridente anche a Romano che si era fermato dietro la spalla di Italia. “Benvenuti a tutti e due.”

Italia strinse le dita attorno a quelle del generale. Gli sorrise. “Piacere.” Scosse anche lui il braccio, una volta sola e più piano. “Grazie per averci ricevuti.”

Gil generale sfilò la mano da quella di Italia e tornò a spalle alte e dritte. Il suo sorriso si fece più rosso e infossato nelle guance. Si posò una mano sul petto, affianco ai gradi militari cuciti sull’uniforme. “Permettetemi di confessarlo, signori, ma era da tanto tempo che attendevo questo incontro.”

Italia strinse le dita davanti al ventre e chinò il capo, imitando Giappone quando si piegava in un inchino. “La ringraziamo per tutto quello che fa per noi e per il popolo.” La croce di ferro scivolò da sotto la giacca e pendette verso il basso, adagiandosi sullo sterno.

Il generale abbassò la fronte a sua volta. Il tono tornò rigido e rispettoso. “Mio dovere, signore. Ho giurato fedeltà e intendo mantenere il giuramento dato.”

Romano tamburellò le dita sugli avambracci incrociati sul petto. Socchiuse una palpebra, il sopracciglio aggrottato creò tante piccole fossette alla radice del naso che scurirono la fronte. Guardò il generale con aria scettica e rimase dietro la spalla di Italia, in penombra.

Il generale si voltò di profilo e allungò un braccio verso l’interno della stanza, aprì il palmo e stese le dita per indicare la via.

“Venite.” Mosse il primo passo. “Permettetemi di presentarvi agli altri ufficiali.”

Italia annuì. Prese un lembo della giacca di Romano tra pollice e indice e lo tirò in avanti, portandoselo dietro.

Il braccio ancora rigido e teso del generale avanzò, e le dita indicarono il primo degli ufficiali in piedi davanti alla finestra, vicino alla lavagna nera appesa al muro.

“Il luogotenente del re in Albania.”

Sentendosi chiamare, il luogotenente si voltò, stando con le braccia dietro la schiena. I suoi occhi attraversarono la stanza e si posarono su Italia. Le folte sopracciglia grigie si distesero, appiattendo le pieghe della fronte.

Il generale piegò una spalla verso Italia e gli parlò più piano, vicino alla guancia. “Le relazioni tra i due paesi hanno la priorità.”

Il luogotenente si allontanò dal muro e porse una mano a Italia, tenendo il braccio libero piegato dietro la schiena, e chinò le spalle in una riverenza. “Onorato.”

Italia annuì e strinse la mano del luogotenente, più secca, sottile, e fredda rispetto a quella del generale.

Il generale passò a indicare il secondo ufficiale in piedi vicino alla finestra, affianco al tavolo attorno a cui sedevano altri due uomini.

“Il sottosegretario alla guerra. Tutto passerà sotto la sua supervisione.”

Il sottosegretario camminò vicino al luogotenente. Irrigidì le braccia lungo i fianchi e si piegò in un inchino più profondo rispetto sia a quello del generale che a quello del luogotenente.

“Signori.”

Italia sfilò la mano da quella del luogotenente e lo sventolò assieme all’altra, messo in imbarazzo davanti a quella riverenza così profonda. “Non serve, non serve.”

Il generale piegò il braccio a sinistra, verso i due ufficiali che si erano appena alzati dal tavolo, stando immobili davanti alla finestra.

“Il sottocapo di stato maggiore, e il ministro degli esteri.”

Italia, questa volta, si chinò prima di loro, e l’ombra dei capelli nascose il colorito di imbarazzo che si era steso sulle guance. Oh no, ho già dimenticato i nomi di quelli di prima. Italia sollevò gli occhi tornando a squadrare gli ufficiali davanti a lui. Mhm, chi era il luogoten –

“E infine il nostro ammiraglio.”

Passi corti e secchi gli si avvicinarono, si fermarono dietro di lui. Italia si voltò, raddrizzando di scatto le spalle, e si ritrovò investito dall’ombra dell’ammiraglio appena uscito da un angolo della stanzina.

Italia sollevò la fronte, fece un passo all’indietro e incrociò gli occhi dell’uomo. Occhi lucidi e svegli brillavano in quell’espressione così rigida che induriva il viso dai lineamenti morbidi e gentili. Solo qualche ciuffo di capelli grigi sbucava da dietro le orecchie e sulla frangia.

Il generale ritirò il braccio che aveva indicato l’ammiraglio, e si mise di fianco all’ufficiale di marina. Lo indicò con un’alzata di mento. “Lui è il capo di stato maggiore della marina militare.”

Italia annuì. “Capisco.” Non riusciva a togliergli gli occhi di dosso.

L’ammiraglio chiuse le palpebre e si piegò in un inchino contenuto. La mano si aprì davanti a Italia, raccogliendo la sua.

“Al vostro servizio, signori.”

Una stretta decisa e calda scosse il braccio di Italia solo una volta. Profonde e intense pulsazioni di energia batterono da un palmo all’altro. Italia trattenne il fiato e una piacevole sensazione familiare gli sciolse il nodo di tensione che gli stringeva il cuore. Senza un motivo preciso, pensò a Germania.

“La...” Italia scosse il capo, si riprese, e gli rivolse un caldo sorriso di gratitudine. “La ringrazio.”

L’ammiraglio sciolse la stretta e annuì con le mani giunte dietro la schiena. Voltò lo sguardo, gli occhi così accesi e brillanti ruotarono di fianco alla spalla di Italia, si sollevarono leggermente e incrociarono lo sguardo di Romano. L’ammiraglio sollevò un sopracciglio, l’occhio brillò, e stese un angolo delle labbra in un mezzo sorriso fine e in penombra, di quelli che ci si aspetta di trovare sulle labbra di una volpe.  Romano aggrottò la fronte, strinse le mani sugli avambracci e irrigidì. Gli occhi incollati a quelli dell’ammiraglio.

Ma che diavolo prende a questo?

Una sensazione calda e solleticante lo avvolse come una nebbia, entrò nei vestiti, penetrò la pelle, e gli pizzicò i muscoli, la pancia, il petto e le braccia.

L’ammiraglio arretrò di un passo, stette in disparte, lasciando il palco al generale, e si impietrì come un soldatino di piombo ancora sigillato dentro la confezione.

Romano camminò vicino a Italia, lanciò all’ammiraglio una rapida occhiata affilata da sopra la spalla e lo lasciò dietro di sé. Prima di voltarsi, gli parve di scorgere quel sottilissimo sorriso da volpe stendersi e farsi più luminoso, come i suoi occhi.

Il generale strinse un pugno davanti alle labbra e tossicchiò due volte. “Dunque,” si rivolse a Italia, viso sereno, “abbiamo molto lavoro da fare, quindi direi di cominciare subito con...”

“Aspetti,” esclamò Italia.

Tutti i presenti lo guardarono, fermi e rigidi come nel gioco delle belle statuine, e gli rivolsero vaghe occhiate interrogative.

Italia sollevò l’avambraccio, mostrò a tutti il palmo aperto sopra la spalla. “C’è una cosa che vorrei dire a tutti voi prima di cominciare la riunione.”

Anche Romano aggrottò un sopracciglio e rivolse a Italia la stessa occhiata scettica che era dipinta sui visi degli ufficiali.

Italia chinò gli occhi, abbassò la mano sulla nuca e si strofinò i capelli dietro l’orecchio. “Ecco, preferirei che questo incontro resti segreto tra di noi e che nessuno venga a sapere cosa ci siamo detti oggi.” Sfilò le dita dalle ciocche. Unì le mani davanti al ventre e ricominciò a giocherellare con le dita, facendo ticchettare le unghie. “In particolare, vorrei che i tedeschi e...” Gettò lo sguardo al pavimento. “E che nemmeno Germania sappiano nulla di tutto questo.” Il senso di vergogna gli schiacciò le spalle, premendo sulle ossa come un carico di massi. Italia scosse il capo per scacciare via la sensazione dura, fredda e opprimente che gli premeva sulla schiena. “Io non l’ho avvertito di niente, non ce l’ho proprio fatta, e so che ormai è troppo tardi per tornare indietro.” Strinse forte le dita intrecciate. Divennero rosse, le nocche bianche. La pelle bruciò sotto la pressione delle unghie. “Però vorrei che l’esercito tedesco non venisse a sapere dei nostri piani fino a quando...” La frase si interruppe in un singhiozzo che risucchiò le parole nello stomaco.

Lo sguardo di Romano divenne più freddo e buio. Romano allontanò gli occhi, si voltò di profilo, e fece un passo solo. Sollevò la punta di un piede, la batté a terra, e tamburellò le dita sugli avambracci. Una fiammella di rabbia nacque in fondo alla pancia.

Fino a quando non cominceremo la battaglia, concluse per lui.

Italia risollevò gli occhi. Si rivolse al generale. “Uhm, è...” Batté le punte degli indici l’una sull’altra. Sguardo intimorito. “È possibile farlo?”

Il generale tornò a stendere il sorriso che si infossò nelle guance tonde e rosse. Annuì. “Ma certamente che è possibile.” Si rivolse agli altri. “Dico bene, signori?”

Il sottosegretario annuì a sua volta. “Assolutamente.”

Il sottocapo di stato maggiore scrollò le spalle. Piegò un gomito sul tavolo e affondò le nocche nella guancia. “Non vedo dove sia il problema.”

Il luogotenente e il ministro della difesa si scambiarono una rapida occhiata d’intesa e annuirono.

Il generale si lisciò il fianco della giacca, pressando il palmo sul petto e lucidando per bene i gradi. “Per la verità, signore, tenere il piano dell’offensiva lontano dalla conoscenza tedesca è sempre stata una nostra intenzione.”

Italia sollevò le sopracciglia, stupito. “Davvero?”

Il generale strinse le mani dietro la schiena, camminò davanti al muro su cui era appesa la lavagna, e chiocciò una risata. Le sue spalle si alzarono e si abbassarono in un rapido scatto. “Signore, perché mai dovremmo avvertire i tedeschi di queste nostre manovre?” Sfilò una mano dalla stretta e la sventolò con aria di indifferenza. “Non sono affari che li riguardano.” Appiattì il sorriso.

“Ma Germania è comunque un nostro alleato,” disse Italia. Prese un braccio della croce di ferro e rigirò il ciondolo tra le dita, facendo ruotare le quattro estremità. Il metallo ticchettava tra le unghie. “E forse potrebbe apparire scortese da parte nostra tenerlo lontano da questo.”

Il generale sbarrò gli occhi. “Scortese?” Stese un braccio sul fianco, si portò di fronte a Italia, gli occhi assunsero una sfumatura paterna, protettiva. “Signore, i tedeschi si sono mai preoccupati di avvertire noi prima di una qualsiasi operazione militare o politica?” Gli occhi ridivennero scuri. Le guance tornarono impolverate di un alone scarlatto che fiammeggiava di rabbia. Il generale restrinse la mandibola e la voce uscì più tesa e cavernosa. “I tedeschi non ci rivelano mai nulla, non ci informano dei loro piani e spostamenti, e tengono tutto nascosto fino a che non lo portano su campo.”

Il sottosegretario passeggiò davanti alla finestra, volse lo sguardo all’esterno, e fece roteare la mano, rimestando l’aria. “I signori evidentemente si sentono fin troppo superiori a noi per renderci partecipi della loro superba logistica di invasione,” disse con tono seccato.

Il ministro degli esteri si appoggiò con il gomito al tavolo e impennò un indice al soffitto. “Se posso permettermi di esprimere la mia opinione,” ruotò gli occhi verso l’alto, aprì il palmo rivolgendolo al cielo, “noi italiani veniamo trattati come semplici riserve sotto ogni punto di vista.”

Italia sbatté più volte le palpebre. Lo sguardo passò dal generale, al luogotenente, al ministro degli esteri. “Riserve?” mormorò. Una punta di delusione gli ammosciò la voce.

Il ministro strinse il pugno. Guardò Italia negli occhi. “Credono di poterci monopolizzare, signore. Siamo un bel paese da mettere in mostra come alleato ma, a quanto pare, fin troppo – mi perdoni il linguaggio – fesso per poter belligerare alla pari, di fianco alla loro regale presenza teutonica.”

Il generale annuì, compiaciuto. “Come vede, signore, non esiste un singolo motivo per il quale dovremmo mettere al corrente i tedeschi di tutto ciò.” Compì due passi di lato, unì le mani dietro la schiena e rivolse uno sguardo rigido e scocciato al pavimento, in mezzo ai suoi piedi. “Specialmente dopo l’ultimo colpo che ci hanno tirato in Romania.”

Il ministro annuì e imitò l’espressione del generale. “Un colpo basso, ecco cos’è stato.”

“Avremmo potuto sicuramente aiutarli, lei che dice?” chiese il generale, rivolto a Italia. “E ci saremmo anche fatti onore.”

“I...” Italia rigirò la croce tra le dita. Il metallo stava diventando caldo e umidiccio. Le dita erano più formicolanti e rapide nei gesti. Italia abbassò gli occhi pieni di imbarazzo e insicurezza. Farsi onore in Romania? “Io veramente non saprei...”

“Ma certo che avremmo potuto,” annuì il generale. “Un’operazione semplice ed elementare come quella...” Scrollò le spalle. “Siamo sufficientemente preparati a tutto, ma per quei cruc –”

Il sottosegretario diede due secchi colpi di tosse. Nella penombra, Romano abbassò il mento e trattenne un’acida risata compiaciuta.

Le guance del generale si gonfiarono, rosse e paonazze, e l’ufficiale si schiarì la voce a sua volta. Infilò due dita nel colletto della giacca, stese il tessuto, e si voltò, dando le spalle a Italia. La voce divenne un mormorio basso e grave.

“Per i tedeschi non è mai abbastanza, a quanto pare, nonostante i nostri innumerevoli sforzi.”

Lo sguardo di Italia, moscio e abbattuto, puntò il pavimento sotto i suoi piedi. Tutti i pensieri che lo avevano portato a quella decisione tornarono a ferirlo come tanti aghi piantati nel cuore.

Il generale sbuffò. “Diamine, sembra quasi che i tedeschi non si fidino di noi.”

Italia strinse le dita attorno alla croce, smettendo di rigirarla.

Le ultime parole scambiate con Germania gli martellarono in testa. “Tu possiedi una forza diversa da quella mia e di Giappone. Una forza che ho rischiato troppe volte di dimenticare.” La mano stretta alla sua che gli faceva posare il palmo sul petto, dove batteva il cuore, e il viso stanco di Germania, sciupato dalla fatica ma sincero, che brillava alla luce della luna, mentre gli confessava le sue ragioni.

Sì che Germania si fida di me!

Italia sfilò le dita dalla croce di ferro, la lasciò ricadere sul petto e aprì le mani verso gli ufficiali. “No, no, aspettate.”

Tutti gli rivolsero lo sguardo. Anche gli occhi di Romano tornarono a posarsi su di lui, lo squadrarono di traverso.

Italia fece scivolare le mani dal petto, le giunse sulla pancia, stropicciando le dita. “La mia intenzione non è di fare tutto questo e di tenerlo nascosto a Germania per...” Si morsicò il labbro inferiore. “Per fargli un dispetto o per vendetta, sul serio.” Scosse il capo. Sul viso tornò un velo di serenità che ne distese le pieghe in tensione. “Io non me la sono presa per le operazioni che ha fatto senza di me. E lui me lo ha assicurato, ci ha tenuti lontani perché voleva solo proteggerci.”

Romano fece roteare gli occhi al soffitto e sbuffò, soffiando un rigetto di rabbia su una ciocca della frangia. I capelli svolazzarono e si appiattirono sulla fronte.

L’ammiraglio, rintanato nell’angolo semibuio, sollevò un sopracciglio, gli occhi da volpe si accesero come fari nella notte, e si massaggiò la punta del mento. Sguardo attento rivolto alla reazione di Romano.

Italia sorrise al generale. Giunse le mani dietro la schiena e chinò la testa di lato. Lo sguardo dolce e tenero come quello di un bimbo. “Vorrei semplicemente fare una sorpresa a Germania, generale.”

Il generale e il sottosegretario si scambiarono un’occhiata bassa e perplessa. Rapidissima.

“E non voglio che Germania si preoccupi ancora troppo per me,” continuò Italia. “Sono sicuro che, se sapesse quello che sto per cominciare, farebbe di tutto per impedirmelo e per far rimanere al sicuro il nostro paese.” Prese un piccolo respiro che gli fece il petto più gonfio, le spalle più larghe, e il sorriso più disteso. “Ma adesso è giunto il momento di mostrare il nostro valore a tutti, no?”

Il generale ammorbidì lo sguardo. Chinò il capo in un gesto di assenso. “Assolutamente.”

“Senza dubbio,” gli fece da eco il sottosegretario.

Il ministro degli esteri stese le spalle sullo schienale della sedia e accavallò le gambe. “È sicuramente giunta l’ora.” Intrecciò le mani sul ginocchio.

Italia annuì e batté le mani davanti al petto. Il viso brillava di gioia. “Vedrete, alla fine si congratulerà perché io e mio fratello siamo riusciti a fare tutto da soli.” Squadrò gli ufficiali uno per uno. Il sorrisetto tremò di soggezione. “Con il vostro aiuto, ovvio.”

Il generale gli si avvicinò di un passo sicuro. “Stia tranquillo, signore,” si posò un indice all’angolo della bocca, “e abbia fiducia nel nostro silenzio.” Calò il dito dalle labbra. Il viso in ombra, con la luce del sole che batteva alle sue spalle accentuando solo il riflesso degli occhi, divenne di pietra, come quello di una statua. L’uomo assottigliò le palpebre, affilò lo sguardo, e strinse il sorriso svelando una sottile mezzaluna bianca in mezzo alle labbra. “I tedeschi lo verranno a sapere dai giornali.”

Il ministro degli esteri annuì. “Sono d’accordo. Anche per noi non è una guerra...” Sollevò il mento, cercò le parole sul soffitto. “Vendicativa, chiamiamola così, nei confronti della Germania, signore.” Strinse il pugno, lo avvicinò alla guancia, e rivolse un sorriso spronante e gonfio a Italia. “Questa sarà piuttosto una guerra generata allo scopo di preservare l’onore italiano.”

Tutti si scambiarono cenni d’assenso, occhiate d’intesa, complici.

Italia annuì a sua volta e salì sulle punte dei piedi. Il cuore gonfio di felicità lo tirava a un palmo da terra. “Sì!”

Il sottosegretario sollevò un indice. “Ah, a proposito dei tedeschi, non ho avuto ancora modo di venire a conoscenza dei dettagli del suo soggiorno al Passo del Brennero.”

Italia batté le mani. Gli occhi scintillarono come raggi di sole in piena estate. “Oh, sono stati davvero due giorni meravigliosi! Le riunioni sono state, uhm,” si grattò i capelli dietro l’orecchio e ridacchiò, imbarazzato, “un po’ impegnative ma interessantissime, poi l’arredamento era il massimo, così curato. C’erano questi quadri di un artista tedesco del periodo romantico che...”

Italia trotterellò vicino agli ufficiali che si fecero stretti attorno a lui. Le parole squillanti di Italia divennero uno squittio che si mescolava alle frasi di assenso, ai piccoli commenti borbottanti degli uomini.

Romano arretrò. Un brivido viscido gli percorse la schiena come una grossa lumaca gelida e bavosa che scivola dal collo al fondoschiena. Disgusto liquido fluì, acido e scivoloso, dentro le vene.

La spalla di Romano urtò quella dell’ammiraglio rimasto indietro, lontano dal gruppetto. Romano lo fulminò. Strinse i denti in un sottile ringhio.

“Bada a dove metti i piedi.”

L’ammiraglio si spostò e chinò il capo. “Mi perdoni.” Umile, sincero. I furbi occhi da volpe si erano spenti.

Romano strinse le braccia al petto, si voltò di fianco, mostrando le spalle all’uomo, e stette chiuso nel suo guscio, come un uovo, a sguardo basso e scuro, in silenzio. Scoccò un’occhiata a Italia che continuava a cinguettare e a sorridere, circondato dagli ufficiali. Il generale rideva, ogni tanto, ma Romano non sentiva quello che si dicevano. E non gli interessava.

L’ammiraglio strisciò di un passo più vicino alla spalla di Romano. Salì sulle punte, tornò a scendere battendo i tacchi. Chiuse la mano a pugno davanti alla bocca e si schiarì la voce.

“Stiamo pensando in grande, vero?” Il tono squillante, pur rimanendo pacato.

Romano si voltò. Vide una scintilla gialla brillare negli occhi dell’ufficiale della marina. La volpe tornò a uscire dalla tana.

“Soprattutto in un momento importante come questo per la nostra crescita politica ed economica.” Prese un respiro. Il petto si alzò e si abbassò, facendo scintillare i gradi sull’uniforme scura della marina militare. “Dopo la firma del Tripartito, il nostro prestigio è sicuramente salito al vertice.”

Romano strinse le dita sugli avambracci. Tripartito. Un fiotto di rabbia gli bruciò la gola, la voce uscì aspra e graffiante. “Io non c’ero.”

L’ammiraglio annuì. “Sì, ne sono a conoscenza.”

“E allora tappati quella tua bastarda bocca insolente e stattene al tuo posto.” Romano fece un passo di lato, calciò il pavimento, facendo singhiozzare le piastrelle, e sbuffò, liberando i bollori di rabbia. “Oggi non è proprio il giorno per farmi incazzare.”

L’ammiraglio tossicchiò di nuovo a bocca chiusa. “Mi perdoni ma, proprio perché so che lei non era là, signore, ho pensato che fosse più ragionevole parlare con lei di questa faccenda.”

La rabbia di Romano si spense come una fiamma estinta dall’acqua. Romano si voltò verso l’ammiraglio e storse un sopracciglio. La bocca socchiusa in un’espressione intontita, confusa.

“Eh?”

L’ammiraglio guardò gli altri ufficiali che chiacchieravano con Italia. Uno di loro rise, e la voce cinguettante di Italia gli fece da eco. L’ammiraglio guardò a destra e a sinistra, verso gli angoli della camera occupata solo da loro otto. Allungò un passo vicino al fianco di Romano e gli sfiorò la spalla con la sua. Abbassò la voce.

“Signore, lo so che lo dico contro i miei stessi interessi, contro i suoi, contro quelli di suo fratello, dell’Asse e del Paese stesso.” Prese un respiro. Il viso divenne di granito. Gli occhi da volpe erano due biglie gialle incastonate nelle orbite grandi e profonde. “Decido di confidarmi con lei perché ha sicuramente più voce in capitolo di me e perché forse potrà capirmi più di chiunque altro in questa stanza.”

Romano sentì un formicolio all’orecchio che gli solleticò tutto il padiglione. Gli accese una scintilla di curiosità, un pizzicorio alla nuca.

Ma che diavolo vuole, questo?

L’ammiraglio continuò come se gli avesse letto nel pensiero. “Signore, l’esercito italiano è carente di soldati sufficientemente preparati e di tecnologia bellica modernizzata. Non saremo pronti per affrontare una battaglia di grosso calibro fino al Quarantuno, anzi, forse addirittura non prima del Quarantatre.”

Romano sobbalzò, si strozzò con la saliva. Le palpebre sbarrate lasciarono vedere il bianco dell’occhio. Quarantatre? Si voltò verso Italia. Il braccio bruciava, le dita si muovevano animate dalla voglia di prenderlo e portarlo via di lì. Ma allora...

“La guerra del Quattordici-Diciotto ci ha letteralmente devastati, signore,” proseguì l’ammiraglio, “e l’esercito ha bisogno di un vasto programma di rinnovamento, sia dal punto di vista dei soldati che del materiale.” Fece un passo, si mise davanti alla spalla di Romano, coprendolo con la sua ombra. “La prego...”

Romano sollevò gli occhi, incontrò quello sguardo furbo che si spense, divenne umile, apprensivo, paterno.

“Non glielo sto chiedendo da ammiraglio, da uomo dell’esercito.” Posò i polpastrelli sul cuore, sopra la composizione di piastrine tra cui risaltava il Tricolore. “Ma da italiano, da cittadino della sua patria.”

Romano socchiuse la bocca, ma non trovò aria.

“Non pronti prima del Quarantuno, del Quarantatre.”

La mano sul cuore.

“L’esercito ha bisogno di un vasto programma di rinnovamento.”

Le dita sulla bandiera.

“Carente di soldati sufficientemente preparati e di tecnologia bellica modernizzata.”

Il Tricolore che scintillava, verde, bianco e rosso, sotto le dita dell’ammiraglio.

“Parli con suo fratello,” disse l’uomo. “Lo convinca a rinunciare a questa follia.” Fece scendere il tocco dalla giacca e aprì il palmo. “Senza il vostro consenso, l’esercito è del tutto impotente, non potranno sparare un solo proiettile.”

Romano tornò a sollevare gli occhi. Sciacquò la mente, i pensieri ridivennero lucidi, e il viso grigio.

“Perché me lo stai dicendo?”

L’ammiraglio raddrizzò le spalle, le allargò, a mento alto, rigido come sull’attenti. “Perché io amo il mio paese, signore.” Gli occhi bruciavano di sincerità. “E non voglio vedervi precipitare tutti e due in questa assurda pazzia.”

Romano sbuffò e indicò Italia piegando il capo. “Perché non lo dici direttamente a mio fratello, allora?” Sciolse un braccio dall’intreccio sul petto, e sventolò la mano come per scacciare un insetto fastidioso. “Io ormai non valgo più niente come Italia, a quanto pare.”

“Forse no, signore.” L’ammiraglio socchiuse le palpebre, lo guardò dritto nelle pupille. “Dimostri di avere fiducia in noi, e noi l’avremo in lei.”

Romano scrollò le spalle. Fece roteare gli occhi, con aria annoiata. “Ho smesso di crederci, ormai.”

“In che cosa, signore?”

Romano tornò ad alzare le spalle, a stringersi in un abbraccio solitario. “In voi, in mio fratello.” Guardò a terra. Si vide riflesso sulle piastrelle di marmo, guardò nei suoi stessi occhi, e li nascose sotto la frangia che ricadeva sulla fronte. “In me.”

L’ammiraglio aspettò che la voce più irritante e imponente del luogotenente si zittisse, prima di commentare. Si voltò, tornando di fianco a Romano. Gli occhi rivolti al gruppetto.

“Quindi, la sua decisione è quella di seguire passivamente la corrente che lo travolgerà, lasciandosi trascinare?”

Romano storse la bocca verso il basso. “Non ho molta scelta. Se non voglio abbandonarlo...”

Italia sorrideva insieme agli ufficiali. Disse qualcosa che Romano non capì e si portò una mano davanti alla bocca per trattenere una risata.

Romano sospirò. “Non posso fare altro.”

L’espressione dell’ammiraglio si ammorbidì, più docile e comprensiva. Una volpe ammaestrata. Un barlume di tristezza e delusione gli appannò lo sguardo. Tornò subito a splendere, vivo del fuoco della determinazione.

“Mi perdoni la sfrontatezza ma, con o senza il suo aiuto,” annuì a se stesso, “io farò comunque di tutto per impedire questa cosa.”

Romano piegò un sorriso amaro, di scherno, che fece scintillare un canino. Aprì un palmo, indicò il gruppo di ufficiali, guardò l’ammiraglio come si guarda una chiocciola che confessa di voler scalare il Kilimangiaro.

“Auguri.”

La voce del generale squillò sopra quelle di tutti. “Benissimo!” Batté le mani, il gruppetto si sciolse, e si strofinò i palmi. “Direi che possiamo cominciare sul serio.”

Italia annuì. Allungò un braccio verso Romano, gli cercò lo sguardo, aprì e strizzò la mano tre volte. “Fratellone, vieni?”

Romano emise un grugnito di irritazione. “Arrivo.”

Sfiorò la spalla dell’ammiraglio, passò oltre. Lo squadrò con la coda dell’occhio, da sopra la spalla, e l’ufficiale di marina non batté ciglio. Gli occhi bassi, in penombra, non avevano perso la fiamma.

Sciolsero quell’ultima occhiata d’intesa e Romano si mise di fianco a suo fratello.

Italia innalzò il braccio al cielo come uno scolaretto. “Ecco, io avrei già un’idea riguardo al piano.”

Il generale passeggiò davanti alla parete con la lavagna, la sua ombra lo seguiva, e annuì. “Prego, signore.”

Italia abbassò la mano, gli rivolse un sorrisetto carico di soggezione. “Vede, ho pensato, se stiamo cercando una nazione che sia abbastanza vicina a noi e facile da sconfiggere in combattimento,” gesticolò a mezz’aria, “sì, più comoda da invadere, io avrei pensato a...” Si bloccò subito, tossicchiò. Tirò Romano per la manica e lo tenne più vicino a sé. “Ehm, io e mio fratello avremmo pensato all’Albania.”

Il generale inviò un’occhiata al luogotenente che era in piedi vicino al tavolo, davanti alla sedia. Il luogotenente sollevò le sopracciglia, ammiccò, e stette muto.

Italia riprese a giocherellare con le dita, aprì il lembo della manica della giacca e lo stropicciò sul palmo. “Dopotutto, è un territorio che è già un pochetto sotto il nostro controllo, l’esercito albanese non è molto forte e nemmeno ricco, poi è una nazione facile e vicina.” Serrò le dita, immobili, e il sorrisetto nervoso tornò più dolce e naturale. “Potrebbe andare bene, generale?”

Il generale scostò l’attenzione dal luogotenente. Si voltò, si prese il mento tra le dita, pensoso, e stropicciò la fronte, infossando gli angoli della bocca nelle guance. “Mhm.” Passeggiò davanti alla lavagna e alla parte di muro vuota da cui pendeva solo una cordicina legata a un piccolo anello di plastica delle dimensioni adatte a far passare un indice. “Indubbiamente l’Albania è un territorio che possiede tutte le caratteristiche da lei descritte, signore.” Scosse il capo senza staccare il mento dal pugno. “Ma attaccare una nazione del genere non compenserebbe i nostri bisogni.” Si voltò, fermo, dando le spalle alla parete vuota. Spalancò le braccia e sollevò le spalle, mostrando i palmi a Italia. “Dove sarebbe la gloria, a partire da una conquista simile?” Strinse un pugno e lo batté sul palmo aperto. “No. Dobbiamo pensare ancora più in grande.”

Italia tenne gli occhi spalancati. Brillarono, si riempirono di meraviglia e di aspettative. Il cuore batté più velocemente.

Il generale invertì il senso di marcia e riprese a camminare lungo la parete. “Attaccare l’Albania sarebbe molto scomodo per noi.” Si rivolse di nuovo a Italia, senza interrompere la camminata, e aprì le mani come se stesse sorreggendo una grossa sfera invisibile. “È un territorio che fa da cuscino, da barriera naturale nei confronti dei paesi balcanici e sovietici e, inoltre, è molto più utile da alleato e amico, piuttosto che da nemico forzato.” Mollò la sfera invisibile e indicò il luogotenente con la punta di un pollice. “Tuttavia, non per niente è qui presente l’onorevole luogotenente del re in vista di ambasciatore e mediatore tra le due nazioni.”

Il luogotenente annuì e si fece avanti. “L’Albania, signore, ci sarà molto utile, è vero.” Incrociò lo sguardo con quello di Italia e piegò un sorriso sottile e viscido. “Ma come trampolino di lancio per impadronirci di un paese ancora più grosso e succulento.”

Italia portò la punta dell’indice sul labbro inferiore e sbarrò le palpebre. “Trampolino?” mormorò.

“Quello che andremo a fare, signore,” disse il generale, mettendosi di fianco al luogotenente, “dovrà essere di dimensioni colossali.” Disegnò un arco spalancando le braccia sopra la testa. “Soprattutto se in gioco c’è la conquista della fiducia e dell’ammirazione da parte dei tedeschi.”

Italia sentì il petto colmarsi di quelle parole.

Fiducia e ammirazione.

Sorrise, le guance si infiammarono e gli occhi luccicarono.

Il generale si accorse di quello sguardo e sorrise a sua volta sotto i baffi.

“Signore,” disse. “Perché appropriarci di un piccolo, misero e fragile paesino balcanico,” si portò verso lo spazio vuoto della parete, dove pendeva la cordicella legata all’anello, “quando abbiamo tutte le carte in regola per conquistare e impadronirci di quello che è Il Paese Balcanico?”

Il viso di Italia tornò vigile e attento. Gli angoli delle labbra si abbassarono, la bocca si schiuse, gli occhi rimasero aperti e luminosi. “E...” Sbatté le palpebre. Lo disse piano, quasi avesse paura a fare quella domanda. “E qual è?”

Il generale sogghignò. Fossette d’ombra si formarono sulle guance e attorno agli occhi.

Stese il braccio verso l’alto, infilò l’indice nell’anellino di plastica, chiuse il dito dandogli la forma di un uncino, e tirò la cordicella verso il basso.

La mappa si srotolò sulla parete creando un suono frusciante e secco. I colori della cartina geografica colpita dalla luce del sole brillarono di blu, verde e giallo, riflettendo le scaglie di riverbero come un mosaico.

Italia si avvicinò di un passo. Sgranò gli occhi. La gola era secca, la lingua paralizzata, non riusciva a parlare.

I confini e i nomi segnati sulla mappa si riflettevano nei suoi occhi larghi e lucidi come biglie. Italia lesse quelle scritte mentalmente.

Isole Ioniche, Mar Ionio e Mediterraneo vicini, l’Isola di Creta, il Mar di Creta sovrastato dall’Egeo macchiato a sua volta dalle Isole Cicladi.

Gli occhi di Italia schizzarono da una parte all’altra della cartina.

Peloponneso, Arcadia, Attica, Epiro, Tessaglia, Macedonia. Un’unica grande scritta in grassetto maiuscolo sopra ad Atene.

 

GRECIA

 

Romano si avvicinò a Italia, si mise al suo fianco. Viso alto come quello del fratello, gli stessi occhi sgranati, le palpebre non sbattevano, e la bocca socchiusa da cui non passava un filo di fiato.

Il labbro inferiore di Italia cadde ancora più in basso. “Oh, Grecia?” Gli occhi rimasero lì dov’erano, rilessero per altre tre volte la scritta ‘ATENE’.

“Proprio così, signore.” Il generale tornò al centro della cartina. Sollevò il braccio e carezzò la mappa, dalla Macedonia all’Isola di Creta. Sorrise. Un sorriso più piccolo, ma scuro e profondo, che gli lasciò le guance pallide, annerite dall’ombra delle fossette. La mano indugiò sull’insegna di Atene. “La Grecia.”

“Perché proprio lui?” domandò Italia. Si strinse nelle spalle e sollevò i palmi al soffitto. “Grecia non ci è mai stato nemico, non ha mai fatto nulla per infastidirci, e mi è sempre sembrato così...” Arricciò le labbra, stropicciò la fronte. Tenne in gola la parola, senza farla uscire. Insonnolito? “Uhm, così neutrale.”

I passi lenti e cadenzati del sottosegretario si avvicinarono alle sue spalle. “La neutralità è un concetto abusato, signore, e anche pericoloso.” Si fermò di fianco al generale. Spalle dritte e mani dietro la schiena. Scosse il capo. “Non è permesso a nessuno di essere neutrali in guerra, e nessuno lo è davvero.”

Alle loro spalle, il ministro degli esteri tossì due volte. “Tranne gli svizzeri,” disse con voce rauca. Tossì di nuovo e il sottosegretario di stato ridacchiò.

Italia volse lo sguardo al generale. “Ma...” Riprese in mano la croce di ferro e la fece roteare tra le dita che già tremavano e sudavano. “La politica di Grecia non è mai stata contraria alla nostra, e nemmeno di impiccio. Insomma, lui non...” Abbassò gli occhi, li nascose, come se si vergognasse. “Non ci ha mai fatto del male,” sussurrò.

Il generale si staccò dalla cartina. Abbassò il capo e sospirò. “Signore, purtroppo sono costretto a rivelarle che, se tutti ragionassero in questa maniera, forse non ci sarebbe nessuna guerra.” Si strinse nelle spalle, la voce squillò. “E non potremmo così mettere in atto il più giusto e naturale metodo di selezione dei più forti e meritevoli di regnare su questo mondo.”

Italia piegò il capo di lato, sbatacchiò le palpebre, una luce confusa balenò negli occhi, donandogli un’espressione triste e malinconica. Non gli piacque quel discorso.

Il generale si schiarì la voce tenendo un pugno davanti alle labbra e si riavvicinò alla cartina. Batté due volte il palmo sulla mappa. “La Grecia è un nemico alla nostra portata sotto molti punti di vista,” strinse le unghie graffiando la carta lucida, “per questo l’abbiamo scelta come bersaglio.”

Romano scollò gli occhi dalla mappa, li posò su Italia che era ancora chino, con la croce che ruotava tra i polpastrelli. Strinse le braccia al petto e scoccò un’occhiata di traverso al generale.

“E quali sarebbero questi vantaggi?” sbottò Romano.

Il generale guadagnò un respiro, prese fiato. “Innanzitutto, signore, è geograficamente molto vicina a noi.” Sollevò l’indice, lo stese verso la cartina e pressò l’unghia sul confine tra Albania e Grecia. Fece strisciare l’indice di un quadretto verso sinistra, superò il Canale d’Otranto, e toccò la punta della Puglia. Il generale sorrise da dentro la penombra, e rivolse un’occhiata sbilenca a Romano. “Siamo proprio a un passo dal tacco dello stivale.”

Romano piantò le unghie negli avambracci, si strinse nelle spalle, tremò di rabbia, le guance divennero scarlatte, andarono in fiamme, e fiotti di fumo sbuffarono dalle orecchie. Fu come se quel bastardo avesse toccato direttamente un punto del suo corpo.

Il generale ignorò l’occhiata di fuoco e tornò a battere l’indice sul confine albanese.

“Inoltre abbiamo, appunto, già un paio di truppe appostate in Albania che ci renderanno sicuramente gli spostamenti più facili, minimi, rapidi e, soprattutto, sicuri.”

“Se è la minaccia dell’esercito greco che temete, signore,” disse il sottosegretario, “posso assicurarle che non vi è nulla di cui avere paura.”

Il generale annuì. “Infatti, anche a prescindere dalla qualità della nostra offensiva, la difesa sarà molto debole, organizzata all’acqua di rose.” Il generale scrollò le spalle, guardò il soffitto, e storpiò le labbra come se avesse appena dato un morso a una fetta di limone. “Vede, i loro soldati sono deboli, pigri e mal addestrati.”

Il sottocapo di stato maggiore piegò il gomito sul tavolo e alzò la mano. “Se posso permettermi, poi, la loro classe politica è da radere al suolo il prima possibile, poiché costituisce un pericolo per l’intera Europa.”

Italia sollevò di nuovo gli occhi verso la cima della mappa. Lasciò andare il ciondolo, la croce di ferro ricadde sul petto, e strinse le dita attorno all’orlo della giacca, stropicciandone la stoffa. Increspò un angolo delle labbra verso il basso.

“Non mi è mai sembrato così pericoloso,” disse. Gli occhi fissi sulla mappa riflettevano le scritte delle città più grandi.

Il ministro degli esteri emise una risata soffusa. Fece scivolare il gomito sul tavolo e annodò le braccia al petto. Appoggiò le spalle allo schienale della sedia e accavallò le gambe. “Si fidi, signore, le fondamenta su cui si basa sono fragili e facilmente demolibili.”

Italia chinò la fronte. Il ciuffo arricciato che pendeva sulla spalla si ammosciò come le orecchie di un cane che viene sgridato. “Mhm.” Annuì. “Ho capito.”

Romano si avvicinò di un altro passo alla cartina. Sollevò una mano e percorse con la punta delle dita i confini, le curve del territorio, e toccò ogni città scritta in grassetto. Anche il suo sguardo si storpiò. Una ruga scura e profonda gli aggrottò la fronte, facendolo diventare grigio in viso.

Italia sollevò il capo, gli occhi si rianimarono, tornarono lucidi e luccicanti. Batté le mani davanti al petto. “Ah, però, forse Grecia potrebbe anche essere un nostro alleato, invece che un nostro nemico.”

L’ammiraglio, ancora al riparo nell’angolo, dietro di loro, sollevò un sopracciglio, incuriosito. Si massaggiò la punta del mento e contenne un sorriso fine, da furbo.

Il generale, il sottosegretario e il luogotenente si scambiarono occhiate dubbiose, le loro labbra si incresparono, tutti e tre piegarono le bocche verso il basso e in smorfie di disappunto.

“Tutto sommato,” disse Italia, piegando un sorriso, “è una nazione forte e valorosa esattamente come vogliamo esserlo noi. Lo so perché Grecia ha sicuramente preso dalla sua mamma, proprio come io e mio fratello abbiamo preso dal nonno.” Italia salì sulle punte, innalzò un indice al cielo, e sollevò il mento. Il sorriso si distese, gli fece diventare le guance rosse. “E il nonno raccontava sempre storie incredibili sulla potenza straordinaria che la mamma di Grecia mostrava sul campo di battaglia.”

Romano tirò verso il basso un angolo della bocca. Espressione sconcertata, viso viola di imbarazzo, guance gonfie. Si nascose il viso con una mano, affondando le dita tra i capelli. “Io mi ricordo ben altre storie che il nonno raccontava sul suo conto,” mormorò contro il palmo. Altro fumo uscì dalle orecchie, il ciuffo arricciato si arrotolò vicino al lobo.

Italia gli rivolse un’occhiata interrogativa. “Ah, davvero?” Si strofinò le dita tra i capelli, confuso. “Quali?”

Romano restò con il palmo aperto sul viso ed emise un sottile ringhio. “Non costringermi a ripeterle davanti a questi qua.”

Italia inclinò il capo dall’altro lato e l’indice sfregò un’altra volta dietro l’orecchio. Un enorme punto di domanda si stampò sulla sua faccia.

“Signore.” Il generale avanzò di un passo. “Va contro i nostri più profondi interessi avere i greci come alleati.” Piegò un sorriso gonfio, paffuto, che si incavò nelle guance. Un sorriso da roditore. “Al contrario, se vedessimo la Grecia come una nemica da sconfiggere, la sua utilità schizzerebbe alle stelle.”

Romano fece scivolare le dita dal viso. Il rossore era sbiadito. Socchiuse la bocca, ma la voce del sottosegretario lo interruppe prima che potesse cominciare a polemizzare.

“Capisco i suoi punti di vista, signore.” Il sottosegretario fece un passo più vicino al generale, si mise tra lui e la cartina e scosse il capo. Si rivolse a Italia. “Non mi permetto di intromettermi nei rapporti che condividete voi, ehm...” Guardò la cartina, poi Italia, poi Romano, e di nuovo la mappa. Si strinse nelle spalle e stropicciò le labbra. “Voi simili.”

Romano aggrottò le sopracciglia. Gli scoccò un’occhiata ardente come brace.

Il sottosegretario si ricompose e si schiarì la voce. “La mia mentalità è volta al solo scopo militare, e cerchi di capire, dunque, se sia io che il generale,” aprì un braccio e indicò anche gli altri ufficiali, “come tutti i signori qua presenti, stiamo cercando di trovare la soluzione più adatta a voi, esattamente come lei ci aveva chiesto.”

Italia annuì e restò con il capo basso. “Sì, lo so che lo state facendo per...” Sospirò. Un sospiro profondo e teso. “Per il Paese.” Ruotò gli occhi verso l’alto.

L’immagine della regione greca gli riempì la vista, colmò gli occhi. I riflessi gialli, verdi e azzurri della regione balcanica gli colorarono la pelle delle guance e della fronte. Italia guadagnò un respiro tremante e deglutì a fondo. Il groppo di saliva restò intrappolato in gola.

“Forse, la verità è che ho un pochino di paura.”

Romano gli rivolse uno sguardo disteso, apprensivo, con una punta di allarme che gli faceva brillare gli occhi.

Italia abbassò il capo tra le spalle. Abbattuto. “Grecia è un paese così forte. Anche il nonno ce la metteva tutta durante le battaglie, ma non vinceva sempre contro la sua mamma. Quindi, mi chiedo come noi...”

“I tempi sono cambiati molto, signore,” lo rassicurò il generale. Si avvicinò a Italia e gli diede una piccola pacca sulla spalla che lo fece traballare. Romano strinse i pugni per evitare di stamparglieli sulla faccia. “E lei non ha nulla da temere, glielo assicuro.”

Italia mantenne l’espressione insicura e tentennante. Annuì piano, con un movimento del capo quasi impercettibile.

Il generale fece scendere la mano dalla sua spalla e la unì dietro la schiena con quella libera. Si gonfiò il petto. “Ha mai osservato, di recente, l’organizzazione e gli spostamenti dell’esercito greco?”

Italia riuscì a sollevare gli occhi e a riportarli alla luce. Scosse il capo. “Veramente no.”

Il generale stese un sorriso rassicurante e compiaciuto. “I soldati greci sono più imbarazzanti che altro, esattamente come...” Gli occhi dell’uomo volarono verso la cartina, puntarono sulla scritta più larga e spessa di tutta la mappa. ‘GRECIA’. Storse un ghigno di disgusto. “Come la loro rappresentanza, se posso permettermi.” Si voltò, passeggiò lungo la parete e spalancò le braccia, sollevando le spalle. “I tempi antichi sono finiti, ormai questa non è più gente che sa battersi, non è più un popolo di valorosi guerrieri con corazze, elmi, scudi e spade.” Scrollò il capo. “Non sono più buoni soldati e ottimi conquistatori.” Piroettò, tornando a rivolgersi a Italia. Premette una mano sul petto. “Per questo io e i miei colleghi insistiamo tanto per non averli come alleati. Sarebbe inutilmente rischioso, capisce?” Sventolò la mano. Tornarono gli occhi disgustati e sprezzanti. “Di quel popolo non ci si può fidare. La loro gente è pigra, inaffidabile.” Levò entrambi i palmi al cielo e sbuffò una risata acida e maligna. “Probabilmente, sarebbero capaci di estrarre coperta e cuscino, e di mettersi a dormire nel bel mezzo del campo di battaglia, tra esplosioni e sparatorie, come se niente fosse.”

Il sottosegretario sogghignò a sua volta. “Un esercito di gattini indifesi ancora attaccati al ventre della madre sarebbe ben più pericoloso delle armate greche.”

“Proprio così.” Il generale annuì. Rivolse lo sguardo a Italia e a Romano, e mostrò loro i palmi aprendo lievemente le braccia. “Signori, non avete assolutamente nulla da temere, come potrete constatare da voi.” Sollevò gli occhi puntando la cartina. Vi posò sopra i polpastrelli e fece tamburellare le dita lungo il territorio greco. “Questa campagna sarà ostica e faticosa quanto la scampagnata di una gita scolastica.”

Italia si posò la mano sul petto e sospirò. Il viso riprese colorito. “Che sollievo.” Prese la manica di Romano tra le dita e la tirò due volte, sorridendogli. “Sentito, Romano?”

Romano irrigidì le braccia, la schiena, e ingobbì le spalle, serrando la mandibola fino a far stridere i denti. Alzò gli occhi, mirò il centro della carta, la scritta ‘GRECIA’, così spessa e nera in mezzo al territorio in rilievo. Socchiuse la bocca, pronto a parlare, a protestare, ma un’altra voce lo fece per lui.

“Mi perdoni se intervengo, generale.”

L’ammiraglio uscì dal suo angolo d’ombra, si fece avanti, gli sguardi di tutti puntarono verso di lui seguendo la lenta e sicura camminata che lo portò di fianco a Italia e a Romano. L’ammiraglio si fermò, rigido sull’attenti, e ruotò gli occhi verso il basso, in cerca di Italia.

“Signore, ho il permesso di dire la mia?”

Italia annuì. “Sì, certo.”

L’ammiraglio sollevò un sopracciglio con un piccolo scatto, come se ammiccasse, e rivolse quell’occhiata d’intesa a Romano.

L’uomo tornò rigido, sguardo sveglio e sicuro, di fronte al generale e al sottosegretario.

“Ammetto che le sue argomentazioni possano sembrare sufficientemente valide per far partire una campagna di questa importanza, generale.” Lanciò occhiate anche al luogotenente, al ministro degli esteri, e al sottocapo di stato maggiore. “Tuttavia, posso consigliare a lor signori di non sottovalutare la potenza del popolo e dell’esercito greco?”

Il generale incrociò le braccia al petto. Lui e il sottosegretario si guardarono, storsero le sopracciglia e piegarono verso il basso gli angoli della bocca.

“È vero,” proseguì l’ammiraglio. “Non siamo più ai tempi antichi, le guerre sono cambiate, i popoli sono cambiati ma, a prescindere da questo, sottovalutare l’avversario, per quanto debole possa apparire, è il primo passo che porta alla sconfitta sicura.” Chinò il capo, abbassò le palpebre. “E questo me lo suggerisce anche la mia esperienza personale.”

Il generale aggrottò la fronte, arricciò il naso, e una fitta ragnatela di rabbia gli contrasse il viso. “Scempiaggini.”

Tutti gli sguardi sul generale.

L’uomo spalancò il braccio e lo rivolse alla cartina. “Un branco di smidollati, ecco cosa sono i greci,” esclamò. Scosse il capo accentuando le rughe di rabbia che gli increspavano il volto. “Do le dimissioni da italiano, se mi si presenta qui qualcuno affermando di avere paura di loro.”

L’ammiraglio indurì lo sguardo, gli occhi persero la luce, si fecero più bui. Fece un passo davanti al generale, passando di fianco a Italia, e stese la sua ombra su di lui.

“Allora posso suggerirle di cambiare prospettive di veduta, generale?”

Il generale mantenne lo sguardo dritto, sollevato verso gli occhi pungenti dell’ufficiale di marina.

L’ammiraglio rilassò i muscoli in tensione. Il viso assunse una luce più comprensiva. “Lei sta considerando la debolezza dei greci solo dal punto di vista dell’esercito, senza minimamente prendere in analisi tutti i loro innumerevoli vantaggi.”

Il generale piegò il capo, mostrandogli la guancia, ma gli occhi rimasero immobili contro quelli dell’ammiraglio. “E quali sarebbero, di grazia?”

L’ammiraglio socchiuse le palpebre. “Io sono un uomo di mare, ma un qualsiasi fante saprebbe riconoscere un terreno difficile da affrontare come quello greco, e –”

“Ho studiato a fondo il terreno greco, ammiraglio,” esclamò il generale, rosso in viso. “E le assicuro che, essendo per un terzo di natura insulare, sarà assai dispersivo, e i greci non riusciranno mai a organizzare una difesa organica e compatta.”

L’ammiraglio spalancò un braccio. “Come è dispersivo per la difesa lo sarà anche per l’attacco.” Gli occhi tornarono ad accendersi. “Se noi non sapremo aggirare l’ostacolo, i greci saranno comunque più preparati di noi, perché sono nati e cresciuti in quelle terre, e le conoscono sicuramente meglio di tutti quanti noi messi assieme.”

Italia rivolse uno sguardo preoccupato, con occhi lucidi, colmi d’ansia, a Romano. Romano non lo vide. Guardava l’ammiraglio.

L’ammiraglio abbassò la fronte. “Un’invasione,” scosse il capo, “non può funzionare se il terreno va solo a vantaggio del nemico che, per di più, combatte in casa.”

Il generale sbuffò con tono sprezzante. “I greci non sapranno organizzare nemmeno una linea di difesa.” Fece un passo di lato, verso la cartina, e batté il palmo due volte sopra la capitale. “Saremo così veloci nelle operazioni, che raggiungeremo Atene prima che possano accorgersi della nostra presenza.” Fece scivolare la mano dalla cartina, abbassò il tono di voce, e il rossore sul viso sbiadì. “E, anche se dovessero accorgersi di noi, saranno troppo impegnati a contenere la paura che a combattere.”

L’ammiraglio gonfiò il petto, allargò le spalle. “Un popolo che lotta per difendere la propria patria non è mai troppo spaventato quando c’è in gioco la salvezza del proprio paese.” Si voltò di profilo e si rivolse a tutti, spianando la stanza con lo sguardo. “I greci saranno guidati dall’istinto di protezione nei confronti della terra natale che gli appartiene e che non intenderanno lasciarsi sottrarre così facilmente.” Gli occhi volarono verso il sottosegretario. Le palpebre si restrinsero, affilarono lo sguardo da volpe. “Per riportare il tutto sul piano di paragone che il sottosegretario ci ha fornito prima...”

Il sottosegretario sollevò un sopracciglio, restò in attesa mimando sguardo scettico.

“I greci,” continuò l’ammiraglio, “potrebbero trasformarsi da innocenti gattini miagolanti a feroci leoni ruggenti, se lo volessero.” Sollevò le sopracciglia, tornò sul generale. “E lo vorranno.”

Italia raccolse un nodo di coraggio nel petto e si fece avanti in punta di piedi, gesticolando con le mani davanti al petto. “Signori, forse, ehm...”

“Idiozie!” tuonò il generale.

Italia tornò indietro, di fianco a Romano, e rinunciò a sedare la discussione.

Il generale annodò le braccia al petto e scosse il capo. “Mai visto un cambiamento così repentino in un esercito.” Scrollò le spalle. “Loro hanno l’istinto di difesa nei confronti della patria? Benissimo.” Premette un pollice sullo sterno. “Noi abbiamo l’istinto di far primeggiare la nostra, di patria, di elevarla, di onorarla.” Rivolse un’occhiata di odio e di sprezzo all’ammiraglio. “Non è forse anche questo un motivo più che valido, ammiraglio?”

L’ammiraglio e il generale si guardarono come due leoni soffianti che postano l’agguato a spalle basse, criniera larga, pelo dritto, e artigli piantati nel terreno. Occhietti neri e fiammeggianti, resi increspati attorno alle palpebre dai ruggiti e dalle smorfie di rabbia. Italia si sentì come un agnellino conteso tra le due belve.

Italia prese un respiro di incoraggiamento, trattenne il fiato, e si mise fra i due. “Ehm, signori, vi prego, non...” Mostrò i palmi prima a uno poi all’altro, premendo sull’aria e facendo cenno di calmarsi. Un sorrisino tremolante gli torceva le labbra. “Non dobbiamo litigare. Io ascolterò i consigli di tutti per non correre rischi.” Fece un passetto verso il generale e abbassò le mani da davanti il petto, intrecciandole sul ventre. “Generale, forse ci sono alcune cose che l’ammiraglio ha detto che potrebbero essere giuste.”

Il generale storse un sopracciglio. Il suo sguardo sorvolò la spalla di Italia e tornò a fulminare l’ammiraglio. L’ufficiale di marina sollevò il mento, svelò un mezzo sorriso di vittoria.

Italia si avvicinò alla cartina di Grecia. “Per esempio,” premette la punta dell’indice sull’aria, mirando i Balcani, “non ho ben capito quella cosa del terreno, ma mi sembrava importante.”

Il generale mostrò la schiena all’ammiraglio e sporse il petto all’infuori. Strinse il pugno davanti alle labbra e diede due lievi colpi di tosse. “Lasci che le spieghi, signore.” Si avvicinò a Italia, salì sulle punte dei piedi, e passò la mano sulla penisola greca. “L’ammiraglio ha effettivamente fatto una giusta considerazione in tutto questo: il terreno greco è per un terzo insulare.” La mano scese, i polpastrelli rotearono attorno agli arcipelaghi che macchiavano l’Egeo. “Quindi molto frammentato, e che non permette l’avanzata di un grande blocco di soldati proprio per i numerosi ostacoli che presenta.” Risalì il territorio e spinse solo l’indice sulla cartina. Mosse il dito delineando la traiettoria dei fiumi e i profili dei monti e delle valli, più scuri e in rilievo. “Tra cui le catene montuose e i fiumi.”

Italia seguì con gli occhi le scie tracciate dall’indice del generale. Si posò la punta delle dita tra le labbra, rosicchiò le unghie. Lo sguardo divenne più buio e preoccupato.

Il generale fece scivolare la mano davanti alla mappa. Camminò verso sinistra, verso la lavagna.

“La soluzione migliore sarebbe quella di, uhm,” fece roteare una mano, cercando la frase sul soffitto, “per metterla in parole povere...” Tenne la mano sollevata, piegò a uncino indice e medio e segnò l’aria con due virgolette. “‘Spezzettare’ l’esercito e farlo muovere...” Afferrò uno dei mozziconi di gessetti posati sulla cornice della lavagna e continuò a camminare, arrivando al centro della tavola nera. Tracciò quattro linee. Un quadrato. Sottile polverina bianca piovve sulla cornice di legno, come neve. Il generale batté la punta del gessetto al centro del quadrato. “Non in un unico cubo...” La mano riprese a scorrere e tagliò il quadrato in una griglia di piccoli quadretti. “Ma in tanti piccoli cubetti.”

Appoggiò il gessetto dalla punta consumata sulla cornice della lavagna e si spolverò le mani. Una nebbia bianca si gonfiò attorno alle sue braccia.

“Questo non vale solo per l’attacco, ma anche per la difesa. Come si può intuire da ciò, se io ho una potenza complessiva di cento e vado a sminuzzare il tutto in venti parti...” Premette l’indice su uno dei piccoli quadretti. Vi batté sopra due volte, lasciando un’impronta bianca grande quando il suo polpastrello. “Alla fine avrò ogni parte con una potenza di cinque, e questo potrebbe essere uno svantaggio. Tuttavia, una possibilità per agire in blocchi più grandi ce l’abbiamo.” Fece scivolare l’indice dalla lavagna e aprì il palmo verso il luogotenente. “Luogotenente.” Gli passò la parola.

Il luogotenente annuì e superò il generale, portandosi davanti alla cartina. “Scegliendo il terreno albanese come territorio di lancio,” aprì la mano sul confine tra Albania e Grecia, “potremo buttarci dentro la Grecia senza bisogno di frammentarci,” il palmo scivolò verso il basso, “scavalcare le montagne, e correre letteralmente verso Atene.” Si fermò sulla capitale e chiuse il pugno graffiando la carta lucida. Strizzò l’aria come una spugna. “Spianandoci la strada che ci porterà a trafiggere la Grecia al cuore.”

Italia strinse un pugnetto sul petto e deglutì un grosso boccone di saliva. Un brivido gli percorse la schiena. “Sembra complicato.”

Il generale accennò un sorriso e scosse il capo. “Più a dirsi che a farsi, signore. L’unica condizione è la velocità.” Aprì un palmo verso il basso e tagliò l’aria come in una mossa di arti marziali. “Se non perdiamo il ritmo di corsa, e ci buttiamo senza perdere velocità, sarà tutto molto facile.”

Italia sorrise, le guance ripresero colorito. “Meno male.” Il peso al cuore si sgonfiò, gli rese il petto più leggero.

“Ma il ritmo di corsa dipende proprio dal terreno,” intervenne l’ammiraglio. Si portò vicino a Italia e a Romano – Romano fece un passetto all’indietro – e abbassò gli occhi verso quelli del generale. L’uomo sollevò le sopracciglia, socchiuse le palpebre, mise lo sguardo in ombra risaltando la luce che fiammeggiava nelle pupille. Parlò a voce bassa e grave. Un gorgoglio del petto. Attorno a lui, l’aria si fece nera come una nebbia di cenere. “Le divinità greche potrebbero essere più generose di quelle romane, in tutto questo.”

Il generale storse un angolo della bocca verso il basso, come se avesse sentito male. “Divinità?” gorgogliò.

Italia e Romano si scambiarono un’occhiata interrogativa.

Il luogotenente tossicchiò una risata forzata. “Suvvia, siamo tutti uomini di guerra, qui dentro.” La risata svanì, spegnendosi come il suo sorriso. Guardò storto l’ammiraglio, con occhi ostili. “Cosa c’entrano le divinità?”

Un velo di severità si stese sul viso dell’ammiraglio. L’uomo indurì lo sguardo. “Non avete considerato il fattore più importante e determinante in tutto questo.” Strinse le mani dietro la schiena, squadrò il luogotenente e il generale. Restrinse le sopracciglia. “Il fattore che nemmeno un esercito, per quanto potente che sia, sarà mai in grado di controllare.”

Il generale e il luogotenente si guardarono di striscio. Una vena di insicurezza ingrigì gli sguardi di granito. Il sottosegretario, dietro di loro, sbuffò un soffio di risata e scosse le spalle.

“La divina provvidenza?” azzardò.

L’ammiraglio chiuse gli occhi. Inspirò a fondo dal naso, si riempì il petto. Riaprì le palpebre. Sguardo sereno, voce calma. “Il tempo meteorologico, signori.”

Il sorriso del sottosegretario si sgonfiò, le labbra caddero piatte, le guance sbiancarono.

Tutti zitti.

Il vento soffiò lento su una delle finestre e si sentirono le imposte scricchiolare, il vetro traballare e tornare fermo. Il fischio d’aria cessò.

L’ammiraglio aspettò di avere tutti gli occhi su di lui e si avvicinò alla mappa appesa alla parete. “Ci troveremo a marciare su un terreno prevalentemente montuoso che sarà per la maggior parte non di pietrisco, ma argilloso.” Pressò le dita dove le aveva appoggiate il generale quando aveva tracciato la traiettoria dei fiumi e il rilievo dei monti. L’altro braccio rimase piegato dietro la schiena. “Basterebbe un solo giorno di pioggia per far straripare i fiumi e per rendere la via di marcia un’enorme e impetuosa strada di fango e acqua.” La mano scivolò dalla carta, e l’ammiraglio la giunse dietro la schiena, intrecciando le dita. Scrollò le spalle. “Considerando che l’attacco è previsto per fine ottobre, in pieno autunno, proprio alle porte della stagione dei diluvi...”

Italia sgranò gli occhi. Una lucida scintilla di panico gli balenò tra le pupille.

Il generale si voltò, mettendosi di fronte a Italia e a Romano. “Signori.” Li guardò con occhi di supplica. “Anche un bambino capirebbe che quella che stiamo per intraprendere è pura follia.”

Italia sollevò il pugnetto davanti alla bocca. Tremò come un pulcino bagnato in mezzo a una bufera di vento e neve. “Davvero ci saranno così tanta pioggia e così tanto fango?”

Il generale pestò un passo verso l’ammiraglio. “I soldati dell’esercito italiano non temono il fango alle caviglie.”

L’ammiraglio si voltò di scatto. Gli rifilò un’occhiata tagliente come il filo di un rasoio. “Ovviamente.” Levò lo sguardo al cielo, scrollò le spalle. Mimò espressione gelida e indifferente. “Ne abbiamo avuto la prova lampante a Caporetto, dopotutto.”

Italia impallidì. Divenne bianco come il gesso che era piovuto dalla lavagna.

Gettò lo sguardo al pavimento, nascosto sotto l’ombra dei capelli che caddero davanti agli occhi, e tremò. Paura e dolore si addensarono nel cuore, lo fecero rabbrividire chiuso nell’abbraccio delle sue spalle rannicchiate e ingobbite.

Il viso del generale divenne nero. Pestò un altro passo davanti all’ammiraglio, fronteggiandolo. “È proprio da ciò che abbiamo imparato dall’errore di Caporetto che ora sapremo affrontare queste difficoltà!”

“Generale,” esclamò l’ammiraglio. “Mi creda se le dico che quello a cui andremo in contro si presenterà esattamente come una seconda Caporetto, se non ancora più imponente a livello di danni.” Aprì entrambi i palmi al soffitto, restrinse le dita. “Non si tratta di semplice fango alle ginocchia,” disse, inasprendo il tono. “Ma di un vero inferno di acqua ghiacciata che strappa letteralmente le dita dai piedi, e di terra molle come colla capace di intrappolare e inghiottire un mulo con una singola ondata.” Sbatté la mano sulla mappa geografica appesa alla parete. La carta scricchiolò. “Il fango potrebbe rivelarsi il nostro peggior nemico, ancora più pericoloso dei greci stessi.”

Italia tremò di nuovo. Un brivido viscido e pungente risalì la schiena come un artiglio che graffia una vertebra alla volta. Le unghie affilate si piantarono nella spalla sinistra, scavarono nella carne, e le ossa diedero una scarica di dolore. Riaprirono vecchie ferite. Italia si strinse le spalle. Si morse il labbro per contenere il gemito di dolore, e stette gobbo, nel suo angolino d’ombra.

“Ehi.” La spalla di Romano toccò la sua, quella sana, senza cicatrici.

Italia sollevò gli occhi lucidi e tremanti, incrociò lo sguardo di Romano, ancora contratto di rabbia, ma più morbido.

“Tirati su, dai.”

Italia annuì. La mano scivolò giù dalla spalla, lasciò un alone di dolore che pulsava sotto la pelle e batteva sulle ossa.

“Signori.” L’ammiraglio si portò davanti a loro due. Si posò una mano sul petto. “Come ho già specificato, sono un uomo di mare, non di terra e tantomeno di aria.” Annuì a se stesso. “Ma ne capisco abbastanza di aviazione da poter dire che, se il terreno verrà allagato, sarà impossibile non solo marciare, ma anche far decollare gli aerei dai campi in confine albanese.”

Lo sguardo di Italia riprese una scintilla di vitalità, ma tremava ancora per il dolore alla spalla. “Gli aerei saranno importanti?” La voce lievemente impastata.

L’ammiraglio annuì, deciso. “Assolutamente, signore. Senza il supporto dell’aviazione, sarà impossibile avanzare verso Atene e rifornirci quando saremo in pieno territorio nemico.” Socchiuse le palpebre. Abbassò il tono che divenne quasi melmoso. “Abbiamo pochi campi di aviazione e, se dovessero ritrovarsi bloccati persino quelli, per noi sarebbe la fine.”

“Non gli date ascolto, signori.” Il generale camminò di fianco all’ammiraglio e gli diede una leggera spallata, per farlo spostare. Lo guardò storto, dal basso verso l’alto. “Lo ha detto lei stesso, ammiraglio, che ne vuole sapere di aerei?”

L’ammiraglio schiuse le labbra per protestare. Italia parlò per lui.

“U... un attimo.”

Gli occhi di tutti tracciarono scie invisibili verso Italia.

Italia si mise più vicino a Romano, sentendo il disagio di quegli sguardi interrogativi che gli schiacciavano le spalle.

“Io credo...” Prese la croce di ferro fra le dita. Sentendo il calore fluire sotto la pelle, lungo il sangue, fino al petto, le labbra smisero di balbettare e il dolore alla spalla svanì. “Credo che il problema di attaccare Grecia sia un altro. Voglio dire...” Sollevò gli occhi alla mappa. “Lui non ci ha mai fatto niente, non ha mai parlato male di noi, né ha provato a ostacolarci in qualche modo.” Si strinse nelle spalle, rigirò la croce tra i polpastrelli, facendo tintinnare le unghie sul metallo. “Mi sembrerebbe un po’ strano e anche maleducato, forse, attaccarlo senza motivo, solo perché...” Sfregò un piede sull’altro. Un indice si aggrovigliò alla catenina del ciondolo. “Perché è facile da conquistare.”

Il generale espose il petto all’infuori. “A tutto c’è una soluzione, signore.” Lanciò all’ammiraglio un’occhiata affilata e pesante come un dardo. “A tutto.”

L’ammiraglio ricambiò lo sguardo d’odio e arricciò il naso, disgustato.

“È molto semplice,” disse il generale, tornando a Italia. “Segua il mio ragionamento, per favore.”

Italia annuì. Lasciò andare la croce di ferro e si mise composto sull’attenti, come durante un allenamento insieme a Germania.

“Il meccanismo sarà elementare,” proseguì il generale. “Basterà iniziare a diffondere piccoli e molteplici capi di accusa rivolti al popolo greco e così potremo avere una scusa del nostro astio nei loro confronti.”

Italia sbatté le palpebre. Sgranò gli occhi. “Dovremmo...” Piegò le sopracciglia in un’espressione di triste incredulità. “Dovremmo raccontare delle bugie?”

Il sottocapo di stato maggiore balbettò una risata goffa. “Che brutta parola, signore.” Invertì la posizione delle gambe accavallate sulla sedia, intrecciò le mani dietro la nuca e poggiò le spalle allo schienale. “Queste non saranno bugie ma...” Scosse le spalle, sorrise. “Manipolazioni di fatti realmente esistenti.”

Italia stropicciò lo sguardo. Strofinò le dita tra i capelli dietro l’orecchio. “Forse non ho capito.”

Il generale tornò a farsi avanti. “Le illustro un piccolo esempio.” Camminò avanti e indietro lungo la parete occupata dalla lavagna e dalla carta geografica. “Se noi accusassimo i greci di patteggiamento e di alleanza con gli inglesi, non sarebbe una bugia, ma un’estensione della verità.” Piroettò, marciò dalla parte opposta, e roteò la mano davanti a sé. “Accusiamo i greci del fatto che si affidino solo agli inglesi per quanto riguarda i rifornimenti della flotta navale.” Si posò le dita sul petto e stese un sorriso piccolo e sbilenco. “Sarebbe del tutto lecito da parte nostra, poi, accusarli di aver infranto la neutralità, essendo questo un vero e proprio schieramento dalla parte alleata.”

Il ministro degli esteri sollevò un indice, prese la parola. “In poche parole, si tratterebbe di accusarli di tradimento, di doppio gioco, di patteggiamento,” spiegò.

Italia sfilò le dita dai capelli e levò i palmi al soffitto. “Ma Grecia e Inghilterra sanno che non è vero. O almeno...” Si chiuse nelle spalle. “Non così tanto vero.”

Romano sbuffò. “Potrebbero non abboccare alla provocazione.”

“In questo caso,” intervenne il luogotenente, portandosi di fianco al generale. “C’è anche la questione albanese.” Strinse un pugno vicino alla guancia. Aggrottò la fronte. “Accusiamo i greci di occupare una porzione troppo grossa dell’Albania, nazione di cui dovremmo avere il pieno ed esclusivo controllo.”

“Se anche questo non dovesse bastare,” intervenne il generale. “Potremmo sempre dargli qualche...” Levò gli occhi al soffitto, increspò le labbra per trattenere un risolino. “Spintarella in più per istigare l’odio verso di noi.”

Romano serrò la mandibola, strinse i denti, lo smalto stridette come il gesso sulla lavagna. “Questa è la più grande puttanata che io abbia mai sentito in tutta la mia vita.”

Sguardi perplessi e smarriti si posarono su di lui. Gli ufficiali lo guardarono storto, stando zitti.

Romano li squadrò uno a uno e serrò i pugni sui fianchi.

“Fatemi capire...” Le braccia tremarono di rabbia come la voce e come gli occhi. “Noi stiamo per pungolare una nazione che potrebbe starsene a dormire per i fatti suoi solo per un pretesto che ci permetta di attaccarla?” sbottò.

Il generale e il luogotenente si scambiarono un’occhiata di complicità.

Il generale si massaggiò il mento, dalle guance alla punta. “Mhm,” annuì, “sì, l’idea di base è questa, in effetti.”

Romano sgranò gli occhi. Vibrarono di sconcerto, le pupille si restrinsero. “Ma è...” Scrollò il capo facendo dondolare il ciuffo arricciato sulla spalla. “No, no, è fottutamente assurdo.”

“Signore.” Il generale gli si avvicinò. “Comprendo i suoi timori e le sue perplessità, ma vedrà che poi le apparirà tutto molto più chiaro.”

Romano lo ignorò. Guardò Italia. Guardò suo fratello dritto negli occhi, con quello sguardo spaventato e tremante che brillava di rabbia. Romano fece di no con il capo, muovendolo lentamente a destra e a sinistra, più volte. Italia ricambiò lo sguardo di supplica. Gli occhi si slargarono, le sopracciglia si piegarono, e lo implorò con gli occhi umidi.

“Ho il permesso di continuare?” chiese il generale.

Romano inspirò tra i denti, lasciò che l’aria scendesse a ribollire nello stomaco come un calderone, e gettò lo sguardo in disparte. Chinò la fronte, nascondendosi dallo sguardo di Italia.

“Sì.”

“Generale.” L’ammiraglio tornò a farsi avanti. Si mise davanti a Romano, quasi a proteggerlo. “Sono costretto a intervenire.”

Il generale gli mostrò una smorfia di irritazione. Guardò Italia, gli occhi chiesero il permesso di lasciarlo parlare, ammiccando con le sopracciglia.

Italia annuì. “Parli pure,” disse all’ammiraglio. “La ascoltiamo.”

L’ammiraglio si chinò in una piccola riverenza solo di spalle. “Grazie, signore.”

Camminò avanti e indietro di fronte alla mappa della regione greca e alla lavagna, come aveva fatto il generale poco prima.

“Dunque,” cominciò. “Ipotizziamo che ogni fattore sia miracolosamente a nostro favore.” Sollevò le dita della mano, aprendole a ventaglio, e toccò un polpastrello alla volta. “Meteo, potenza italiana, debolezza greca, terreno e tutto ciò che abbiamo elencato fino ad ora.” Si fermò e strinse le mani dietro la schiena. Squadrò gli sguardi degli ufficiali, uno a uno, con quei suoi occhi da volpe acquattata nel bosco. “Se dovessimo attaccare la Grecia, e anche se andasse tutto come previsto, avete pensato a una reazione degli inglesi?”

Italia sbarrò le palpebre. Emise un sospiro di stupore. “Inghilterra è davvero amico di Grecia, allora?”

“Signore.” L’ammiraglio si voltò verso di lui e addolcì lo sguardo. “Lo dico a malincuore, ma qui non si tratta di amicizie, ma di interessi bellici. Inimicandoci la Grecia, ci inimicheremmo anche l’Inghilterra.”

“Gli inglesi sono già nostri nemici.” Il generale pestò tre rabbiosi passi schioccanti e si mise di fianco all’ammiraglio. Spalancò un braccio verso la finestra. “Guardi in Africa. Secondo lei siamo lì a giocare a Rubamazzo?”

Il sottocapo di stato maggiore sporse una spalla verso il ministro degli esteri. Gli diede una piccola gomitata sul braccio appoggiato al tavolo e gli sussurrò all’orecchio. “No, ma a Ruba-Etiopia sì.”

Il ministro chiuse un pugno davanti alla bocca e tossì, camuffando la risata.

L’ammiraglio sollevò il mento, guardò il generale dall’alto in basso. “Proprio per questo è pericoloso.” Aprì il palmo, gli mostrò sguardo preoccupato e sincero. “Conosciamo la potenza degli inglesi dalle ultime esperienze che abbiamo avuto in Africa, e sappiamo tutti che sarebbe catastrofico un confronto su territorio italiano.”

Italia arretrò di un passetto, si mise dietro la spalla di Romano e si rintanò dietro di lui. Tremò di paura, gli occhi si riempirono di panico. “Inghilterra qui?”

Il generale bloccò la sua ritirata tenendo una mano verso di lui. “Signore, non si preoccupi, non accadrà mai.”

“La minaccia è possibilissima, invece, signore,” intervenne l’ammiraglio. Guardò tutti, aprì le braccia e alzò il tono di voce. “Posso ricordare a lor signori che abbiamo una flotta militare attraccata al porto di Taranto?”

Romano storse un sopracciglio. Gli occhi volarono verso la cartina, all’attacco della regione pugliese sul corpo della penisola. Un cerchio rosso racchiudeva il Golfo di Taranto alla base del tacco dello stivale. Romano deglutì. La gola si era asciugata.

“Quello è proprio il mio campo,” disse l’ammiraglio. “Questo deve riconoscermelo, generale.” Si avvicinò alla cartina, coprendo la vista a Romano, e batté l’indice sulla città. “Taranto è in una posizione sì strategica, ma anche molto esposta e per questo pericolosa. Sarebbe come gettarci in pasto agli inglesi.”

“Lasci perdere Taranto, ammiraglio.” Il generale sventolò una mano come se stesse scacciando via una mosca. “L’Inghilterra non ne otterrebbe nulla, non l’attaccherebbe mai, sarebbe solo uno spreco di forze e di materiale.”

Romano schiuse il pugno sul fianco. Volse le dita verso l’esterno, le agitò, sfiorò la manica di Italia e la prese tra due dita. La strattonò verso di lui e lo tirò più vicino.

“Veneziano,” disse tra i denti.

Italia si voltò, e Romano scosse il capo.

“Ti prego,” lo implorò Romano.

Anche Italia fece di no con la testa. Sfilò delicatamente il braccio dalla presa di Romano e guardò a terra.

“Non...” Si strinse nelle spalle. “Non ho paura,” mormorò.

Romano sentì un peso annodarsi nel petto. I pugni tornarono chiusi e le unghie entrarono nella carne dei palmi. Ma io sì, cazzo! Non capisci che potrebbero farti a fette e che a questi non fregherebbe comunque nulla?

“C’è altro, ammiraglio?” chiese il generale.

L’ammiraglio aggrottò la fronte. Gli occhi brillarono in mezzo al nero delle rughe facciali, erano due fiammelle nel buio. “No.” Ma non sarebbe finita lì.

Il generale si spazzolò una spalla, lucidò le piastrine dei gradi militari. “Se le premesse sono chiare a tutti, possiamo procedere.”

Italia sgusciò fuori dalla spalla di Romano e annuì. Mani strette davanti al petto. “Sì, vada avanti, la prego.”

Il generale allargò le spalle e marciò come un galletto davanti alla mappa. “L’idea è quella di schematizzare e di semplificare l’attacco il più possibile, proprio per renderlo più veloce e pratico,” rivolse la mano a Italia e a Romano, indicando entrambi, “anche per voi e per i soldati che dovranno eseguirlo.” Camminò davanti alla lavagna. Raccolse uno dei gessetti consumati. “Tutto sarà diviso e organizzato in zone d’attacco, principalmente tre. E tre saranno anche i punti che porteranno alla totale presa della nazione.” Mostrò l’indice sollevato a tutti, tenendo il gessetto stretto nel pugno. “Punto uno: offensiva sull’Epiro.” Si voltò fronteggiando la lavagna e scrisse la parola ‘Epiro’ di fianco al quadrato che aveva suddiviso con una griglia. “Quindi occupazione delle Isole Zante, di Corfù, e della Cefalonia.”

Senza voltarsi, impennò indice e medio a forma di V.

“Punto due: osservazione e pressione su Salonicco che sarà la nostra principale zona di raccolta della difesa.” Premette il gessetto sulla lavagna e segnò ‘Salonicco’ sotto ‘Epiro’. “Per impedire che i greci se la svignino, in poche parole.”

Staccò il gessetto dalla lettera ‘o’ e batté la punta consumata sulle due parole appena tracciate.

“Il punto uno e il punto due potranno essere effettuati contemporaneamente per portarci al punto tre, quello finale.” Calcò il gessetto e scrisse ‘Atene’ a lettere più alte rispetto alle altre due parole. Il generale si sporse di lato e lasciò vedere a tutti. “Marcia su Atene e presa totale della Grecia.”

Italia sollevò la mano. “Con tutti i blocchi di fanteria che diceva prima?”

Il generale scosse il capo e lasciò il gessetto sulla cornice della lavagna, strofinandosi le mani. “No, solo con quello dell’Epiro, quindi quello meridionale e parte di quello centrale.” Smise di ripulirsi le mani e le unì dietro la schiena. “Prima bisogna occuparci degli obiettivi di carattere marino e territoriale, e poi ci si occuperà della Grecia nella sua interezza.”

Italia si posò l’indice sul labbro inferiore e sollevò gli occhi al soffitto. “Mhm, avevamo già fatto qualcosa di simile, mi sembra.”

Il sottosegretario annuì. “Certamente, signore.” Si avvicinò al generale e aprì una mano al cielo. “Infatti, questo è proprio il Piano di Emergenza G.”

Italia fece un piccolo saltello, gli occhi brillarono di entusiasmo, e batté le mani. “Ah, sì, forse me lo ricordo.”

“Glielo rispiego,” disse il generale, “non c’è nessun problema.”

Riprese in mano uno dei gessetti, lo rigirò tra le dita e i polpastrelli si tinsero di bianco, la polvere gli andò anche sotto le unghie.

“Dunque, il Piano di Emergenza G ruota tutto attorno a determinati punti chiave.” Prese lo spazio di lavagna vicino al quadrato diviso dalla griglia e calcò tre volte una ‘G’ maiuscola. “Il primo fra tutti è forse il più ostico.” Rigirò nuovamente il mozzicone di gesso tra i polpastrelli impolverati e guardò Italia con la coda dell’occhio, da sopra la spalla. “Sarà necessaria un’alleanza italo-bulgara.”

Italia sobbalzò. “Con...” Strinse le mani al petto. Rigirò la croce di ferro tra le dita sudaticce e tremanti. Spostò il peso da un piede all’altro, scaricando la tensione e il formicolio sulle punte. “Con Bulgaria? In realtà c’è...” Si strofinò la nuca, tirò un sorriso forzato. “C’è già stato qualche, uhm, piccolo problema con Bulgaria. Io non so se...”

“Sapremo convincerlo,” disse il ministro degli esteri. Accavallò le gambe ciondolanti dall’orlo della sedia, spinse il gomito sul tavolo e si massaggiò il mento. Gli occhi guardarono il soffitto. “Possiamo sempre organizzare un altro incontro, se il precedente non ha dato i suoi frutti.” Piegò un piccolo sorriso e lo rivolse a Italia. “Sono certo che andrà anche contro gli interessi della Bulgaria rimanere distante da tutto ciò.”

Italia diede una sfregata sulla nuca, scompigliando i capelli, e guardò il pavimento. Piegò verso il basso un angolo della bocca, sospirò. Le spalle si alzarono e si abbassarono.

Il generale fece rimbalzare il gessetto sopra il palmo e lo riacciuffò, chiudendolo nel pugno. “Sistemeremo tutto con il governo bulgaro, non si preoccupi, signore.” Si voltò alla lavagna e scrisse ‘Bulgaria’ sotto la lettera G. “Ora preoccupiamoci di alcuni punti assai più rilevanti.” Staccò la punta del gesso dalla lavagna. “Può intuire anche da solo che la mole di soldati dovrà essere assai elevata per un’operazione del genere. Stimiamo circa...” Ruotò gli occhi verso l’alto e fece roteare la mano che impugnava il gesso. “Circa venti divisioni utili all’invasione.”

Italia spalancò gli occhi. “Venti?” esclamò. “Così tante?” Guardò Romano, poi di nuovo il generale. “Ce la faremo a gestirle?”

Il generale annuì. “Assolutamente.” Scrisse ‘20 Divisioni’ sotto l’elenco del Piano di emergenza G. “Alcune sono già appostate in Albania. Otto per la precisione.” Scrollò le spalle. “Come le ho già accennato, non dovremo fare altro che spostare le altre che ci restano.”

Romano scosse il capo e imitò l’espressione di Italia, a occhi spalancati. “Un attimo, cosa?” Aspettò che tutti si voltassero a guardarlo e aggrottò le sopracciglia, affilando lo sguardo e inasprendo la voce. “Dobbiamo pure spostarle? Merda, pensavo che fosse già tutto pronto!”

“Non c’è problema, signore.” Il generale fece un passo verso di lui, calmo. Il gessetto roteava tra le sue dita. “Prendendoci tutto il tempo necessario, ce la faremo di sicuro.”

Romano socchiuse le palpebre e gli scoccò un’occhiata di traverso. “Quanto tempo?”

Il generale fece ondeggiare il gessetto ruotando la mano, e scosse le spalle. “Un paio di settimane saranno sufficienti. Sarà tutto pronto entro il ventisei ottobre.”

Romano strinse i pugni. Inacidì il tono. “Siete pazzi.” Scosse la testa. “Non ce la faremo mai.”

“Abbiamo tempo e uomini a sufficienza,” disse il generale. “Con una veloce stima, possiamo calcolare trentamila greci in campo, mentre noi ne schiereremo sessantamila. Siamo in vantaggio per due a uno.” Sollevò le sopracciglia. Rivolse a Romano un’occhiata pomposa e saccente. “Le basta questo?”

Romano sbuffò, annodò le braccia al petto, chiudendosi nel suo guscio, e volse lo sguardo altrove.

Italia sollevò la manina sopra la spalla, si mise tra i due. “Riguardo...” Giocherellò con le dita, fissò la cartina percorrendola con lo sguardo da cima a fondo. In testa frullarono le precedenti parole del generale. “Riguardo quei tre blocchi di prima, i tre schieramenti. Come...” Premette l’indice sull’aria, puntando la mappa, e rivolse un sorrisetto al generale. “Come funzionano quelli?”

Il generale annuì. “Ora glielo illustro.” Lasciò il gessetto sulla cornice della lavagna e si avvicinò alla cartina. Aprì la mano a ventaglio, pressò i polpastrelli impolverati di bianco a nord, nella regione macedone, a est dell’Albania. “Dunque, il settore macedone, quello più a nord, per intenderci, sarà adibito alla difesa, quindi i movimenti saranno minori e più concentrati.” Staccò le dita lasciando cinque impronte bianche e serrò il pugno davanti al petto. “Le parole d’ordine per questo tipo di operazione sono: rapidità e violenza.”

Italia annuì.

Il generale tornò ad aprire le dita sulla mappa, poco più sotto del punto in cui aveva lasciato le impronte. Racchiuse la catena montuosa in rilievo su cui era stesa la scritta ‘Pindo’. “L’obiettivo del settore centrale, in cui saranno raggruppate ben dodici divisioni, di cui una corazzata e due autotrasportate, sarà lo sfondamento totale.” Fece stridere le dita che crearono cinque linee bianche di gesso. Tagliarono in due la catena montuosa. “Una sorta di colpo dell’ariete che abbatterà le linee di difesa greche.”

Italia annuì di nuovo con un gesto più insicuro, ma tenne gli occhi fermi e concentrati sui punti della mappa.

“Tornando al nord,” disse il generale. Premette solo l’indice sul settore macedone e vi picchiettò sopra tre volte. “L’obiettivo non sarà solo quello di mantenere alte le difese.” Tracciò una linea orizzontale e si fermò sopra la Penisola Calcidica a forma di cresta rovesciata. L’indice coprì il cerchietto che delimitava Salonicco. “Ma anche quello di raggiungere Salonicco il più velocemente possibile, lì fermarsi e attendere i piani successivi.”

Italia sollevò pollice e indice, si guardò le punte delle falangi, mormorando a bassa voce.

Nord, centro, mancava...

Risollevò gli occhi. “Al sud, invece?” domandò.

Il generale disegnò un cerchio di polvere di gesso sul settore dell’Epiro, davanti all’Isola di Corfù, sempre racchiuso nella catena montuosa del Pindo. “C’è tutto il settore dell’Epiro.” Tenne la punta dell’indice sulla cartina. “Qui le operazioni saranno più a basso raggio, non occorre sprecare troppe forze.” Staccò l’indice e si strofinò le mani. Sorrise a Italia. Un sorriso d’orgoglio. “La componente più importante sarà il reggimento di alpini.”

Gli occhi di Italia scintillarono come sciami di stelle. Italia intrecciò le mani davanti al petto, le tenne unite come se stesse pregando, e rimbalzò sul posto. “Oh, la Julia!” Emise un gridolino di gioia.

Il generale mantenne il sorriso di soddisfazione. “Proprio così,” annuì. “La Julia farà da perno.” Disegnò una linea orizzontale che tagliava in due la regione dell’Epiro, separando nord e sud. “Da ‘cerniera’ tra il settore macedone e quello dell’Epiro. Anzi, forse la Julia manterrà quasi un ruolo più centrale rispetto alle armate al sud.”

“E qual è l’obiettivo di quelli che andranno al sud? Volevo dire, in Epiro?” chiese Italia.

Il generale indicò un rigagnolo azzurro che risaliva il confine seguendo il profilo dello schieramento italiano da sud a nord.

“L’attraversamento di un fiume.” Batté sul nome del fiume scritto seguendo l’andamento del suo corso ondulato. “Il Kalamas.”

Il sorriso di Italia sbiadì. Sospirò, trattenne il fiato, e si portò la mano davanti alla bocca per non lasciar uscire alcun gemito.

Una seconda Caporetto...

Il generale vide il suo pallore e sventolò la mano verso di lui. “No, non si spaventi.” Fulminò l’ammiraglio con un’occhiataccia. “Non ci sarà nessuna seconda Caporetto, glielo assicuro.”

L’ammiraglio stette zitto, ma gli occhi bruciarono di rabbia.

Italia si tolse la mano da davanti le labbra e le sollevò sopra le spalle. “E dopo che abbiamo attraversato il fiume?” La voce tremolava ancora.

Il viso del generale tornò a distendersi e lui continuò la spiegazione. “Ci aspettano una serie di città, di punti base, diciamo, da raggiungere una alla volta e che ci condurranno via via sempre più vicini ad Atene.”

“Oh.” Italia ruotò gli occhi verso la carta. Lo sguardo confuso e smarrito. “Ho capito.”

“Le altre divisioni...” Il generale percorse il confine albanese, scese sul rigonfiamento della Macedonia, e risalì la Bulgaria. Contornò la Jugoslavia. “Serviranno a proteggere il confine albanese lungo la frontiera jugoslava, in modo che i greci non possano né ripiegarsi né invadere noi. Per questo ci serve la protezione bulgara.”

Italia annuì. “Va... va bene.”

“Ora, le forze in campo.” Il generale schioccò le dita rivolgendosi al luogotenente.

Il luogotenente si avvicinò. Tuffò la mano in una tasca della giacca e le dita vennero fuori chiuse a pugno. Il generale aprì il palmo e il luogotenente lasciò scivolare sulla sua mano il pugno di puntine da disegno dalla testina colorata. Viola, azzurre, e rosse. Il generale accennò un ringraziamento piegando il capo e scosse le puntine sul palmo, stendendole per bene.

Tornò alla cartina. “Essenzialmente, torna fuori la regola del tre.” Mostrò tre dita della mano libera a Italia. “Tre fronti.” Raccolse alcune puntine viola e le piazzò a sud, sul settore Epiro. “Il fronte Epiro sarà composto dalle divisioni Julia.” Affondò una puntina viola al centro del settore, davanti alla catena del Pindo, sopra il corso del fiume Vojussa. Ne raccolse altre quattro, sempre di colore viola, e le puntò sotto la Julia, tracciando un percorso verticale. “Ferrara, Siena, Centauro, Piemonte.” Prese un’ultima puntina viola tra indice e pollice, e la mostrò a Italia. Il cappuccio colorato scintillò. “E una più piccola, il Raggruppamento del Litorale.”

Scese ancora, sotto la Siena, e piazzò il Raggruppamento Litorale vicino alla costa, davanti a Corfù. Il generale scosse una le puntine rimaste sulla mano, ne rigirò due tra le dita, e prese quella blu.

“Nel fronte del Corciano non serve sprecare energie.” Pinzò la spilla blu sopra la Divisione Piemonte, più a sinistra rispetto agli altri segnalini. “Avremo solo la divisione Parma che lasceremo come riserva. Entrerà più tardi, solo se necessario.” Il generale prese le ultime due puntine, quelle rosse, e si mise in punta di piedi per spingerle dentro la cartina. “Nella frontiera della Jugoslavia, invece, ci serviranno la Venezia.” Premette la puntina sopra la Parma, più a destra, in modo che affiancasse la linea della frontiera viola. Raccolse l’ultimo segnalino e lo spinse sopra la Venezia. “E, infine, l’Arezzo.”

Italia piegò il capo di lato, socchiuse le labbra, stropicciò lo sguardo perplesso, e si grattò dietro l’orecchio. “Sarà... sarà un po’ complicato ricordarle tutte.”

Il generale scese dalle punte dei piedi. Aprì le dita e le unì come se stesse sorreggendo una sfera. “Possiamo anche considerarle, allora, in due grandi blocchi, non di divisioni ma di corpi d’armata.” Rigirò le dita delineando la forma della sfera invisibile. “Che al loro interno hanno le armate formate da divisioni.”

Italia sollevò le dita e strinse una falange alla volta. Mormorò a bassa voce, simulando il ragionamento del generale. Divisioni, armate, corpi d’armata...

Storpiò un sopracciglio verso il basso, e uno verso l’alto. Le labbra tremolarono, contratte da una smorfia di confusione. Le guance divennero rosse, e due sottili rivoli di fumo uscirono dalle orecchie.

“Il Quindicesimo Corpo d’Armata,” proseguì il generale, “comprende la Centauro, più Siena e Ferrara.” Tracciò un cerchio invisibile e racchiuse le tre puntine viola a sud, sopra il Raggruppamento del Litorale. “È il Settore Epiro, in poche parole.”

Italia sfilò i polpastrelli dalle punte delle dita e puntò le tre spillette viola con l’indice. “Queste devono attraversare il fiume, vero?”

“Esatto,” annuì il generale. “E il loro obiettivo, subito dopo, sarà questa cittadina qua.” Scavalcò il fiume e si fermò a un solo quadretto di distanza dalle puntine viola. “Gianina.” Batté l’indice e lo fece scivolare verso il basso, a sud. “Poi proseguiremo più verso il basso, sempre più vicini ad Atene.”

Italia sollevò l’indice e gli occhi. “A nord, invece?”

“A nord possiamo raggruppare le divisioni nel Sedicesimo Corpo d’Armata.” L’indice del generale racchiuse le due spille rosse, quella blu e quella viola in un ovale. “Quattro fanterie: Arezzo, Venezia, Parma e Piemonte. Queste sono per la difesa macedone e il raggiungimento...” L’indice avanzò di due caselle verso destra. “Di Salonicco.”

Romano tamburellò le dita sugli avambracci e storse un sopracciglio. “Solo una corazzata, hai detto?”

Il generale sorrise. Il suo indice si posò sulla terza spilla viola a partire dal basso. “La divisione Centauro sa fare il suo dovere, signore.” Sollevò un dito alla volta, a partire dal pollice, come se stesse tenendo una conta. “Cinquemila uomini, ventiquattro pezzi di artiglieria, otto cannoncini anticarro, e centosettanta carri leggeri.” Sollevò le sopracciglia. “Le basta?”

Romano non ebbe il tempo di mandarlo a farsi fottere.

“Come funziona la Julia?” chiese Italia. Sorrise al generale, le guance arrossirono per l’emozione. “Una volta ho seguito l’addestramento degli alpini e mi sono sembrati davvero in gamba.”

Il generale annuì e portò indice e pollice attorno al cappuccio viola della Julia. “La Julia avrà il compito di sfondare attraverso il Passo del Metsovo.” Piegò di nuovo quel paffuto sorriso gonfio di orgoglio. “Abbiamo i montanari più preparati d’Europa, non sarà di certo un problema. Le Alpi ci hanno formato bene le ossa.” Spinse le unghie sotto il cappuccio viola, storse la spilla a destra e a sinistra, e la estrasse dalla cartina. La fece avanzare tagliando la catena montuosa del Pindo, passando sopra il monte Stavros. “Lo sfondamento del Nodo di Metsovo ci servirà a tagliare in due la linea nemica che sicuramente ci troveremo davanti sulla catena montuosa del Pindo.” Portò la Julia oltre il confine, oltre i monti. Con l’indice, tracciò la via dalla Julia, verso sud, sul settore macedone. “I greci, una volta sconfitti, non avranno modo di fuggire verso est attraverso il Passo del Pindo e rifugiarsi in Macedonia.”

Italia si strinse le tempie affondando le dita nei capelli. “Uuh, quanti nomi.”

Il generale tolse le dita dalla spilla della Julia. “Una volta in campo,” disse, “i nomi saranno solo una formalità. La cosa importante da tenere in considerazione per la Julia, è di vederla quasi come un corpo d’armata a sé, anche se a tutti gli effetti è solo una divisione.”

Aprì un palmo verso il luogotenente, strizzò le dita come se lo stesse chiamando. Il luogotenente gli si avvicinò, e lasciò scivolare dentro la sua mano altre puntine da disegno. Gialle e verdi, questa volta. Più piccole di quelle blu, rosse e viola. Il generale tornò alla cartina e prese solo l’area occupata dalla spilla viola della Julia.

“La Julia stessa sarà divisa in due reggimenti: l’Ottavo e il Nono.” Raccolse le spille gialle e le pinzò tutte sopra il segnaposto della Julia, a formare un arco attorno al bottone viola. “L’Ottavo comprenderà i battaglioni Tolmezzo e Gemona, più i gruppi artiglieria di sostegno Cividale e Cornegliano.” Premette l’unghia del pollice sull’ultima spilla. Ne aveva piazzate quattro. Scosse il palmo, ribaltando quelle verdi che erano avanzate, e prese la prima. “Il Nono, invece,” la puntò sotto la Julia, disegnando un arco inferiore, “avrà solo il battaglione Aquila, ma fornito di due gruppi di artiglieri: Udine e Vicenza.” Piazzò l’ultima puntina da disegno. Tre verdi, quattro gialle, tutte attorno all’unica viola grande il doppio.

Gli occhi di Romano caddero verso la parte inferiore della carta, sull’unica spilla viola che il generale non aveva ancora toccato.

“E quel Gruppo...” Romano premette più volte l’indice sull’aria, stropicciando lo sguardo, e arricciò la bocca per farsi venire le parole. “Gruppo Litorale o come si chiama?”

Il generale rifece un passo verso la mappa e batté la mano vicino alla prima spilla viola a partire dal basso. “È sempre sotto il Quindicesimo Gruppo d’Armata, a sud, nell’Epiro.” Percorse con l’indice la forma della costa e tagliò la via che attraversava lo stretto per arrivare a Corfù. “Si occuperà solo della costa e delle operazioni sulle isole, tutto qua.” Il generale scivolò di due passi all’indietro, lasciando libera la visuale dell’intera regione, e allargò le spalle. “Una volta che avremo completato lo schieramento, potremo procedere con l’attacco vero e proprio.”

Italia e Romano si avvicinarono di poco. Romano sempre dietro alle spalle del fratello, nella sua ombra. Italia sentì il cuore prendere a battere più forte, a martellare sulle ossa e a pulsargli il sangue nelle orecchie. Deglutì un boccone di saliva amara e stette in silenzio, in attesa.

“In Epiro,” cominciò il generale, “dovremo essere velocissimi.” Tracciò una linea invisibile con l’indice, che racchiudeva le divisioni Ferrara, Centauro e Siena. Poco più su del Gruppo del Litorale, e poco più giù della Julia. “La principale massa d’attacco dovrà procedere e avanzare attraverso l’asse del Kalibaki,” l’indice scivolò dalla divisione Ferrara – la più a nord delle tre – e scese di un quadretto, arrivò a tagliare la cittadina subito a destra del Kalamas, “Gianina,” il polpastrello scivolò verso il basso compiendo una parabola che curvava verso destra, e staccò il dito, “e infine Arta. Per fare ciò, dovremo attraversare la Valle del Pindo.” La sua mano racchiuse tutta l’area che si estendeva davanti alle tre divisioni colorate di viola. Il palmo scivolò in avanti e scavalcò il fiume. “Il tanto temuto fiume Kalamas di cui non c’è da avere paura,” disse piegando un mezzo sorriso storcendo solo un angolo della bocca.

Anche Italia sorrise. Un sorriso rasserenato e tiepido.

Romano sbuffò e fece roteare gli occhi al soffitto.

Il generale proseguì. “Come ho già mostrato prima, attraverso il nodo di Kalibaki, passeremo per Gianina.” Ripercorse il quadretto in laterale che separava i due punti oltre il fiume. “Si prenderà, poi, in un secondo momento, la via della Valle del Metsovo.” La sua mano proseguì verso sud, sempre più vicino alla ‘G’ in grassetto che componeva la parola ‘Grecia’ al centro della regione. Toccò Arta. “E da qui ci apriremo la via per Arta. Poi, stazioneremo al porto.” Contornò l’insenatura che creava una macchia azzurra nella zona verde nell’Epiro, un minuscolo mare ingolfato. “E procederemo dopo esserci riforniti, seguendo la via Lamia, Atalanti, Tamara...” Toccò le città una a una, fino a raggiungere la città scritta in carattere più spesso. “E infine Atene. Tuttavia, fate attenzione.” Il suo indice ripercorse la strada al contrario, e tornò a Kalibaki, la prima zona che aveva toccato dopo aver attraversato la Valle del Pindo. “Dopo che il Quindicesimo Corpo d’Armata avrà attraversato il nodo di Kalibaki,” disse, accerchiando di nuovo le spille viola di Ferrara, Centauro e Siena, “si sdoppierà a forbice, e quindi avremo un’ulteriore via da seguire per il secondo gruppo che non procederà verso Gianina, ma farà Agrignone,” scese sotto Arta, Agrignone si trovava di un quadretto più in basso della scritta ‘Grecia’, “e Missolungi.”

Italia piegò il capo di lato. “Perché dobbiamo proseguire a forbice?”

Il generale strinse il pugno. Mostrò occhi ardenti e combattivi. “Per attanagliare i greci, intrappolarli, e infine distruggerli.”

“Signore,” intervenne il sottosegretario, “lei non si preoccupi della biforcazione, quella avverrà in un secondo momento.” Anche il sottosegretario si avvicinò alla carta e racchiuse con il palmo la scritta Kalibaki, a destra delle divisioni Ferrara e Centauro, e sopra Gianina. “Parte fondamentale per la riuscita del piano è la presa del nodo di Kalibaki. Concentriamoci su quello.”

Italia annuì. Lo sguardo riguadagnò sicurezza. “Va bene.”

Il generale tornò a farsi avanti. “Prima, il signore,” indicò Romano, “aveva chiesto spiegazioni riguardo il Raggruppamento del Litorale.” L’indice passò da Romano alla puntina viola sulla costa. “Ebbene, questa divisione si occuperà della zona costiera, quindi della conquista delle Isole Ionie.”

“Perché dobbiamo prendere subito le isole?” domandò Italia. Sollevò le spalle. “Non possiamo farlo dopo e prendere prima Atene?”

“Le isole sono fondamentali, signore,” spiegò il generale. “La nostra presenza su di esse impedirà agli inglesi di stazionare e, di conseguenza, di fornire aiuto ai greci.”

“Ooh, ho capito.”

Il generale annuì e passeggiò davanti alla cartina, a sguardo basso, concentrato. “Dunque, eravamo rimasti al movimento del Corpo d’Armata Quindici nell’Epiro, subito dopo la presa del Settore di Kalibaki.” Si fermò, batté i tacchi degli stivali a terra, e spinse la mano sulla cartina, in Epiro, dove aveva appena spiegato. “Mentre tutto questo verrà portato a termine...” La mano scivolò verso l’alto, sotto il settore macedone. “Le truppe stazionate nella regione del Corciano – per intenderci, la divisione Parma – verranno rifornite e rafforzate con i supplementi che intanto potranno essere lasciati in Albania, nelle retrovie di Ersekë.” La mano passò dall’unico segnalino blu della mappa a quelli rossi di Venezia e Arezzo. “Una volta completato il rafforzamento, attireremo i greci verso la Macedonia, e lì gli daremo il colpo di grazia trasformando il settore di difesa in un ulteriore settore d’attacco.”

Italia annuì.

Il silenzio proseguì. Si sentivano solo le parole del generale e gli scricchiolii sulla carta mossa dalla sua mano.

“Per quanto riguarda la Julia...” Il generale posò l’indice sulla puntina viola al centro, circondata da quelle gialle e verdi. “Gli spostamenti saranno un po’ più complessi.” Gli occhi dell’ufficiale seguivano il movimento del suo stesso indice che scavalcava il fiume più spesso da ovest a est. “Il suo compito è quello di attraversare la Vojussa e raggiungere il Passo di Metsovo per separare le truppe greche di difesa dell’Epiro da quelle che operano in Macedonia.” Indicò una zona che era a due quadretti a destra rispetto a Kalibaki e Gianina, esattamente a metà strada tra i due.

C’era una spessa linea sulla mappa che pareva tracciata con un pennarello. Il generale la percorse tutta, raggiungendo il settore davanti alla Julia, quello da valicare.

“Il settore centrale del Pindo è una lunga dorsale montuosa che si allunga dal gruppo del Monte Gramos fino al Passo del Metsovo, e questa zona dovrà cadere tutta in mano nostra.”

Gli occhi di Italia vagavano da un lato all’altro della cartina, soffermandosi sui segnalini colorati, sui nomi delle città, dei fiumi, senza leggerne nessuno. Si era già perso.

“Dovremo inoltre proteggere i due punti chiave di Furka e Amarina per mantenere attive le comunicazioni.” Il generale cerchiò due punti sulla parte destra della linea a pennarello, ma Italia vide tutto sfocato. “Prima ci siamo preoccupati molto del fiume Kalamas, ma qui di fiumi ne avremo ben due: il Sarandaporos e la Vojussa già accennata.” Rivolse una mezza occhiata storta all’ammiraglio, senza voltare il capo. “Come il nostro ammiraglio ci ha gentilmente ricordato prima, c’è effettivamente la remota possibilità che siano in piena.”

Italia sospirò, spaventato, e si portò le mani davanti alla bocca. “Oh no, allora come facciamo?”

Il generale scosse la testa. “Niente paura. Per evitare di ‘impantanarci’, ci sposteremo in piccole colonne per sfruttare al meglio ogni possibile itinerario.”

Romano gli scoccò un’occhiata sottile e appuntita. “Ci frammentiamo, in pratica,” borbottò. Strinse i denti. “Proprio quello che prima abbiamo definito come svantaggioso.”

Il generale tornò a fare di no con il capo. “Non c’è assolutamente pericolo nella frammentazione, signore. Anche se dovessimo diminuire la potenza di ogni blocco, sarà sempre sufficiente per abbattere i greci.”

Romano storse un sopracciglio, non convinto.

Il generale tornò alla mappa e batté le nocche sulla cima del monte sopra Konitsa, sotto la Divisione Julia. “Dobbiamo frammentarci perché così potremo aggirare l’ostacolo più grande: il Monte Smolikas. Ripido, isolato, duemilaseicentotrentasei metri di altitudine.” Le nocche del generale ci girarono attorno e arrivarono fino al Nodo di Furka. “Ma non dobbiamo assolutamente scavalcarlo, e la soluzione migliore è appunto guadare i fiumi che lo circondano.”

“Mhm.” Italia si posò la punta dell’indice sul labbro inferiore e sollevò gli occhi verso la parte nord della regione. “Se ho capito bene,” disse, indicando la Venezia, Arezzo e Parma. “Al nord le truppe stanno ferme, giusto?”

“In parte.” Il generale indicò Arezzo e Venezia e tracciò una linea orizzontale fino a Salonicco. “Il Corpo d’Armata Sedici punterà Salonicco per tagliare la Grecia fuori dall’Albania e isolarla. Raggiunta Salonicco...” Batté due volte la nocca sulla città. “Daremo tutto il tempo alle altre armate di raggiungere Atene, e il gioco sarà fatto.”

Italia si avvicinò di un passetto. La luce fuori dalle finestre si stava abbassando e si fece più scura e intensa. Scintillava sul tondo lucido delle puntine da disegno colorate.

“Sarà un viaggio lungo,” disse Italia. “Dovremo portarci via un sacco di cose.”

“Solo in un secondo momento,” disse il generale. “Per adesso, è meglio lasciare tutto nelle retrovie albanesi.” Sollevò un dito alla volta, contornando le puntine. “Corredo delle truppe, cucine, bagagli, materiale sanitario, e anche quello delle trasmissioni. Lo recupereremo più avanti.”

Italia salì sulle punte dei piedi e batté le mani. “Bene!” Guardò gli ufficiali con occhi impazienti. “Allora, quando possiamo cominciare?”

Il generale prese un respiro che gli gonfiò il petto. “Innanzitutto, diamo spazio a un paio di mosse preparatorie.” Scoccò un’occhiata d’intesa dietro le spalle di Italia. “Sottosegretario.”

Il sottosegretario sbucò da dietro Italia e innalzò un indice al cielo. “Primo.” Gli si mise davanti, fissandolo dritto negli occhi. “Prendiamo i dovuti accordi con la Bulgaria e accertiamoci che la sua rappresentanza sia disponibile a combattere con noi.”

Italia annuì, deciso. “Ci proverò.” Ma un brivido di paura gli corse lungo il collo.

“E se dovesse rifiutarsi?” intervenne Romano. “Volete dire che tutto questo casino potrà essere messo su campo solo se Bulgaria accetterà la collaborazione?”

“Se non dovesse succedere,” disse il generale. Sollevò gli occhi al cielo. “Troveremo una soluzione per cavarcela anche senza i bulgari.”

Italia strinse i pugnetti al petto e le guance si tinsero di rosso. “Ce la metterò tutta per convincerlo.”

Romano sbuffò. Non aggiunse altro.

Il sottosegretario tossicchiò un paio di volte. “Poi, occorrerà inviare altre divisioni in Albania, in aggiunta a quelle che ci sono già.” Si guardò le punte delle dita, sollevò indice e medio. “Se non sbaglio sono...”

“Sono già presenti i reggimenti di cavalleria Aosta e Milano,” concluse per lui il generale. “Quindi è consigliabile portare per prime Parma, Piemonte e Siena.” Volse gli occhi alla mappa. “Il resto verrà il giorno stesso dell’attacco.”

L’ammiraglio, chiuso nella sua piccola ombra, piegò un sorriso sottile, felino, che nessuno vide.

“Niente attacco a sorpresa?” intervenne.

Il generale sollevò di scatto lo sguardo. Non ebbe tempo di fulminarlo, era stato troppo improvviso. “Come dice?”

L’ammiraglio uscì dall’ombra. Il sorriso era sparito. “Appostando così tanti reggimenti in Albania, i greci capiranno subito che stiamo per fare qualcosa di grosso e scatteranno sulla difensiva.” Scrollò le spalle, indifferente. “Rinunciamo all’attacco a sorpresa?”

Il generale restrinse le palpebre. I denti emisero un sottilissimo ringhio. “Non servirà un attacco a sorpresa.” Piantò i piedi a terra, strinse le mani dietro la schiena e alzò le spalle. “Ce la caveremo comunque, i greci non potranno tirare i soldati fuori dalla terra, e i numeri dicono che noi siamo comunque in vantaggio.”

“Sarà comunque necessario inviare un battaglione di mitraglieri su autocarri per spostare l’artiglieria,” disse il sottosegretario. Tossicchiò a bassa voce. “Più i tre autoreparti e i primi dodici ospedali da campo.”

Il generale annuì. “Ottimo.” Lanciò un’ultima occhiata di fuoco all’ammiraglio e gli diede le spalle, quasi in un gesto di sfida. I due uomini si ignorarono.

“Adesso, non resta altro da fare che...” Gli occhi del generale si spostarono su Italia e Romano. Si assottigliarono. La voce divenne più bassa e scura. “Stabilire la vostra distribuzione.”

Italia e Romano spalancarono gli occhi. “Cosa?” esclamarono all’unisono.

Italia scosse il capo. “Un... un attimo.” Gli occhi ancora confusi, come se avesse capito male. “Distribuzione?” disse con voce tremante.

Romano aggrottò la fronte. Divenne nero. “Ci volete dividere?” tuonò. “Io e mio fratello dovremmo combattere separatamente?”

Il generale abbassò la fronte. “È necessario, signori.”

“Ma...” Italia riprese a giocherellare con le dita delle mani. Guardò a terra, con aria abbattuta e colpevole. “Io e mio fratello non abbiamo mai combattuto divisi da quando siamo stati riunificati.” L’idea gli fece nascere un fastidioso prurito allo stomaco. “Non mi sentirei a mio agio a stare senza di lui.” Lo guardò senza sollevare il capo. Il gorgoglio alla pancia divenne un nodo di terrore. “Voglio averlo affianco.”

“Signori.” Il generale rivolse sguardo rassicurante a entrambi. “Non dobbiamo vedere questa nostra situazione di dualità come uno svantaggio, ma come un’arma a nostro favore. E, come tutte le armi, va usata al massimo delle sue potenzialità.” Sorrise, trattenendo una risatina, e indicò i due fratelli aprendo un palmo al soffitto. “Siamo l’unico paese che può permettersi un simile sdoppiamento, non facciamoci sfuggire questa preziosa occasione.”

Romano gli scagliò addosso un’occhiata acida e diffidente. Occhi ostili più di quelli dell’ammiraglio. “E quindi cosa suggerisci?”

Il generale piegò il capo tanto da farlo sembrare un inchino. “Direi di attenerci alla vostra distribuzione più naturale.” Indicò Italia con un gesto delle sopracciglia, sollevando il mento. “Lei al comando del Corpo d’Armata Sedici, settore nord, in Macedonia. E lei...” Rifece il gesto su Romano, ma gli occhi rimasero in ombra, indecifrabili. “Nel Corpo d’Armata Quindici, settore sud, in Epiro.”

Italia sollevò gli occhi, ripercorse la traiettoria della spilla rossa fino a Salonicco. “Io dovrò difendere e basta, quindi?”

Lo sguardo del generale tornò in luce. “Se sarà necessario un supporto più corposo da parte sua,” disse. “Potremo sempre farla trasferire alla Julia in un batter d’occhio.” Sollevò le spalle, guardò anche lui la mappa. “Per il momento parta nel settore jugoslavo, e poi vediamo come va. Dovendo scegliere tra Venezia e Arezzo.” Il generale gli rivolse un sguardo ammiccante. “Direi di affidarle la Venezia, che dice?”

Gli occhi di Italia si illuminarono come se il generale gli avesse appena offerto un pranzo completo più doppia coppa di gelato. “Che bello!” Batté le mani e piroettò verso Romano. “Hai sentito, Romano? Guiderò la Venezia.”

Romano fece schioccare la lingua tra i denti, e tenne lo sguardo al pavimento. “Non mi piace.” Scosse il capo più volte, inasprì il tono. “Non mi piace per niente questa storia.”

Italia gli rivolse uno sguardo apprensivo. Si avvicinò piano, gli toccò il braccio e abbassò gli occhi per raggiungere i suoi ancora chini. “Lo so che è strano combattere separati,” disse piano, per non farsi sentire dal generale. Strinse le dita di Romano, le intrecciò alle sue, e gli rivolse un sorriso spronante. “Ma vedrai che ce la caveremo, l’importante non è quanto siamo uniti nel fisico ma nel cuore.”

Romano sollevò gli occhi e tornò a scuotere la testa. “È lo stesso una grande –”

“Generale.” L’ammiraglio si mise davanti ai due fratelli. “Non credo che dividerli sia la scelta più saggia e giusta.”

Italia sciolse le dita da quelle di Romano e rivolse i palmi all’ammiraglio, rassicurandolo. “Va tutto bene, abbiamo deciso che...”

“È pericoloso.” L’ammiraglio ignorò l’intervento di Italia e continuò a proteggere lui e Romano con la sua grande ombra. Gli occhi dell’uomo si accesero, si fecero duri e severi, squadrarono gli altri ufficiali nella stanza. “È tutto molto pericoloso, approssimativo, e basato sul fatto che avremo sempre la fortuna e tutto il resto dalla nostra parte, ma non potrà mai essere così.” Allargò le braccia, si strinse nelle spalle. “C’è sempre qualcosa che non va come previsto, e noi non siamo minimamente preparati a questa eventualità.”

Il generale sbuffò. “Idiozie,” disse tra i denti, quasi sputando.

L’ammiraglio si rivolse solo a lui. “Se vuole saperlo, generale,” gli occhi ruotarono in ogni angolo della stanza, “e anche voi tutti, signori. Il più grande errore in tutto questo è tenere i tedeschi lontani dai nostri piani.”

Vaghi sguardi irritati si allontanarono da quello dell’ammiraglio, senza proferir parola.

L’ammiraglio si voltò verso Italia e i suoi occhi si addolcirono. “Signore.” Si mise la mano sul cuore. “Mi rivolgo a lei, perché so cosa la spinge a tenere il popolo tedesco lontano.”

Italia ruotò lo sguardo, come un cane colpevole che tiene le orecchie basse.

“Ma rifletta,” lo spronò l’ammiraglio. “Nel caso ci dovesse disgraziatamente capitare qualcosa, non potremo nemmeno contare in un loro aiuto, perché non saranno pronti a intervenire, se non diamo un minimo preavviso.”

“I tedeschi non metteranno piede nella nostra lotta,” esclamò il generale, duro come granito. “Non ce ne sarà bisogno.” Camminò verso la mappa, sollevò la mano e carezzò il territorio greco con il palmo. Gli occhi sognanti rivolti alle puntine colorate che trafiggevano la regione come lame di spade. “Noi da soli, senza di loro...” Strinse il pugno, batté le nocche sulla carta e le vene della mano salirono in rilievo. “Spezzeremo i reni alla Grecia.”

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: _Frame_